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Mezzogiorno di fuoco

 


Il significato della Zona Economica Speciale per il Sud

Il progetto dell'autonomia differenziata, com'è noto, rappresenta uno dei pilastri dell'azione di governo Meloni, e dello stesso patto di maggioranza tra Lega e FdI. Prevede non solo un nuovo travaso di risorse pubbliche dal Mezzogiorno ai potentati leghisti del Nord, ma anche un ulteriore stagione di privatizzazioni, di saccheggi ambientali, di divisione del lavoro salariato.

Il progetto non è semplice. Sconta difficoltà nella maggioranza e persino in settori di Confindustria, preoccupata della propria unità interna.
Le dimissioni illustri (Amato, Bassanini) all'interno del comitato dei saggi preposto al varo del progetto è un sintomo indicativo delle contraddizioni. Contraddizioni che peraltro attraversano direttamente il governo. La Lega vuole incassare il bottino, se possibile prima delle elezioni europee del 2024. Fratelli d'Italia, più radicato al Sud, aziona il freno.
L'opposizione borghese liberale, che con Bonaccini e il PD avallò il progetto, dichiara di opporsi.
Vedremo gli sviluppi. Di certo l'opposizione all'autonomia differenziata, in ogni sua declinazione, è un terreno necessario dell'azione di massa.

Ma il progetto di autonomia differenziata non è l'unica “attenzione” che il governo Meloni riserva al Sud. Lo dimostra l'idea di fare dell'intero Mezzogiorno una Zona Economica Speciale. Non si tratta di una idea nuova. I governi di centrosinistra degli anni '90 esordirono con i patti territoriali e i contratti d'area nel Mezzogiorno. Più recentemente i governi Gentiloni e Draghi, con largo sostegno parlamentare, pensarono di suddividere il Sud in otto aree a regime speciale, con tanto di rispettivi commissari. Al pari dei vecchi contratti d'area, questi regimi speciali consistono in una liberalizzazione delle pratiche amministrative per gli investimenti (ad esempio meno controlli ambientali), nella riduzione delle tasse per gli investitori, in agevolazioni creditizie e decontribuzioni. Ora il ministro Fitto ha concordato con la commissione UE l'unificazione di questi regimi e la loro estensione all'intero Meridione.

La retorica che accompagna l'operazione è come sempre l'interesse del Mezzogiorno, la creazione di lavoro... È una retorica truffaldina. L'unico effetto concreto di tale impostazione è la maggiorazione dei profitti per i capitalisti del Sud o che investono al Sud, pronti a usufruire delle condizioni di favore per operazioni mordi e fuggi, come dimostra la cronaca infinita di centinaia di vertenze che hanno attraversato il mezzogiorno negli ultimi trent'anni contro le speculazioni di padroni faccendieri che aprono e chiudono aziende buttando sulla strada migliaia di lavoratori.

Questa truffa ha un'altra ricaduta sociale. La riduzione delle tasse sui capitalisti in funzione dell'attrazione di mercato degli investimenti ha accompagnato ovunque la riduzione delle prestazioni sociali. È ciò che è avvenuto in larga parte dell'est europeo, anche all'interno della UE, con un colpo a tutta la classe operaia. Il governo Meloni vuole applicare la stessa ricetta nel mezzogiorno d'Italia, con la volontà di fare del Meridione un'area concorrenziale con l'Est Europa in fatto di condizioni di favore per i capitalisti.

Non solo. In perfetta connessione col progetto di autonomia differenziata, la Zona Economica Speciale nell'intero Sud apre la via a regimi salariali e contrattuali differenziati per i lavoratori e le lavoratrici meridionali. Non a caso la stessa ripulsa da parte del governo di ogni forma di salario minimo viene sostenuta con la necessità di differenziare i regimi salariali. Mentre alcuni apologeti dell'operazione ZES come Nicola Rossi (di estrazione PD) giungono a richiedere una differenziazione di regimi salariali all'interno della stessa Zona Economica Speciale nel nome della libera concorrenza e delle sue virtù. Lo spettro delle gabbie salariali pre-1968 torna dunque a delinearsi all'orizzonte. Per di più in una versione estremizzata.

Unire in una comune piattaforma generale la classe lavoratrice del Nord e del Sud è l'unica via per contrastare questi disegni reazionari. Le ragioni di una svolta di lotta generale sono confermate, giorno dopo giorno, dai progetti dell'avversario di classe.

Partito Comunista dei Lavoratori

La baldoria dei profitti


I record di Piazza Affari

Ci sono voluti quindici anni per riguadagnare i livelli del 2008, ma l'impresa è riuscita. La Borsa di Piazza Affari festeggia l'aumento del 19% dei propri listini dall'inizio dell'anno. È «la Borsa migliore d'Europa» dichiara La Stampa con ostentata soddisfazione.
I dati sono effettivamente impressionanti. In particolare per le grandi banche tricolori. L'aumento dei tassi d'interesse da parte della BCE si è tradotto nell'impennata dei tassi variabili dei mutui, con un dramma insostenibile per milioni di famiglie. Ma per le banche è stata una ragione di gioia: Banca Intesa Sanpaolo ha accresciuto del 15% le proprie quotazione da gennaio. Le azioni di Unicredit hanno visto nel medesimo periodo una crescita abnorme del 62%!

L'euforia di Borsa non riguarda solo le banche. Un big del petrolio come ENI, nel primo semestre 2023, ha realizzato una valorizzazione azionaria del 24%, l'ENEL del 24%. Le grandi aziende del made in Italy, come Ferrari, Moncler e Tod's, fiori all'occhiello della retorica governativa, hanno visto crescite di Borsa tra il 30% e il 40%. Lo stesso vale per le compagnie aeree, che dopo i lockdown per il Covid hanno conosciuto una ripresa poderosa, costruita sul supersfruttamento del lavoro e sull'aumento di prezzo dei voli. Più in generale l'aumento dei prezzi che falcidia i salari si presenta sempre più come avidità dei profitti.

