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Atto Internazionalista: Raggruppamento dei rivoluzionari contro l’ascesa dell’ultra-destra

  ACTO INTERNACIONALISTA: REAGRUPAMIENTO DE LOS REVOLUCIONARIOS CONTRA EL ASCENSO DE LA ULTRADERECHA I niziativa pubblica alla presenza di o...

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Atto Internazionalista: Raggruppamento dei rivoluzionari contro l’ascesa dell’ultra-destra

 


ACTO INTERNACIONALISTA: REAGRUPAMIENTO DE LOS REVOLUCIONARIOS CONTRA EL ASCENSO DE LA ULTRADERECHA

Iniziativa pubblica alla presenza di oltre 700 compagne e compagni organizzato dalla Lega Internazionale Socialista.
Di seguito potete vedere il video dell'iniziativa.
Al minuto 59:55 l'intervento del compagno Franco Grisolia della Segreteria che ha portato il saluti dell'Opposizione Trotskista Internazionale di cui il Partito Comunista dei Lavoratori fa parte.



La paralisi apoplettica del sistema politico francese e i compiti dei marxisti rivoluzionari

 


6 Dicembre 2024

Il 4 dicembre il governo Barnier è caduto sfiduciato da 331 deputati dell’Assemblea Nazionale.
Ciò è stato possibile per la convergenza dei deputati del Rassemblement National di Marine Le Pen e del Nouveau Front Populaire con a capo Jean-Luc Mélenchon sulla mozione di censura, dopo che Barnier, in un clima di impopolarità crescente, aveva cercato di imporre il bilancio detto di sicurezza sociale.

Nonostante le profferte e le aperture importanti del governo Barnier nei confronti di RN, ad esempio con una violenta stretta sull’immigrazione, Marine Le Pen ha deciso di appoggiare la mozione di censura. Ciò è stato dovuto probabilmente al crollo di popolarità del governo voluto dal presidente Macron, e di Macron stesso, oltre che probabilmente dalla volontà della stessa Le Pen di anticipare le elezioni presidenziali, dal momento che sulla sua testa pende la minaccia di una causa di ineleggibilità per aver orchestrato l’appropriazione indebita di fondi dei suoi rappresentanti eletti al Parlamento Europeo per finanziare il suo partito.

Ma al di là dei fatti contingenti, la motivazione principale della caduta del governo dopo solo tre mesi dal suo insediamento deve essere ricercata nella configurazione politica che si è venuta a determinare dopo le elezioni del 7 luglio.
Macron aveva sciolto l’Assemblea Nazionale e indetto nuove elezioni dopo le elezioni europee di giugno, allorché il trionfo del Rassemblement National di Le Pen aveva terremotato lo scenario politico. Le elezioni del 7 luglio hanno visto a sorpresa la vittoria relativa delle liste di sinistra raccolte nel Nouveau Front Populaire, ma di fatto hanno prodotto una configurazione parlamentare tripartita senza possibilità di una maggioranza da parte di ciascun raggruppamento.
Su questa scorta, Macron ha imposto il governo Barnier con un programma di austerità e di tagli allo stato sociale dovuti al gravissimo deficit di bilancio dello stato e alle difficolta dell’economia francese. Un programma capitalista, di aggressione alle condizioni di vita dei lavoratori, in un quadro che vede aperte innumerevoli vertenze sindacali come Auchan, Michelin, Vencorex, MA France, Valeo, Arcelor, Arkema, Stellantis con la seria prospettiva della perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro.
Mentre il centro macroniano subisce una sconfitta elettorale, perdendo la maggioranza relativa, la destra lepeniana, pur non riuscendo a bissare l’exploit elle elezioni europee accresce i propri consensi.
La destra infatti riesce a capitalizzare i sentimenti xenofobi purtroppo molto diffusi a livello popolare, anche contro le seconde e terze generazioni di immigrati delle banlieue, nonché la paura per un attacco alle proprie condizioni di vita, paura a cui dare risposta con il ripiegamento nazionalista che il becero sovranismo di Le Pen vuole solleticare.
Insomma, la crescita elettorale del Rassemblement National rappresenta lo spettro di una deriva a destra dell’impasse politico francese.

Le elezioni di luglio vedono però anche e soprattutto l’affermazione delle sinistre dell’NFP, con un risultato sorprendente dopo quelli deludenti conseguiti dalle liste di sinistra alle lezioni europee.
Il NFP è costituito dalle principali forze della sinistra francese: La France Insumise (LFI), il Partito Socialista (PS), Il Partito Comunista Francese (PCF) e gli ecologisti. Come si vede, un accordo tra la sinistra riformista (LFI e PCF) e la sinistra borghese (PS ed ecologisti).
Il suo successo elettorale ha diverse spiegazioni. Nella contingenza dell’appuntamento elettorale è molto probabile che l’unitarietà della lista abbia incontrato il favore dell’elettorato di sinistra, che ha visto nel NFP un argine possibile all’apparente crescita irresistibile di RN. Da questo punto di vista è stato forte il richiamo a una mobilitazione antifascista e antiautoritaria. Insieme a questo, però, l’elettorato di sinistra ha cercato di dare un segnale di svolta anche sul piano sociale ed economico.
In definitiva, anche se in maniera distorta, NFP raccoglie il vento delle manifestazioni di massa del 2023 contro la legge per l’allungamento dell’età pensionabile imposta da Macron. Un movimento di massa, quello per la difesa delle pensioni, che pur sconfitto, nello scontro diretto con la presidenza della repubblica, aveva squarciato il velo della dittatura borghese nascosta dietro le paludate istituzioni democratico-borghesi e seppur confusamente era alla ricerca di un’alternativa.

È del tutto improbabile che NFP possa dare soddisfazione a queste aspirazioni. In queste ore, in cui il Presidente della repubblica cerca di formare un nuovo governo, parte delle forze che lo compongono, come il PS, è tentato per senso repubblicano, e in un farsesco regime di “reciproche concessioni”, di addivenire a un accordo con Macron, sacrificando anche l’opposizione alla legge sulle pensioni.

