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Comitato Centrale FIOM, Riconquistiamo Tutto e l'esordio di SCR in solitaria all'opposizione

Contro la risoluzione finale del CC FIOM, contro l'astensione delle opposizioni

Il 15 luglio si è rifatto vivo, in carne e ossa, il Comitato Centrale (CC) della FIOM. Fosse stato solo per il CC rituale della maggioranza, si poteva tranquillamente rimandarlo sine die, tanto è prevedibile. Ma il 15 luglio il CC era straordinario per un altro motivo, andava in scena la "prima" di quel che resta di "Riconquistiamo Tutto - Il sindacato è un'altra cosa", e della nuova opposizione di Sinistra Classe Rivoluzione, “I giardini di Marzo” , ops… pardon: "Le giornate di Marzo".

Ebbene, con ben due opposizioni rivoluzionarie, sapete com’è finita? Con tre astenuti e nessun contrario. Astenuta la compagna Como per "Riconquistiamo Tutto", astenuto il compagno Brini per "Le giornate di Marzo". Temiamo grasse risate di Re David. Come direbbe quel tale, la situazione sarebbe tragica se solo ci fosse un'opposizione seria.

Due settimane fa eran volati gli stracci per lo strappo di SCR da RT. Alla proposta, della nuova opposizione alla vecchia, di fronte unico a sinistra, la portavoce di RT aveva mandato a stendere SCR e detto perentoriamente: "guardiamo avanti!" Ebbene com’è finita? Col fronte unico di SCR rifiutato da sinistra e regalato al centro da RT! Invece di dimostrare subito quale delle due opposizioni fosse la vera sinistra, la maggioranza ha potuto godersi lo spettacolo unico di un CC FIOM in cui la sinistra è sparita, sostituita da due opposizioni che insieme, al momento, valgono meno di mezza.

Il fatto è che, dovunque la si giri, non si capisce il motivo di una simile astensione. O meglio, SCR, un anno fa, col voto favorevole alla piattaforma dei metalmeccanici, avendo intravisto chissà quale spostamento a sinistra della burocrazia, con l'astensione non ha fatto altro che andare dietro alla sua logica. Ma RT? Che motivi poteva avere RT per astenersi?

Ancora si discute sull’astensione di RT sulla piattaforma. Errore, torto? Ognuno si dia la risposta che crede. Quel che è certo è che almeno lì, una rottura con la vecchia impostazione dell’indice IPCA c’era. Ma qua? Che rottura ha proposto il documento conclusivo del CC FIOM?

Re David nel dispositivo finale ha spiegato che aprile e maggio hanno raggiunto ognuno 800/900 milioni di ore di cassa integrazione. L'intero anno 2009 oltre 900. In pratica quel che le crisi del ’29 e del 2009 hanno fatto in due anni, il Covid ha fatto in due mesi.

La pandemia da Covid ha causato il crollo dell’11.5% del Pil del sistema produttivo dei capitalisti, ma Re David, come prima della pandemia, continua ad essere sicura che sia “il nostro”.

Il sistema è talmente nostro che in due mesi di pandemia ha messo 5 milioni di lavoratori in cassa integrazione "a zero ore" con una perdita complessiva di quasi 1000 euro per ognuno di loro. In pratica, stipendio poco più che dimezzato per cinque milioni di lavoratori. Se il sistema non fosse stato "il nostro", di cassa integrati quanti ne avremmo avuti, signora Re David? Dieci milioni?

Se questo è il male, la ricetta è più cassa integrazione, cioè più stipendi dimezzati; rialzo dei massimale, per sopperire parzialmente alla prima richiesta a perdere; continuità del blocco dei licenziamenti, ossia continuità al massacro di precari (e non solo), non considerati licenziati solo perché di fatto mai assunti; riduzione "bastarda" degli orari, vale a dire misto di lavoro produttivo e qualche ora al giorno di pausa retribuita sotto forma di "sermone-formazione". E se già i padroni vogliono pagarci il meno possibile quando lavoriamo, solo la burocrazia sindacale può credere di convincerli a regalarci due ore retribuite solo per sentire fesserie formative.

Il tutto nel solito quadro del sindacato consigliere pratico dei padroni. La FIOM, per difendere i lavoratori, si erge a sindacato imprenditore, quello che vuol spiegare al capitale come fare il capitalismo. Per cui, al capitalismo che per sua natura è anarchico e individualista si spiega quanto sarebbe utile per lui una «visione d'insieme», vagamente pianificata, per uscire dalla crisi. Un consiglio così utile che non solo non si capisce come mai ai padroni entri da un orecchio ed esca dall'altro, ma anche se per miracolo l'ascoltassero, per noi cambierebbe poco e niente, visto che il capitalismo, in qualsiasi versione si presenti – da quella reale di "cane mangia cane", a quella idealistica "per il bene di tutti" della burocrazia sindacale – sempre capitalismo resta, e quindi funziona sempre nell'interesse di una classe sola, la loro, la classe dei cani sfruttatori che se ne infischiano degli sfruttati e dei consigli non richiesti di una burocrazia sindacale subalterna.

Scopo del sindacato-imprenditore è l'imprescindibile "tavolo negoziale" col governo. È al governo che sono indirizzate tutti questi cahiers de doléances, ai quali si aggiunge la postilla funebre sul rinnovo del Contratto Nazionale, già cestinato da Federmeccanica prima del Covid.

Al governo si chiede di far da regia a tutto questo. E per questo, cioè per ottenere un tavolo, si è pronti con FIM e UILM a mobilitare i lavoratori nell'interesse esclusivo della burocrazia sindacale. Sempre che il governo dia l'ok. Perché la mobilitazione vera fa così tanta paura che pure a quella totalmente finta con FIM e UILM è bene mettere un freno, in questo caso il rispetto giudizioso verso i protocolli sicurezza del governo, ossia le misure anti-sciopero e anti-assemblea di Conte.
L'esatto opposto di quel che han fatto a marzo i lavoratori, quando hanno scioperato infischiandosene di leggi e cavilli burocratici che governi e burocrazie sindacali hanno frapposto alla loro mobilitazione.

Null'altro contiene il testo conclusivo del CC FIOM. Eppure, questo esempio perfetto del nulla è bastato alla compagna Como per astenersi, par di capire per la semplice proroga, per lo più formale, come abbiamo visto, del blocco dei licenziamenti. "Serve molto di più" è la sua conclusione, "la mobilitazione simbolica" (leggi finta) "non basta".

Abbiamo visto male? Siamo troppo critici? Per fortuna di opposizioni ce ne sono ben due. Sentiamo quindi Brini, magari lui sa spiegarci le sacrosante ragioni dell'astensione.

Per Brini, neopaladino delle giornate di marzo, in quei giorni i padroni han fatto quello che han voluto. Più della metà delle aziende è rimasta aperta. FCA ha ottenuto l'avallo di FIOM e CGIL a 6,5 miliardi di soldi pubblici in cambio della cogestione delle perdite che il padronato manco ha concesso. Di buono c'è solo la richiesta di aumento di ammortizzatori sociali e del blocco dei licenziamenti. E tuttavia anche queste "bontà" sono per Brini dei palliativi. Proprio per questo serve, a suo dire, cambiare radicalmente la linea. E così è avvenuto. Siccome il documento finale del CC esprime in tutto e per tutto la continuità con la linea fallimentare e subalterna a Confindustria e governo che la FIOM e la CGIL hanno fin qui mantenuto, Paolo Brini cambia la sua e passa dall'appoggio sperticato alla piattaforma metalmeccanica all'astensione per dei palliativi.

Noi pensiamo che non solo non c'erano motivi per astenersi, ma ce ne erano tutti ma proprio tutti per votare contro. Pensiamo che, unendo Como a Brini, non servano più palliativi, perché il problema non è più o meno di ciò che non serve a niente.

Il problema è di metodo. Un sindacato che guarda solo al governo cui tiene la mano è destinato a raccogliere mosche, anche con le migliori intenzioni (che nel CC, comunque, non si sono viste).

Bisogna puntare tutto sui lavoratori, sulla loro mobilitazione e sulla loro responsabilizzazione, non sul loro controllo offerto a governo e Confindustria per avere un tavolo negoziale.

Una mobilitazione vera, vale a dire come minimo per aumenti salariali consistenti, riduzioni d'orario da 40 a 30 ore e rientro di FCA nel contratto, non passa certo da una innocua passerella programmata non prima di settembre, se va bene, con FIM e UILM. Il contratto è scaduto da sette mesi, e il fatto che FIOM, FILM e UILM appendano sulle bacheche delle fabbriche volantini per la sua "ultrattività" inventandosi di sana pianta che le aziende debbano erogare 200 euro di welfare anche per l'anno 2020 (quando da contratto scaduto sono previste solo per gli anni 2017-'18-'19) dimostra che nel loro profondo hanno già accettato, per quest'anno, di sostituire un improbabile, vero rinnovo con l'ultrattività immaginaria delle elemosine in forma di welfare di Federmeccanica, sperando che il buon cuore della controparte accetti di darglieli. Speranza vana, perché nella maggior parte delle fabbriche i 200 euro di presunta ultrattività del welfare nessuno li ha visti. E dove si sono visti, si son visti appunto per il buon cuore del padrone, non certo per l'ultrattività del contratto scaduto.

