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No al piano coloniale Trump-Netanyahu
Per la continuità della mobilitazione unitaria contro il sionismo e l'imperialismo 15 Ottobre 2025 L'universo politico mediatico a...
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L'accusa di antisemitismo: una clava contro il movimento
No al ddl Gasparri!
La lotta del popolo palestinese, che oggi non deve arretrare ma resistere al piano coloniale di Trump, una battaglia fondamentale l’ha già vinta: la battaglia per la conquista del cuore delle masse.
Movimenti enormi di solidarietà con la lotta di liberazione palestinese hanno attraversato i cinque continenti, dagli USA all’Europa, dall’Asia al Sud America, dall’Africa all’Australia.
In Italia, dopo due anni di mobilitazioni forse di tenore inferiore a quelle di altri paesi europei, si è avuta un’autentica esplosione della partecipazione di massa nelle giornate dal 22 settembre al 4 ottobre, quando milioni di persone sono scese in piazza per mostrare la propria vicinanza al popolo palestinese e la propria solidarietà all’impresa della Global Sumud Flotilla.
Un’immensa partecipazione caratterizzata soprattutto dalla presenza di giovani e giovanissim3, studenti medi e universitari, e da ultimo anche da una crescente componente di classe lavoratrice.
Si è trattato di un autentico salto di qualità nella mobilitazione, un movimento che fa paura al governo e che incontra i favori dei sondaggi. Un movimento politico oltre che umanitario che denuncia la complicità del governo italiano nel genocidio di Gaza, che condanna la ferocia disumana e il razzismo dell’ideologia sionista, e che canta nelle strade la liberazione della Palestina dal fiume al mare.
Mai come oggi l’immagine di Israele è gettata nella polvere, la sua propaganda non creduta e derisa, i suoi atti criminosi denunciati con forza ad ogni livello della società, dai lavoratori, dagli studenti, dagli intellettuali e dagli artisti.
L’entità sionista è costretta a reagire come un animale ferito, e allora lancia ad ogni latitudine geografica, politica e culturale, come un disco rotto, la litania dell’accusa infamante: antisemita.
L’accusa è infame perché rivolta non contro i depositari storici dell’antisemitismo, quell’estrema destra i cui eredi oggi in grande maggioranza in Europa appoggiano il sionismo, ma contro il grande movimento di solidarietà con il popolo palestinese, proprio quando questo denuncia il più grave genocidio del XXI secolo.
Accusare di antisemitismo chi si oppone allo sterminio è ridicolo e volgare. Nondimeno però è un’arma in mano a governi complici che tentano di reprimere la mobilitazione di massa, come Germania, Francia, Inghilterra e ovviamente… l’Italia.
Alcuni esponenti del governo italiano sono intenti ad usare l’accusa di antisemitismo come una clava per colpire la mobilitazione crescente. Nelle università, nelle scuole, negli enti culturali è in corso una lotta accanita per denunciare ogni forma di collaborazione con lo stato genocidario di Israele. Gli esponenti filosionisti sono travolti, e non sanno più quali argomentazioni utilizzare per giustificare la propria collaborazione. Allora per questo viene utile la vecchia e sempre verde accusa di antisemitismo.
Vogliamo precisare che non è possibile sottovalutare il rigurgito di sentimenti antisemiti, ma essi sono in massima parte da imputare agli atti criminali commessi da Israele, la più grande fonte di antisemitismo.
Per propalare questa grande menzogna, dunque, non bastano più la grande stampa ossequiosa con il governo e con i sionisti, non è più sufficiente la propaganda e la repressione ordinaria da parte delle forze di polizia. Per questo è necessario approntare uno strumento nuovo, più adeguato alla bisogna. In altre parole, uno strumento legale con cui armare la repressione.
Il ddl (disegno di legge) Gasparri si incarica di dare soddisfazione a questa necessità. Non è l’unico ad essere in discussione al Senato, ma è quello più avanzato in tal senso.
Tale ddl così riporta nelle premesse; «…i focolai di antisemitismo già presenti in tutta Europa (documentati per l'Italia dal CDEC e dall'Eurispes) si sono estesi e propagati sotto la veste di antisionismo, dell'odio contro lo Stato ebraico e del suo diritto a esistere e difendersi».
L’antisemitismo è connesso all’antisionismo, tanto che:
«Il comma 2 prevede l'istituzione, presso le scuole di ogni ordine e grado, di corsi annuali di formazione per studenti sull'antisemitismo e sull'antisionismo».
Il che comporta l’indottrinamento studentesco nei confronti dell’adesione al regime israeliano e alla giustificazione dei suoi crimini.
Art.2 comma 2: «…Il Ministro dell'istruzione e del merito istituisce, presso le scuole di ogni ordine e grado, corsi annuali di formazione rivolti agli studenti, al fine di favorire il dialogo tra generazioni, culture e religioni diverse, e di contrastare le manifestazioni di antisemitismo, incluso l'antisionismo» (sottolineature nostre).
Non manca l’invito alla delazione, soprattutto di insegnanti e professori universitari. Ma ciò che è più importante è che la pena stabilita dal codice penale si deve applicare come recita l’art. 4 comma:
«La stessa pena si applica qualora la propaganda, l'istigazione o l'incitamento si fondano, in tutto o in parte, sull'ostilità, sull'avversione, sulla denigrazione, sulla discriminazione, sulla lotta o sulla violenza contro gli ebrei, i loro beni e pertinenze, anche di carattere religioso o culturale, nonché sulla negazione della Shoah o del diritto all'esistenza dello Stato di Israele o sulla sua distruzione» (sottolineature nostre).
È evidente che questo dispositivo normativo ha l’obiettivo di abbattersi come una scure contro le masse soprattutto giovanili che hanno alimentato le grandiose mobilitazioni delle settimane scorse. In quelle manifestazioni, fra gli slogan più recitati vi erano proprio quelli che dimostravano l’ostilità al sionismo, un’ideologia politica suprematista e razzista, che ha giustificato negli ultimi 77 anni l’occupazione coloniale delle terre e delle città dei palestinesi, con il corredo di massacri e pulizia etnica. Un’ideologia che ha interessato solo parte dei popoli ebraici, e sostanzialmente la parte più reazionaria e violenta. La parte più progressista e socialista, maggioritaria negli anni ’20 e ‘30 in Polonia, era rappresentata dal partito più grande di matrice ebraica, il Bund (Unione di Lotta dei Lavoratori Ebrei), e avversava il sionismo, definito come “un movimento reazionario capitalista e colonialista al servizio dell’imperialismo”.
