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Il 6° incontro della Rete Sindacale Internazionale di Solidarietà e Lotta

 


Dal 13 al 16 novembre scorsi si è svolto a Chianciano Terme il sesto incontro della Rete Sindacale Internazionale di Solidarietà e Lotta, nata nel 2013 con l’intento di costruire un fronte di lotta su scala globale.

La Rete raccoglie un gran numero di sindacati conflittuali di tutto il mondo, uniti da una piattaforma rivendicativa che va dalle rivendicazioni salariali e di miglioramento delle condizioni dei lavoratori e degli immigrati al contrasto della militarizzazione, dalla difesa dell’ambiente ai diritti delle donne e delle persone LGBTQI+.

In un’ottica di unione delle lotte, la Rete è aperta all’intesa con realtà che hanno gli stessi interessi del mondo del lavoro, come disoccupati, pensionati, studenti, attivisti per i diritti civili.

Per quattro giorni, più di 150 delegati provenienti da più di 30 organizzazioni hanno discusso appassionatamente per giungere ad una proposta organica di alternativa al capitalismo, un sistema decadente che, per sua natura, non può che basarsi sullo sfruttamento e sulla guerra.

Di fronte ad un capitalismo sempre più globalizzato, l’esigenza della costituzione di una Rete di questo tipo si palesa in tutta la sua evidenza, così come la necessità di elaborare nel dettaglio le rivendicazioni da contrapporre alla classe dominante e ai suoi governi.
In tal senso, non sono mancati i contributi da delegati provenienti da paesi che oggi sono il punto di precipitazione della crisi capitalistica: la Palestina, con il sindacato dei lavoratori dei servizi postali; il Venezuela, che è un nuovo terreno di scontro fra i diversi imperialismi e dove il governo Maduro non può essere considerato amico né tanto meno espressione del proletariato; l’Ucraina, con Yuri Samoilov, del sindacato dei minatori, che annovera fra i suoi iscritti molti reclutati dall’esercito per combattere i russi al fronte.
Yuri merita per noi un plauso per aver citato Trotsky in uno splendido intervento in cui ha magistralmente espresso la propria contrarietà alla guerra fra capitalisti (che mettono i popoli gli uni contro gli altri mandando a morire i lavoratori) spiegando come l’unica guerra che può avere senso sia quella del proletariato unito contro i capitalisti.

Contemporaneamente si svolgeva a Belem (Brasile) la COP30, la Conferenza mondiale sul clima. L'assemblea, su impulso della numerosa delegazione brasiliana, non ha mancato di evidenziare come essa, lungi dal perseguire soluzioni concrete, non sia altro che una vetrina propagandistica – ospitata da un paese governato dal riformista Lula – di cui si avvale la borghesia mondiale per legittimare la propria azione di devastazione ambientale in nome del proprio unico vero scopo: il profitto.

Il tema dell’inadeguatezza dei governi riformisti e della loro sostanziale contrapposizione agli interessi di classe è stato anche ripreso in una specifica sessione dedicata al contrasto all’avanzata delle destre nel mondo, analizzandone le cause e i possibili strumenti di contrapposizione.

I delegati hanno poi avuto un utile momento di confronto nelle riunioni raggruppate per settori professionali: logistica, scuola, sanità, trasporti, industria, commercio, call center, pensionati. Un’impostazione, tuttavia, che auspichiamo non sia controproducente dal punto di vista del consolidamento di una vertenza in ogni caso generale e di una piattaforma unificante e intercategoriale.

Un passaggio del documento finale è quello che secondo noi meglio esprime lo spirito che ha pervaso l’intera assemblea: «Il sindacalismo che rivendichiamo non può sostenere patti con i poteri di fatto per convalidare misure antisociali. Il sindacalismo ha la responsabilità di organizzare la resistenza su scala internazionale, per costruire attraverso le lotte la necessaria trasformazione sociale anticapitalista. Vogliamo costruire un sistema in cui sia vietato lo sfruttamento, basato sui beni comuni, su una redistribuzione equa della ricchezza tra tutti coloro che la producono (cioè le lavoratrici e i lavoratori), sui diritti di questi ultimi e su uno sviluppo ecologicamente sostenibile».

Il Partito Comunista dei Lavoratori, con le sue militanti e i suoi militanti, auspica che questa Rete possa conoscere un ancora maggiore sviluppo e visibilità, con l’ingresso in essa di altre realtà del sindacalismo conflittuale e, in Italia, dell’opposizione CGIL, per rafforzare i concetti di unità dei lavoratori e di internazionalismo in questo momento storico, nel quale logiche burocratiche e di autocentratura sembrano a volte prendere il sopravvento sia nel sindacalismo di base che nella CGIL.

Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione sindacale

La COP della distruzione e della farsa: il fallimento di Belém e il lascito delle ceneri

 


La COP30 di Belém non è stato un “punto di svolta” per l’azione climatica; è stato lo scenario di una resa vergognosa e un doloroso richiamo al fatto che la diplomazia climatica, dominata dagli interessi distruttivi del capitalismo, ha fallito una volta ancora.