Il governo borghese che sortirà da queste trattative da basso impero non potrà che umiliare le aspirazioni del popolo della sinistra francese e tornare a imporre un programma di austerità lacrime e sangue per la classe operaia e le classi popolari.
Ciò favorirà la destra lepeniana, che opporrà al governo dei tagli la retorica della difesa dei veri francesi e capitalizzerà la divisione di NFP e la capitolazione della sinistra borghese.

Tuttavia, questo non è un esito scontato. Se lo scontro si risolve completamente nella bolla elettorale del sistema politico borghese, la sua soluzione non potrà che essere un governo sempre più spietatamente borghese ed autoritario. Ma se questa bolla venisse rotta potrebbe aprirsi uno scenario completamente diverso.
Se il popolo della sinistra francese fosse chiamato alla mobilitazione contro i tagli alla spesa sociale, i la controriforma delle pensioni, i licenziamenti, contro l’autoritarismo ed il razzismo, perché a pagare sia il grande padronato e non la classe operaia e le classi popolari, si potrebbe aprire un varco verso un’alternativa di società.

La sinistra trotskista, NPA-R, Lutte Ouvrière e Revolution Permanente, chiama allo sciopero, alla mobilitazione di classe per piegare governo e padronato e ottenere le dimissioni di Macron. È giusto. Lo sciopero dimostrerebbe la forza di milioni di salariati, e sarebbe capace di costringere le direzioni dei sindacati all’unità e a una coerente lotta contro governo e padronato senza capitolazioni, come invece è purtroppo avvenuto nel 2023, con il risultato del drammatico riflusso di quel grande movimento popolare.
Di più, potrebbe produrre quelle forme di autorganizzazione della classe lavoratrice che sarebbero altrettanti strumenti di autogoverno, di formazione della classe al compito di dirigere tutta la società.
Purtroppo, però, anche da parte della sinistra trotskista è proprio la prospettiva della presa del potere da parte delle organizzazioni delle lavoratrici e dei lavoratori che non viene avanzata, venendo meno, così, al compito fondamentale che si impone oggi al movimento operaio in una Francia il cui sistema politico è incorso in una paralisi apoplettica che non sembra avere possibilità reali di soluzione a lungo termine.

Questo compito, il compito dei marxisti rivoluzionari, è l’indicazione di una prospettiva di rivolgimento politico. Basta con il governo dei padroni mascherato da governo democratico di “interesse generale”. Il movimento operaio deve rivendicare non un governo di sinistra, che finisca per fare le stesse cose di qualsiasi governo borghese, ma un governo di tipo nuovo: il governo delle lavoratrici e dei lavoratori basato sulle proprie organizzazioni di massa!

Partito Comunista dei Lavoratori

Industria delle armi e imperialismo italiano

 


5 Dicembre 2024

English version

La vittoria di Trump negli USA è un ulteriore fattore di traino della corsa alle armi in Europa. La corsa è partita da almeno un decennio in tutti gli stati imperialisti del vecchio continente. L'invasione russa dell'Ucraina ha accelerato il suo passo. Ora il passo diventa affannoso.

Già prima delle elezioni americane, e del loro esito prevedibile, il rapporto Draghi aveva sottolineato l'esigenza di una “difesa comune europea” attraverso due vie tra loro combinate: il reperimento delle enormi risorse necessarie con un nuovo indebitamento straordinario continentale (un incremento di 800 miliardi annui, il 5% del PIL dell'Unione Europea), e la progressiva unificazione a livello europeo del complesso industriale-militare. Ma entrambe le vie appaiono ostruite. Da un lato, l'imperialismo tedesco, in profonda crisi, non vuole accollarsi i costi di un nuovo debito europeo. Dall'altro, i diversi monopoli delle industrie militari nazionali sgomitano gli uni contro gli altri per accaparrarsi le accresciute commesse e guadagnare spazi di mercato.

Anche le cooperazioni aziendali transnazionali, che pur si moltiplicano, seguono questa rotta.
La concorrenza nella produzione degli aerei di combattimento è emblematica. Gran Bretagna, Germania, Spagna, Italia cooperano nella produzione di Eurofighter, la Francia punta sul proprio Rafale, la Svezia produce il Gripen. Il futuro cacciabombardiere di sesta generazione (Tempest) vede la collaborazione di aziende britanniche, italiane, giapponesi, con la benedizione dei rispettivi governi, ma la Francia gli contrappone un proprio progetto (Future Combat Air System), non volendo collaborare con l'industria militare britannica. Così l'industria militare americana mantiene saldo il proprio primato, e incassa buona parte delle stesse commesse militari europee, con la relativa protesta della Francia.
La spesa militare europea (313 miliardi di dollari nel 2023) è complessivamente il triplo di quella della Russia (che pur è cresciuta nel solo 2023 del 24%), ma resta segnata da una forte frammentazione.

L'imperialismo italiano si muove in questo quadro d'insieme.

La spesa militare italiana è in crescita da dieci anni (+ 61%). E non ha atteso, come molti pensano, la guerra d'Ucraina. Nel 2020, in piena tempesta Covid, il governo presieduto da Giuseppe Conte (quello che oggi fa il “pacifista”) aumentò la spesa militare in un solo anno del 9,6%, dopo aver concordato in sede NATO il famoso impegno per la prospettiva del 2% del PIL. La profonda crisi recessiva a ridosso della pandemia rallentò parzialmente la corsa. Ma l'attuale governo Meloni-Crosetto si impegna a recuperare i “ritardi”, portando la spesa militare al tetto record di 32 miliardi di euro, e le sole spese in nuovi armamenti ad oltre 13 miliardi annui (40 miliardi nel triennio). Ciò che si è tolto a reddito di cittadinanza, sanità, scuola, servizi lo si investe (anche) nel militarismo. Colpisce il raffronto con la spesa prevista per il dissesto idrogeologico: 1,8 miliardi.