Tutto questo non solo dimostra la necessità e l'urgenza di una grande battaglia per forti aumenti salariali (di almeno 300 euro netti) per l'intero lavoro salariato, entro una piattaforma di lotta generale, ma rivela anche una volta di più la stessa anatomia della società borghese e delle sue leggi. Una piccola minoranza di grandi capitalisti, banchieri, azionisti costruisce quotidianamente le proprie fortune sulla spoliazione dei lavoratori e della maggioranza della società.

Rovesciare la dittatura di questa classe, affermare un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, è l'unica vera alternativa. Costruire il ponte tra le battaglie immediate e questa prospettiva è la ragione programmatica del Partito Comunista dei Lavoratori.

Partito Comunista dei Lavoratori

 

 


Le contraddizioni del mercato mondiale. Il cinismo del profitto capitalista

11 Luglio 2023

È universalmente noto che i gruppi capitalistici d'Occidente e i rispettivi Stati di riferimento sgomitano tra loro per spartirsi la futura ricostruzione dell'Ucraina. È meno noto il loro coinvolgimento nella guerra d'invasione russa contro l'Ucraina. Il caso dell'ENI, da noi riportato, è tutt'altro che un caso isolato. Un'inchiesta di Le Monde (18 giugno) documenta la produzione e il rifornimento di materiale elettronico da parte di grandi aziende occidentali alla macchina bellica della Russia. Ad esempio la franco-italiana STMicroelectronics e l'americana Intel.

Non si tratta di rifornimenti marginali o accessori, ma determinanti. Soprattutto nella individuazione degli obiettivi da colpire e bombardare. Il raddoppio annunciato della produzione annua di missili da parte della Russia – dai 512 del 2022 ai 1061 del 2023 – si appoggia sul materiale elettronico di provenienza occidentale. Persino l'accumulo di stock di materiale bellico nei tre anni che hanno preceduto l'invasione dell'Ucraina ha fatto tesoro dell'elettronica occidentale.

Le stesse sanzioni successive degli imperialismi NATO hanno avuto effetti estremamente parziali. L'effetto principale è quello di aver allargato enormemente l'importazione dei semiconduttori dalla Cina, che oggi coprono l'85% del settore contro il 33% del 2022. Ma gli stessi semiconduttori di provenienza cinese non sono nella loro maggioranza prodotti in Cina, bensì nei paesi NATO o nei loro alleati. I cinesi fanno da intermediari nelle triangolazioni.

La verità è che gli Stati imperialisti si scontrano con l'anarchia del mercato mondiale. La franco-italiana STMicroeletronics racconta a Le Monde che dispone di duecentomila clienti e di migliaia di partner azionari in giro per il mondo, e non può occuparsi di controllare i destinatari finali dei propri prodotti elettronici. L'azienda assicura di non aver contratti tecnologici e finanziari diretti con la Russia, ma di non sapere dove finiscono i componenti prodotti. Se finiscono nei missili russi che bombardano le città ucraine, pace all'anima loro. È la libertà del commercio mondiale.

La campagna di sanzioni occidentali alla Russia si è rivelata anche per questo fallimentare. L'unico effetto certo è stato ed è quello di alimentare lo sciovinismo grande-russo, quindi il consenso in Russia alla guerra contro l' Ucraina, rappresentata da Putin come guerra di difesa dall'Occidente collettivo. Una rappresentazione grottesca sotto ogni profilo e al tempo stesso proficua sul proprio fronte interno. Una rappresentazione spesso aiutata dal nazionalismo russofobo del governo ucraino.

La nostra difesa dell'Ucraina dall'invasione russa muove da un'angolazione di classe indipendente, quella che rivendica le ragioni del proletariato internazionale, e di ogni popolo oppresso, contro tutti gli imperialismi e tutte le loro guerre. Quella che ricerca una relazione fraterna tra lavoratori ucraini e lavoratori russi, tra i lavoratori del paese invaso e i lavoratori dell'imperialismo invasore. Contro la guerra dell'imperialismo russo, in piena autonomia politica dagli imperialismi NATO. Contro ipocrisia delle loro sanzioni.

Partito Comunista dei Lavoratori

«Casa e giardino». Il cinismo di Netanyahu è senza ritegno

 


10 Luglio 2023

I fatti di Jenin ripropongono la necessità della distruzione rivoluzionaria dello Stato Sionista quale unica prospettiva storica alternativa

«Casa e giardino»: cosi il cinico premier israeliano ha chiamato l'aggressione terroristica delle proprie truppe a Jenin. Dodici palestinesi ammazzati, centinaia di case distrutte, migliaia di palestinesi costretti ad abbandonare le proprie case. Una Nakba in miniatura. La misura del salto di qualità del governo sionista di estrema destra nell'opera di annientamento e colonizzazione della Cisgiordania.

I partiti suprematisti ebraici, quello “laico” (Potere Ebraico) e quello religioso (Tkuma) hanno occupato posizioni ministeriali chiave. Il primo ha il Ministero della Sicurezza Nazionale, il secondo controlla il Ministero delle Finanze, incaricato dell'amministrazione della Cisgiordania. Proprio la Cisgiordania si avvia a trasformarsi in una seconda Gaza, una prigione a cielo aperto governata col terrore.
Gli insediamenti coloniali si moltiplicano sotto protezione militare. La nuova Guardia Nazionale, a lungo richiesta dall'estrema destra, si occupa direttamente delle funzioni di polizia contro i palestinesi a difesa dei coloni.

Netanyahu cerca nella radicalizzazione dello scontro con i palestinesi una via di fuga dalle contraddizioni profonde che oggi attraversano il campo sionista.
Di certo nessuna soluzione democratica della crisi politica israeliana è compatibile con la oppressione del popolo palestinese, quindi con la continuità del regime sionista. I famigerati accordi di Oslo del 1993 salutati da tutta la sinistra, inclusa quella “radicale”, come svolta storica si dimostrano tanto più oggi per quello che sono e sono sempre stati: una trappola reazionaria contro i diritti di autodeterminazione dei palestinesi. Carta straccia a uso e consumo del sionismo e di tutte le potenze imperialiste.