La palese esclusione della «tabella di marcia» verso la fine dei combustibili fossili dal progetto finale è un atto di sabotaggio contro il futuro e uno schiaffo alle comunità vulnerabili.

Non possiamo accettare eufemismi: la COP30 è un fallimento. Gli scienziati impegnati a favore dell'umanità e gli attivisti hanno ragione a qualificare come «vergognoso» il risultato.

Nel momento più critico della crisi climatica, quando ogni tonnellata di CO2 conta, la conferenza ha dovuto soccombere alla pressione di più di ottanta paesi, gruppi di pressione del carbone, del petrolio e del gas.

Questa omissione non è un mero errore tecnico, è una prova irrefutabile che la cupidigia capitalista e la ricerca di benefici immediati continuano a dettare l’agenda mondiale, calpestando la vita, la scienza e la giustizia.

Il progetto finale, senza un impegno chiaro e soggetto a scadenze per la eliminazione progressiva dei combustibili fossili, è un documento innocuo che, nella pratica, è una licenza alla continuazione della distruzione planetaria.


IL GOVERNO BRASILIANO E LA SUA PERDITA DI CREDIBILITÀ

È impossibile parlare del fallimento della COP30 senza puntare il dito contro l’ipocrisia del governo brasiliano.

La sua credibilità sul tema è evaporata con la sua ambivalenza culminata con l’autorizzazione di prospezioni petrolifere nel Margine Equatoriale e alla foce del Rio delle Amazzoni.

Non si può predicare la conservazione globale mentre si apre la porta alla distruzione di biomasse essenziali come in Amazzonia.

Questa contraddizione priva il Brasile della posizione di paese leader sul tema ambientale, trasformando i suoi “discorsi infiorettati” in mere parole vuote.

La vera storia della COP30 non si trova nei saloni climatizzati di Belém, bensì nelle strade e nei villaggi. Il lascito di questa conferenza di facciata non sono le migliaia di milioni di reais sperperati, trasformati in cenere dal fallimento, né le rivendicazioni elettorali avanzate dai governi locali. Il vero lascito è l’esplosione di scontento e mobilitazione popolare.

La città di Belém, con le sue precarie infrastrutture e il suo inesistente risanamento di base, è stato il crudele specchio della crisi sociale che accompagna la crisi climatica.

Ciò che ha realmente convertito la COP30 nella “COP della verità” sono state le mobilitazioni storiche dei Munduruku, dei Tupinambà, degli Arupios e dei movimenti dei professori e dei lavoratori sanitari.

Sono scesi in strada in difesa del territorio, della gratuità dei servizi pubblici e della qualità della vita. Hanno dimostrato che:

• Solamente mediante l’organizzazione, la mobilitazione e la protesta popolare si potrà frenare la cupidigia dei pochi e difendere realmente l’ambiente e il futuro dell'umanità.
• La lotta continua in basso, dove si deciderà il futuro, e non ai tavoli negoziali cooptati dal capitale del fossile.

La lotta continuerà con maggiore intensità contro la privatizzazione dei fiumi Tapajòs, Tocantins e Madeira, contro il Ferrogrão (linea ferroviaria prevista di 933 km fra Sinop, Mato Grosso, e Miritituba, Parà, ndt), per la delimitazione e protezione dei territori indigeni e quilombolas (comunità di schiavi fuggiti durante il dominio coloniale portoghese, ndt) per servizi pubblici gratuiti e di qualità.

La Lega Internazionale Socialista si impegna ad appoggiare e a partecipare attivamente a questo processo.

Douglas Diniz (Revolución Socialista, LIS Brasile)

Ex Ilva, il gigante abbandonato che solo i lavoratori possono salvare


 Il 21 novembre Moody’s, società statunitense tra le principali nella valutazione della qualità e dell'indice di affidabilità dei titoli emessi da un’impresa o da uno Stato e, di conseguenza, della sua solidità finanziaria, ha deciso di alzare il rating del debito pubblico italiano, portandolo a Baa2 (da Baa3) con outlook stabile.


Il primo ministro Giorgia Meloni ha subito dichiarato: «Accogliamo con grande soddisfazione l'upgrade di Moody's sull'Italia, un risultato importante che non avveniva da 23 anni». E ha poi aggiunto: «Questo riconoscimento premia il lavoro serio e responsabile del nostro governo, frutto di scelte coerenti sui conti e di riforme strutturali, ma anche il lavoro e l'impegno delle nostre imprese e dei nostri lavoratori. Desidero ringraziare in particolare il ministro Giorgetti per lo sforzo costante e scrupoloso nella gestione dei conti. La promozione di Moody's è una conferma della fiducia dei mercati non solo nel governo, ma nell'Italia tutta».