Le aziende militari tricolori si muovono nel solco di questa dinamica.
L'azienda Leonardo (ex Finmeccanica), fiore all'occhiello del militarismo patrio, è in piena espansione di utili e di affari. Attualmente è la seconda azienda militare in Europa alle spalle della britannica BAE Systems, con un fatturato che supera gli 11 miliardi. Ma le sue mire vanno oltre. Leonardo punta ad allargare la produzione di elicotteri militari (con cui già equipaggia lo stato sionista) attraverso la collaborazione con Airbus; prova a scalare posizioni nell'economia dello spazio, facendo leva sulla forte partecipazione azionaria (33%) a Thales Alenia Space. Soprattutto, investe sulla produzione di un nuovo carro armato pesante europeo, detto Main Ground Combat System. Decisiva al riguardo la joint venture con la tedesca Rheinmetall, con sede operativa presso la OTO Melara di La Spezia. Mentre un'altra azienda tedesca, Krauss-Maffei Wegmann (gruppo KNDS) che produce il già noto Leopard, gli contende il mercato.

Parallelamente corre Fincantieri. Il suo balzo in Borsa nell'ultimo anno è del 34%. Ha oggi in portafoglio ordini per 41,1 miliardi. Il suo principale obiettivo di investimento è rappresentato dai sommergibili: un mercato mondiale che vale oltre i 400 miliardi.
Le dinamiche di guerra sospingono il grande affare. Come afferma il Corriere della Sera (11 novembre), «i sommergibili sono tra i mezzi più temuti: possono servire per mappare in segreto le infrastrutture critiche dei Paesi nemici oppure, nello scenario peggiore, per sabotare o attaccare le navi commerciali e militari».
I fondali marini peraltro sono più che mai territorio strategico, ospitano oltre 1,4 milioni di km di cavi sottomarini, sui quali scorrono quotidianamente dati e transazioni finanziarie. Nel solo Mediterraneo oltre 320 mila km di gasdotti e oleodotti.
Nella sua storia, Fincantieri ha prodotto più di 180 sommergibili, ed oggi è in prima fila per onorare la nuova domanda tricolore. Sia attraverso la produzione di droni subacquei, con e senza pilota, «mezzi economici e tremendamente efficaci... per la difesa e, nel caso, anche per l'attacco» (Corriere); sia attraverso la progettazione di nuovi sottomarini nucleari commissionati a Fincantieri dal ministero della Difesa, con tanto di coinvolgimento dell'Università di Genova. È il Piano nazionale per la ricerca militare 2023: si chiama "Minerva – Marinizzazione di impianto nucleare per l'energia di bordo di vascelli armati”.
La grande ambizione di Fincantieri è mettere le mani sulla tedesca ThyssenKrupp Marine Systems, e sui cantieri navali di Kiel, specializzati nella costruzione di navi e sottomarini miliatari. Magari attraverso una joint venture paritetica che consentirebbe un salto enorme di capacità produttiva e peso globale.

La crescita dell'industria militare italiana si combina col ruolo dell'imperialismo patrio su scala internazionale. Sale, non a caso, la spesa programmata per le missioni militari in cui l'Italia è coinvolta, spesso con un ruolo rilevante.

È il caso del ruolo dell'Italia in Medio Oriente. Innanzitutto nel Mar Rosso, in una missione militare votata in parlamento da un ampio fronte di unità nazionale – da Fratelli d'Italia al M5S, passando per il PD – apertamente schierata contro gli houti, a difesa delle navi dirette verso i porti della Palestina occupata. Cioè a difesa di Israele.
Ma anche in Libano, dove l'Italia ha un ruolo centrale nella cosiddetta “missione di pace” UNIFIL (1200 uomini). Una missione intrapresa nel 1978, e poi molto rafforzata nel 2006 col concorso decisivo del governo di Romano Prodi (cui partecipava Rifondazione Comunista). Una missione nata originariamente con lo scopo (fallito) di favorire il disarmo di Hezbollah da parte del governo libanese al fine di compensare e riscattare la sconfitta dell'invasione israeliana del Libano di allora; ed oggi impegnata a rinegoziare con le autorità libanesi il disarmo di Hezbollah sotto la frusta della nuova guerra d'invasione sionista, sullo sfondo del massacro dei palestinesi.

Tanto più oggi l'”applicazione” della famosa risoluzione ONU 1701, quale soluzione di “pace”, significa infatti esattamente questo: aiutare la ricostruzione di una forza militare libanese che possa completare, il più possibile “pacificamente”, il lavoro sporco dello stato sionista, con la benedizione degli altri attori regionali e degli alleati imperialisti. Meloni e Crosetto chiamano “pace” un Libano ripulito dalla resistenza filopalestinese. A tal fine chiedono agli imperialismi alleati di concordare nuove regole d'ingaggio per la missione UNIFIL. Nel mentre, candidano i Carabinieri al ruolo di addestratori di una futura polizia militare per l'ordine pubblico in Palestina, ruolo peraltro già svolto al servizio della polizia di ANP in Cisgiordania.

Ma l'impegno dell'imperialismo italiano si proietta su scala globale, ben al di là del Medio Oriente. «Manovre nel Mar Cinese del Sud, la prima volta delle navi italiane»: così il quotidiano liberalprogressista La Repubblica (13 settembre) saluta enfaticamente il ruolo della portaerei Cavour nelle operazioni militari sul Pacifico.
Per la “prima volta” una portaerei italiana guida un gruppo navale composto da navi americane, francesi, spagnole, tedesche, australiane, giapponesi. «Il gruppo è salpato da Taranto a inizio giugno, ha attraversato il canale di Suez e nel Mar Rosso sono iniziate le attività di addestramento con la portaerei USA Roosevelt, e poi proseguite in Australia partecipando all'esercitazione Pitch Black che ha visto trasferire nelle basi dell'Oceania jet da combattimento delle ultime generazioni...» (La Repubblica). L'addestramento passa per due simulazioni di combattimento: la prima ha visto impegnati i modernissimi caccia F-35B e i più stagionati Harriera nel respingimento virtuale di «squadriglie nemiche»; la seconda ha visto l'azione coordinata di navi, aerei, elicotteri per «dare la caccia a una minaccia negli abissi».
Il ministro Crosetto ha motivato le operazioni, e la relativa partecipazione italiana, con queste parole: “Stiamo stringendo legami più profondi con paesi amici, perché vogliamo mantenere la libertà di navigazione e la sicurezza marittima in questa regione al fine di promuove il commercio e proteggere le catene di approvvigionamento”. Cosa non si fa per la “libertà”...