La cosiddetta Autorità Palestinese nei Territori è complice del regime sionista, e sul suo libro paga. I fischi riservati a Jenin a Mahmoud Aloul, numero due di Al Fatah, dimostrano che la giovane generazione palestinese è cosciente di questa complicità e la rifiuta. L'autodifesa armata contro i coloni e l'esercito israeliano è una risposta importante, come importante è la sua configurazione unitaria. Chiunque blateri di nonviolenza come risposta al sionismo non sa di cosa parla.

Al tempo stesso l'alternativa non è certo Hamas e il suo regime reazionario a Gaza. Può essere solo una sollevazione rivoluzionaria palestinese contro lo Stato sionista e la sua saldatura con la rivoluzione araba, nella prospettiva di una Federazione socialista araba e del Medio Oriente, quale unica garanzia di realizzazione del diritto di autodeterminazione del popolo palestinese. Una prospettiva certo molto difficile, ma l'unica soluzione storica reale, se non si vuole la rassegnazione ad altre immancabili Jenin, lungo un'occupazione militare senza fine. Costruire una direzione politica alternativa all'altezza di questa prospettiva storica è una necessità inderogabile per il popolo palestinese e la sua giovane generazione combattente.

Partito Comunista dei Lavoratori

È morto Hugo Blanco

 


Dirigente trotskista e leader dei contadini peruviani

Pochi giorni fa, il 25 giugno, è mancato all’età di 88 anni Hugo Blanco Galdes, dirigente trotskista peruviano e internazionale, e leader dei contadini indigeni nativi (quechua) del suo paese, di cui organizzò la resistenza armata contro le forze di repressione statali e dei latifondisti.


Blanco nacque nel novembre 1934 nella storica città di Cuzco. Benché di famiglia borghese e “bianca”, fin da ragazzo contrastò il regime sociale esistente e la sua oppressione degli indigeni.

A metà degli anni ‘50 si recò a La Plata in Argentina per studiare agraria in quella città. Fu lì che conobbe e aderì al movimento trotskista, raggiungendo l’organizzazione Palabra Obrera diretta da Nahuel Moreno (che aderiva al Comitato Internazionale della Quarta Internazionale, la corrente antirevisionista, che aveva il principale esponente nell’americano Jim Cannon, già membro dell’Esecutivo dell’Internazionale Comunista negli anni ’20). Come militante di tale organizzazione, entrò nel 1957 in una grande fabbrica, per impratichirsi nel lavoro sindacale.

Rientrò poi alla fine degli anni ‘50 in Perù, per contribuire allo sviluppo della sezione peruviana del Comitato Internazionale della Quarta Internazionale, il Partito Operaio Rivoluzionario. Nella sua regione di Cuzco si recò nella zona della Valle de la Convencion, dove la massa dei contadini indigeni vivevano sottoposti ai latifondisti in condizioni di tipo feudale. Affittò un piccolo terreno per essere anche lui contadino, e si mise a organizzare sindacalmente i lavoratori.
Dal 1959 al 1962 modificò i rapporti di forza e la situazione, guidando occupazioni di terre ed espulsioni di latifondisti, e organizzando migliaia di contadini. Per sviluppare questa azione organizzò con i suoi compagni una milizia popolare armata. Questa organizzazione non aveva niente a che vedere con un gruppo guerrigliero. Come disse allora e in un’intervista ancora due anni fa, «io non sono mai stato un guerrigliero castrista». In tutta la sua azione si sentiva profumo di bolscevismo. Tutte le decisioni erano votate dalle assemblee, che nominano inoltre dal basso tutti i delegati e dirigenti. La zona della Valle del la Convencion era diventata, certo in piccolo, una specie di comune contadina di tipo sovietico.
Il governo peruviano non poteva permettere l’esistenza di tale situazione, tanto più che Hugo Blanco, oltre che segretario della confederazione contadina di tutta la regione di Cuzco, stava diventando un riferimento per i contadini a livello nazionale. Ci furono alcuni scontri della milizia contadina con la gendarmeria e altri incidenti. In questi vennero uccisi alcuni gendarmi. Blanco fu accusato dell’omicidio di uno di questi, arrestato, e condannato a morte.

Fu una grande campagna di mobilitazione, sia interna in Perù che internazionale (insieme alla paura delle conseguenze in Perù, da parte delle masse in primis contadine, dell’uccisione “legale” di Blanco), che permise che la condanna fosse mutata in venticinque anni di prigione. L'organizzazione che fu centrale nella campagna internazionale per Blanco fu il Segretariato Unificato della Quarta Internazionale, cioè l’organizzazione nata dalla riunificazione, purtroppo opportunista, tra i revisionisti della frazione della vecchia Quarta Internazionale diretta da Mandel e Maitan, e la metà del vecchio Comitato Internazionale con Cannon e Moreno (il POR peruviano aveva seguito quest’ultimo) .

Nel 1968, proprio dopo la conclusione disastrosa dell'azione di Che Guevara in Bolivia, la maggioranza del Segretariato Unificato decise follemente di passare a una strategia di guerra di guerriglia in tutta l’America Latina. Informato in carcere di questa decisione, Blanco espresse il suo dissenso, ma non chiese di renderlo pubblico, perché isolato in carcere e perché credeva che fosse una posizione unanime dell’Internazionale.

Quando nel 1970 Blanco fu liberato, come vedremo, scoprì che quasi il 40% dell’Internazionale (tutti gli ex del Comitato Internazionale più alcuni altri) erano contrari alla svolta guerriglierista. Si lanciò quindi nella battaglia politica scrivendo diversi documenti e articoli, tra l’altro innervosito dal fatto che nessuno lo avesse chiaramente informato, come sarebbe stato possibile, della divisione dell’Internazionale.