La maggioranza dei combattenti dell’insurrezione del ghetto di Varsavia apparteneva in effetti al Bund, compreso il suo eroico comandante militare Marek Edelman, che si rifiutò sempre di andare in Israele e che nel 2002 espresse la sua solidarietà alle organizzazioni combattenti palestinesi.
È assolutamente risibile che, se fosse stata in vigore una legge analoga a quella voluta da Gasparri, il Bund, la maggioranza yiddish del popolo ebraico europeo e il comandante dell’insurrezione del ghetto di Varsavia sarebbero stati perseguibili a norma di legge!
Anche in ossequio a questa grande tradizione dei popoli ebraici, che ha fornito al movimento rivoluzionario comunista degli anni ’20 alcune tra le menti più luminose, non si può che riaffermare la lotta irriducibile al sionismo e la necessità, per i popoli del Medio Oriente e dell’umanità intera, della sua sconfitta definitiva.
Un altro grande slogan ha connotato le mobilitazioni in Italia e nel mondo tanto da essere gridato da moltitudini di persone di ogni età: “Palestina libera dal fiume al mare”.
Questo slogan ha un significato molto preciso, vuole intendere la liberazione della Palestina storica, ciò che implica la distruzione dello stato di Israele.
Questa rivendicazione elementare, ma potentemente espressa da centinaia di migliaia di cittadini, che vuole sostenere il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, è frutto del diritto a esprimere il proprio pensiero, ma secondo Gasparri dovrebbe essere semplicemente sottoposta a censura pena la possibilità di finire in carcere.
È il caso di dire che il lupo perde il pelo ma non il vizio parafascista di istituire reati d’opinione del tutto antidemocratici.
In conclusione, il Partito Comunista dei Lavoratori, erede dell’unica tradizione politica che si è sempre opposta all’esistenza di Israele, difende il diritto del movimento per la Palestina ad esprimere il proprio pensiero e a scendere in piazza per manifestarlo, rifiuta ogni forma di intimidazione nella sua lotta contro il sionismo e invita a proseguire con più forza la mobilitazione contro il piano coloniale di Trump; l’unica mobilitazione che è in grado di rendere inapplicabile e far crollare questo disposto normativo.
Quali che siano le leggi della borghesia filosionista, il Partito Comunista dei Lavoratori ribadisce:
Lo Stato sionista dell’apartheid coloniale non può essere riformato, ma va distrutto.
Per una Palestina unita, laica e socialista (con il ritorno incondizionato dei profughi palestinesi e con i diritti di minoranza nazionale per gli ebrei, ad eccezione dei coloni fascisti e nazisti da espellere).
Per una Repubblica araba socialista unita.
Partito Comunista dei Lavoratori
Palestina, Sudan, Congo, Yemen e benaltrismo
Reazionari più o meno dichiarati, liberali eternamente a caccia di una mitologica posizione super partes, socialdemocratici terrorizzati all’idea di essere scambiati per “estremisti”, qualunquisti dalla lingua lunga e cialtroni d’ogni specie: da anni ci propinano castronerie tanto abominevoli che non ci siamo fatti mancare pressoché nulla in fatto di chiacchiere revisioniste, giustificazioniste e negazioniste.
Una delle forme più deleterie e insidiose assunte da queste assurdità rivolte contro il movimento per la liberazione della Palestina è il benaltrismo - spesso annunciato da una solerte alzata di mani e dal fatidico annuncio “io sono d’accordo con l’obiettivo della protesta, ma”, che prelude inevitabilmente futili argomentazioni il cui scopo è normalizzare la strage di massa e il colonialismo criminale in Palestina. Perché se si è d’accordo nel condannare un genocidio, non si dovrebbe percepire la necessità di citarne un altro paio con la manifesta intenzione di portare la discussione fuori strada.
Ed ecco che stanno prendendo piede i lamentevoli “ma due scioperi per la Palestina in dieci giorni sono troppi”, come se l’atroce attacco alla dignità umana che sta avvenendo in Palestina valesse meno di un paio di giornate di mobilitazione generale. Solitamente viene in coppia con l’immancabile “perché non si sciopera per il prezzo degli alimenti, per i costi dell’energia, per i diritti dei lavoratori, per la sanità?” e via discorrendo.
Al di là della povertà logica intrinseca di queste assunzioni - basti ricordare che la maggior parte degli scioperi locali e nazionali degli ultimi vent’anni riguardavano proprio il lavoro, la sanità e i diritti sociali - va chiarito che queste rivendicazioni non sono e non devono essere affatto alternative alla lotta per la Palestina, ma sono complementari. Proprio sfruttando la forza e lo slancio delle ampie mobilitazioni per l’autodeterminazione dei palestinesi e contro i crimini del colonialismo sionista si può sviluppare un discorso più vasto, capace di includere anche la liberazione del proletariato di questo e altri Paesi.
Unire la lotta per la Palestina a quella contro i governi borghesi complici del sionismo – come il governo Meloni, giustamente nel mirino delle manifestazioni delle ultime settimane – valorizzerebbe tutte le battaglie progressiste del momento. La caduta di un governo reazionario come quello italiano potrebbe rappresentare una grande opportunità storica: spezzare l’asse di sostegno europeo a Israele e creare nuove opportunità e spazi per rilanciare altre cause e mobilitazioni.
Ma lo slogan più infame, più ipocrita, che cerca di colpire direttamente la coscienza sociale di chi scende in piazza, è quello che prende in causa il Congo, il Sudan e lo Yemen. Un profluvio di “E allora il Congo? Da lì vengono i vostri telefonini!”.