Il Pacifico si configura sempre più, in prospettiva, come il principale teatro della collisione tra imperialismo USA e imperialismo cinese. Un imperialismo in declino ma ancora dominante e un imperialismo in ascesa con ambizioni crescenti. È la rotta potenziale di una futura grande guerra per la spartizione del mondo. L'estensione della NATO sul Pacifico, con l'arruolamento di Giappone, Corea del Sud, Australia è parte della preparazione alla guerra. Come lo è, sul versante opposto, la stretta cinese su Taiwan. L'imperialismo italiano non è spettatore ma partecipe della grande alleanza a guida USA. E non vuole restare in seconda fila. Come non lo vogliono Leonardo e Fincantieri. L'imperialismo di casa nostra è innanzitutto l'imperialismo tricolore.

Partito Comunista dei Lavoratori

Ferrero va alla guerra contro Acerbo

 

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9 Novembre 2024

Rifondazione va a congresso. Le confessioni di un ex ministro con la faccia di bronzo

È guerra dentro il Partito della Rifondazione Comunista. Paolo Ferrero, già “líder máximo” del partito e ancora fondamentale figura pubblica, con il sostegno di circa il 45% dei dirigenti del PRC è partito lancia in resta per disarcionare l’attuale segretario Maurizio Acerbo, che gode direttamente del sostegno di solo il 35% dei dirigenti, ma è appoggiato dal gruppo “partitista” di Pegolo e Tecce (20%). Per cui il prossimo drammatico congresso di Rifondazione vedrà due documenti contrapposti.
Oltre alle questioni personali, ci sono certamente degli elementi politici. Nella sostanza, Acerbo e i suoi alleati sperano di creare le condizioni per partecipare un domani al “campo largo” con il PD della Schlein. Ferrero, invece, vorrebbe cercare di creare una coalizione riformista di sinistra stabile con Potere al Popolo (salvo eccezioni in caso di convenienza: in Sardegna i ferreriani si sono presentati in una coalizione totalmente borghese).
Detto così, si potrebbe pensare che Ferrero sia a sinistra dei suoi avversari. In un certo senso questo è vero, ma se a una minestra di acqua e sabbia si aggiunge un po’ di sale non cambia molto. Tra l’altro Ferrero, anche per raccogliere gli elementi più stalinisti del partito e per favorire le prospettive, non facili, di rapporto con Potere al Popolo, è ormai arrivato su posizioni campiste, esaltando i BRICS e la loro politica, cioè scegliendo uno dei due campi imperialisti oggi presenti nella sfida mondiale, con posizioni catastrofiste-campiste.

Se questo è il quadro generale, c’è un particolare da aggiungere. Le due frazioni in lotta hanno depositato i documenti congressuali. Qui sotto riportiamo l’inizio del capitolo sul bilancio della storia del PRC (documento Ferrero). Qui si sviluppa una polemica contro Acerbo dichiarando che è totalmente falso dire che la crisi di Rifondazione nasce dal congresso di Chianciano (2008, dove la corrente di Ferrero sconfisse quella di Vendola), ma (citiamo):

«L’estromissione di Rifondazione dal Parlamento e la sua crisi non nascono dal congresso di Chianciano ma prima, ed erano palesemente maturate nella fase in cui apparivamo fortissimi, stavamo in maggioranza con Mastella, Gentiloni, Dini e Rutelli ed eravamo tutti i giorni in televisione. Far partire la sconfitta del progetto di Rifondazione da Chianciano determina un unico risultato: costruire una narrazione in cui qualunque ammorbidimento e compromesso nel rapporto con il PD rappresenterebbe un fatto positivo e di buon senso realista rispetto ad una linea “troppo rigida”. La realtà ci dice che la crisi di Rifondazione Comunista è nata quando era nella maggioranza che sosteneva il governo Prodi. Quella collocazione ne ha corroso pesantemente la credibilità, il valore simbolico e i rapporti di massa costruiti dopo le giornate di Genova, nella costruzione del movimento altermondialista e nell’attività di opposizione al governo Berlusconi. A meno che non si voglia usare Rifondazione Comunista per giocare al gioco dell’oca, noi riteniamo sia necessario prendere atto che è la collocazione in maggioranza con il centro sinistra che aperto la nostra crisi come, del resto, la partecipazione alla maggioranza del primo governo Prodi aveva prodotto un nulla di fatto sul piano dei risultati concreti e una pesante scissione del Partito».

Benissimo! Solo c’è un piccolo particolare. Quando Rifondazione stava in maggioranza con Mastella, Gentiloni, Dini e Rutelli, Paolo Ferrero era principale sostenitore con Fausto Bertinotti dell’alleanza appunto con i Mastella, Gentiloni, Dini e Rutelli. E quando finalmente i nostri eroi riformisti riuscirono a realizzare i loro sogni, entrando nel governo Prodi nel 2006, Ferrero divenne ministro di quel governo (l’unico ministro del PRC).

In quelle situazioni in cui il PRC era nella maggioranza (1997-98), Ferrero ha sostenuto, tra altre decine di gravi schifezze, la riduzione dell’aliquota massima e contemporaneamente l’aumento di quella minima delle tasse (primo governo della Repubblica a fare una tale operazione); la flessibilità lavorativa selvaggia (pacchetto Treu); l’abolizione dell’equo canone sugli affitti, e non si oppose al blocco navale contro i migranti con la strage degli albanesi della Pasqua 1997 nel canale d’Otranto.
Poi, nel 2006-2007, in seno al governo, Ferrero ha votato tra l’altro, senza alcuna obiezione o riserva: riduzione delle tasse per i capitalisti (quattro miliardi l’anno solo per banche e assicurazioni); aumento delle spese militari (17% in un solo anno); finanziamento alla missione militare imperialista in Afghanistan, oltre ad appoggiare (fuori dal Consiglio dei ministri) l’unico caso ufficiale di costruzione di un muro contro gli immigrati (dall’amico sindaco di Padova).