Come abbiamo detto, Hugo Blanco era stato liberato anticipatamente. Questo derivava dal fatto che in Perù si era costituito un nuovo regime progressista. Alla fine del 1968 si era infatti realizzato un colpo di stato militare particolare. Un vasto settore di ufficiali di sinistra, capeggiati dal Generale Velasco Alvarado, aveva abbattuto il corrotto regime civile, costituendo un governo militare rivoluzionario in forma di dittatura bonapartista semitotalitaria, con un progetto parzialmente antimperialista e anticapitalista. Per fare un esempio moderno, il governo di Velasco aveva alcuni tratti comuni con quello di Chavez, però anche profonde differenze. La politica sociale chavista è stata sostanzialmente populista redistributiva, ma con pieno rispetto del capitalismo e degli stessi latifondisti; invece Velasco attuò un ampio piano di nazionalizzazione, a partire da quella del petrolio, estendendola ai settori principali dell'economia, come lo zucchero e la pesca. D’altro canto, mentre Chavez ha sempre mantenuto le forme della democrazia borghese (Chavez è sempre stato eletto), quella di Velasco era una dittatura che si basava sull’apparato militare, e non su un partito, come il PSUV chavista.

Anche sul terreno della riforma agraria il governo militare intervenne in maniera radicale espropriando i latifondisti e dividendo i latifondi tra i contadini, senza indennizzo ai proprietari (ma con i contadini costretti a pagare un indennizzo allo stato, che indebitò molti di loro rendendolo impossibile la modernizzazione delle loro proprietà).

Come detto, il governo militare liberò Blanco, che in carcere aveva scritto anche un libro sull'esperienza della lotta dei contadini di Cuzco. Anzi, Velasco gli propose di mettersi al suo servizio come esperto della questione contadina. Fedele alle sue posizioni conseguentemente trotskiste, Hugo Blanco rifiutò. Lottava per la rivoluzione socialista, e non per un regime bonapartista di capitalismo di stato.

Per ripicca, il governo “rivoluzionario”, con una decisione illegale, lo esiliò dal suo proprio paese. Così egli andò prima in Messico, poi in Cile. Erano gli anni del governo di fronte popolare di Salvador Allende. Militò lì con i compagni trotskisti locali, criticando anche tutte le mezze misure e i limiti del fronte popolare, che portarono alla tragica disfatta sua e del proletariato cileno. Al momento del golpe riuscì, come molti altri, a rifugiarsi in un'ambasciata, nel suo caso quella svedese, e come tutti i rifugiati, dopo alcuni mesi poté esiliarsi nel paese nella cui ambasciata si era rifugiato. In esilio in Svezia scrisse anche un volume sulla tragica esperienza cilena.

Nel frattempo in Perù, nel 1975, un golpe pacifico di settori militari moderati del governo “rivoluzionario” rovesciò Velasco. Il golpe fu certamente salutato, se non appoggiato direttamente, dall’imperialismo USA. Tuttavia permise il ritorno alla democrazia borghese. Blanco rientrò in Perù e fu tra i principali riferimenti del Fronte Operaio Contadino Studentesco e del Popolo (FOCEP), un blocco elettorale egemonizzato dalle forze trotskiste, con la presenza anche di altre organizzazioni, che prese il 12% alle elezioni dell’assemblea costituente, in cui Blanco fu il primo eletto per preferenze.
Per controbattere il ruolo dei trotskisti, nonostante le ingenuità unitarie dello stesso Blanco, che pensava in termini di fronte unitario per la rivoluzione piuttosto che di partito leninista che sconfiggesse le posizioni opportuniste, le componenti centriste del FOCEP e quelle, centriste e riformiste, rimaste esterne ad esso (il totale delle cinque liste di sinistra presentatesi fu del 29%, ma il FOCEP aveva il risultato migliore), compreso il Partito Comunista, lanciarono l’idea di un fronte elettorale di tutta la sinistra. Però il ruolo è l’immagine di Blanco è tale che quello che sembra il candidato unitario naturale per le presidenziali del 1980 è Hugo Blanco.
I mesi che precedono le elezioni vedono un susseguirsi di manovre, opportunismi e settarismi, che fanno sì che alla fine si presentino ben nove liste di sinistra. Blanco è quindi il candidato alla presidenza dei soli trotskisti. È il primo dei candidati di sinistra e il quarto fra tutti, ma con solo il 4% voti (l’insieme della sinistra scende dal 29% del 1978 al 17%). Però i trotskisti e il suo PRT (Partito Rivoluzionario dei Lavoratori) sono appunto il partito più forte elettoralmente (il PC stalinista continuava a dirigere la centrale sindacale operaia), con alcuni deputati e senatori. Avrebbe potuto costituire la futura direzione del proletariato e dei contadini poveri del Perù. Anche in riferimento a questo, tutte le forse maoiste, centriste, staliniste e riformiste si uniscono finalmente in una coalizione dal nome di Izquierda Unida (Sinistra Unita). Era chiaro che in un primo momento tale forza elettorale non poteva che attrarre l’attenzione della maggioranza delle masse di sinistra. Per cui alle elezioni comunali del 1983 IU ha un grande risultato, in particolare conquistando il sindaco di Lima, mentre il PRT, dalla struttura militante debole, ha risultati modesti. Era prevedibile. Si trattava di reagire stringendo i ranghi, denunciando i limiti riformisti di IU, proponendo un fronte unico su obbiettivi di mobilitazione classista e ribadendo, in primis a sé stessi, l’assoluta necessità di continuare controcorrente la lotta per la costruzione di un partito leninista.

È qui invece che Blanco commette il più grave e disastroso dei suoi errori, anche a causa del suo progressivo spostarsi, negli anni precedenti, verso le posizioni della maggioranza mandeliana del Segretariato Unificato. Va alla televisione nazionale, fa una piena autocritica per non essere stato in IU e dichiara per lui finita l'esperienza del PRT. Questi, di fronte a ciò, implode. Blanco con alcuni altri raggiunge Izquierda Unida, in forma non organizzata e senza ipotesi di battaglia politica programmatica. Ne sarà senatore per diversi anni, ma senza battaglia chiara contro il riformismo e il centrismo.