Dopo quasi un anno dalla scadenza, non si possono più aspettare FIM e UILM. Se si vuole un nuovo contratto decente, bisogna rompere coi docili cagnolini di Federmeccanica. Tanto più che la storia recente parla chiaro: un sindacato rosso per i daltonici e due gialli anche per i ciechi si mobilitano solo per far fallire i lavoratori, come dimostra il peggior contratto nazionale della storia, quello appena scaduto, che ottenne due euro di aumenti nei primi due anni con oltre 24 ore di sciopero finto. Non capiamo come si possa salutare come positiva la replica dello sceneggiato.

I 10 euro di aumento di giugno per l'ultrattività del contratto scaduto, inoltre, dimostrano che per quest'anno la FIOM ha già rotto con la "rottura" dell'indice IPCA inserito in piattaforma, ed è tornata all'ovile. Di rottura, se mai, se ne parlerà nel 2021, con buona pace di Brini, che votando a favore nel 2019 dimostra che la neonata opposizione, sedicente "giornate di marzo", è nata prematuramente in letargo. E a sentire Brini, ancora fermo alla richiesta cestinata dell'8% di aumento, la dormita continuerà della grossa per un altro po'.

Per svegliare la FIOM serve anzitutto un'opposizione che prenda atto della realtà senza farsi abbindolare dalle chiacchiere.
Le giornate di marzo, nonostante la generosità della classe operaia, si sono concluse con una sconfitta, grazie alla complicità della CGIL e di Landini che le hanno usate per aprirsi un varco al tavolo con Conte, senza ottenere altro che briciole per i lavoratori.

La sconfitta è doppia per i metalmeccanici. Non solo perché la FIOM non ha detto "beh" mentre Landini svendeva la mobilitazione degli operai, ma anche perché Re David e il responsabile per l'automotive, De Palma, replicavano la svendita in FCA siglando un accordo capestro che garantiva la ripresa dell'attività produttiva in tutta sicurezza per il profitto degli Agnelli. Benedetto da Burioni, tale accordo non è stata una conquista per i lavoratori, ma una sconfitta, perché non sono stati i lavoratori con la loro forza a portare a quel tavolo la FIOM, ma è stata l'azienda stessa a volerla insieme con tutte le altre organizzazioni sindacali, per garantirsi la massima collaborazione affinché fosse evitata ogni eventuale forma di conflitto.
Non un'ora di sciopero è costato quell'accordo, e questo basta e avanza per capire che vale meno di niente.

Questa è la FIOM che si è ripresentata dal vivo nel Comitato Centrale del 15 luglio. La stessa FIOM lasciata in mutande da Landini e ora sempre più nuda in mano a Re David e De Palma, i suoi degni eredi. Quella FIOM che con le chiacchiere non ha ottenuto nulla, ma che con le chiacchiere continua a pretendere di ottenere neanche qualcosa, ma solo tavoli negoziali.

A una FIOM così fallimentare e smobilitante a prescindere, per giunta senza alcun segnale di redenzione, si vota contro, non ci si astiene, perché astenersi significa dire che tutto sommato si è sulla strada giusta, basta qualche piccola correzione.

Per noi serve cambiare tutto, linea e dirigenti. In attesa che lo capiscano gli astenuti in CC, chi è in cerca di un'opposizione che faccia davvero l'opposizione deve accontentarsi della contrarietà assoluta dei metalmeccanici del Partito Comunista dei Lavoratori, i veri oppositori presenti in RT.
Luigi Sorge - Lorenzo Mortara

La porta sul cuore di tenebra dello Stato borghese

Sulla vicenda della caserma di Piacenza

Nell'ottobre 2018 scrivevamo, a proposito del caso di Stefano Cucchi e dell'eroica battaglia di Ilaria per la verità sul suo assassinio da parte dell'Arma dei Carabinieri: “Il cuore profondo dello Stato getta la maschera e viene allo scoperto”.

Un cuore di tenebra. È quello che emerge dall'inchiesta della Guardia di Finanza sulle vicende terribili della caserma dei Carabinieri di Piacenza. Ancora una volta siamo solidali con le parole coraggiose di Ilaria: «un fatto enorme e gravissimo che ricorda la vicenda di mio fratello. Basta parlare di singole mele marce, i casi stanno diventando troppi. Il problema è nel sistema».

Certo, un sistema. Non mele marce, come invece la retorica massmediatica si affretta subito ad affermare. Sì, ma di quale sistema stiamo parlando? Non certo quello di un episodio ordinario di corruzione. La portata dell'indagine del procuratore, un lavoro che si prospetta enorme per svelare le catena delle complicità e le connivenze delle strutture di comando dell'Arma, ne è la più evidente smentita. Un lavoro che deve svelare come sia stato possibile che per anni i comandi dell'Arma abbiano coperto una situazione in cui un'intera caserma dei carabinieri si è organizzata con una struttura del tutto simile alla criminalità organizzata, perpetuando arresti illeciti, torture, estorsioni e spaccio. Non è un caso che un'indagine di questa portata sia stata sottratta alle autorità inquirenti dell'Arma stessa.

Il fatto è enorme, ma non ci deve stupire. In realtà l'episodio, solo una punta dell'iceberg, rivela per l'ennesima volta, dopo la macelleria messicana e le torture della caserma Bolzaneto nelle giornate di Genova del luglio 2001, gli altri casi di morti “accidentali” come quelle di Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Serena Mollicone, per citare solo le più note, come funzionano realmente i corpi armati separati dello Stato borghese.
Ad ogni latitudine è evidente, come dimostrano gli omicidi a sfondo razziale della polizia statunitense: inflessibili nella protezione della proprietà privata e della sua sacralità (feroci bastonature dei picchetti operai), concessivi e garantisti con i reati dei cosiddetti colletti bianchi, repressivi nei confronti delle mobilitazioni popolari, razzisti nei confronti delle minoranze, impuniti e quindi dediti ad ogni corruzione e nefandezza, protetti dal proprio spirito di corpo che li pone in difesa dell'ordine borghese al di sopra delle stesse leggi borghesi, essi sono i più credibili testimoni della costituzione materiale dello Stato borghese profondo, insensibile per sua natura a qualsiasi costituzione formale.

Ribadiamo: proprio la natura organica dei corpi repressivi, il loro codice interno, la legge reale che governa le loro relazioni, li rende strumenti idonei alla difesa dell'ordine borghese della società.
Per questo nessun programma anticapitalista può rimuovere dal proprio orizzonte la questione dello Stato e della rivoluzione.
Partito Comunista dei Lavoratori

Recovery fund. La svolta europea e il portafoglio dei salariati

Il fatto nuovo c'è, ed è rilevante. La più grande crisi capitalistica del dopoguerra ha spinto gli imperialismi europei a una parziale gestione comune del debito pubblico, cioè all'emissione di titoli continentali coperti dal bilancio comunitario. I famosi Eurobond, a lungo evocati da ambienti borghesi liberali e riformisti, hanno visto di fatto la luce.
Il valore complessivo dei titoli emessi, secondo i diversi programmi previsti (Sure , Bei, Recovery Fund), corrisponde a una cifra imponente. Superiore in termini di incidenza percentuale sul Pil europeo del piano Marshall del 1948/1951 (ben il 5% del Pil continentale). La spartizione della somma ricavata dalla loro collocazione sul mercato è direttamente proporzionale all'impatto della crisi sulle diverse economie nazionali. Italia, Spagna, Francia, sono dunque le prime beneficiarie. La suddivisione interna tra prestiti e sussidi (a fondo perduto) varia anch'essa in rapporto alla portata della recessione annunciata. Per l'Italia è pertanto prevista una destinazione di risorse obiettivamente consistente.
Il significato politico dell'accordo è chiaro: il capitalismo tedesco ha accettato quella soluzione di parziale mutualizzazione del debito (futuro) che aveva rigorosamente respinto come impossibile per decenni. Lo ha fatto per timore che il crollo di Italia e Spagna potesse trascinare in rovina l'economia tedesca, profondamente integrata con quella italiana a partire dal settore centrale dell'automotive, e precipitare così la disgregazione del mercato europeo. Inoltre ha sicuramente giocato un ruolo centrale l'asse della Germania con la Francia, di cui Berlino non può privarsi.