La prima domanda che sorge spontanea è: cosa diavolo hanno mai fatto questi individui per il Congo, lo Yemen e il Sudan? Niente. E per gli altri conflitti nel mondo? Hanno forse levato la loro voce quando il Nagorno-Karabakh è stato invaso dal regime cripto-fascista dell’Azerbaigian? Hanno denunciato il massacro del popolo del Tigray? Si sono preoccupati delle lotte dei nativi delle Americhe, dell’Australia o della Nuova Zelanda? Hanno mai espresso solidarietà al Kashmir martoriato? Le probabilità che se ne siano occupati sono prossime allo zero: chiacchiere, senza nemmeno il distintivo.
Chi scrive ha visto, non a caso, per la prima volta sventolare i vessilli del Congo, del Sudan, dello Yemen e di altri popoli proprio nelle recenti manifestazioni. Ed è naturale, perché il movimento per la Palestina - almeno nella sua parte più cosciente - è sinceramente internazionalista e ricettivo alle istanze di autodeterminazione dei popoli del mondo. Quindi, anziché lagnarsi che non ci si occupa abbastanza di queste cause, sarebbe il caso di portarle nel movimento internazionale per la Palestina (come già alcune realtà fanno), per contribuire a cementificare il suo spirito anticolonialista ed estendere la lotta internazionale allo sfruttamento capitalista. Ma ovviamente è più comodo usarle come paravento per schermare la propria inerzia, per squalificare ignobilmente un popolo in lotta contro il suo annientamento e per autoassolversi. Ma ciò che conta ancora di più è la connessione che queste lotte hanno con quella palestinese. Perché i crimini del sionismo si estendono si limitano al Medio Oriente. Il Sudan, per esempio, è uno dei Paesi arabi (in realtà, almeno il 30% della popolazione appartiene a diverse nazionalità minorizzate presenti in regioni come il Darfur) che, con la mediazione degli Stati Uniti, ha normalizzato i propri rapporti con Israele nel 2020, ottenendo in cambio di essere depennato dalla lista statunitense dei Paesi che “sponsorizzano il terrorismo” (ci sono comunque dei discutibili precedenti: dal 2005 afferma la legittimità dell’occupazione marocchina del Sahara Occidentale).
Le forze paramilitari arabe e reazionarie sudanesi (le Rapid Support Forces, composte perlopiù dai fanatici criminali Janjawid) sono responsabili della strage sistematica di appartenenti a minoranze come i Masalit, gli Zaghawa e i Fur, di crimini contro i migranti ammassati sulla frontiera con la Libia e dell’assassinio degli oppositori politici sono le stesse che hanno appoggiato buona parte dei governi militari susseguitisi in patria e le forze filo-saudite in Yemen (combattendo, di conseguenza, quelle antisioniste come gli Houthi e affiancandosi ai fascisti russi della Wagner). Ora sono tra i protagonisti della guerra civile e in aperto conflitto con lo Stato centrale, perché fanno parte di uno dei gruppi di potere in lotta per governare il Paese (lo scontro è principalmente tra fazioni rivali di militari e sotto l’influenza delle potenze imperialiste).
Israele, dall’aprile del 2023, è impegnato tramite i suoi agenti nell’opera di mediazione tra le due principali fazioni militari, ma non certo per amore della “pace”: al Mossad e agli ufficiali israeliani non importa nulla delle masse sudanesi oppresse e quello che vogliono tutelare è la completa normalizzazione dei rapporti tra Stato sionista e Sudan, considerato uno Stato da sfruttare per espandere gli interessi sionisti in Africa.
Ma passiamo allo Yemen. È stato bombardato da Israele utilizzando a pretesto i missili lanciati dagli Houthi in sostegno alla resistenza palestinese. Lo scopo reale è quello di scoraggiare e scardinare qualsiasi tentativo di mettere in discussione la supremazia israeliana nella regione.
I dispotici governi yemeniti susseguitisi dopo la riunificazione post-guerra fredda si sono caratterizzati per il loro allineamento agli interessi imperialisti (e di conseguenza anche di Israele), che sono intervenuti nella guerra civile con una coalizione guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, composta anche da Kuwait, Qatar, Marocco, Bahrein, Giordania, Egitto e vari gruppi di mercenari e con il decisivo supporto di Regno Unito, Stati Uniti e Francia. Anche in questo caso la responsabilità dell’orrenda catastrofe umanitaria è degli alleati imperialisti del sionismo e di alcuni degli Stati arabi più propensi a normalizzare i rapporti con Israele (non manca neppure il beneplacito di potenze come la Cina).
In Congo è in corso un’orribile guerra civile, che ha visto la partecipazione anche del Ruanda (ha invaso il paese nel 1996 e nel 1998) e dell’Uganda. Israele ha una parte attiva nella rovina del Paese: ha appoggiato il regime reazionario di Mobutu Sese Seko, fornendo anche addestramento ed equipaggiamento militare alle truppe scelte del despota, e anche oggi intrattiene rapporti stretti con le élite congolesi, che ricambiano l’interesse appoggiando diplomaticamente Tel Aviv e Trump.
Sono diversi i miliardari israeliani impegnati nell’appropriazione indebita delle risorse congolesi: parte del ricavato viene investito in nuove colonie in Palestina e nelle forze armate israeliane. Lo Stato sionista è tra i primi esportatori di diamanti nel mondo (oltre il 12% delle sue esportazioni sono “gemme e metalli preziosi”), pur non possedendo giacimenti da cui attingere sul suo territorio, e formalmente, gli israeliani non possiedono giacimenti minerari nemmeno in Congo. Eppure, grazie alla corruzione, all’appropriazione indebita, alle facilitazioni fiscali e al traffico di armi, sono in grado di appropriarsi di ingenti introiti proprio grazie allo sfruttamento di queste terre.