Nel 1990, il presidente populista di centro Fujimori realizza una specie di autogolpe con l’appoggio dell’esercito, che bonapartizza ulteriormente il regime. Blanco è minacciato di morte sia dai servizi segreti del regime che dai folli terroristi maoisti di Sendero Luminoso (Sentiero Luminoso). Deve quindi autoesiliarsi nuovamente, e va in Messico. Continua a dichiararsi trotskista, ma senza un rapporto organico con nessuna organizzazione.
Dopo la caduta di Fujimori nel 2000 rientra in Perù. Ormai la rottura col marxismo rivoluzionario reale e completa. Dopo le sconfitte subite, con l’incapacità di trovare risposte nel trotskismo realmente conseguente e anche di fronte al tracollo dell’Unione Sovietica, diventa, secondo la sua stessa definizione, ecosocialista. Rivendica ancora la sua tradizione trotskista, con cui non romperà formalmente mai, ma sostiene che la questione principale non è la rivoluzione proletaria, tantomeno la costruzione di partiti e di una Internazionale rivoluzionaria, ma, almeno per l’oggi, di un vasto fronte ecologista, certo anticapitalistico nella sua lotta, ma non classista e rivoluzionario. Dimentica così che senza la presa del potere come premessa dell’abolizione del modo di produzione capitalistico, non sarà mai possibile piegare quest’ultimo alle esigenze dell’umanità.

Benché molto vecchio, continua a sostenere energicamente le lotte contadine. Pubblica anche, con un vecchio militante trotskista, dirigente ancora oggi della UIT morenista, una rivista per il suo mondo (Lucha Indigena), e viene eletto presidente onorario del Sindacato Nazionale dei Contadini.

È morto in Svezia perché, all’inizio del 2020, vi si era recato per visitare sua figlia, che vive là. Bloccato dall’epidemia del Covid, quando avrebbe potuto rientrare in patria era ormai malato e ricoverato in ospedale, dove appunto si è spento il 25 giugno scorso.

Al di là di ogni aspetto politico, come chiunque lo ha conosciuto può testimoniare, e come la sua storia dimostra, Hugo Blanco era una persona di un carisma, una cortesia e un coraggio straordinari. Avrebbe potuto scegliere una vita se non ricca almeno comoda, e invece ha sempre voluto essere un proletario insieme agli altri proletari, per guidarli verso la lotta rivoluzionaria per la loro liberazione. Egli fu sempre un sostenitore, applicando i suoi principi, della democrazia operaia e contadina, non volendo mai che qualcuno si ritrovasse a “camminare obbedendo” (secondo lo slogan castro-guevarista), ma che tutti determinassero le proprie scelte sulla base dell’opinione della maggioranza di chi lottava.

Certo, dal punto di vista del marxismo rivoluzionario conseguente, egli rimane, a bilancio della sua vita, una figura contraddittoria. Ma resta che nei suoi anni giovanili e anche per un periodo più in là egli fu un militante e un dirigente degno del nome di trotskista. E del resto la responsabilità del suo abbandonare il trotskismo conseguente è anche di quegli epigoni di Trotsky che non hanno saputo difendere e sviluppare la Quarta Internazionale su basi conseguenti, e sono passati su posizioni revisioniste, opportuniste e, a volte, anche manovriere e settarie.

È per questo che Hugo Blanco rimane un esempio, insieme alla sua “non guerrilla” delle valli del Cuzco, del futuro della rivoluzione latinoamericana, che non sarà determinata dall’azione verticistica di un pugno di eroi, destinati alla inevitabile sconfitta, ma dalla ribellione di milioni di donne e uomini, proletari e oppressi, diretti democraticamente dai migliori di loro, come fu Hugo Blanco.

Addio Hugo. Il tuo nome vivrà nei secoli e nel futuro mondo socialista e umano che tu hai sognato.

FG

Dal ghetto postcoloniale alla rivolta. Un'analisi di classe

 


Per una lettura della rabbia delle banlieue senza incantamenti o pregiudizi

4 Luglio 2023

«Vi libererò da questa spazzatura umana, dalla canaglia»: così dichiarò nel 2005 il presidente francese Sarkozy di fronte alla rivolta delle banlieue causata dalla morte di due giovani braccati dalla polizia. Diciotto anni dopo, l'assassinio poliziesco di un giovane arabo, Nahel, ha innescato una rivolta analoga. Con alcune differenze. L'età media della «canaglia» è di diciassette anni, la stessa età di Nahel, sensibilmente più bassa di quella di allora. L'uso dei social ha consentito una propagazione della rivolta incomparabilmente più rapida. La sua estensione geografica è più ampia.

La violenza della polizia ha agito come allora quale fattore scatenante. La polizia francese si porta dietro la lunga eredità della tradizione gollista, mano pesante e grilletto facile. In larga parte della società è radicato non a caso un robusto sentimento antipoliziesco.
Ma non è solo questione di tradizioni antiche. La polizia francese ha rafforzato in questi anni i propri poteri. Le leggi eccezionali varate a Parigi dopo gli attentati stragisti del terrorismo islamista dell'ISIS, votate purtroppo da tutte le sinistre parlamentari, hanno accresciuto nettamente le prerogative poliziesche in fatto di gestione dell'ordine pubblico. Nel 2017 sotto la presidenza di “sinistra” di Hollande è stata varata una legge che incoraggia l'uso delle armi da parte degli agenti contro veicoli in movimento “potenzialmente minacciosi”. Il risultato è che il tiro poliziesco su bersagli simili si è moltiplicato da allora per cinque, col relativo carico di sangue.
L'assassinio di Nahel è l'ultima goccia di questo stillicidio. Ma lo stillicidio non è socialmente neutro: i quartieri ghetto delle banlieue sono stati il poligono di tiro preferito.

Le banlieue francesi sono a tutti gli effetti un deposito postcoloniale. I giovani che le popolano sono figli e nipoti degli immigrati di seconda e terza generazione, giovani francesi di estrazione algerina, marocchina, tunisina, ma anche giovani di colore provenienti indirettamente da Guyana, Nuova Caledonia, Guadalupa, tuttora colonie del democratico imperialismo francese, oppure dai territori dell'area francofona dell'Africa subsahariana, quella oggi insidiata, per intenderci, dalla concorrenza dell'imperialismo russo.