Un salto verso l'Europa capitalista “federale”? No. La gestione comune del nuovo indebitamento pubblico è stata concordata dal Consiglio Europeo, dunque dai capi di governo nazionali. Il Consiglio Europeo avrà un ruolo importante nel controllo della destinazione delle risorse pattuite.
Il complesso meccanismo previsto, per quanto non preveda il diritto di veto, garantisce gli interessi dei vari Stati capitalisti, dentro un faticoso equilibrio, fonte di possibili contenziosi. I parlamenti nazionali, incluso quello olandese, dovranno ratificare l'accordo intervenuto, come fosse una modifica del Trattato. Basterebbe il no di un Parlamento per far saltare l'accordo. Il blocco dei capitalismi nordici (Svezia, Olanda, Danimarca), insieme all'Austria, eserciterà una funzione di freno, e ha consentito l'accordo solo grazie all'ottenimento del taglio dei propri contributi al bilancio continentale. Il cosiddetto blocco di Visegrad, a partire da Ungheria e Polonia, mercanteggia l'avallo dell'accordo con la preservazione dei propri regimi reazionari, in un quadro di negoziato permanente.
Occorre dunque prudenza nel misurare portata e prospettive del Recovery Fund. Una svolta è avvenuta. Al tempo stesso non è ancora consolidata, né è irreversibile.

Il punto vero, tuttavia, è un altro: una svolta nelle relazioni capitalistiche non è affatto una svolta per il portafoglio dei lavoratori. Tutt'altro.


UNA GIGANTESCA OPERAZIONE A DEBITO

L'intera operazione del Recovery Fund, come quella di Sure e Bei, è a debito. L'Unione degli Stati capitalisti vende titoli continentali sul mercato finanziario. Chi li comprerà? I cosiddetti investitori istituzionali: banche, fondi, compagnie di assicurazione. Dunque l'Unione degli Stati capitalisti accumula un proprio debito nei confronti del capitale finanziario, con l'impegno a ripagarlo coi dovuti interessi. Con quali risorse lo ripagherà? Con quelle del bilancio comunitario, di cui dispone la Commissione Europea. Ma il bilancio comunitario è estremamente ridotto (l'1% del Pil continentale) ed oltretutto ha visto dopo la Brexit e prima della pandemia un ulteriore restringimento. Dunque per soddisfare i creditori, cioè gli acquirenti dei titoli, occorre espandere le risorse di bilancio disponibili. Si può farlo in due modi: applicando nuove imposte continentali e/o aumentando i versamenti statali al bilancio europeo. L'Italia si è impegnata ad esempio ad accrescere di 50 miliardi il proprio versamento, così altri paesi. Come finanziano gli Stati nazionali, a loro volta, questi accrescimenti di spesa? O attraverso la fiscalità generale, che grava ovunque sui lavoratori salariati, o/e tagliando le spese sociali a danno prevalentemente della popolazione povera.
Dunque, il primo dato certo dell'indebitamento europeo è che verrà scaricato sul portafoglio dei lavoratori. E non è che il primo aspetto.


A CHI ANDRANNO I SOLDI?

Una volta che la UE ha venduto i nuovi titoli continentali sul mercato finanziario, coprendoli con risorse prese da salari e spese sociali, distribuisce il ricavato ai diversi paesi secondo il criterio prima indicato, parte in prestiti, parte a fondo perduto. Ma a chi andranno concretamente questi soldi? In buona misura a imprese e banche, colpite dalla recessione. Gli stati nazionali hanno già varato per proprio conto grandi operazioni di finanziamento dei capitalisti attraverso l'apposizione di garanzie pubbliche al credito bancario. Ora il Recovery Fund interviene sullo stesso tracciato, sotto forma del “sostegno alla competitività delle imprese” e della “sostenibilità del credito”. Gli stessi investimenti green, infrastrutturali e in digitalizzazione sono di fatto trasferimenti alle imprese sotto forma di incentivi, sussidi, detassazioni. Un affidamento al mercato, che come l'esperienza insegna non promette alcuna svolta né sul terreno ambientale né su quello sociale.

La novità è che parte di questa elargizione non dovrà essere rimborsata. Si tratta di regalia pura, senza accrescimento del debito pubblico. Peraltro, già il solo annuncio della nuova pioggia di miliardi in arrivo ha coperto una ulteriore detassazione dei capitali. In Italia è stata tagliata in piena pandemia la prima tranche dell'IRAP (4 miliardi) che oggi finanzia la sanità. Confindustria chiede in queste ore che la prossima legge di stabilità cancelli definitivamente la tassa (13,4 miliardi complessivi). Lo stesso ordine del giorno, in varie forme, viene posto in Francia e in Spagna. Ovunque i soldi europei finanziano la detassazione dei padronati nazionali, tutti in corsa gli uni contro gli altri per la massimizzazione dei propri profitti.

Non solo. Per poter ridurre i contributi di Olanda, Svezia, Danimarca e Austria al bilancio europeo, e al tempo stesso allargare quest'ultimo, il Consiglio Europeo ha tagliato 9,4 miliardi di spese sanitarie e 7 miliardi per la ricerca. Il primo biglietto da visita del Recovery Fund lo pagano la sanità pubblica e la ricerca medica. E ciò in presenza della più grande pandemia del dopoguerra.


LE “RIFORME” AL SERVIZIO DI CHI?

A sua volta, questa destinazione ai capitalisti dei diversi paesi di quanto ricavato dalla vendita dei titoli europei ai gruppi capitalisti è condizionata dal varo delle famigerate “riforme”. Le “riforme” hanno il marchio di sempre: liberalizzazione del mercato, flessibilizzazione del lavoro, e soprattutto piani di rientro credibili dal debito pubblico.

Il debito pubblico di ogni paese è cresciuto enormemente per le spese legate alla pandemia, il soccorso pubblico a imprese e banche, la precipitazione della recessione. Non volendo tassare i capitalisti ed anzi volendo continuare a detassarli, i governi borghesi sono ricorsi ben prima del Recovery fund a nuovo deficit e nuovo debito. Cioè hanno emesso propri titoli pubblici, ordinari o straordinari, per venderli sul mercato finanziario. Li hanno comprati banche nazionali, compagnie di assicurazione, e la BCE. Una BCE che oggi continua a finanziare massicciamente innanzitutto l'Italia, comprando i suoi titoli, ben al di là della quota detenuta in BCE da Bankitalia.
Questa enorme crescita del debito pubblico sovrano è una mina vagante per l'economia mondiale ed europea. Occorrono dunque piani di rientro. Nel 2020 ovviamente è impossibile, dal 2021 è inevitabile, pena la fuga degli investitori, la minaccia di crack, l'impennata dei tassi di interesse.
Come avvengono i piani di rientro? Consolidando il cosiddetto avanzo primario, cioè il rapporto tra entrate e uscite al netto dei tassi di interesse. Significa che ogni anno i tagli dovranno essere superiori al prelievo fiscale. Punto. Non a caso l'avanzo primario è una costante delle leggi di bilancio in Italia negli ultimi vent'anni. Il ministro del Tesoro Gualtieri ha assicurato che manterrà questo «percorso virtuoso». È la garanzia offerta dall'Italia ai propri creditori, banche italiane in testa e BCE. La piena preservazione della Legge Fornero, la cancellazione della elemosina di quota 100, sono già nella partita di scambio. Nessun pranzo è gratis, come dicono i padroni. Tranne per i padroni.


NÉ EUROPEISTI NÉ SOVRANISTI. SEMPLICEMENTE COMUNISTI

Qual è dunque l'indicazione di fondo che emerge dal nuovo accordo europeo? L'Unione Europea, stretta nella morsa tra USA e Cina, preserva la propria esistenza attraverso una gigantesca operazione a debito, che si somma al crescente indebitamento pubblico di tutti gli Stati nazionali. La montagna del debito, nazionale ed europeo, poggia sulla schiena di centinaia di milioni di lavoratori salariati del vecchio continente. C'è un solo modo di liberarsene: rovesciare la classe dei capitalisti, a partire dai capitalisti di casa nostra. È possibile recuperando l'autonomia della classe lavoratrice contro gli europeisti borghesi e contro i sovranisti reazionari. La linea divisoria non è tra Unione Europea e Indipendenza Nazionale. È tra i capitalisti, italiani ed europei, e i salariati di ogni paese.
L'abolizione del debito pubblico verso il capitale finanziario, la nazionalizzazione delle banche, vanno posti all'ordine del giorno nei programmi di mobilitazione della classe lavoratrice, in ogni paese e su scala continentale, legandoli alle battaglie per la ripartizione del lavoro (30 ore pagate 40), di riorganizzazione ecologica della produzione, di un investimento massiccio nel sistema sanitario e nell'istruzione, pagata dai grandi patrimoni, rendite, profitti.