Addirittura, quando un ormai dimenticato Franco Giordano, un ingenuo dirigente del partito messo a fare il segretario come “uomo di paglia” per il duo Bertinotti-Ferrero, alla fine del 2007, rendendosi conto dei problemi di caduta di immagine del partito, avanzò timidamente l’idea del passaggio del PRC dalla presenza nel governo all’appoggio esterno, non solo Bertinotti, ma anche Ferrero gli chiesero se fosse impazzito.

Pochi mesi dopo Clemente Mastella (e non Bertinotti, come spesso si dice) ritirò il suo partito dal governo e lo fece cadere, ponendo fine all’esperienza governativa di Rifondazione.

Questa la vera storia del ruolo da ministro borghese che il nostro “prode” ha avuto in quegli anni, e che ha portato al disastro il PRC e – quello che più conta – l’insieme dell'avanguardia politica di sinistra in Italia.

Naturalmente Ferrero si guarda bene dal dire che c’era chi, piccolo ma non insignificante, nell’ambito del partito combatté le posizioni che oggi lui rivede, molto parzialmente e totalmente in maniera falsa e strumentale. Eravamo noi, che dicevamo che questa politica era peggio che riformista, filopadronale e anche (visto il voto per il finanziamento della guerra in Afghanistan) pro imperialista. Eravamo noi di Progetto Comunista, di cui il PCL è il continuatore diretto. Avevamo ragione quando dicevamo che quella politica era in primo luogo di tradimento della classe operaia, ma che avrebbe anche portato un partito nato, come dichiarato, “cuore dell'opposizione” al disastro (mentre qualcun altro si metteva un po’ in mezzo, parlando appoggi esterni, critiche, ma senza mai negare il progetto di sostenere il governo dei capitalisti).

Ricordare che una proposta politica contraria alla sua collaborazione di classe, una proposta veramente comunista esisteva nel PRC e fu costretta a uscire per non morire riformista, non poteva essere possibile per un voltagabbana per cui i principi politici valgono evidentemente meno delle scarpe che indossa.
Certo è difficile per noi militanti di un vero partito rivoluzionario capire come ancora tanti compagni e compagne sinceramente di sinistra e che si sentono comunisti, la maggioranza dei quali ha vissuto queste esperienze, possano restare in un partito come il PRC con appunto la sua storia e la sua reale politica di subordinazione alla borghesia. Ma questo, purtroppo, non è una novità, anzi è una costante della tragica storia del movimento operaio. Come diceva Trotsky, il pensiero umano tende ad essere conservatore, e nella sua specificità questo vale anche per l’avanguardia del proletariato.

Certo se tutti e tutte coloro che avrebbero dovuto rompere logicamente col PRC insieme a noi nel 2006 e poi negli anni seguenti lo avessero fatto, oggi il nostro certo combattivo e coerente, ma piccolo PCL sarebbe un partito ancora minoritario nella classe, ma con iscritti e attorno, una gran parte della sua avanguardia in lotta contro il capitalismo e tutti gli imperialisti, insieme a decine di migliaia di altri militanti marxisti rivoluzionari del mondo. Decine di migliaia di militanti e iscritti si sono dispersi, ma non è mai troppo tardi. Perché essere più onestamente riformisti, come Acerbo e Galieni e Pegolo e Tecce, se è moralmente meglio, politicamente non lo è per nulla.
Venga finalmente, di fronte a tutto questo, la comprensione per ogni comunista che il suo posto è fuori da Rifondazione e insieme a noi del Partito Comunista dei Lavoratori.

Franco Grisolia

SCIOPERARE OGGI PER RIVOLTARSI DOMANI!

 


Testo del volantino che distribuiremo alle manifestazioni in concomitanza con lo sciopero generale di venerdì 29 novembre

È sicuramente positivo che Cgil-Uil e buona parte dei sindacati di base, scioperino oggi nella giornata internazionale della solidarietà al popolo palestinese massacrato a Gaza dal sionismo colonizzatore e dagli imperialismi occidentali che lo coprono nonostante i mandati d’arresto per criminali impuniti come Netanyahu. La prima considerazione elementare, quindi, è che la mobilitazione di oggi non sia solo una fortuita coincidenza ma continui domani nelle piazze di Roma e Milano, per ribadire che la lotta dei lavoratori e quella del popolo palestinese sono una cosa sola!

 Avremmo preferito un solo luogo e un’unica piazza, non due, una per sindacati confederali e una per sindacati di base, ma vogliamo pensare in positivo e lottiamo perché quello di oggi sia solo il preludio a scioperi unitari e di massa di tutto il variopinto arco sindacale. Inoltre crediamo che gli scioperi non debbano ridursi a meri rituali. Anche quest’anno lo sciopero Cgil-Uil contro la manovra del governo arriva senza un bilancio del precedente. L’anno scorso si disse “adesso basta”, oggi si incita giustamente alla “rivolta sociale” per fermare la Meloni, ma oggi come allora non la fermeremo con uno sciopero testimoniale. Analogo discorso si può fare per lo sciopero dei sindacati di base, sempre più simile a quello dei confederali, ma ancora più dispersivo (Usb sciopererà tristemente da sola il 13 Dicembre).