IL GOVERNO MELONI E I SUOI FAVORI AL PADRONATO

Certo il governo ha ricevuto un riconoscimento, quello delle grandi società capitalistiche e finanziarie, di tutta la classe borghese e padronale nostrana ed internazionale, non certo quello della classe lavoratrice. Un riconoscimento da chi in questi anni di governo ha visto “gonfiare” le proprie tasche e fruttare i propri investimenti sulle pelle dei lavoratori, che viceversa hanno visto peggiorare la loro situazione con la perdita progressiva di potere di acquisto dei salari (ci sono contratti come quello dei metalmeccanici rinnovato dopo quasi due anni e 40 ore di sciopero), la contrazione dei diritti (vedi la recente legge sulla sicurezza), l’innalzamento nei fatti dei requisiti per accedere alla pensione e lo smantellamento dello stato sociale e dei servizi, primi fra tutti sanità ed istruzione.


LA FINANZIARIA 2026, L'ENNESIMO ATTACCO AI SALARIATI

Quella del governo è dunque solo una narrazione per gli sprovveduti, come conferma la recente manovra finanziaria, in fase di approvazione: una finanziaria che impoverisce ancora di più il lavoro, che si pavoneggia dicendo di aver tagliato le tasse, quando la maggior parte dei lavoratori non vedrà nessun aumento in busta paga, se non una vergognosa elemosina. Una finanziaria che vede crescere la spesa per gli armamenti, a scapito di sanità, scuola e servizi. Un governo che sceglie di costruire un costosissimo ponte sullo stretto di Messina e che a fronte del “tesoretto” accumulato con il fiscal drag (frutto dei rinnovi contrattuali già effettuati) non ridistribuisce nulla alle masse.
Una narrazione che vuole mettere a tacere le tante situazioni di crisi aziendali, specie nel settore automotive e metalmeccanico, fingendo di occuparsene e dichiarando che i lavoratori non saranno lasciati soli.


IL BANCO DI PROVA DELLE POLITICHE DEL GOVERNO VERSO IL LAVORO: IL CASO DEGLI STABILIMENTI EX ILVA DI GENOVA E TARANTO

Fra le situazioni di crisi più dimenticate c’è quella dell’ex Ilva che proprio nell’ultimo mese si è acutizzata, mettendo ancor di più una seria ipoteca sul futuro di migliaia di lavoratori. La storica impresa siderurgica fondata agli inizi del Novecento e divenuta nel pieno del boom economico il centro del polo siderurgico italiano con il nome di Italsider, entrò in crisi a metà anni ’80 e passò, come noto, nel 1995 nelle mani della famiglia Riva, che avrebbe attuato una spregiudicata opera di sfruttamento degli impianti, senza operare nessun intervento di ammodernamento e di bonifica ambientale.

Proprio agli ’90 risalgono le prime battaglie combattute dalle comunità che risiedono nelle vicinanze degli stabilimenti ex Ilva in difesa della salute. La conseguente iniziativa della magistratura per far luce sui vari reati ambientali e i danni alla salute, costrinse lo Stato ad intervenire per impedire la chiusura del polo siderurgico.

Dopo la fallimentare gestione della cordata ArcelorMittal e Marcegaglia, che di fatto non ha mai fatto alcun investimento per bonificare e rimodernizzare gli impianti, lo Stato italiano si vede costretto ad intervenire nuovamente con capitale pubblico nella gestione dell’ex Ilva, sostituendosi alla precedente amministrazione e creando una nuova società con il nome di Acciaierie d’Italia.

E dunque eccoci arrivati ai giorni nostri: dopo alcuni tentativi per individuare un nuovo acquirente, nessuno andato in porto, l’attuale governo l’11 ottobre convoca i sindacati per comunicare loro il nuovo piano, che nei fatti è l’ammissione di essere in un vicolo cieco, anticamera della chiusura definitiva degli stabilimenti. Dopo le promesse fatte a luglio di avviare un piano industriale vero che prevedesse la costruzione di tre forni elettrici per la produzione dell’acciaio in sostituzione degli obsoleti altoforni e quindi garantisse l’effettiva decarbonizzazione del processo produttivo e il risanamento ambientale, il governo sostanzialmente ha fatto un passo indietro.


LA CASSA INTEGRAZIONE E LA RISTRUTTURAZIONE, DUE STORICHE ARMI DEL PADRONATO

Il nuovo piano presentato prevede infatti dal 15 novembre l’incremento del ricorso alla cassa integrazione, che passerà da 4.550 a circa 5.700 unità con integrazione del reddito. Nel frattempo, saranno avviate opere di manutenzione agli altoforni e dal 1° gennaio, con la fermata delle batterie di cokefazione, si arriverà a 6 mila unità in cassa integrazione. Sarà dunque avviato un nuovo piano operativo a “ciclo corto”, che comporta una rimodulazione dell’assetto produttivo del complesso aziendale. Questo significa che sarà mantenuta solo la produzione necessaria per il pagamento delle spese correnti e che quanto prodotto verrà immediatamente venduto, anziché essere inviato agli altri stabilimenti del gruppo a Genova, Novi Ligure e Racconigi, portando nei fatti migliaia di lavoratori verso la cassa integrazione e in prospettiva futura alla perdita del posto di lavoro.