Queste banlieue sono autentici ghetti. I giovani che le abitano hanno un tasso di disoccupazione doppio o triplo rispetto alla media (oltre il 40%), raramente dispongono di strutture sociali di appoggio, sono esposti spesso ai ricatti della malavita e dello spaccio, e alla nomea del quartiere in cui vivono. La banlieue diventa per loro a tutti gli effetti uno stigma sociale, un problema aggiuntivo nel trovare un lavoro o una casa, ma anche una ragione dell'assillante pressione poliziesca. Infinite perquisizioni, retate quotidiane, vessazioni umilianti senza motivo, se non appunto il ghetto di provenienza, e l'etnia araba o il colore che lo segnala. Un po' come la popolazione di colore in tante periferie metropolitane USA.

La polizia si esercita quotidianamente nel tormentare i giovani delle banlieue. E i giovani ravvivano quotidianamente il proprio odio contro la polizia. L'omicidio di Nahel ha fatto da stura a questo sentimento radicato, su entrambi i lati, al punto che mentre i giovani dei quartieri si sollevano contro la polizia, i sindacati più reazionari della polizia (Alliance) non solo difendono l'agente omicida ma si dichiarano in guerra contro la canaglia, e chiedono al governo nuovi poteri.

La rivolta della banlieue assume per lo più forme primitive e indifferenziate. Si indirizza non solo contro le caserme e le camionette della polizia, ma anche contro negozi, vetture private, e persino biblioteche e scuole. Obiettivi sbagliati.
Non apparteniamo a quella cultura che subisce il fascino estetico della violenza indifferenziata, tipica di alcune tradizioni anarchiche o autonome. Così come certo non apparteniamo, all'opposto, a quella cultura riformista che col ditino alzato pretende dagli oppressi buone maniere nel rispetto delle istituzioni (come nel caso dei dirigenti del Partito Comunista Francese, che prima votano le leggi di polizia e poi si associano agli appelli alla calma e alla “responsabilità repubblicana”). Qui non si tratta di giudicare un fenomeno sociale, ma di comprenderlo, e soprattutto di rapportarvisi da un punto di vista di classe e rivoluzionario. Una rivolta contro l'oppressione dello Stato borghese contiene sempre, in ultima analisi, un potenziale positivo. Ma non sempre quel potenziale trova un punto di riferimento e una traduzione progressiva. Non sempre segna l'ascesa della marea di massa. Molto dipende dalla dinamica della lotta di classe che le fa da sfondo, e dalla presenza o meno di una direzione politica che intervenga sulla sua coscienza.

L'attuale rivolta delle banlieue francesi non descrive una nuova ascesa della lotta di classe in Francia. Piuttosto riflette il combinarsi oggettivo di due elementi contraddittori: la ritirata del movimento di massa contro la riforma pensionistica, per responsabilità delle burocrazie sindacali e delle sinistre riformiste subalterne a queste, e al tempo stesso l'incancrenirsi della frattura profonda nella società francese.
L'ultimo decennio di vita politica francese è stato solcato da ripetute dinamiche di opposizione di massa al governo. È stato così nel 2017 con la grande mobilitazione di classe contro la legge Khomri, il Jobs act francese. Poi col movimento spurio e contraddittorio dei gilet gialli nel 2019. Poi ancora nel 2023 con la ripresa del forte movimento di massa contro Macron e la sua riforma delle pensioni. Il lascito di queste dinamiche, diverse tra loro, è stato l'odio crescente contro il governo dei ricchi. Macron è stato ed è il manifesto in persona del governo dei ricchi nella percezione di una larga massa popolare. Il suo ripetuto ricorso alla polizia nel contrasto del conflitto sociale ha rafforzato il sentimento antigovernativo e antipoliziesco in ampi settori popolari. La rivolta delle banlieue pesca anche indirettamente in questo retroterra, seppur in forma confusa e contraddittoria.

Ma la vergognosa ritirata delle burocrazie sindacali dallo scontro con Macron sulle pensioni, e l'arretramento che ne è seguito, ha impedito al movimento operaio di dare alla rivolta delle banlieue un riferimento di classe e un indirizzo, di dirottare sul terreno di classe la pulsione ribellistica che in essa si esprime.
Tutto questo non è senza conseguenze politiche. Macron ha ripreso ossigeno e spazio di manovra. Le Pen esce dalla sua marginalità e cerca oggi un rilancio nella invocazione dell'ordine pubblico (nel mentre promette parallelamente la cancellazione dell'odiata riforma pensionistica di Macron, una volta eletta presidente della Francia). Oltre una certa soglia, una domanda d'ordine si affaccia nelle stesse periferie presso importanti settori di piccola borghesia e di popolazione povera, colpiti o danneggiati dagli effetti della rivolta (macchine e servizi distrutti) e al tempo stesso privi di una prospettiva ed impauriti. La raccolta di fondi attivata da gruppi di estrema destra a favore del poliziotto omicida supera di gran lunga quella promossa a sostegno della famiglia di Nahel. Sono sintomi indicativi. Quando una lunga stagione di mobilitazioni di massa rifluisce senza apparenti risultati per responsabilità preminente degli apparati burocratici si può produrre nel sentimento pubblico un effetto di rimbalzo di segno opposto. Le Pen si candida a capitalizzare sul terreno reazionario l'ostilità a Macron e il fallimento della sinistra.

Il tema del rilancio dell'azione di classe e di massa del movimento operaio francese si unisce allora più che mai alla necessità di un cambio nella sua direzione sindacale e politica. Solo una direzione anticapitalista può mettere il proletariato francese nelle condizioni di egemonizzare i confusi sentimenti di rivolta di ampi settori giovanili. In sua assenza, tutto rischia di rotolare a destra tra le braccia del partito dell'ordine.