 L’annuale rito dello sciopero conferma però l’estrema gravità della situazione della nostra classe. 6 i milioni di poveri assoluti in Italia. 3 milioni, invece, i precari ufficiali, ma non fidatevi troppo delle statistiche borghesi, sono molti di più. Ci sono soldi per le armi (record di oltre 30 miliardi), per i soliti sgravi alla Chiesa, per sanità e scuola privata, e di conseguenza c’è n’è sempre meno per quella pubblica. Meno ancora ce n’è per lavoratori e lavoratrici che devono accontentarsi sempre dello sgravio del cuneo fiscale… per i padroni, unico modo che il capitalismo ha per dare con una mano pochi spicci ai salariati, per poi riprenderseli attraverso tagli a servizi e pensioni (confermata la Legge Fornero, con buona pace di chi ha creduto alla propaganda elettorale di Salvini). Lavoratrici e lavoratori che hanno tenuto il Tfr in azienda devono anche stare attenti al nuovo tentativo di scippo tramite silenzio assenso. 

 il nuovo attacco di Salvini, che con un ignobile provvedimento ha precettato i lavoratori dei trasporti riducendo il loro sciopero a sole 4 ore nonostante lo scorso anno il TAR del Lazio avesse dichiarato illegittima un’analoga ordinanza, dà ancor più la misura, se mai ce ne fosse bisogno, della torsione autoritaria di questo governo e della necessità di una risposta di massa da parte della classe lavoratrice.

 Purtroppo, invece, Lo sciopero avviene col solito metodo di una generica protesta, con rivendicazioni vaghe la Cgil e appena più precise il sindacalismo di base. Nessuna piattaforma è stata veramente discussa, condivisa e approvata dai lavoratori. La Cgil parla di inflazione da profitti e di perdita di potere d’acquisto dei salari per i rinnovi dei contratti, come nel pubblico, che coprono appena 1/3 dell’inflazione. Ma nel privato non va tanto meglio. L’elogiato rinnovo dei tessili, al massimo copre 2/3 di inflazione, cioè 2/3 del minimo sindacale. L’obbiettivo minimo dovrebbe essere fuori dalla contrattazione, infatti quando c’era la scala mobile si contrattava per ripartire la ricchezza prodotta, non per ridurre soltanto la miseria accumulata.

 Gli altri rinnovi non si scostano più di tanto dal rinnovo dei tessili. Ottenuti con poche o addirittura nessuna giornata di sciopero come negli alimentaristi, non cambiano l’impianto degli attuali contratti nazionali, il cui asse è il continuo spostamento dei soldi veri e reali, verso il welfare e i fondi pensione e salute che continuano a non essere messi in discussione da Cgil e Uil, con buona pace della richiesta di finanziamento straordinario per la sanità. Il sindacalismo di base lo denuncia, ma deve riflettere sul fatto che a tutt’oggi la sua coscienza è pari alla sua debolezza, incapace di fermare l’andazzo. 

 Rispetto all’anno scorso, quest’anno lo sciopero va in scena pressoché in concomitanza con la rottura delle trattative nel settore nevralgico della nostra storia: quello dei metalmeccanici. I metalmeccanici raddoppieranno lo sciopero – verosimilmente a gennaio – ma è evidente che da questo settore dipenderà lo sviluppo o meno della mobilitazione. E poiché in questo settore, pure nell’automotive si è scioperato, le condizioni ci sono tutte per una riunificazione dei metalmeccanici in un unico contratto. Anzi sarebbe ora che tutte le categorie venissero riunite in tre soli contratti: dell’industria, del pubblico e dei servizi.

 Niente come l’automotive e nella fattispecie Stellantis mette a nudo il vero volto della crisi. Sono praticamente due anni di calo consecutivo della produzione industriale, ma mentre il padronato piange, aumentano i profitti e gli stipendi dei manager. Tavares che sta cercando di dare il benservito ad altri 3000 operai, si è aumentato lo stipendio in due anni del 55%. E così gli altri dirigenti che a luglio hanno preso un bonus per l’efficienza con cui spremono i lavoratori. 

 È ora di una piattaforma di rivendicazioni vere: aumenti molto più consistenti per tutti che recuperino la reale inflazione, grosso modo il doppio di quella segnata dall’indice IPCA, quindi 400-500 euro; ripristino della scala mobile e riduzione dell’orario a 30-32 ore settimanali a parità di salario; abolizione di tutte le leggi sul precariato dal Jobs Act fino al pacchetto Treu; abolizione della Legge Fornero e di tutti i suoi predecessori: in pensione con 35 anni di contributi, 60 di età e con minima almeno a 1500 euro, quindi abolizione di tutti i fondi pensione e salute che smantellano i diritti pubblici; abolizione dell’autonomia differenziata, che è solo il modo per ridurre salari e diritti, in maniera indifferenziata, dal nord al sud; abolizione di tutte le leggi antisciopero e del decreto sicurezza solo per il profitto (DdL 1660) che criminalizza le lotte. È incredibile che ci siano più sindacalisti indagati che padroni!

 Queste rivendicazioni possono essere portate avanti da un’assemblea di delegati e delegate che guidi la lotta da Stellantis alla Gkn, dalla Beko (ex Whirpool) a tutte le altre mille vertenze sparse per lo Stivale, e che istituisca casse di resistenza adeguate allo scopo. Solo una massa enorme di lavoratori e lavoratrici con uno scopo comune può piegare governo e padronato.

 Non si dica che queste rivendicazioni sono impossibili. In altre parti del mondo, pensiamo all’IG Metall in Germania o al sindacato UAW negli Stati Uniti proprio contro Stellantis, sono stati in grado di ottenere importanti vittorie, nettamente superiori ai rinnovi che vediamo in Italia. E le hanno ottenute innanzitutto perché hanno proprio le casse di resistenza a supportare gli scioperi. Le hanno ottenute, inoltre, perché hanno usato un altro metodo di lotta: si sono date un obbiettivo e l’hanno perseguito fino in fondo bloccando il profitto.