La crisi la paghi chi l'ha provocata, non chi l'ha subita.
Partito Comunista dei Lavoratori

Presidio per i lavoratori Sovia – SGB denuncia ancora una volta la “terra di mezzo” del sistema delle cooperative

Intervento di Antonio, sindacalista SGB, al presidio di Ravenna del 22 luglio 2020
Tutte le volte che ci imbattiamo in una condizione come quella dei lavoratori di Sovia rileggiamo un testo di un magistrato del lavoro ravennate che molto ha indagato sulle condizioni di lavoro nel nostro territorio.
Ad introduzione di questa manifestazione cito alcune frasi di questo testo che offre immediatamente a tutti la chiave di lettura della vertenza dei lavoratori di Sovia.
– scrive il magistrato (1) – L’esperienza pratica e processuale evidenzia, come il principale terreno per la compressione dei diritti e la sottotutela dei lavoratori sia costituito oggi dai processi di scomposizione dell’impresa all’interno delle catene produttive, la sua frammentazione organizzativa, che si realizza attraverso lo strumento dell’appalto, del subappalto.
Ci sono più modelli in cui si realizza questa compressione dei diritti.
Una versione legale tramite il contratto di somministrazione con un’agenzia interinale oppure attraverso il contratto di appalto.
Una versione illegale che si presenta si presenta in due versioni; una di manifesta illegalità di vero e proprio caporalato e una più ambigua dove vi è fatto intermediazione illecita di manodopera.
In questa terra di mezzo − della compressione legale ed illegale dei diritti del lavoro − sono fiorite le migliaia e migliaia di imprese, senza mezzi né capitali, più o meno subdole; e si è ricreato quel mercato delle braccia all’interno del quale si è appaltato di tutto e di più, dando vita a quell’economia del sommerso e dell’illegalità, fatta di appalti e subappalti, di cooperative spurie e contratti pirata, di ricatti e peggioramento delle condizioni reali di vita e del lavoro delle persone
In questa terra di mezzo − della compressione legale ed illegale dei diritti del lavoro − quasi sempre si trova una cooperativa cd. Spuria, cioè una falsa cooperativa.
In questa terra di mezzo si trova il sistema degli appalti di Marcegaglia, in questa terra di mezzo si trova la cooperativa SOVIA.
Sovia (l’acronimo sta per Soluzioni Vincenti per le Aziende) entra nello stabilimento nel 2018.
Sovia non è esperta di movimentazioni merci a livello industriale. Nel suo statuto c’è di tutto, compresa la produzione cinematografica…
Non ha macchinari da portare alla Marcegaglia (è il committente che glieli mette a disposizione).
Non ha neanche i lavoratori da impiegare alla Marcegaglia.
Per il reclutamento si rivolge ad un’agenzia interinale. Un reclutamento molto particolare. I lavoratori vengono formati dall’agenzia a loro spese e alla consegna dei soldi gli viene detto che non è possibile rilasciare lo scontrino. Il costo del “corso”, o meglio il costo per potere lavorare, è variabile: per alcuni 170 € per altri il costo è di molto più alto.
Ecco il primo elemento di quella versione illegale di appalto.
Assunti da Sovia i lavoratori vengono collocati in uno dei livelli più bassi del contratto della Metameccanica.
Sono tutti a tempo determinato, ma assieme all’assunzione diventano soci della cooperativa.
Sono soci ma non hanno mai potuto partecipare ad un’assemblea per approvare il bilancio della cooperativa, per eleggere il consiglio di amministrazione. Di fatto sono “finti” soci, come di fatto Sovia è una finta cooperativa.
Come cooperativa può però utilizzare la legge sul socio-lavoratore e peggiorare condizioni economiche e normative dei contratti di lavoro. E ancora siamo nell’illegalità.
Lo fa deliberando lo “stato di crisi”. Sovia, nel giro di tre anni, moltiplica il suo fatturato di 800 volte, però dichiara di essere in crisi e in questo modo può togliere il 10% dalla stipendio dei lavoratori, un vero e proprio “furto” di salario. Un altro elemento di illegalità
Fra livelli bassi e furto del 10%, le retribuzioni dei lavoratori della Sovia sono di 400€ in meno ad altri lavoratori con la stessa mansione che lavorano nello stabilimento.
E’ un trattamento che riserva ai lavoratori più ricattabili. I lavoratori di Sovia sono in maggioranza stranieri, provenienti dall’Africa occidentale. La precarietà del loro contratto assieme alla temporaneità del loro permesso di soggiorno, una la miscela per garantire il massimo di ricattabilità.
Per Sovia sono lavoratori che devono solo ringraziare per “essere stati tolti dalla strada” (un classico del razzismo dei padroni).
I lavoratori però non ci stanno e appena ottengono il contratto a tempo indeterminato un primo gruppo di lavatori si rivolgono al sindacato e decidono di organizzarsi con SGB.
Nei giorni successivi tutti i nostri iscritti vengono rimproverati dai responsabili di Sovia per essersi iscritti a SGB. Altri lavoratori che avevano l’intenzione di aderire a SGB hanno paura di perdere il lavoro e rinunciano all’iscrizione.
Oltre alle minacce Sovia trova un’altra soluzione vincente: un sindacato di “comodo” a cui fare iscrivere i lavoratori.
I responsabili distribuiscono le deleghe di quel sindacato. Assieme al contratto a tempo determinato si firma l’iscrizione al sindacato del padrone.
Mentre sono espulsi dalla fabbrica lavoratori a tempo determinato sospettati di essere simpatizzanti di SGB, vengono assunti parenti e amici del responsabile territoriale di quell’organizzazione sindacale.
Responsabile territoriale che accusa SGB di attaccare una piccola cooperativa dove tutti i lavoratori “sono stracontenti di come vengono trattati, dove non ce n’è uno che si lamenti”.
Addirittura all’incontro che abbiamo ottenuto grazie alla Prefettura, il Presidente di Sovia si è presentato con il Rappresentante Aziendale di quel sindacato, nella sua delegazione. Un sindacato parte della delegazione del padrone.
Dopo il primo sciopero sono partite nuove minacce. I responsabili della Sovia hanno detto ai lavoratori che daranno la lista degli iscritti a SGB alla Marcegaglia per buttarli fuori dalla fabbrica.
I lavoratori però non si fermano ed oggi sono di nuovo in sciopero e non si fermeranno sino a che non sarà rimosso il sistema illegale di Sovia, fino a che non ci sarà la restituzione del 10%, sino a che non finiranno le discriminazioni sindacali ed anche razziali.
Anche SGB ha soluzione vincente, non per le aziende, ma una soluzione vincente per i lavoratori.
La lotta determinata dei lavoratori e la solidarietà di tutti voi. Sappiamo che sarà una lotta dura e lunga, ma non ci fermiamo… grazie anche a chi ci dimostra solidarietà sappiamo che resisteremo un minuto di più di Sovia.

(1)
https://www.questionegiustizia.it/articolo/cooperative-spurie-ed-appalti-nell-inferno-del-lavoro-illegale_30-04-2019.php

Altre foto della manifestazione:


Partito Comunista dei Lavoratori - Sez. Romagna

SCR costruisce una propria area in CGIL, l’opposizione continua ad essere RT!

Comunicato della Commissione sindacale del PCL sulla nascita della nuova "area" in CGIL, denominata "Le giornate di marzo"

L'uscita di Sinistra Classe Rivoluzione (SCR) dall’area programmatica congressuale di RiconquistiamoTutto! (RT!) è il punto conclusivo di una lunga deriva settaria (nella CGIL come più in generale nella sua azione politica, nei movimenti e nelle lotte). L'uscita infatti non è solo scorretta per i modi in cui si è avverata, senza un solo avviso ai compagni e alle compagne con cui, bene o male, da anni si lottava fianco a fianco (un colpo basso, in contrasto proprio con quelle giornate di marzo che SCR ora vorrebbe rappresentare e che sono quanto di più nobile espresso dalla classe lavoratrice quest'anno).
Per quanto dolorosa, comunque, questa uscita non è improvvisa e inaspettata.
Come infatti scrivevamo fin dalla risoluzione del Comitato Centrale del PCL del dicembre scorsoSCR aveva avviato evidenti "dinamiche di sganciamento". Come mai il gruppo dirigente di RT! non se ne è accorto?

Non crediamo nemmeno che si possa incolpare, come viene fatto da una parte del gruppo dirigente dell’area sindacale, l'ingerenza dei partiti al suo interno, dando per scontato che i partiti siano un male. Per noi è il contrario. In primo luogo, in generale, l’impegno politico dei militanti sindacali, e quindi anche la loro partecipazione ad organizzazioni politiche, non può che sostenere quel processo più ampio di sviluppo della coscienza di classe che è inevitabilmente necessario per svilupparne la lotta. In secondo – ma non secondario – luogo, in questi ultimi venti anni la sinistra sindacale della CGIL ha subito progressive derive burocratiche, spesso isolando e disperdendo avanguardie radicate nelle singole realtà di lavoro: è stata proprio una rete di militanti politici nella CGIL che ha permesso, in alcuni passaggi fondamentali, di tenere dritta la barra, e la spina dorsale, e di perseguire controcorrente un raggruppamento conflittuale e classista, tessendo relazioni tra diversi settori sindacali e politici, oltre che tra diverse avanguardie nei posti di lavoro, e impedendo così di esser risucchiati nelle dinamiche burocratiche della CGIL (dalla stessa fondazione della "Rete 28 aprile" nel 2004 alla rottura con "La CGIL che vogliamo", permettendo quindi la costruzione di "Il sindacato è un'altra cosa-Riconquistiamo Tutto"). Anche per questo, in un’area plurale che raccoglie diverse pratiche sindacali e diverse sensibilità politiche, abbiamo sempre ritenuto e continuiamo a pensare che il suo sviluppo non passi per la negazione, l’isolamento e tanto meno l’estromissione delle soggettività presenti, ma anzi per il libero sviluppo del confronto, della discussione, dell’espressione dei diversi punti di vista e delle diverse impostazioni.