Partito Comunista dei Lavoratori

Né Prigozhin né Putin

 


Alcune prime considerazioni sulla crisi russa

2 Luglio 2023

La crisi esplosa sabato scorso in Russia con l'ammutinamento della milizia Wagner e la sua “marcia su Mosca” è il primo contraccolpo interno della guerra d'invasione dell'Ucraina. Ma è anche la cartina di tornasole, al di là del suo esito, delle linee di faglia che attraversano il regime putiniano e il suo apparato militare.
La ritirata di Prigozhin, e soprattutto i termini della cosiddetta mediazione di Lukashenko, sembrano configurare una sconfitta radicale degli ammutinati, una sorta di resa. Ma anche Putin e la sua immagine pubblica escono lesionate dalla sommossa. Per la prima volta il profilo dell'invincibile comandante in capo che tutto controlla e dispone è stato messo in discussione. Riuscirà ora Putin a trasformare la sconfitta della sommossa in una leva di rilancio del proprio prestigio appannato?

Sotto la direzione di Prigozhin e con la protezione di Putin, la milizia Wagner era diventata un centro di potere di grandi proporzioni all'interno dello Stato russo. Un centro di potere militare, mediatico, affaristico. La sua crescita ha accompagnato lo sviluppo dell'imperialismo russo e della sua politica di potenza. Prima in Siria, poi in Libia, poi ancora in buona parte parte dell'Africa subsahariana. Ovunque la milizia offre protezione militare per conto di Mosca in cambio di concessioni minerarie, in particolare in oro e diamanti (60 milioni di dollari di profitti annui). Il lavoro di rimpiazzo dell'imperialismo francese da parte dell'imperialismo russo nel cuore dell'Africa è stato appaltato da Putin alla Wagner.

Ma è soprattutto l'invasione dell'Ucraina ad aver spinto in primo piano il ruolo militare della Wagner. Lautamente sostenuta con 86 miliardi dallo stato russo, secondo la cifra ora rivelata dallo stesso Putin, la Wagner ha potuto mettere a frutto in Ucraina l'esperienza militare accumulata in Siria e il proprio patrimonio militare di mezzi pesanti e uomini. Il regime putiniano le ha consentito condizioni privilegiate di arruolamento, a partire dal reclutamento in massa di detenuti in cambio di grazia.
Una armata criminale, sotto ogni punto di vista, diretta da avventurieri dichiaratamente nazisti. L'assassinio a martellate, con tanto di video, di militari sospetti di arrendevolezza, dà la cifra delle regole interne alla compagnia. La battaglia di Bakhmut è stata il fiore all'occhiello della Wagner, il simbolo rivendicato della propria capacità militare e del proprio potere. Ventimila soldati massacrati sono stati il prezzo di questo successo, nel nome della patria russa.

Ma la proprio la crescita della Wagner è diventata col tempo un problema negli equilibri interni allo Stato russo.
Prigozhin a partire da gennaio 23 ha avviato una pubblica linea di contrasto con il ministero della Difesa Shoigu e il nuovo Capo di stato maggiore Gerasimov, accusati di incapacità, codardia, corruzione, insensibilità verso le condizioni della truppa al fronte. Una campagna spietata condotta non solo per linee interne, ma anche attraverso i canali Telegram e il gruppo mediatico Patriot, entrambi targati Wagner. La campagna non ha mai chiamato in causa il Presidente Putin, anzi ogni volta omaggiato come “il nostro Presidente”. Semplicemente ha cercato di spingere Putin a rompere con Shoigu e Geramisov rimpiazzandoli con altri uomini legati alla Wagner, tra cui innanzitutto il generale Surovikin, già noto come “macellaio di Aleppo”. Surovikin era stato non a caso il Capo di stato maggiore sino a gennaio, proprio per essere rimpiazzato da Gerasimov. Prigozhin voleva semplicemente spingere Putin a ripristinare la precedente linea di comando.
Per sei mesi la Wagner ha bombardato quotidianamente con la propria propaganda il quartier generale dell'esercito russo. Per sei mesi Putin ha taciuto sulla controversia cercando di tenersi al di sopra delle contraddizioni interne del proprio apparato militare per provare a dominarle. È il ruolo classico di un Bonaparte. Ma l'operazione di equilibrismo si è rivelata, oltre una certa soglia, impossibile.

A partire da maggio, il ministero della Difesa di Shoigu, col benestare di Putin, avviava un'operazione di razionalizzazione dell'apparato militare e di unificazione del comando. L'operazione investiva il ruolo stesso delle milizie private, in Russia assai numerose, rispondenti a diversi interessi oligarchici, come nel caso tra gli altri della milizia Gazprom. Il ministero della Difesa ha chiesto a ogni milizia privata di contrattualizzare il proprio rapporto con lo Stato, come condizione necessaria per poter operare sul fronte di guerra. Nei fatti, una proposta di integrazione e subordinazione delle milizie all'interno delle forze armate della Federazione Russa sotto il comando della Difesa.
La milizia Wagner si è sentita minacciata e ha respinto la proposta. La sollevazione di Prighozin è stato l'estremo tentativo di farla saltare, l'ultimo tentativo temerario di premere su Putin per imporre un cambio di scenario. Non un golpe per rovesciare Putin, ma un'iniziativa mirata a spezzare la sua alleanza con Shoigu, la massimizzazione estrema della propria politica di pressione sul Presidente russo in funzione della salvaguardia del proprio ruolo. Ma l'operazione è fallita. Le prime ore dell'ammutinamento sembravano incoraggianti: la conquista pacifica di Rostov, una rapida avanzata verso Mosca senza significative resistenze. In realtà, in quelle stesse ore si sfaldavano tutte le premesse di un possibile successo.

In primo luogo, messo di fronte all'ammutinamento militare, Putin ha dovuto alla fine posizionarsi con una dichiarazione pubblica di denuncia degli ammutinati come “traditori che pugnalavano alla spalle il popolo russo” nel corso della guerra. “Proprio come aveva fatto Lenin nel '17”, ha affermato Putin con un accostamento tra Lenin e Prighozin ovviamente grottesco (ma che conferma indirettamente una volta di più l'ossessione anticomunista di Putin). Da qui l'annuncio pubblico della punizione esemplare dei responsabili, e l'appello all'unità del popolo russo.