Tra i “danarosi” protagonisti del traffico troviamo Lev Leviev, un israelo-russo arricchitosi dopo aver acquistato alcune industrie diamantifere nell’ormai collassata Unione Sovietica, ex militare dell’IDF e proprietario della compagnia internazionale Africa Israel Investments. Vicino a Putin e Trump, è stato accusato di aver smerciato diamanti sporchi di sangue in Israele e di aver utilizzato i ricavati per finanziare gli insediamenti sionisti in Cisgiordania tramite l’Israel Land Fund. Un altro è Benny Steinmetz, franco-israeliano: arrestato nel 2023 a Cipro, è tra le altre cose sotto accusa per corruzione e traffici illegali nel settore minerario in Africa e, infatti, la sua compagnia (BSG Resources) è impegnata nell’espropriazione delle risorse naturali congolesi.
Dan Gertler, invece, ha stipulato diversi contratti con il governo congolese: i suoi rapporti con l’allora presidente del Congo Kabila (conosciuto per la repressione violenta delle contestazioni di piazza, la corruzione e la violazione sistematica dei diritti umani; Gertler e la sua compagnia sono accusati di essere suoi complici) gli hanno permesso di dedicarsi all’estrazione dei diamanti tramite la sua International Diamond Industries (secondo questi contratti, che stabiliscono un truffaldino partenariato tra settore privato e statale, il 70% dei profitti derivanti dall’estrazione vanno al Gertler Group, mentre soltanto il 30% finisce delle mani del governo congolese).
Israele fornisce, inoltre, anche le sue avanzate tecnologie di spionaggio al Ruanda, il principale responsabile della catastrofe umanitaria in Congo, che le utilizza per spiare oppositori e attivisti congolesi. Non a caso, Uganda e Ruanda sono partner molto stretti del regime sionista e sono conosciuti anche per il traffico illecito di diamanti congolesi: Israele è uno dei principali beneficiari di questa pratica.
Ma facciamo un passo indietro. Tra chi è stato accusato di ignorare la maggioranza dei conflitti nel mondo ci sono anche i partecipanti alla Global Sumud Flotilla. Ma è assurdo, e il caso di Greta Thunberg è emblematico: negli ultimi anni ha incontrato e solidarizzato con i rifugiati dell'Artsakh (Nagorno-Karabakh), ha contestato il baraccone e il greenwashing promosso dalla COP 29 a Baku e ha visitato e sostenuto i rifugiati saharawi. Il valore internazionalista e solidale di queste azioni è innegabile. E ciò, a grandi linee, vale anche per gli altri partecipanti alla Global Sumud Flotilla: attivisti, medici, volontari, militanti politici che da anni e anni sono protagonisti delle più disparate lotte e si sono spesso occupati dei conflitti più remoti.
Ergo, no, il supporto alla Palestina non è una battaglia “glamour”: è un nodo fondamentale nel tessuto dei crimini imperialisti. Un nodo che se sciolto può contribuire al rilancio di un’idea di mondo, di società e di rapporti internazionali completamente diversa.
È una "moda"? Al di là dei ragionevoli dubbi sulla credibilità di questa accusa e sulla sua razionalità, cosa si può rispondere? Magari. Magari tutto il proletariato si unisse scosso dalla tragedia palestinese. Magari la gioventù e tutti i popoli oppressi del mondo invadessero le strade delle città al grido di “Palestina libera”. Magari divenisse un fenomeno in voga il desiderio di rivalsa contro il sistema banditesco responsabile del sionismo, dello sfruttamento e della discriminazione in tutte le sue forme. Diventassero di moda il marxismo e l'anticapitalismo conseguente, dovremmo forse lamentarcene?
Alessio Ecoretti
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20 Ottobre 2025
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In questo numero:
Editoriale. Per un autunno di vera svolta - Marco Ferrando
Espropriare gli espropriatori. Convertire la conversione - Mauro Penoncelli
Il movimento No Ponte sullo Stretto non si ferma - Daniele Gravotta
Flotilla: per una virata a sinistra - Alessandra Giorgi
Quarantacinque anni fa, i 35 giorni della FIAT - Diego Pace
GKN e Le Radici del sindacato - Lorenzo Mortara
A cinquant'anni dalla presa di Saigon. Cosa fu e cosa resta della lotta antimperialista del popolo vietnamita (seconda parte) - Natale Azzaretto
La resa ingloriosa del PKK - Mario Georgiano
...e poi Palestina, il vertice di Anchorage, la rivoluzione portoghese del 1975, Venezuela e altro ancora
Per una Palestina libera dal fiume al mare. No all'ingannevole accordo di Trump e Israele
21 Ottobre 2025
La massiccia e crescente mobilitazione e lo spostamento della maggioranza dell’opinione pubblica mondiale a favore del popolo palestinese e contro il genocidio dello Stato sionista di Israele hanno accelerato gli sforzi dell’imperialismo per ottenere una nuova e precaria tregua, il cui obiettivo è smantellare tale mobilitazione internazionale e fornire al sionismo nuovi mezzi; tregua basata su un patto controrivoluzionario con la leadership palestinese.
Comprendiamo e condividiamo il conforto della popolazione di Gaza per la cessazione dei bombardamenti quotidiani durati per due anni e per la possibile fine dell’assedio criminale, che l’ha sottoposta a una inesorabile crisi umanitaria. Ma dobbiamo essere onesti: questo non significa una vittoria della resistenza palestinese, come affermano erroneamente varie organizzazioni. La realtà è molto più complessa.
Questa tregua è in parte il risultato della straordinaria mobilitazione globale, così come del pericolo che la situazione di Gaza diventasse imprevedibile. Ma l’accordo parallelo che Hamas e Israele hanno firmato è stato negoziato alle condizioni imposte dagli Stati Uniti. I suoi 20 punti, se si concretizzassero, rappresenterebbero un arretramento per la lotta per l’emancipazione della Palestina. Questo accordo, in sostanza, propone alla Palestina di accettare di sottomettersi all’imperialismo e di legittimare l’occupazione sionista.
Per raggiungere questo accordo, le potenze imperialiste hanno contato sulla collaborazione diretta del Qatar, dell’Egitto e della Turchia, e sulla celebrazione complice dell’intera borghesia occidentale, delle autocrazie arabe e persino della Russia e della Cina.