La deriva settaria e “politicista” di SCR si evidenzia nella scelta di costruire una nuova "area" fatta a immagine e somiglianza della sua organizzazione politica, semplice espressione e proiezione di sé stessa. Una scelta sicuramente autoreferenziale, ma figlia anche della sua personale e legittima visione della costruzione del conflitto, del sindacato e del partito di classe. Una visione con cui, al pari di tutte le altre presenti, RT! dovrebbe imparare a fare i conti.

SCR lamenta l'assenza di RT! nelle giornate di marzo, dimenticando che a marzo SCR aveva nell’area una significativa influenza, oltre che una presenza radicata, in particolare in alcune fabbriche e aziende emiliane. In realtà RT! è stata presente a marzo dove ha potuto e come ha potuto, in alcune situazioni con un ruolo non secondario proprio nell’innesco di quell’ondata, portando a casa anche alcuni risultati importanti. Certo, RT! non ha egemonizzato le giornate di marzo, perché se lo avesse fatto avrebbe avuto un radicamento di massa, che è precisamente il problema non solo di RT! ma di tutta l'estrema sinistra e del sindacalismo di classe, SCR compresa.
La mitologia di SCR sembra dire l'esatto opposto: l'area non ha fatto niente ma dove era presente SCR la classe è avanzata come un rullo compressore. Se così fosse, non si capirebbe come SCR non sia stata capace in questi anni di conquistare almeno l'egemonia di RT!. Ammantare di mitologia la propria uscita impedisce di vedere i reali problemi dell'area.

RT! è da tempo in difficoltà e in una fase di ripiegamento. Estremamente limitata e schiacciata dalla burocrazia CGIL, particolarmente dopo l’ultimo congresso, ha faticato a sviluppare una propria linea generale alternativa (come aveva invece impostato nei rinnovi contrattuali precedenti, entrando in sintonia e relazionandosi con dinamiche di classe anche estese, come mostra l’ampio dissenso di numerosi rinnovi). Una fatica determinata anche da arretratezze e incapacità del suo gruppo dirigente, come evidenziato da alcune derive verticistiche (vedi la penosa questione pisana). Una fatica evidenziatasi anche nella stessa battaglia di marzo, rimanendo chiusa nella ridotta del conflitto azienda per azienda e non ponendosi il problema della generalizzazione delle lotte, oltre che focalizzandosi sulla lotta per la salute ("chiudiamo le fabbriche"), senza generalizzare la lotta anche per il salario (la vera sicurezza è stare a casa pagati, non chiudere semplicemente le fabbriche).
Un ritardo segnato nei mesi scorsi dall’assenza di una piattaforma di lotta generale e unificante di tutta la classe lavoratrice di fronte all’emergenza della crisi sanitaria, economica e sociale, e dalla ritrosia nel partecipare organicamente ai diversi percorsi di fronte unitario dell’avanguardia politica e sindacale di classe.

Questi problemi dell'area chiamano in causa in primis il gruppo dirigente. Noi, pur segnalando tutti i problemi soggettivi interni all'area, non dimentichiamo però che in ultima analisi dipendono dalla lotta che a marzo, nonostante la generosità degli operai, ha evidenziato le divisioni tra le diverse realtà ed i diversi settori di classe, e quindi segnato una nuova sconfitta per la classe lavoratrice, grazie alla complicità di Landini e della CGIL col governo Conte. Se così non fosse, i padroni non avrebbero insistito così spudoratamente su tutte le loro pretese.

Il destino dell’opposizione nella CGIL, dello sviluppo di un’area classista e conflittuale, al netto dei problemi segnalati che vanno assolutamente rimossi, dipende oggi soprattutto dalla riscossa dei lavoratori e delle lavoratrici il prossimo autunno, con la precipitazione delle crisi e della conseguente offensiva padronale. Ovviamente, non è scontata. A noi spetta il compito di arare il terreno, lottando contro la burocrazia di maggioranza, e per una democrazia cristallina in RT!.

In ogni caso, quando il conflitto si riaccenderà, non rifiuteremo certo la collaborazione di chi vorrà porsi su quel terreno di conflitto e di costruzione di un’alternativa classista, nella CGIL e soprattutto nelle lotte di lavoratori e lavoratrici. L’opposizione in CGIL continua infatti ad essere RT!. E il suo primo compito, da qui in avanti, è rimarcarlo al meglio.

La battaglia per la costruzione di una tendenza che sia classista, anticapitalista e rivoluzionaria, per portare avanti l’obiettivo di conquistare alla prospettiva della rivoluzione socialista la maggioranza della classe lavoratrice, è il compito dei marxisti rivoluzionari. Il Partito Comunista dei Lavoratori si muove con i suoi militanti e le sue militanti in questa direzione.
Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione sindacale

31 luglio: "Riconquistiamo il diritto alla salute! Per una sanità pubblica, universale, laica, gratuita"

Venerdì, 31 Luglio 2020 alle ore 15 - 20 - Angolo via Augusto Righi 2/a via dell'Indipendenza 45/A Bologna

Petizione: "Riconquistiamo il diritto alla salute! Per una sanità pubblica, universale, laica, gratuita"

Banchetto di raccolta firme sulla petizione
I promotori della popolazione invitano le cittadine e i cittadini a firmare la petizione per sostenere il diritto alla salute e garantire le risorse per il Servizio Sanitario Nazionale
Promuovono: Democrazia Atea,Fronte Popolare,La Città Futura,Partito Comunista dei Lavoratori,Partito Comunista Italiano,Partito della Rifondazione Comunista,Partito Marxista-Leninista Italiano,Potere al Popolo,Risorgimento Italiano,Sinistra Anticapitalista

1970-2020, la lezione dei moti di Reggio Calabria

Un'iniziativa del PCL in Calabria sui moti di Reggio

I moti di Reggio Calabria furono uno snodo significativo della storia italiana. Il dibattito che oggi si sta sviluppando è paralizzato dalla riproposizione banale di posizioni che, da un lato, si presentano come una rivolta di popolo contro un ceto politico prevaricatore guidata dai “boia chi molla” e, dall’altro, rivendicano al gruppo dirigente del PCI il “merito” di avere garantito la stabilità delle istituzioni. In questi termini si perde, in maniera interessata, l’occasione di una riflessione adeguata.

Su questi problemi la Commissione meridionale del Partito Comunista dei Lavoratori ha, invece, promosso una conferenza che ha discusso aspetti essenziali sui quali riflettere per farne tesoro in questo momento cruciale.
Nel clima di omologazione oggi imperante va indubbiamente rilevata la scarsa attenzione che gli organi di informazione hanno riservato all’iniziativa. Essa è partita dalla lucida ricostruzione dei fatti sviluppata dal compagno Brunetti, all’epoca segretario regionale del PSIUP, che è partito dal riferimento generale al contesto italiano.

Negli anni seguiti alla nascita del centrosinistra, la società meridionale vide lo sviluppo di mobilitazioni di massa di grande rilievo condotte da lavoratori, contadini e da settori importanti delle giovani generazioni. Dopo la repressione delle lotte per la riforma agraria, stroncate nel dopoguerra dalle stragi di Melissa, e il consolidamento di un blocco reazionario e mafioso nel Sud, le masse finalmente tornavano in campo.
Ciò accadeva anche nella città di Reggio Calabria, con ferrovieri, studenti, ampi settori di un proletariato cresciuto con lo sviluppo demografico e l’inurbamento di migliaia di lavoratori che si stavano mobilitando contro emarginazione e sfruttamento.
La mobilitazione toccava aspetti di grande significato, come l’opposizione all’imperialismo, l’occupazione delle scuole, il riconoscimento dei diritti del lavoro.
C’era, in altri termini, la possibilità di costruire un grande movimento che unisse la società meridionale alle masse del Nord e alle loro lotte.
Il malessere del Sud emergeva con la manifestazione di bisogni di massa che talvolta venivano espressi anche con elementi di confusione. Quando questo malessere si incrociò con la scelta del capoluogo regionale, la sinistra avrebbe dovuto essere presente nella società con una proposta che giocasse al rialzo e ponesse al centro la necessità di spezzare l’ordine sociale sulle questioni del lavoro, della mafia, e che parlasse con la voce dell’anticapitalismo; se ciò fosse avvenuto, le masse di Reggio Calabria non sarebbero state consegnate all’egemonia della destra.