In secondo luogo, il generale Surovikin, prediletto da Prigozhin e su cui Prigozhin puntava, si appellava pubblicamente alla Wagner perché non spargesse sangue russo e scegliesse di ritirarsi. Non solo. Per dare la prova del proprio posizionamento contro la ribellione della milizia Wagner, Surovikin ha mosso aerei ed elicotteri, sotto il proprio comando, per contrastare l'avanzata, L'unica azione militare di contrasto dell'avanzata della Wagner (al prezzo di 16 piloti morti) è stata dispiegata paradossalmente dall'unico generale “amico” di Prighozin. Anche per questo la defezione di Surovikin ha dato all'avventura della Wagner il colpo di grazia,

La dichiarazione di ritirata dopo l'avvicinamento a 200 chilometri da Mosca è stata a quel punto obbligata. Lukashenko, per conto di Putin, si è intestata la mediazione risolutiva. Ma di resa si tratta. Prigozin salva al momento (forse) la pelle attraverso l'esilio in Bielorussia. Per il resto, la Wagner appare smembrata, privata del vecchio sostegno economico statale, e in ogni caso esclusa dalle operazioni militari in Ucraina. Suravikin è scomparso, probabilmente sotto interrogatorio per i sui rapporti ambigui con la Wagner. Gli odiati Shoigu e Gerasimov restano al loro posto, mentre i servizi segreti (FSB) lanciano la caccia ai reali o presunti complici di Wagner nel sottobosco dell'apparato statale. Difficile immaginare un esito più catastrofico per l'avventura di Prigozhin.

Ma se Prigozhin piange, Putin non ride. Il Presidente resta in sella, cerca bagni di folla per dimostrare la propria popolarità, proverà a capitalizzare la disfatta della sommossa col rilancio propagandistico del proprio regime. E tuttavia la sua immagine esce lesionata dalla vicenda. Troppe cose non tornano.
Alle ore 9 del sabato mattina il Presidente aveva lanciato la pubblica reprimenda dell'ammutinamento, ma per l'intera giornata l'esercito non si è mosso. Alcune unità militari hanno persino dichiarato simpatia per gli ammutinati (la duecentocinquesima brigata cosacca dei fucilieri motorizzati, la ventiduesima brigata Spetznaz, e diverse unità del cosiddetto “Storm Z”). L'unico a contrastare militarmente l'avanzata della Wagner è stato il generale estraneo alla catena centrale di comando, Surovikin, unicamente preoccupato di non compromettere il proprio futuro. In compenso a rispondere alla chiamata di Putin, sia pure in ritardo, è stato l'islamofascista Kadyrov e la sua milizia, pronta a farsi guardia del corpo del Presidente (in cambio del controllo terroristico sulla Cecenia).
Per l'intera giornata la resistenza a Prigozhin si è dunque risolta in alcune strade abbattute per rallentare la sua avanzata, i sacchi di sabbia e le mitragliatrici a Mosca quale estrema difesa della capitale: l'immagine di un potere arroccato e sotto assedio messo di fronte a tutta la sua fragilità. Non esattamente la coreografia più indicata per un Presidente che fa dell'ostentazione della propria forza la leva principale del proprio prestigio.

Il regime putiniano paga la privatizzazione dell'apparato statale, l'appalto delle strutture militari, la debolezza di una forza diretta su cui far leva. L'unica forza militare presidenziale è la Guardia nazionale russa, una sorta di arma dei carabinieri. Ma dispone di 10000 uomini, e non possiede ad oggi armi pesanti. Il fatto che ora Putin annunci l'armamento pesante della Guardia nazionale, e dunque il suo potenziamento, rivela la consapevolezza delle difficoltà del fronte interno, esposto in prospettiva a nuove possibili prove.

La popolazione russa non si è mossa, né per Prigozhin né per Putin. Non per Prigozhin, se si esclude l'immagine di Rostov in cui però la festa attorno alla Wagner era anche soddisfazione per la sua resa pacifica e la sua dipartita. Ma nemmeno per Putin, nonostante l'appello a reti unificate del Presidente. Il consenso maggioritario attorno al Presidente resta, ma è un consenso passivo, oggi forse più dubbioso di ieri.
La guerra d'invasione dell'Ucraina era stata presentata da Putin come rilancio della gloria russa, contro l'Ucraina nazista e l'Occidente collettivo, contro il Nemico. Ma ora improvvisamente è il fronte interno che si incrina. Sono i cosiddetti “eroi di Bakhmut” ad aver denunciato la corruzione e l'incapacità dei comandi.

E rimbalza l'ammissione clamorosa di Prigozhin, nell'ora della propria emarginazione, secondo cui sono tutte bugie quelle raccontate sulla guerra: sui morti in battaglia, sulle vittorie riportate e persino sulle ragioni della guerra: fatta non per difendere la Russia dall'Ucraina ma per appendere nuove medaglie al petto di Shoigu. In forma semplificata, una verità indubbia. Ora confessata. Da un macellaio di guerra, ma confessata. E tanto più significativa proprio perché confessata da un macellaio di guerra, il più insospettabile dei nazionalisti russi.

Naturalmente il regime putiniano spiega il tutto col fatto che l'Ucraina e l'Occidente sarebbero i mandanti... dell'ammutinamento di Prigozhin. E alcuni sciocchi in Italia crederanno all'ultima favola putiniana, come già a quelle precedenti. Ma in Russia il dubbio sulla credibilità della propaganda di guerra ha forse aperto un nuovo piccolo varco in un settore più ampio di opinione pubblica. Putin farà di tutto per chiudere quel varco nel segno del rilancio dello sciovinismo grande russo. All'avanguardia del movimento operaio russo il compito di dilatarlo: contro Putin, il suo imperialismo, la sua guerra.

Partito Comunista dei Lavoratori