 Gli obbiettivi sindacali vanno però unificati agli obbiettivi politici e questo dovrebbe capirlo innanzitutto il sindacalismo di base, cioè di classe. Il capitalismo italiano ha mille partiti e un unico sindacato: la Confindustria; Gli operai hanno cento sindacati di classe e nessuno di loro che pensi al partito. Non comprendere la necessità di unire la battaglia sindacale alla costruzione del partito rivoluzionario, significa non avere la testa per colpire al cuore il capitalismo. Se leggi e sei d’accordo con questa necessità, sei perfetto per il nostro Partito Comunista dei Lavoratori, l’unico che vuole tenere insieme questi due aspetti, senza i quali semplicemente non si può vincere. Iscriviti al PCL!

ELEZIONI REGIONALI DELL’EMILIA ROMAGNA: LE NOSTRE INDICAZIONI DI VOTO

 


Domenica 17 e lunedì 18 novembre si terranno le elezioni regionali dell’Emilia-Romagna.

Il nostro Partito non potrà essere presente a questa competizione a causa delle leggi elettorali antidemocratiche e che impongono un numero esorbitante di sottoscrittori per poter presentare la lista. In questo modo verrà a mancare sulla scheda elettorale la sola forza politica che si è sempre e solo schierata a fianco delle lavoratrici e dei lavoratori e non si è mai compromessa con accordi di governo sia a livello locale che nazionale contro i loro interessi.

Il significato politico di queste elezioni va oltre l’ambito regionale e assume un significato nazionale.

Anche se è molto probabile una riconferma del centro-sinistra alla guida della regione, essa come le altre che si stanno svolgendo, dalla Liguria all’Umbria, entra nel confronto tra il governo e l’opposizione in un quadro di rafforzamento del carattere bipolare del quadro politico

Dalla parte del governo si cercano di rafforzare le basi di consenso ad una linea politica che, al di la della becera propaganda post-fascista, raccorda una politica economica molto attenta alla contabilità degli interessi del grande capitale imperialista e di Confindustria, oltre che compatibile con i dettami europei, all’insegna dell’equilibrio dei conti pubblici, con un percorso di torsione autoritaria nei confronti del più ampio spettro delle mobilitazioni sociali e che colpisce in prima battuta lavoratori, sindacalisti, migranti, studenti,  attivisti per la Palestina e per l’ambiente (DDL 1660).

Questa torsione autoritaria rappresenta oggi un pericolo immediato per le ragioni di tutti i settori oppressi della società ed è per questo che il Partito Comunista del Lavoratori è impegnato nella costruzione unitaria, con altre forze politiche e sindacali, di ogni possibile mobilitazione per combatterla.

Dal lato dell’opposizione liberale dietro lanci propagandistici di misure quali ad esempio, il salario minimo o gli investimenti nella sanità, misure che questa parte politica si è ben guardata dal varare quando era al governo, e una postura di opposizione democratica nei confronti della gestione dei flussi migratori (caso Albania) e contro i decreti sicurezza del Governo, laddove su entrambi i  fronti PD e M5S non possono certo dire di avere la coscienza a posto, i risultati elettorali eventualmente favorevoli sono posti sul piatto di un accreditamento presso quello stesso grande capitale imperialista come compagine più credibile e seria di governo rispetto alla destra post-fascista.

Insomma, in gran parte il confronto tra governo e opposizione si riduce ad un teatro degli equivoci, ad una lotta tra concorrenti a rappresentare i medesimi interessi della classe capitalista e dove perciò nessuna delle due parti porta avanti i bisogni di milioni di salariati che rimangono ancora privi di una propria rappresentanza politica.

A livello locale le differenze tra le posizioni dei due poli si fanno ancora più sottili.

A ruoli invertiti qui in Emilia-Romagna è il centro-sinistra a rappresentare ed assicurare la continuità di governo mentre il centro-destra punta soprattutto ad una vittoria dell’alto valore simbolico e, come abbiamo detto, da spendere nei rapporti di forza tra governo e opposizione a livello nazionale.

Proprio l’Emilia-Romagna rappresenta un modello di governo compatibile e fruttuoso per gli interessi capitalistici.

Una Regione, quella emiliano-romagnola, governata da sempre dal Pd e dai suoi alleati e che si avvicina il più possibile ad una gestione dell’amministrazione pubblica funzionale al grande capitale e alla piccola e media industria, in altri termini all’interesse medio e trasversale del capitalismo emiliano.

La risultante di questa conduzione politica sono stati negli anni la speculazione edilizia, la cementificazione e il consumo di suolo responsabili insieme mancato intervento contro il dissesto idrogeologico dei grandi disastri dovuti alle recenti alluvioni.

Ma la cornucopia per il capitale non è finita qui: grandi opere inquinanti, privatizzazioni soprattutto in tema di sanità, precarizzazione del lavoro sono altrettanti capitoli dell’autentica rapina subita dalle classi popolari italiane a tutto vantaggio di padronato e finanza in un territorio per altro colpito da numerose crisi industriali e da un vertiginoso rincaro dei prezzi.

Persino sul terreno dell’edificazione della rapina sociale futura l’Emilia-Romagna si è distinta. Il suo governatore, Bonaccini, è stato infatti tra i primi promotori dell’autonomia regionale differenziata, ossia la secessione dei ricchi, seppur in salsa emiliana. Oggi il passaggio al contrasto dell’attuale legge varata dal governo, contrasto che però si limita ad una volontà di emendamento e non di abrogazione come invece vogliono i sottoscrittori del referendum, non cancella le responsabilità di un’amministrazione che persino su questa base si è posta in posizione ancillare nei confronti dei grandi interessi capitalistici.

L’Emilia-Romagna, perciò, viene esibita dal PD e dai suoi alleati come esempio di “buon governo”, di fruttuosa amministrazione e gestione dei conti pubblici anche in funzione di un accreditamento per il governo nazionale. Bisogna pero vedere a quale altare si portano i propri doni. In questo caso è chiaro: il capitale e le banche.

Il centrodestra, che parte svantaggiato, non ha sostanzialmente un programma di governo diverso. Dal punto di vista degli interessi che tutela la linea di fondo dell’attuale amministrazione può essere completamente riciclata. Il significato politico sarebbe porre l’eventuale affermazione, come abbiamo detto, sul piatto dei rapporti di forza tra governo e opposizione nazionali in funzione di un ulteriore rafforzamento del governo Meloni.