Di fronte a questa situazione, FIOM, FIM e UILM hanno proclamato 24 ore di sciopero, con forti proteste e presìdi da parte dei lavoratori, che hanno anche bloccato strade ed autostrade, specie nel capoluogo ligure; intenzionati a indurre il governo a fare marcia indietro. E così, almeno in parte, è avvenuto: il Consiglio dei ministri ha infatti approvato un decreto legge che sblocca nuovi fondi per assicurare per alcuni mesi la continuità della produzione negli stabilimenti dell’ex Ilva di Taranto e, a cascata, di tutti gli altri stabilimenti d’Italia. Nel decreto legge, non ancora pubblicato, il governo autorizza Acciaierie d’Italia a utilizzare 108 milioni di euro fino a febbraio 2026 per garantire le attività produttive. Inoltre, vengono stanziati altri 20 milioni di euro per integrare fino al 75 per cento il trattamento della cassa integrazione straordinaria, sostenuta finora da Acciaierie d’Italia.

I decreti cosiddetti “salva-Ilva” non sono una novità: i governi di varie maggioranze ne hanno emanati parecchi da quando l’azienda è stata sequestrata e poi messa in amministrazione straordinaria, per consentire all’impianto di continuare a lavorare. È questo il motivo per cui l’impianto, che il governo vorrebbe vendere tra molte difficoltà, esiste ancora. Infine, il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha convocato per il 28 novembre un incontro sul futuro degli stabilimenti dell’ex Ilva nel Nord Italia (quelli di Genova, Novi Ligure e Racconigi), come richiesto dai sindacati.


SOLO I LAVORATORI POTRANNO SALVARE GLI STABILIMENTI EX ILVA

La pronta protesta dei lavoratori ha dunque scongiurato, almeno per il momento, la chiusura degli stabilimenti, ma fino a quando? Di fronte ad una situazione che definire drammatica è riduttivo, i lavoratori devono smettere di appellarsi unicamente all’intervento del governo. Le intenzioni di quest’ultimo sono chiare: vendere il prima possibile gli stabilimenti ex Ilva ad uno nuovo acquirente, che mai si sobbarcherà per intero la ristrutturazione e la bonifica degli impianti. E qualora venisse individuato, la prima delle richieste sarebbe quella di ridurre il personale per contenere i costi.

Altrove in Europa, come in Germania, Svezia e Finlandia, sono in atto processi di riconversione degli impianti produttivi per passare dalla tecnologia degli altoforni, ormai obsoleta ed inquinante, a quella dei forni elettrici, con riassorbimento dell’intera manodopera, impiegandola in quelle attività di preparazione della materia prima necessaria per i nuovi cicli produttivi o nella logistica. Il tutto avviene però in aziende a partecipazione statale e con l’impiego di grandi investimenti pubblici. In Italia questa strada è percorribile? A ben vedere le intenzioni del governo sembra di no. E poi in un’economia che sempre di più diventa economia di guerra con ingenti spese negli armamenti, le possibilità di un intervento dello Stato si riducono sempre di più.

E dunque che fare? I lavoratori hanno un’unica possibilità che è quella di mettersi in lotta permanente, con uno sciopero prolungato che sfoci nella nazionalizzazione sotto controllo operaio di tutti gli stabilimenti. Nazionalizzazione che deve garantire la piena riconversione e bonifica di tutti gli impianti e il riassorbimento completo di tutta la manodopera in forza all’azienda. La lotta deve però vedere i lavoratori di tutti gli stabilimenti uniti nello stesso intento.
Sbagliatissima la dichiarazione del delegato FIOM dell’ex Ilva di Genova, storico dirigente di Lotta Comunista, quando dice che «se Taranto affonda, noi non vogliamo affondare con loro». Un delegato sindacale non può pronunciare parole di questo tipo.

Un’organizzazione sindacale non deve limitarsi a “coltivare il proprio orticello”; deve invece sempre porsi in difesa di tutti i lavoratori, senza distinzioni geografiche o di altro tipo.
I lavoratori uniti devono quindi battersi per la costituzione di consigli di fabbrica che consentano loro di organizzarsi e individuare le forme di lotta più idonee; per uno sciopero generale e unificato a oltranza (chiedendo la solidarietà di tutti i lavoratori dell’industria e non solo) per il conseguimento della nazionalizzazione dell’impresa sotto il loro controllo; per una cassa di resistenza nazionale che consenta uno sciopero di massa che veda anche l’occupazione di tutti gli stabilimenti ex Ilva in Italia, evitando così di cadere nella linea che l’allora segretario della FIOM Landini adottò nella lotta contro la chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese, ovvero della lotta stabilimento per stabilimento. Per la creazione di un coordinamento nazionale di tutte le fabbriche in lotta contro chiusure, delocalizzazioni e licenziamenti, diretto dai lavoratori e non dalle burocrazie sindacali.