Il gruppo dirigente del PCI fece totalmente altro, con una scelta che rimuoveva le indicazioni di Gramsci e cancellava il compito di unire le masse di tutto il paese, per privilegiare invece il suo ruolo di forza politica nazionale che garantisse la tenuta dell’ordine sociale e la stabilità delle istituzioni borghesi.
Le posizioni del PSIUP calabrese, che si muovevano su una prospettiva radicalmente diversa e di classe, furono pesantemente attaccate come irresponsabili e costrette all’isolamento, anche con la complicità del gruppo dirigente nazionale dello stesso PSIUP.
Posizioni che furono ben altra cosa rispetto a quelle prodotte in maniera estemporanea da esponenti di Lotta Continua.
A ben considerare, la posizione assunta dal PCI era in stretta continuità con la linea imposta al partito da Togliatti e da tutto il gruppo dirigente staliniano con la svolta di Salerno.
La sconfitta sui fatti di Reggio, che il responsabile meridionale del PCI Gerardo Chiaromonte classificò come “una ragazzata di quattro teppisti”, portò conseguenze pesanti, con il definitivo arroccamento del PCI al governismo e alla collaborazione di classe. Tutto ciò con conseguenze che ricadono fino ad oggi, momento in cui globalizzazione e imperialismo producono, anche per la crisi del movimento operaio, una miseria più grande e nuovi spaventosi sviluppi.

Cinquanta anni dopo i moti si evidenzia come la Caporetto della sinistra governista, che è durata nel tempo, ha contribuito a una crisi generale gravissima.
Nel suo quadro si collocano la situazione di un’area mediterranea sempre più povera e uno sconvolgimento che tocca aree geografiche e sociali sempre più grandi.
La speranza che l’Europa degli imperialisti possa produrre un riequilibrio è solo una pia illusione. Solo un’Europa diversa basata sull’unione dei lavoratori del vecchio continente e delle masse dei paesi poveri costrette all’immigrazione può invertire la rotta. La proposta di un piano per il nuovo lavoro e un’economia non più fondata sul capitalismo è di fondamentale importanza.

Altri aspetti sono stati puntualizzati dal compagno Pino Siclari, coordinatore della Commissione meridionale del PCL. La cecità delle burocrazie politiche e sindacali e il loro naufragio sui fatti di Reggio emersero anche con la sottovalutazione del problema del capoluogo inserita nella riforma che al momento del varo della Costituzione introduceva l’ordinamento regionale. Essi avevano tutto il tempo per disinnescare questa mina vagante e per evitare tutte le sue catastrofiche conseguenze sulla realtà sociale calabrese. Le scelte adottate dal PCI diedero spazio all’egemonia reazionaria e consentirono alla destra di costruire un blocco sociale contrapposto al movimento operaio e collaterale, se non collegato, alla strategia della tensione e delle stragi.
L’errore proseguì nel tempo; ancor prima del governo Andreotti, in Calabria si costituì una maggioranza regionale allargata al PCI.
Poi il compromesso storico, la svolta dell’EUR con i sacrifici che, imposti nel sacro nome dello sviluppo del Sud, avrebbero penalizzato ulteriormente le masse meridionali.
E poi ancora la mutazione dell’identità esteriore del PCI e la sua inequivoca collocazione nel campo delle forze borghesi con la nascita del PDS e dei DS.
Infine una considerazione sul lascito culturale dell’egemonia reazionaria: la protesta contro i misfatti dei “politici”.
L’odierna “antipolitica” non può essere considerata una proiezione di quel delirio "rivoluzionario" che oggi si ripropone con Grillo e Salvini?
In questo momento di emergenza, a una sinistra più debole e mal messa si ripropone lo stesso dilemma di allora: o essere l’elemento di garanzia per il mondo di lorsignori o parlare il linguaggio della rivoluzione.

Altri interventi, come quelli dei compagni Demetrio Cutrupi e Antonio Messineo, hanno puntualizzato la responsabilità di quei gruppi dirigenti che lasciarono campo aperto alla destra e resero ancor più esplicito l’abbandono delle categorie politiche di Antonio Gramsci. Quelle categorie politiche che invece la conferenza del PCL ha rimesso al centro, e con le quali ha letto i moti di Reggio, rendendo la loro lezione utile sul terreno della prospettiva politica nel nome e per conto dell’interesse dei lavoratori.
L’iniziativa si è conclusa con l’annuncio di una prossima sessione degli "itinerari gramsciani” dedicata ai moti di Reggio e con l’indicazione di un’assemblea meridionale della sinistra di opposizione da tenersi nei mesi a venire.
Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione meridionale

Scandali nel Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

Introdurre cariche elettive e forme di potere dei lavoratori!

Una serie di scandali ha coinvolto il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco in questo ultimo periodo. Questa volta le testate giornalistiche anziché parlare di “angeli del soccorso” hanno raccontato di delinquenti. Si tratta di una brutta pagina per il corpo più amato in Italia.

Il 12 giugno scatta la fase finale della maxi attività investigativa, della Guardia di Finanza, denominata “Par condicio”, durata per quasi due anni e partita da una intercettazione telefonica relativa a un altro procedimento. Il vaso di Pandora è aperto. 118 persone indagate, quasi tutti pubblici ufficiali tra i vari corpi dello stato, per, al momento, 53 episodi contestati. L'affare è quello dei concorsi pubblici, non solo per Vigili del Fuoco, ma anche per quelli per la Polizia di Stato, per l'Arma dei Carabinieri e per la Guardia di Finanza. Gli indagati fanno parte di un sistema-associazione che riusciva a garantire l'assunzione a concorsisti che erano disposti a pagare ingenti somme. Si parla di reati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, corruzione e rivelazione di segreti d’ufficio.
Dalla procura della Repubblica di Benevento sono fatte scattare quindi otto misure cautelari nei confronti di vari soggetti, tra i quali spicca Claudio Balletta, Viceprefetto, dirigente del Ministero dell'Interno presso il Dipartimento dei Vigili del Fuoco, finito in carcere assieme a due funzionari VVF di Benevento: Giuseppe Sparaneo e Antonio De Matteo (quest'ultimo già in pensione). Agli arresti domiciliari invece il maresciallo della Finanza Antonio Laverde ed il Carabiniere Vito Russo, entrambi di Benevento. Obbligo di dimora per Eduardo Zolli. Sospensione per 12 mesi dalle proprie funzioni per l'agente della PS Gianluca Galliano e per il caporeparto VF Alessandro Lupo, nonché segretario generale UIL-PA VVF.

A seguito di di oltre 50 perquisizioni su tutto il territorio nazionale, per rintracciare materiale utile alle indagini, sono stati sequestrati complessivamente 370.000 euro: 156.000 euro sono stati trovati all'interno di un borsone in un armadietto presso il comando VF di Benevento, invece nell'abitazione del Viceprefetto sono stati trovati 45.000 euro dentro un battiscopa. Ma si stima che il volume d'affari delle otto persone raggiunte dalle misure cautelari, nell'ultima fase, sia approssimativamente di circa un milione di euro.
Si scopre infatti che l'attività criminosa, piuttosto ramificata sul territorio nazionale, veniva svolta quotidianamente ed incessantemente, anche durante il periodo del lockdown.

I candidati dei vari concorsi, reclutati anche direttamente della “banda”, arrivavano a pagare fino a 20.000 euro per ottenere una pen drive contenente le domande per superare la prima fase dei concorsi. Si parla dei concorsi VF 250 del 2016 e quello per la Polizia di Stato 1.815 del 2019, o perfino altri che addirittura ancora dovevano essere banditi (quello per Ispettori Logistico-gestionali VF). In alcuni casi, per la consegna del materiale, è stato addirittura usata l'auto di servizio VF per superare i controlli delle forze dell'ordine negli spostamenti.
Ma non ci si ferma alla pen drive. Gli stessi concorsi venivano eventualmente “aggiustati” per permettere al candidato pagante di arrivare senza intoppi, attraversando le varie fasi, alla meta finale: l'assunzione. Questo avveniva mediante altri attori, gli altri 110 indagati, che a vario titolo, dai dottori fino agli psicologi, facevano parte del sistema. Ad ognuno spettava una parte della mazzetta. È successo così che sono entrati in graduatoria e poi assunti ragazzi e ragazze addirittura con problemi seri di salute.

Da una intercettazione si è compreso che il sistema andava avanti da molti anni. Infatti il Procuratore di Benevento ha affermato che “alcuni dei componenti di questo gruppo finiti al centro delle indagini, nel passato avevano un'analoga struttura, poi andata in crisi per contrasti interni. Un modus andato avanti per una decina di anni”.
Impattante la compromissione, in questa banda di affaristi e delinquenti, del sindacalista rappresentante nazionale UIL dei vigili del fuoco. Riguardo Alessandro Lupo, il giudice delle indagini preliminari dichiara che viene “dimostrato, da un lato, disponibilità ad accettare danaro per intercedere in favore dei candidati segnalati da De Matteo [uno degli arrestati] presso le commissioni di concorsi nelle forze dell'ordine e, dall'altro, un'effettiva e concreta capacità di incidere sulle decisioni dei commissari”.
Approfittando delle trasferte sindacali a Roma viene accertato che, almeno per due episodi precisi (due i capi d'imputazione contestati, tra maggio e novembre 2019), Lupo riesce ad intascare 22.000 euro di mazzette per il suo ruolo di corriere tra chi raccomandava le candidature (il funzionario VF De Matteo) e chi faceva funzionare l'intera macchina (il Viceprefetto Balletta). La sua figura era molto influente, non solo nel circuito nazionale, ma anche dentro il Comando di Venezia (dove prestava servizio per pochi turni l'anno) nei rapporti con la dirigenza.