In definitiva scegliere tra De Pascale, centro-sinistra, e Ugolini, centro-destra, è come scegliere tra il gatto e la volpe. Le lavoratrici e i lavoratori emiliano-romagnoli non hanno nulla da guadagnare, e purtroppo tutto da perdere, dalla vittoria di uno dei due.

Se spostiamo lo sguardo a sinistra troviamo la lista Emilia-Romagna per la Pace, l’Ambiente e il Lavoro, che candida Federico Serra e che è sostenuta da Potere al Popolo, PCI e Rifondazione Comunista.

Questa lista, in contrapposizione sia al centro-destra che al centrosinistra, si presenta con un programma pieno di buoni propositi. Però rileviamo come, per essere un programma anticapitalista e non meramente riformista, manchi il protagonismo della classe lavoratrice e delle organizzazioni che vi fanno riferimento, la nazionalizzazione sotto controllo operaio delle aziende che licenziano, inquinano e ledono l’incolumità dei lavoratori, il controllo operaio delle condizioni di sicurezza sul lavoro e sugli uffici di collocamento. Insomma, mancano le fondamentali parole d’ordine di classe nella direzione di una piattaforma rivendicativa unificante al servizio della costruzione del più ampio fronte unico della classe lavoratrice.

Inoltre, il passaggio sul sostegno alla causa palestinese non è chiaro: infatti non compare la rivendicazione della liberazione del territorio palestinese dal fiume Giordano al mare e un appoggio chiaro alla resistenza sia in Palestina che nel Libano. Ciò accade a causa dell’attardarsi di forze come Rifondazione Comunista e del PCI sulla rivendicazione dei due stati per due popoli, rivendicazione oggi evidentemente fuori dalla storia, invisa alla resistenza palestinese e invece significativamente sostenuta tanto dal PD che dalla destra filosionista. Non certo una bella compagnia.

Ciò che vogliamo porre in discussione però non riguarda la caratura più o meno di sinistra del programma che in realtà rischia di rimanere lettera morta. Un programma per quanto radicale procede zoppicando sulle gambe di organizzazioni politiche su cui non si possa fare affidamento.

Il punto è che bisogna mettere alla prova questi partiti facendo un bilancio della loro condotta precedente, della coerenza o meno del loro posizionamento politico.

In questo bilancio, che questi partiti non fanno, ma che noi abbiamo il dovere di chiarire agli elettori di sinistra, deve essere posta la partecipazione a governi nazionali e locali in coalizione con partiti borghesi e nella fattispecie con il PD.

 Avviene ancora oggi che il PRC sia presente in coalizioni che comprendono il PD in molte giunte locali del territorio Emiliano Romagnolo (es. Forlimpopoli e Bertinoro).

L’attitudine alla ricerca di un compromesso con quelle stesse forze che in queste elezioni in termini del tutto propagandistici si dice di voler combattere è tanto più dimostrata dal tenore della discussione congressuale che sta lacerando Rifondazione Comunista e che è imperniata intorno alla possibile alleanza con il PD.

I riferimenti internazionali di queste forze politiche rafforzano, se possibile, l’impressione di ambiguità della loro collocazione politica.

L’infatuazione per il governo Tsipras e Syriza che tradi il movimento di massa che aveva detto un grande no al referendum sulle misure della Troika UE, l’ammirazione pe il governo PSOE-Podemos che ha aumentato a dismisura la precarietà lavorativa, proseguito le politiche persecutorie nei confronti dei migranti dei governi precedenti e ha aumentato le spese militari. Governi di “sinistra” che hanno finito per tradire le ragioni sociali della loro esistenza

Ma forse ciò che attrae di più l’ammirazione nei confronti di queste sinistre è proprio il loro essere di governo, ossia esemplificare perciò l’esito sperato della propria condotta politica, la possibilità di conseguire un risultato elettorale utile alla negoziazione di un accordo con il centro-sinistra con un successivo sperabile sbarco al governo.

Per tutti questi motivi vogliamo parlare chiaro ai compagni, elettori, iscritti e militanti di queste formazioni politiche e chiedere loro se al di là dei proclami che valgono lo spazio di una campagna elettorale, si possa riporre fiducia in dirigenti che proseguono la china già contrassegnata da innumerevoli disastri: quello della ricerca di un accordo con il centro-sinistra per strappare magari uno strapuntino nel cosiddetto “campo largo”. Se non sia giunto il momento di rifiutarsi di farsi prendere per il bavero ed invece incalzare i propri dirigenti per indurli ad una virata di 180° verso la lotta di classe e la prospettiva del governo delle lavoratrici e dei lavoratori, terreno sul quale troveranno il Partito Comunista dei Lavoratori sempre disponibile alla massima unità d’azione.

Ai compagni che ci obbiettano che un voto a sinistra sarebbe un segnale politico in quella direzione, rispondiamo che nessuna lista rappresenta coerentemente gli interessi della classe lavoratrice e dei settori oppressi e svantaggiati della società emiliana

Il centrodestra e il centrosinistra sono due cavalli per uno stesso scudiero: il grande capitale.

La lista di sinistra vuole conseguire un risultato, che, al di là dei buoni propositi, se positivo, finisca nel paniere da spendere al tavolo del campo largo ossia quel campo a guida PD autentico architrave della governabilità borghese.

Pertanto, diamo indicazione astensione al voto ed al contempo invitiamo le compagne e i compagni, le lavoratrici e i lavoratori, e tutte le organizzazioni che vi fanno riferimento a costruire il più ampio fronte unico della classe lavoratrice, l’unico che basandosi su una piattaforma rivendicativa anticapitalista, possa rovesciare lo svantaggio nei rapporti di forza con la classe capitalista e aprire una stagione nuova.

Una stagione nuova le cui conquiste possano essere portate avanti e garantite non da un governo di quel o quell’altro colore, ma da un governo di tipo nuovo: il governo delle lavoratrici e dei lavoratori.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

EMILIA ROMAGNA