Solo agendo in questo modo e prendendo in mano direttamente le redini della lotta i lavoratori hanno la possibilità di salvaguardare il loro posto di lavoro e il loro futuro.
Ma guardando più in profondità, la loro lotta, per quanto agguerrita, rischierebbe di rimanere un fatto isolato, se non venisse inserita in un percorso più generalizzato che metta in discussione l’attuale sistema capitalista, con tutto il suo apparato di sfruttamento ed impoverimento da parte della classe padronale ai danni dell’intero proletariato, per sostituirlo con una società governata finalmente dai lavoratori, il socialismo, senza più sfruttati e sfruttatori, dove diritti e vita dignitosa siano garantiti a tutto il proletariato mondiale.

Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione sindacale

Il piano trumputiniano per l'Ucraina

 


Trump consegna l'Ucraina a Putin, in un mercimonio tra grandi potenze

24 Novembre 2025

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Il piano di Trump per l'Ucraina ha la stessa impronta del piano Trump per la Palestina . Nel caso della Palestina si tratta di un protettorato coloniale sulla pelle del popolo palestinese e dei suoi diritti, al servizio di uno Stato coloniale genocida. Nel caso dell'Ucraina di un piano di resa nazionale all'imperialismo russo invasore, direttamente pattuito con quest'ultimo, sulla pelle del popolo invaso.

Al di là dei diversi contesti, si tratta della stessa logica di fondo. Donald Trump negozia cinicamente coi vincitori la resa dei vinti, nell'interesse dell'imperialismo americano e della sua nuova logica imperiale: l'America agli americani, a partire dal Venezuela; la Palestina ai sionisti con l'accordo dei regimi reazionari arabi, e col lasciapassare di Russia e Cina e la loro complice astensione all'Onu. In cambio la Russia si prenda quel che vuole in Ucraina dopo quasi quattro anni di invasione, in soluzione condominiale con gli USA. Il mercimonio tra imperialismi vecchi e nuovi sulla pelle di popoli invasi non potrebbe essere più spudorato.

I 28 punti del piano Trump sull'Ucraina sono eloquenti, non meno dei 20 punti del piano per Gaza. In entrambi i casi il piano fa capo a un Consiglio di pace presieduto da Trump. A Gaza Trump deve supervisionare il disarmo di Hamas e della Resistenza palestinese, l'ingresso di una forza multinazionale di occupazione, la grande torta della ricostruzione, le garanzie per lo Stato genocida sionista, la continuità della politica di terrore in Cisgiordania, la connivenza servile delle borghesie arabe. Russia e Cina non hanno posto veti a questo abominio, consentendo agli USA di presentare la propria pace come la “pace” delle Nazioni Unite, col mandato delle Nazioni Unite.

In Ucraina Trump vuole supervisionare il piano di resa e spartizione dell'Ucraina a vantaggio delle forze d'occupazione russe.

Consegna alle forze di occupazione russe non solo dei territori occupati con l'invasione ma anche dei territori non ancora conquistati, seppur “annessi”. Disarmo di metà della forza militare Ucraina, come Putin chiedeva insistentemente dal 2022. Cogestione russo-americana della ricostruzione dell'Ucraina, anche attraverso l'uso di cento miliardi di beni russi congelati, con gli USA che si accaparrano il 50% dei relativi profitti, un ulteriore fondo congiunto di investimento russo-americano con relativa spartizione degli utili tra i due paesi. Rientro della Russia nel G8 con accordo di cooperazione con gli Stati Uniti. Nei fatti, da ogni punto di vista, l'umiliazione di una nazione invasa al servizio dell'invasore, in cambio degli interessi americani.

Le elezioni in Ucraina entro cento giorni completano il quadro. Trump e Putin puntano a rimpiazzare Zelensky dopo averlo costretto all'umiliazione. Quanto alla cosiddetta garanzia offerta da Trump all'Ucraina circa la difesa da nuove aggressioni russe, è solo un pezzo di carta che serve a mascherare il contenuto vero del piano: la cessione dell'Ucraina all'area di influenza dell'imperialismo russo in cambio di un avvicinamento della Russia agli USA in termini sia di comuni interessi affaristici sia di relazioni globali (Artico in primis).

Trump punta a separare l'imperialismo russo dall'imperialismo cinese? Possibile, anzi probabile. Gli USA possono fornire a Mosca tecnologie digitali e intelligenza artificiale, La Russia può fornire a Washington materie prime necessarie per gran parte dello hardware tecnologico, rompendo la dipendenza occidentale dalle terre rare della Cina. Soprattutto, gli USA offrono alla Russia una via d'uscita dal rischio del vassallaggio verso la Cina.