L’accordo, se l’imperialismo riuscisse a impedirne il fallimento prima che si raggiunga la sua seconda fase, oltre al rilascio degli ostaggi israeliani e dei prigionieri palestinesi, che è già in via di definizione, propone la trasformazione di Gaza in un protettorato statunitense sotto la tutela di un governo fantoccio guidato da Donald Trump e Tony Blair.
Non richiede che Israele ritiri completamente le sue truppe da Gaza né che ponga fine alla sua avanzata coloniale in Cisgiordania. Richiede però che Hamas si disarmi e non ostacoli né la formazione di un nuovo governo di tecnocrati palestinesi “apolitici” e di “esperti internazionali” né l’istituzione di una forza militare straniera che assumerebbe il controllo della Striscia.
La risposta genocida del sionismo alle azioni di Hamas del 7 ottobre ha scatenato una mobilitazione internazionale a favore della Palestina ben oltre qualsiasi mobilitazione precedente. Il processo si è esteso ben oltre il suo epicentro storico nei settori di sinistra, esplodendo nei principali paesi imperialisti del mondo. È stato massiccio negli Stati Uniti, con accampamenti in varie università e in significativi settori della comunità ebraica che si sono dissociati dal sionismo. Centinaia di migliaia e milioni hanno marciato in Australia e in Europa, nonostante il fatto che i maggiori sindacati e i partiti socialdemocratici nei paesi imperialisti si siano tenuti al margine di questo movimento o abbiano effettivamente continuato a sostenere Israele, e i regimi mediorientali (a eccezione degli houthi) abbiano impedito alla cosiddetta piazza araba di mobilitarsi per forzare il blocco di Gaza, contro i sionisti e gli stati occidentali che sostenevano il genocidio. In numerosi paesi imperialisti diverse organizzazioni palestinesi sono state vietate e migliaia di manifestanti sono stati criminalizzati o addirittura accusati di terrorismo. Ma nonostante tutto ciò, il movimento è cresciuto e lo sciopero generale recente e i blocchi portuali in Italia, in solidarietà con la Global Sumud Flottilla, hanno scosso il mondo e cominciato a servire da esempio.
È un dato di fatto che gli Stati Uniti e Israele, nonostante il complice sostegno dell’intera sovrastruttura capitalista, hanno perso la battaglia contro l’opinione pubblica mondiale. Questo è il risultato più significativo che la causa palestinese ha ottenuto. Israele non era mai stato prima nella storia così isolato a livello internazionale, né così soggetto a condanne e critiche.
Tuttavia, a due anni dal perpetrarsi del genocidio, il popolo palestinese non è in condizioni migliori rispetto a prima del 7 ottobre 2023. Gaza è stata distrutta e militarmente occupata dall’esercito sionista; sono state perse almeno 67.000 vite palestinesi, probabilmente molte di più, comprese quelle di 20.000 bambine e bambini; decine di migliaia sono rimasti feriti e mutilati. La Cisgiordania continua a perdere territorio a favore dei coloni sionisti e la vita a Gerusalemme Est è sempre più difficile.
L’azione di Hamas del 7 ottobre ha raggiunto il suo obiettivo immediato, ossia di interrompere il processo di “normalizzazione” delle relazioni tra Israele e i paesi arabi, note come Accordi di Abramo. Ma l’aspettativa di Hamas che il colpo inferto a Israele esercitasse sufficiente pressione per costringerlo a negoziare un accordo non si è concretizzata. Né si è verificata l’ipotesi che l’Iran avrebbe risposto con forza a una reazione smisurata di Israele. È divenuto chiaro che il regime dei mullah difende solo i propri interessi capitalisti e di casta. Anche i regimi arabi hanno fallito nel sostenere la Palestina, e stanno appoggiando l’accordo in corso, che cerca la resa della resistenza per tornare al percorso della “normalizzazione” delle relazioni con Israele e con l’imperialismo.
La scommessa sbagliata di Hamas ha portato al genocidio, alla distruzione e all’occupazione di Gaza, e ora a un patto pieno di concessioni, che ricorda quello firmato da Arafat a Oslo più di trent'anni fa. Non è un caso che, sotto la pressione delle mobilitazioni, diversi paesi, come Spagna e Regno Unito, abbiano riesumato il sogno dei due stati, che nell'accordo non è nemmeno menzionato come obiettivo.
Nessuno Stato palestinese è possibile fintanto che esisterà, sulle sue terre storiche, uno Stato coloniale, espansionista e genocida. È stato dimostrato che Israele non permetterà mai questo. Al contrario, il suo progetto strategico è la completa pulizia etnica del popolo palestinese e la costruzione di un “Grande Israele”, conquistando sempre più territori.
Per ottenere la pace, e perché essa sia duratura e giusta per il popolo palestinese e per tutti i popoli della regione, dobbiamo prima sconfiggere il mostro sionista e la sua continua espansione coloniale. Finché lo Stato terrorista di Israele, costruito col sangue e col fuoco dagli imperialisti, continuerà a esistere, l’unica “pace eterna” possibile sarà quella pronunciata nelle litanie funebri.
Solo la costruzione di una Palestina unita, libera, laica e socialista, dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, potrà permettere ai popoli della regione di vivere nuovamente in pace. Ma questa soluzione non verrà dalle mani del capitalismo arabo, né dai mullah iraniani, né attraverso patti con alcuna potenza imperialista. Potrà venire solo dalle masse lavoratrici arabe, qualora guidino una rivoluzione che rovesci i governi capitalistici del Medio Oriente, che sconfigga il mostro sionista e istituisca una federazione di repubbliche socialiste in tutta la regione.
Nel 1948, i nostri predecessori politici della Quarta Internazionale, l’unica organizzazione del movimento operaio mondiale che si oppose alla creazione dello Stato sionista, dichiararono:
«Grazie alla direzione borghese e feudale dei paesi arabi – agenti dell’imperialismo – siamo stati sconfitti in una fase della lotta contro l’imperialismo. Dobbiamo prepararci alla vittoria nella fase successiva, cioè all’unificazione della Palestina e di tutto il Medio Oriente, creando l’unica forza che può raggiungere questi obiettivi: il partito proletario rivoluzionario unificato del Medio Oriente».