Il 27 giugno viene aperto uno squarcio su un'altra inchiesta, quella condotta dai pm di Trapani, scaturita da altre indagini e tuttora top secret, riguardante il concorso per 250 posti VF del 2016. Anche questa volta, dietro compenso, dai 500 ai 3000 euro, veniva garantito ai concorsisti di entrare in graduatoria e successivamente essere assunti. Il tutto con la “copertura” di una scuola dove venivano impartiti dei corsi di formazione “che costituivano un vero e proprio sistema per il procacciamento di potenziali candidati ai quali proporre i pagamenti per il positivo superamento delle prove concorsuali”. Proprio in quei corsi venivano “illustrate le modalità della condotta illecita allestita”. Chi sceglieva di non pagare e far parte di questo sistema rischiava di veniva punito, o addirittura escluso dal concorso, ed è proprio grazie al ricorso di due aspiranti vigili del fuoco, a cui non era stato riconosciuto il titolo di studio, un modo cioè per fargliela pagare e dare una lezione a quelli che non volevano adeguarsi, che è partita l'inchiesta.
Le operazioni illecite avevano base ad Alcamo, città trapanese conosciuta da tutti i pompieri d'Italia proprio per l'alto tasso di alcamesi nel Corpo, e vedeva tra i suoi principali artefici il Direttivo Vicedirigente ginnico VF Giuseppe Pipitone, alcamese, membro della commissione del concorso 250 del 2016, e procacciatore di tangenti attraverso i “corsi” che personalmente teneva. A casa di Pipitone, oltre all’elenco di chi aveva pagato, furono sequestrati (già in passato) 7.243 euro in banconote da piccolo taglio, contenute in buste distinte. Gli investigatori hanno accertato la presenza nella graduatoria finale di tutti i nominativi riportati nell’elenco sequestrato a casa di Pipitone. Ma Pipitone non faceva tutto da solo, a fianco a lui infatti c'è un altro “protagonista”: ancora una volta il sindacalista UIL Alessandro Lupo, che faceva funzionare questo sistema illecito grazie anche ai suoi contatti al Ministero dell'Interno. Entrambi sono indagati per corruzione. Lupo si ritrova indagato così sia a Benevento che a Trapani. Le indagini della magistratura campana si intrecciano così ora con quelle dei colleghi siciliani.

Ma gli scandali che coinvolgono il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco non finiscono qui. Il 23 giugno, infatti, viene arrestato il Comandante VF di Cosenza Massimo Cundari per i reati di concussione e falso in atto pubblico. Il quadro indiziario risulta molto solido, grazie alle intercettazioni ambientali acquisite durante la consegna del denaro.
Questa volta i concorsi pubblici non centrano, bensì siamo nel campo della prevenzione incendi e le pratiche annesse, nello scambio di favori a scapito della sicurezza pubblica. Il tutto è partito da una segnalazione di un imprenditore del settore di prodotti petroliferi, costretto a pagare una mazzetta al Comandante per favorire il rilascio delle autorizzazioni amministrative per realizzare un impianto GPL. Pare che a Cosenza era ormai di dominio pubblico il fatto che il sistema della prevenzione incendi si muovesse in maniera clientelare, e che il Comandante prendesse le bustarelle. C'erano anche connivenza e scambio di interessi con l'amministrazione locale. Con questi metodi illeciti, per esempio, la pratica antincendio di un parcheggio sotterraneo, tanto chiacchierato in città, pare abbia avuto una corsia preferenziale ed il nulla osta da parte del Comando VF di Cosenza (con a capo Cundari). Si tratta di un area aperta al pubblico senza il collaudo dell’opera, e per questo tuttora sotto sequestro, ma soprattutto con vie di fuga e scale di emergenza che sono attualmente alla valutazione degli inquirenti. L'attività investigativa è ancora in corso per altre pratiche, perché dalle indagini sono emersi ulteriori "gravi fatti, penalmente rilevanti".

Noi lavoratori onesti del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco dobbiamo prendere posizione davanti a questo malaffare. Il marcio, una volta appurato, va gettato nella pattumiera. Nessun perdono per chi si arricchisce illecitamente a scapito della sicurezza dei cittadini, per chi fa i soldi sulle disgrazie della gente, per chi inganna o addirittura minaccia gli onesti proletari, per chi si arricchisce personalmente e svende i lavoratori con la propria azione sindacale (come si può pensare che un sindacalista che riceve decine di migliaia di euro di mazzette abbia avuto a cuore gli interessi dei lavoratori e abbia potuto portare avanti una linea sindacale all'altezza?).

Fuori dal Corpo ogni connivenza con il mondo imprenditoriale, con ogni interesse economico del profitto!
Rompere con i sindacati dei padroni, a partire da UIL, CISL e CONAPO!

Non ci si può certo aspettare che sia attraverso la “regolamentazione” di questa società di classe basata proprio sul profitto, dove non esiste e non potrà esistere vera meritocrazia, che si potrà eliminare il malaffare e l'ingiustizia. Al contempo bisogna rivendicare misure democratiche di classe.

- Reintrodurre le RSU, localmente e nazionalmente, per avere un rapporto più diretto tra sindacato e lavoratori, rivendicando la loro eleggibilità in maniera democratica e puramente proporzionale, e la loro revocabilità in qualsiasi momento;

- Introdurre cariche elettive, eleggibili dalla base e revocabili in qualsiasi momento, per le figure dei capi turno, dei capi turno provinciali, capi distaccamento, responsabili dei servizi (autorimessa, laboratori, officina, magazzini...);

- Dividere le carriere dei funzionari tra chi si occupa prettamente di questioni operative (come pos, interventi, soccorso, addestramento, mantenimento, formazione interna, esercitazioni, ecc.) e chi si occupa di prevenzione incendi, formazione esterna, collaudi, acquisti, 81/08, ecc.. (il tutto contrattualizzato): ruoli distinti in modo da evitare conflitti di interessi ed evitare che i vari funzionari, presi da carrierismo e indennità accessorie, si dimentichino di curare l'aspetto operativo, come spesso accade;

- Introdurre la valutazione, vincolante per la progressione di carriera, dei funzionari (direttivi e dirigenti) da parte della base (operativi e amministrativi);

- Eliminare la burocrazia, a partire dall'eliminazione delle figure prefettizie ai vertici del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, in modo da abolire la dualità al vertice del Corpo;

- Elezione del Capo del Corpo da parte di tutti i lavoratori del Corpo.
Elder Rambaldi

Stati popolari: perché è importante una prospettiva anticapitalista e rivoluzionaria

Il Partito Comunista dei Lavoratori ha portato la sua presenza agli "Stati popolari" convocati da Aboubakar Soumahoro perché, coerentemente con la propria natura, ritiene opportuno prendere parte a quelle iniziative di carattere democratico e progressista che rivendicano posizioni che hanno alla base ragioni sociali concrete, per portare tali rivendicazioni sull'unico piano in grado di soddisfarle realmente: il piano di una prospettiva rivoluzionaria e socialista.

Le testimonianze che si sono succedute sul palco di Piazza San Giovanni stanno a dimostrare la forte sofferenza sociale e il livello di sfruttamento del lavoro che c’è in Italia. In questo contesto, quindi, abbiamo portato le nostre posizioni politiche in modo critico rispetto a quelle presentate dai promotori dell’iniziativa “Stati popolari”.

Tutte le ragioni sociali democratiche che sono state esposte dal palco di Piazza San Giovanni si possono rivendicare solo in opposizione al governo, e non con la logica della sostituzione della “protesta” per passare alla “proposta” (cioè ponendo e rivendicando l’interlocuzione con il governo come leva di cambiamento). Non c’è nessuna positività nel cercare un contatto con chi ha risposto agli accorati appelli di Confindustria e del capitalismo italiano per far sì che la produzione non si fermasse nel momento della chiusura totale. Questo, in altre parole, è il governo del capitalismo e delle grandi imprese. È il governo che ha tenuto in piedi tutti i provvedimenti ereditati da quello precedente, persino sul versante reazionario, come i decreti Salvini. È il Governo che ha ridotto l’IRAP e che, anzi, la vuole cancellare, quando la tassa in oggetto rappresenta la principale fonte di finanziamento della sanità, per di più in questa fase di pandemia da cui il paese sta uscendo con molta fatica.

La collocazione di opposizione chiara e netta nei confronti di questo governo è, in altre parole, imprescindibile.


LA PROSPETTIVA GENERALE

C’è bisogno, poi, di dare una piattaforma e una prospettiva generale all’insieme delle ragioni sociali e democratiche che sono state rivendicate dalla piazza, che ponga la questione principale della rottura col quadro della compatibilità capitalistica.

Stiamo parlando della:

1) Cancellazione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro che si sono susseguite nei decenni. Il concetto deve essere chiaro e semplice: “pari lavoro, pari diritti”. È la prima rivendicazione da avanzare.