Non sappiamo se questo disegno riuscirà: molti sono gli ostacoli e le contraddizioni. Ma sappiamo che, in ogni caso, l'Ucraina è oggi merce di scambio dell'operazione. Tutt'altro che un'operazione improvvisata. Lo stesso Putin ha dichiarato, senza essere smentito, che il negoziato sul piano Trump era iniziato tra Russia e USA già prima del famoso incontro in Alaska. Del resto, solo gli imbecilli potevano non vedere e capire la progressiva apertura dell'imperialismo americano all'imperialismo russo nel corso dell'ultimo anno. Purtroppo non erano pochi.

“Meglio la pace che la continuità della guerra”, “la pace prima di tutto”: una vasta schiera di commentatori, di diversa estrazione, da Marco Travaglio a buona parte della sinistra cosiddetta radicale, plaude al piano Trump, mischiando il realismo cinico di improvvisati esperti militari con l'esibizione di una vocazione gandhiana. Ma la pace di chi e per chi?

La pace di Gaza è la pace dei cimiteri, e la negazione dei diritti palestinesi, dopo due anni di genocidio. La pace che si propone all'Ucraina è la resa, a quattro anni di invasione, il saccheggio delle risorse nazionali, l'amputazione territoriale, la rinuncia all'autodifesa. Non sappiamo se il governo ucraino accetterà la capitolazione, cioè “la perdita della dignità”, o se la respingerà. Ma sappiamo e denunciamo la pace che gli viene proposta come un arbitrio delle grandi potenze, un ultimatum imposto con la forza del ricatto, dettato da ragioni imperiali. È scandaloso che organizzazioni che si dichiarano “comuniste” o anche solo “democratiche” possano addirittura applaudire questa lordura.

La verità è che tutte le idiozie propagate per quattro anni sulla cosiddetta “guerra per procura” degli Stati Uniti contro la Russia sono fatte a pezzi dalla realtà. Una realtà non solo diversa ma capovolta. Ieri e oggi. Nel 2022 la prima proposta USA all'Ucraina a due giorni dall'invasione russa fu di offrire a Zelensky una via di fuga. Fu solo la scelta della resistenza ucraina all'invasione a costringere gli USA a sostenerla, seppur col contagocce e mille limiti. Oggi è l'imperialismo USA a pugnalare l'Ucraina consegnandola alla Russia mani e piedi legati, e a concordare con la Russia una comune amministrazione delle sue spoglie. Un protettorato russo-americano in Ucraina, una “pace per procura”, imperialista.

Qui sta la vera responsabilità di Zelensky. Non quella di aver difeso l'Ucraina. Ma quella di aver puntato tutte le proprie carte sulla protezione americana e della UE, di aver nascosto agli occhi della popolazione ucraina, e innanzitutto della sua classe operaia, la vera natura dei vampiri imperialisti d'Occidente e della loro cosiddetta democrazia.

Di più: aver ceduto agli investitori occidentali aziende pubbliche, infrastrutture, terreni agricoli, materie prime sotto la pressione delle loro richieste ricattatorie. Aver regalato all'Unione Europea e alla borghesia ucraina la liberalizzazione dei licenziamenti, la compressione dei diritti sindacali, la limitazione del diritto di sciopero.

Tutto questo doveva servire nella propaganda di Zelensky a “modernizzare” il paese e difendere la patria. È invece servito solamente a demoralizzare i lavoratori, a fiaccare il morale della resistenza, a incoraggiare la rapina dei capitalisti, ad avvantaggiare l'invasione russa, sino all'annunciato “tradimento” americano. La corruzione degli ambienti di governo e dell'apparato statale ucraino è solo un risvolto fisiologico di queste politiche, in Ucraina come in Russia come ovunque. E oggi certo favorisce una volta di più il ricatto anti-Zelensky di Mosca e di Trump.

Si conferma dunque ancora una volta la posizione del nostro partito, della Lega Internazionale Socialista di cui siamo parte, della sua coraggiosa sezione ucraina. In questi quattro anni di guerra, i nostri compagni ucraini hanno combattuto su due fronti: contro l'invasione imperialista russa a difesa dei diritti nazionali dell'Ucraina, e al tempo stesso contro il governo borghese di Zelensky, a difesa dei lavoratori e delle lavoratrici, per una soluzione anticapitalista e socialista; per l'esproprio dell'oligarchia borghese ucraina, la cancellazione del debito estero, una milizia operaia e popolare per la difesa del paese.

Solo un governo dei lavoratori può realizzare queste misure, contro il piano russo-americano.

Partito Comunista dei Lavoratori

Il semaforo verde di Russia e Cina al piano coloniale di Trump

 


Il popolo palestinese non ha amici in alto ma solo in basso

19 Novembre 2025

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L'astensione di Russia e Cina nel Consiglio Generale dell'ONU sul piano Trump per la Palestina è densa di significato politico. L'astensione è la rinuncia a ogni potere di veto. La rinuncia al potere di veto significa che il piano coloniale americano avrà la copertura delle Nazioni Unite.