Oggi come allora, questa è la strategia su cui scommettono coloro che hanno sottoscritto questa dichiarazione. Pertanto, ci impegniamo a promuovere, aiutare e costruire partiti rivoluzionari nella regione, ricompattando senza alcun settarismo i militanti combattivi che condividono questi obiettivi.
Lega Internazionale Socialista (LIS), Lega per la Quinta Internazionale (L5I)
Una legge finanziaria «al fianco di Confindustria» e delle banche
Contro la legge di stabilità del governo Meloni, per una vertenza generale. Dare agli studenti un riferimento operaio
«Questo governo è fieramente produttivista... Con Confindustria c'è sempre stato un dialogo franco e nel merito, e devo ringraziare di questo il presidente Orsini che è un combattente ma anche una persona pragmatica... Sono convinta che nel mondo produttivo italiano vi sia la piena consapevolezza di poter contare su un governo che è al loro fianco» (Giorgia Meloni, Il Sole 24 Ore, 18 ottobre).
«Bene che il governo abbia messo al centro della manovra le imprese e l'industria. Noi abbiamo sempre pensato a misure pensate su tre anni, perché è fondamentale avere una visione del Paese» (Emanuele Orsini, all'Assemblea degli industriali a Torino, 17 ottobre).
Le due dichiarazioni parallele non lasciano spazio al dubbio sulla natura della nuova Legge di Stabilità. Sulla sua impronta di classe.
Le imprese incassano otto miliardi di ulteriori agevolazioni fiscali dopo un'enorme abbuffata di profitti. Che si aggiungono alle passate regalie sull'IRES, e ai nuovi sussidi per la ZES (Zona Economica Speciale). Le banche, che hanno incassato nell'ultimo biennio più di cinquanta miliardi di utili netti, hanno la possibilità di scegliere se e quanto pagare allo Stato. Nel caso optino per sbloccare le proprie riserve patrimoniali a favore degli azionisti, pagheranno un'aliquota del 27,5% una tantum invece del 40%, con uno sgravio fiscale enorme. Nel caso non sblocchino le proprie riserve patrimoniali non pagheranno nulla, al di là di una minuscola aliquota IRAP maggiorata del 2% (dal 4,65% al 6,65%).
“Nessuna tassa sugli extraprofitti, il contributo è volontario” si è affrettato a rassicurare il governo. E così è. Una tassazione à la carte.
Gli undici miliardi di entrate da banche e assicurazioni indicate come copertura a bilancio sono dunque virtuali. Una variabile dipendente di scelte e calcoli dei banchieri. Che naturalmente scaricheranno sui correntisti i propri eventuali contributi fiscali “volontari”. E se per caso i contribuenti “volontari” non verseranno? Ci penserà il governo a colmare il buco con nuovi tagli sociali, a spese dei salariati e della popolazione povera.
Che il capitale finanziario sia la bussola di riferimento del governo emerge dall'impianto di fondo dell'intera manovra.
La manovra ruota infatti attorno all'obiettivo del rientro delle finanze pubbliche entro la soglia del 3% di deficit.
Perché la centralità di tale obiettivo? Perché è la condizione per superare la cosiddetta procedura d'infrazione dell'Unione Europea. E perché è fondamentale archiviare la procedura? Per due ragioni tra loro combinate. La prima, di natura generale, è garantire a futura memoria la piena solvibilità del debito pubblico italiano agli occhi degli acquirenti dei titoli di Stato (in larga misura banche, compagnie di assicurazione, fondi finanziari...): rassicurandoli sul fatto che potranno contare sulla regolarità del rimborso statale con relativi interessi (quasi cento miliardi ogni anno). Naturalmente con risorse pubbliche, e a carico dei salariati.
La seconda ragione è che solo archiviando la procedura d'infrazione il governo potrà ricorrere ai prestiti europei per investire in armamenti. Un 1,5% del PIL in più, totalmente a debito (che andrà ripagato), fuori bilancio. Una clausola pattuita dai governi imperialisti dell'Unione Europea nel quadro della grande corsa al riarmo, sotto la pressione di Donald Trump.
È la clausola che consentirà al governo italiano di aumentare la spesa militare di 15-20 miliardi nel prossimo triennio, di cui quasi quattro nel solo 2026: l'unica vera spesa pubblica in espansione della Legge di Stabilità dei patrioti. Per garantirla il governo ha applicato una rigorosa politica di austerità, tutta incentrata sull'inseguimento del record in fatto di avanzo primario (lo scarto fra entrate e uscite al netto del pagamento degli interessi sul debito). I complimenti a Meloni e Giorgetti da parte delle agenzie di rating e persino del Fondo Monetario sono dunque del tutto meritati.
Il governo sbandiera misure a vantaggio del ceto medio, di lavoratori dipendenti e di pensionati. Ma è una truffa in piena regola. La riduzione dell'aliquota IRPEF dal 35% al 33% nella soglia compresa fra i 28000 euro e i 50000 euro si traduce in cifre irrisorie: 20 euro annui per chi ha 29000 euro di reddito (1,70 euro al mese) e 440 euro annui per chi guadagna 50000 (36,70 euro mensili). Il nulla.
La cedolare secca tra il 5% e il 10% sugli aumenti contrattuali per i salariati del privato si traduce in circa 15 euro mensili per uno stipendio netto di 1600 euro: nemmeno il 10% della pesante riduzione generale del potere d'acquisto dei salari italiani (-9% sul 2021).
Un salasso senza paragoni in Europa, alimentato anche dalla gigantesca rapina dello Stato sul lavoro dipendente attraverso il meccanismo del fiscal drag: 25 miliardi pagati dai salari alle casse pubbliche per via degli effetti fiscali dell'inflazione, usati per sussidiare i padroni e pagare i banchieri.
Quanto alle pensioni, le minime sono maggiorate di 20 euro mensili (poco più di 10 euro netti), un insulto alla loro miseria. Mentre l'aumento dell'età pensionabile oltre la soglia dei 67 anni, e verso ormai i 70 anni, dimostra una volta di più che il sistema pensionistico continua a fare da bancomat per tutelare il debito pubblico da pagare al capitale finanziario.