Un imperialismo USA che per due anni ha fatto scudo alla barbarie sionista anche col ricorso al proprio potere di veto in sede ONU ha ottenuto dagli imperialismi rivali non solo un sospirato lasciapassare ma la più alta copertura diplomatica. È ciò che Trump chiedeva. È ciò che Trump ha ottenuto.

La soluzione maschera un mercimonio negoziale tra interessi diversi.

La Cina non solo è un grande partner commerciale di Israele ma è impegnata nel negoziato globale con gli USA: sul piano commerciale, lungo la partita di scambio fra terre rare e dazi, e sul più ampio scenario degli equilibri mondiali, a partire dai mari dell'Asia. Il via libera di Pechino a Trump sarà messo sul piatto di questa bilancia negoziale.

La Russia, dal canto suo, non solo è il secondo partner politico dello Stato sionista dopo gli USA, ma punta a incassare le aperture di Trump nella partita ucraina e sul Mare Artico. Il semaforo verde al bonaparte di Washington chiede dunque contropartite su altri terreni.

Peraltro, sia l'imperialismo russo che l'imperialismo cinese sono interessati a buone relazioni con i regimi arabi, in particolare con le grandi monarchie del Golfo. E i regimi arabi avevano e hanno bisogno della copertura diplomatica ONU per imbarcarsi in una “forza internazionale di stabilizzazione” in Palestina a guida USA, con tutte le incognite e i rischi del caso, anche nel rapporto con le proprie opinioni pubbliche. Mosca e Pechino hanno garantito la copertura richiesta.

Ogni ipocrisia diplomatica si nutre naturalmente di tortuosità. Due giorni prima del clamoroso lasciapassare, la Russia aveva avanzato una propria proposta nel Consiglio di sicurezza che citava l'eterna bufala dei “due Stati per due popoli”. Lo scopo era quello di poter vantare l'inserimento successivo nella risoluzione ONU di un vaghissimo riferimento alla questione palestinese quale frutto della propria pressione. La verità è che le finzioni retoriche stanno a zero. Servono ai regimi arabi per mascherare la propria subordinazione all'imperialismo USA e al sionismo, così come servono a Russia e Cina per esibire benemerenze presso i regimi arabi. Ciò che conta materialmente è altro.

Il piano Trump può procedere con le spalle coperte, da una posizione più avanzata. Mentre lo Stato sionista prosegue la propria macelleria: a Gaza, ulteriormente smembrata dalle forze israeliane, dove continuano distruzione di case, deportazioni, fame; in Cisgiordania, dove prosegue l'azione terrorista di esercito e coloni contro i palestinesi.

Il genocidio, in altre forme, perdura. Il disarmo e la distruzione della resistenza palestinese restano l'obiettivo comune di Trump, dello Stato sionista, delle borghesie arabe, degli imperialismi europei. Quanto alla ANP , già da decenni sul libro paga di Israele, chiede solo di essere caricata a bordo dell'operazione con qualche patacca di riconoscimento formale, fosse pure a futura memoria.

Certo, non mancano le contraddizioni. Israele non vuole la presenza turca nella forza internazionale a guida americana che entrerà nella Striscia. I regimi arabi, Egitto e Giordania in testa, sono disponibili a fornire truppe di occupazione, ma vorrebbero prima che altri facessero il lavoro sporco di disarmare Hamas. I governi europei sono in prima fila per il business della ricostruzione ma non vorrebbero arrischiare truppe, offrendo in cambio l'addestramento all'estero di una futura polizia palestinese, magari attraverso i Carabinieri. Persino Trump, che pur si candida a presiedere il protettorato coloniale da lui stesso insediato, non vuole un coinvolgimento diretto di truppe statunitensi a Gaza, perché teme contraccolpi elettorali in caso di bare americane.

Insomma, tutte le forze dominanti vogliono incassare la propria parte del bottino finale del genocidio ma senza pagarne il prezzo. La pentola non trova il coperchio. Il copione è ancora in cerca di firma.

Ma in ogni caso emerge, tanto più oggi, una verità incontestabile: il popolo palestinese e la sua resistenza non hanno amici tra le potenze imperialiste vecchie e nuove, nella diplomazia truffaldina dell'ONU, presso i governi arabi, nelle cosiddette democrazie europee. I suoi possibili alleati stanno in basso, fra i popoli oppressi, nella classe lavoratrice, e innanzitutto in quella nuova generazione che in tutto il mondo si è mobilitata con la Palestina nel cuore.

Solo una rivoluzione cambia le cose. Vale per tutti. Vale a maggior ragione per il popolo palestinese e per le masse oppresse di tutto il Medio Oriente.