Erano quelli che dovevano “abolire la Fornero”. I tagli ai ministeri (8 miliardi nel triennio) vanno nella stessa direzione, e completano il quadro.
Contro il governo e il padronato è necessaria e urgente una mobilitazione vera. Non serve l'eterna carta di doglianze di Maurizio Landini. È necessaria una piattaforma di rivendicazioni unificanti, a partire dalla richiesta di un forte aumento generale dei salari per tutti i lavoratori e le lavoratrici, privati e pubblici.
La subordinazione sindacale alle richieste di Confindustria in tema di salari (cuneo fiscale, detassazione degli aumenti, ecc.) è servita in questi anni solamente a scaricare sulla fiscalità generale il tema del salario, a scassare la progressività dell'IRPEF, a risparmiare i profitti padronali.
È ora di voltare pagina. Una piattaforma di lotta generale che parta dalla centralità della rivendicazione salariale a carico dei profitti, dalla cancellazione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro, da una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco, è il passo necessario di una grande riscossa del lavoro. E anche di una svolta sociale più generale.
Milioni di giovani e giovanissimi nelle ultime settimane hanno invaso strade e piazze come non avveniva da un quarto di secolo. L'hanno fatto per la Palestina. Ma anche per segnalare la propria disponibilità alla ribellione contro l'ingiustizia della propria condizione e contro l'assenza di futuro. La classe operaia e le sue organizzazioni debbono prendere la testa di questo moto di indignazione e dare ad esso una prospettiva. Una vertenza generale del mondo del lavoro, dei precari, dei disoccupati diventerebbe il riferimento centrale per milioni di studenti in movimento, un volano della loro coscienza politica, la leva di un cambio generale di scenario.
È il caso di dire: se non ora, quando?
Partito Comunista dei Lavoratori
No al piano coloniale Trump-Netanyahu
15 Ottobre 2025
L'universo politico mediatico a 360 gradi sta celebrando il piano Trump per la Palestina con la retorica più grottesca. Anche i commentatori più sobri si sperticano in lodi commosse per la ritrovata “pace” in Medio Oriente, attribuendo a Donald Trump il ruolo storico di pacificatore.
Ma di quale pace stiamo parlando?
Cessazione dei bombardamenti, scambio dei prigionieri, ingresso degli aiuti alimentari: se l'accordo si limitasse a questo sarebbe ovviamente del tutto legittimo e positivo. Ma non è questo il contenuto di fondo dell'accordo. Al contrario. Questo è solo il bordo inzuccherato di un bicchiere velenoso. Velenoso per il popolo palestinese, per la sua resistenza, per la sua liberazione. Chi non vede questo ignora semplicemente la realtà. E danneggia pesantemente la stessa mobilitazione antisionista.
Guardiamo in faccia la realtà dell'accordo. Di ciò che dice e di ciò che tace.
LA REALTÀ DELL'ACCORDO DI “PACE”
La Cisgiordania, di cui il piano non parla, è abbandonata di fatto alla furia dei coloni e delle forze di occupazione. Il fatto che a Ramallah persino i festeggiamenti per i prigionieri liberati siano stati proibiti dalle autorità israeliane, e che le case dei loro familiari siano state saccheggiate preventivamente dai militari occupanti a fini di intimidazione, ci parla dell'immutata quotidianità del terrore sionista. Non meno della prostrazione fisica dei prigionieri palestinesi liberati dopo anni o decenni di torture e angherie.
Per Gaza è prevista un'occupazione militare multinazionale a guida americana sotto la supervisione diretta del Presidente USA. Mentre le forze di occupazione sioniste che ancora controllano oltre il 50% della Striscia manterranno in ogni caso una propria presenza militare. Si tratta di un protettorato mandatario di classica tradizione coloniale. Un'occupazione per procura. Due milioni di gazawi, dopo due anni di genocidio, non avranno neppure il diritto formale a eleggere una propria rappresentanza, ridotti a oggetto passivo di un piano concordato tra imperialismo USA, Stato sionista e borghesie arabe.
Lo Stato sionista, che ha distrutto Gaza, non verserà un solo euro per la sua ricostruzione. Il punto 10 del piano Trump affida la ricostruzione al libero mercato di capitali privati, con l'obiettivo dichiarato di edificare “città medio-orientali”: investimenti immobiliari di lusso garantiti dalle monarchie del Golfo in concerto con le grandi compagnie americane ed occidentali.
I palestinesi poveri di Gaza, con le proprie case distrutte dai bombardamenti, non potranno certo comprare i nuovi immobili di lusso. Saranno destinati alla vita di paria in accampamenti di fortuna, in uno stato permanente di umiliazione e ricatto.
In compenso, è già partito lo sgomitamento tra le grandi aziende e i rispettivi governi per la spartizione del bottino. Il cosiddetto Consiglio di pace sarà solo il comitato d'affari di questo business. Ignoti tecnocrati palestinesi, scelti dalle potenze straniere, daranno copertura all'operazione. L'Italia manderà i carabinieri a supporto delle proprie ragioni contrattuali.
Per le organizzazioni della resistenza palestinese non c'è futuro in questo piano imperialista se non quello della propria subordinazione e/o della propria resa.
La cosiddetta Autorità Nazionale Palestinese, che già svolge da tempo un ruolo di polizia sussidiaria delle forze di occupazione in Cisgiordania, ha prontamente offerto la propria collaborazione al piano Trump alla ricerca di uno strapuntino a Gaza. Ma dovrà guadagnarsi il lasciapassare dello Stato sionista, per il momento non disponibile.
Per Hamas e le forze della resistenza, che in questi due anni hanno combattuto valorosamente, il piano Trump-Netanyahu prevede il disarmo e l'esilio. Al più, nell'attesa della subentrante “forza multinazionale di stabilizzazione” (e dunque nel suo proprio interesse), Trump consente ad Hamas un ruolo provvisorio di polizia locale per mantenere l'ordine. Non più di questo. Lo Stato sionista lo accetta in cambio dell'impegno di Hamas al disarmo.
In sostanza: Trump ha garantito a Israele l'impegno al disarmo di Hamas, ed ha garantito ad Hamas che Israele non riprenderà la guerra dopo la liberazione degli ostaggi. Di certo il negoziato diretto fra gli uomini di Trump e la direzione di Hamas è stato determinante mercoledì scorso per sbloccare l'accordo “di pace”. Ma presentare questo accordo come una vittoria della resistenza sarebbe davvero un macabro scherzo. L'intero piano di “pacificazione” imperialista del Medio Oriente richiede la distruzione della resistenza palestinese.
UN ACCORDO “FIGLIO DELLA MOBILITAZIONE”?
Chi presenta l'accordo “di pace” come un sottoprodotto positivo della grande mobilitazione in Occidente contro il genocidio sionista confonde la propria fantasia con la realtà.
L'accordo non è figlio della mobilitazione antisionista ma dello sfondamento militare di Israele in Medio Oriente.
È vero: mai l'odio contro Israele è stato tanto grande nel mondo, e questo è sicuramente causa ed effetto della grande mobilitazione internazionale contro il genocidio. Ma al contempo mai la forza militare di Israele è stata tanto grande nella regione mediorientale.
In due anni, grazie al sostegno militare delle grandi potenze imperialiste, in primo luogo dell'imperialismo USA, la guerra di Israele ha progressivamente piegato a proprio vantaggio i rapporti di forza nella regione. Ha ridimensionato l'Iran, ha annientato la direzione di Hezbollah, ha capitalizzato il crollo del regime siriano. Tutto ciò ha incentivato alla lunga il rilancio degli Accordi di Abramo, cioè la gravitazione dei regimi arabi attorno all'attuale vincitore militare della partita. Trump è stato l'attivo mediatore di questa ricomposizione. Ha portato in dote ad Israele l'apertura, una dopo l'altra, delle borghesie arabe. Ed ha offerto in cambio ai regimi arabi (Qatar in primis) le proprie garanzie da possibili attacchi israeliani
L'accordo, naturalmente, non è privo di contraddizioni ed incognite. I regimi arabi vorrebbero qualche promessa, fosse pure retorica, sulla questione palestinese a beneficio delle proprie opinioni pubbliche. La Turchia neoottomana di Erdogan si candida a contrappeso regionale dello Stato sionista. Gli imperialismi europei cercano spazi affaristici e diplomatici in queste contraddizioni in funzione della loro più generale relazione negoziale con gli USA. Ma, al di là di contraddizioni e incognite, resta il dato di fatto: l'accordo “di pace” è un indubbio successo dell'imperialismo USA e dell'amministrazione Trump. Che ha bisogno di una normalizzazione del Medio Oriente per potersi concentrare sulla sfida del Pacifico verso la Cina.
Peraltro, la normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi ed Israele, ed il coinvolgimento in questa dell'India, libera un canale di transito commerciale alternativo (India, penisola arabica, Tel Aviv) alla Via della Seta cinese. Anche questo è parte del piano Trump.
Un altro fattore nella dinamica degli avvenimenti è stato il relativo isolamento della resistenza palestinese in Medio Oriente. Grande è la sproporzione tra la grande mobilitazione pro Palestina in Occidente e il livello di mobilitazione delle masse arabe.
Subito dopo il 7 ottobre, diversi paesi arabi (Giordania, Iraq, Tunisia...) videro imponenti mobilitazioni di solidarietà coi palestinesi, in aperta polemica coi propri governi. Ma in seguito il movimento arabo ha conosciuto un progressivo riflusso. L'eccezione del Marocco, dove il movimento pro Palestina resta importante, non cambia il quadro d'insieme. Di certo questo riflusso ha favorito lo spazio di manovra dei governi arabi verso Israele e l'imperialismo USA, consentendo loro di massimizzare le pressioni sulla direzione di Hamas per indurla ad accettare il piano Trump.
Tutto ciò ripropone un nodo strategico centrale per la resistenza palestinese. Solo l'incontro fra resistenza palestinese e rivoluzione araba può spezzare la dominazione sionista e imperialista sulla regione, e liberare la via per la stessa liberazione della Palestina. In altri termini, una Palestina unita dal fiume al mare, libera laica e socialista, è indissolubile da un movimento rivoluzionario di liberazione dell'intera nazione araba e della regione mediorientale. Ciò che richiede a un tempo un cambio di direzione e prospettiva della stessa resistenza palestinese e lo sviluppo del marxismo rivoluzionario tra le masse arabe, a partire dalla loro avanguardia.
CONTINUARE LA MOBILITAZIONE ANTISIONISTA. PER LA ROTTURA DI OGNI RELAZIONE CON ISRAELE
Il colpo subito dal popolo palestinese e dalla sua resistenza non deve significare in alcun modo un arretramento della mobilitazione antisionista in casa nostra. Al contrario. La mobilitazione internazionale a sostegno della Palestina è, se possibile, più importante di prima.
Le diplomazie imperialiste sono ovunque al lavoro per ripulire l'immagine di Israele e cancellare la memoria del genocidio. Gli stessi governi che hanno finanziato e armato per due anni la barbarie sionista contro il popolo di Gaza e Cisgiordania cercano non solo di abbellire il cosiddetto accordo “di pace” ma di intestarsene il merito. Governo Meloni in primis. Questa operazione va denunciata e contrastata ovunque: nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro. Nessuno deve sfuggire alle proprie responsabilità. Nessun crimine, nessuna complicità, devono essere rimossi o perdonati.
La battaglia per la rottura di ogni relazione con lo Stato sionista deve continuare, a partite dal blocco a oltranza di ogni traffico con Israele nei porti e negli aeroporti. Il fronte unico di lotta che si è realizzato, dopo la spinta del 22 settembre, nelle grandi giornate dello sciopero generale del 3 ottobre, e nella gigantesca manifestazione del 4 ottobre, dev'essere salvaguardato e rilanciato contro ogni logica di defilamento o di ripiegamento autocentrato. Il Partito Comunista dei Lavoratori sarà impegnato ovunque in questa direzione.