Partito Comunista dei Lavoratori

Sanchez esternalizza i migranti in Mauritania

 


Il modello Meloni fa scuola in Spagna

Il governo Sanchez gode di buona fama in Italia. Elly Schlein indica nel governo spagnolo un riferimento esemplare. Il Partito della Rifondazione Comunista e Potere al Popolo (Rifondazione soprattutto) presentano il governo Sanchez come prova del fatto che il coinvolgimento nel governo della sinistra cosiddetta radicale può produrre effetti benefici. La presenza in Italia di un governo Meloni offre spazio a questa rappresentazione per un naturale effetto di rimbalzo.

Se non che poi ci sono i fatti. Che hanno la testa dura.

Il governo spagnolo ha assunto la linea Meloni in fatto di politiche sull'immigrazione. In realtà non da oggi. Ma oggi in forma clamorosa. L'apertura di due centri di detenzione dei migranti in Mauritania riproduce esattamente il modello Meloni in Albania. La Spagna e la UE hanno pagato al governo del generale Mohamed Ould El Ghazouani i costi dell'operazione. Un'agenzia di cooperazione che fa capo al ministero degli Esteri madrileno ha gestito in prima persona l'intera faccenda. Si tratta della classica operazione di “trattenimento” dei migranti, di esternalizzazione delle frontiere.

Per tutto il 2025, con l'attiva partecipazione di 80 agenti spagnoli, la polizia della Mauritania ha moltiplicato le retate contro i migranti. Le associazioni dei diritti umani raccontano della loro detenzione inumana, del sequestro di tutti i loro beni, e persino in qualche caso del loro abbandono in una zona desertica ai confini del Mali. L'inchiesta della Fundación porCausa, pubblicata dal quotidiano El Salto, non lascia spazio a dubbi. I dati riportati non sono stati smentiti, e sono impietosi.

In realtà la Spagna già disponeva di centri di detenzione di migranti opportunamente delocalizzati, come quelli realizzati alle Canarie. Ma i due centri aperti ora in Mauritania sono peggio: possono ospitare anche minori, persino neonati. Ciò che formalmente è vietato dalla legge spagnola.

In Spagna la vicenda ha fatto scandalo. La sinistra spagnola cosiddetta radicale, coinvolta in varie forme nel governo Sanchez, ha denunciato “l'attuazione del modello Meloni” con tanto di interrogazione parlamentare e richiesta di chiusura dei due centri. Ma non risulta abbia tratto conseguenze politiche dall'accaduto. E nessuna interrogazione cancella in quanto tale un'oggettiva corresponsabilità politica di governo.

Attendiamo di conoscere il punto di vista della sinistra cosiddetta radicale in Italia. È vero che nei governi Prodi Rifondazione accettò di peggio, anche in fatto di immigrazione (dai centri di detenzione Turco-Napolitano all'affondamento nel 1997 di una nave di migranti albanesi nel Mare di Otranto, con cento morti in fondo al mare). Ma non è una buona ragione per tacere. Tanto più se si intende tornare nell'ovile del centrosinistra.

Partito Comunista dei Lavoratori

Contro il foglio di via ad Hannoun e contro gli arresti di Mimì, Dario e Bocconcino!

 


Giù le mani dalla solidarietà con la Palestina!

La giornata di ieri è stata contrassegnata da una serie di attacchi al movimento di solidarietà con il popolo palestinese.
Il presidente dell’Associazione Palestinesi in Italia, Mohammad Hannoun, è stato colpito dal foglio di via per un anno dalla città di Milano. Un chiaro tentativo di colpire il movimento in una città dove, sin dai giorni successivi al 7 ottobre 2023, non c’è stata una settimana senza almeno un corteo o un presidio in solidarietà con la Palestina.
A Napoli, invece, fuori dalla Mostra d’Oltremare, mentre si teneva un presidio di protesta contro un evento della Teva, azienda farmaceutica israeliana, le forze dell’ordine hanno caricato le compagne e i compagni presenti arrestando Mimì, Dario e Bocconcino, militanti del SICobas e del Movimento disoccupati 7 novembre.

Le misure repressive di ieri si pongono in totale continuità con il DL Sicurezza, con il DDL Gasparri, che vuole colpire il movimento nelle scuole e nelle università, ma soprattutto con l’ingiusta detenzione con l’accusa di terrorismo di Anan Yaeesh, che si protrae da inizio 2024 e che gli sta facendo vivere un’odissea giudiziaria insieme ad altri due palestinesi, Ali Irar e Mansour Doghmosh da quasi due anni.

Alle compagne e compagni, e ai palestinesi colpiti da misure repressive, tributo dell’imperialismo tricolore all’entità sionista, la nostra incondizionata solidarietà.

No al DL Sicurezza e al DDL Gasparri!
No al protettorato neo coloniale previsto dal Piano Trump-Blair-Netanyahu!
Per la piana autodeterminazione del popolo palestinese!
Per il diritto del ritorno dei palestinesi nella propria terra!
Per una Palestina unita dal fiume al mare, libera dal sionismo, dall'imperialismo, da ogni forma di
colonialismo!
Per una Palestina laica e socialista, in un Medio Oriente socialista!

Partito Comunista dei Lavoratori