2) Ripartizione tra tutte e tutti del lavoro che c’è, attraverso la riduzione progressiva dell’orario di lavoro: è assurdo che ci siano milioni di disoccupati, anzi, ci saranno nuovi milioni di disoccupati annunciati per l’autunno, per cui l’altra faccia della medaglia è l’allungamento dell’orario di lavoro degli occupati, o addirittura vedersi eliminate le ferie che essi hanno pur maturato. La riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario rappresenta, contestualmente con il primo punto, la questione principale su cui costruire una rivendicazione complessiva.

3) L’ultimo punto va introdotto con una domanda: chi paga i costi della crisi? Non è una domanda che può rimanere senza risposta: questo governo, insieme a tutti quelli dell’Unione Europea, vuole scaricare gli oneri e i costi della crisi attraverso l’indebitamento pubblico, direttamente o indirettamente, nel portafoglio di lavoratori e sfruttati. Rivendichiamo, dunque, il concetto “paghi chi non ha mai pagato”. Che è l’ideale risposta alla domanda che ponevamo all’inizio del terzo punto.

Come fare tutto questo? Patrimoniale progressiva sulle grandi ricchezze, abolizione del debito pubblico verso il capitale finanziario, le banche italiane e fondi finanziari europei.
Il grosso del debito pubblico italiano sta nella pancia delle banche italiane, non delle banche tedesche. I tagli alla sanità per pagare gli interessi sul debito sono stati dettati da Unicredit e Banca Intesa, ben più che dalla Bundesbank tedesca.

Queste sono rivendicazioni fondamentali, e su queste portiamo, in ogni sede, anche in questa piazza come in ogni altra occasione di movimento che si sviluppi, le nostre ragioni e posizioni politiche.

In conclusione va detto anche che il concetto di “Stati popolari” avrebbe potuto funzionare molto bene se a partire da essi si fosse subito partiti con l’opposizione al governo Conte e al capitalismo. In altre parole: quando si deve “tagliare la testa al re” non si chiede il permesso di dialogare con lui.
Marco Piccinelli

I fatti del 30 giugno 1960 a Genova

Ritorna la fiamma dell’antifascismo operaio e di massa

2 Luglio 2020
Pubblichiamo un estratto dall'opuscolo L'antifascismo genovese ieri, oggi e domani, a cura della sezione di Genova del PCL. L'opuscolo è allegato in fondo a questa pagina
Tutta la storia dell'antifascismo genovese durante il fascismo e nella Resistenza inevitabilmente lasciò un segno indelebile nell’identità collettiva e politica della classe operaia e lavoratrice genovese. Questa coscienza politica radicata in anni di lotte, clandestinità, deportazioni e morti si riaccenderà con tutto il suo vigore quando Genova divenne l’epicentro di un’operazione politica del Movimento Sociale Italiano, che nel dopoguerra fu il partito in cui si riciclarono, entro la cornice “democratica”, la gran parte delle anime del Partito Nazionale Fascista e del Partito Fascista Repubblicano.

Gli antefatti sono importanti per comprendere il portato dell’operazione del MSI. Il 21 marzo il democristiano Fernando Tambroni, esponente dell’ala sinistra della DC, venne incaricato dal Presidente della Repubblica Gronchi di costituire un nuovo governo. Al momento della votazione della fiducia alla Camera, il governo, monocolore della DC, passò con i voti dei parlamentari del MSI senza i quali non avrebbe potuto avere la necessaria maggioranza.
Di fronte a questo, gli esponenti della sinistra della DC di quel Governo – Bo, Pastore e Sullo – dichiararono le loro dimissioni e, sotto le pressioni generali, anche lo stesso Tambroni li seguì. Dopo due tentativi di Amintore Fanfani di costituire un governo su maggioranze differenti, Gronchi decise di respingere le dimissioni di Tambroni, che il 29 aprile ottenne la maggioranza anche al Senato, di nuovo con i voti favorevoli dei senatori del MSI.

Questa operazione fece montare la protesta di tutti i partiti della sinistra, che accusarono Tambroni di favorire la legittimazione politica nazionale e di governo degli eredi del fascismo, considerato che già in circa 30 amministrazioni comunali – Roma compresa – le giunte democristiane si reggevano con l’appoggio anche di esponenti del MSI.
Il primo atto del MSI di fronte alle dimissioni di Tambroni, che ostacolavano e indebolivano l’operazione politica di legittimazione e di propria trasformazione in ago della bilancia degli equilibri istituzionali nazionali, fu il ritiro dell’appoggio alle giunte comunali democristiane di tutti i propri consiglieri.

Il 14 maggio 1960 il Movimento Sociale Italiano compì l’ennesima provocazione, dichiarando l’intenzione di organizzare il VI Congresso del MSI a Genova, al Teatro Margherita, in Via XX Settembre.
Da qui cominciò un’operazione, da parte del PCI e della sinistra, di propaganda e agitazione dei genovesi e dei lavoratori della città, che quindici anni prima furono i protagonisti dell’insurrezione, della liberazione e della resa dei nazisti.

Il 2 giugno Umberto Terracini, senatore e membro della ex Assemblea Costituente per il PCI, in un discorso a Lumarzo – in Val Fontanabuona – incitò alla chiamata di una riunione per organizzare una risposta alla provocazione missina.
Il 5 giugno, su L’Unità, organo del PCI, venne pubblicata una lettera-appello di un operaio che incitava ad una reazione di massa contro il congresso.
Il giorno dopo venne prodotto un manifestino in cui si definiva una “grave provocazione” il congresso fascista, su iniziativa del PSI locale, a cui aderirono il PCI, il Partito Radicale, il Partito Socialista Democratico Italiano e il Partito Repubblicano.
Il 13 giugno si unì al coro di chi condannava il congresso del MSI anche la Camera del Lavoro.

Il 15 giugno ci fu il primo corteo, indetto sulla base della richiesta del divieto ai lavori del congresso fascista. Parteciparono circa 20.000 persone, con i primi scontri tra il servizio d’ordine e alcuni manifestanti contro un gruppo di fascisti che osarono provocare la manifestazione in Via San Lorenzo, sedati poi dall’intervento in soccorso del gruppetto di fascisti dei Carabinieri.

Dopo che il 24 giugno la Questura vietò l’autorizzazione per un comizio della Camera del Lavoro e dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) con la scusa del mancato preavviso – il vero motivo fu il timore di nuovi scontri e la volontà di impedire che gli animi venissero ulteriormente fomentati – il 25 venne convocato un corteo da parte delle federazioni giovanili dei partiti della sinistra (PCI, PSI, PRI, PSDI e radicali) a cui si unirono anche i portuali. La manifestazione diede vita a ulteriori scontri, questa volta con la polizia, in Via XX Settembre.

Questa escalation di agitazione e mobilitazioni da una parte spinge una componente del MSI a fare pressioni sul governo Tambroni per aumentare l’attenzione e fornire misure di garanzia viste le minacce di disordini e di una forte conflittualità che rischiava di scatenarsi contro il VI congresso; dall’altra i fascisti minacciarono l’organizzazione di “almeno un centinaio di attivisti romani, scelti tra i più pronti a menar le mani”, e annunciarono la partecipazione al congresso sia di Junio Valerio Borghese, celebre capo della X Flottiglia Mas utilizzata nei rastrellamenti contro i partigiani, sia di Carlo Emanuele Basile, il prefetto che nell’estate del 1944 ordinò e organizzò le deportazioni dei lavoratori e delle lavoratrici in Germania e nei campi di concentramento.

Il 28 giugno ANPI e Camera del Lavoro, assieme a tutti i partiti della sinistra, convocarono un corteo contro l’ormai prossimo congresso, a cui il governo della Democrazia Cristiana aveva ormai dato piena legittimità garantendone la protezione attraverso le Forze dell’Ordine. A questo corteo parteciparono oltre 30.000 persone, e si concluse con il celebre discorso di Sandro Pertini, che venne definito “u brichettu” (il fiammifero, in genovese), perché diede l’accensione alla miccia che avrebbe fatto esplodere la bomba della rabbia della classe lavoratrice e del proletariato genovese contro la provocazione fascista protetta dalle istituzioni democristiane:
«La polizia sta cercando i sobillatori di queste manifestazioni, non abbiamo nessuna difficoltà ad indicarglieli. Sono i fucilati del Turchino, di Cravasco, della Benedicta, i torturati della casa dello studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori (…) Oggi le provocazioni fasciste sono possibili e sono protette perché in seguito al baratto di quei 24 voti, i fascisti sono nuovamente al governo, si sentono partito di governo, si sentono nuovamente sfiorati dalla gloria del potere, mentre nessuno tra i responsabili, mostra di ricordare che se non vi fosse stata la lotta di Liberazione, l’Italia, prostrata, venduta, soggetta all’invasione, patirebbe ancora oggi delle conseguenze di una guerra infame e di una sconfitta senza attenuanti, mentre fu proprio la Resistenza a recuperare al Paese una posizione dignitosa e libera tra le nazioni. (…) Noi, in questa rinnovata unità, siamo decisi a difendere la Resistenza, ad impedire che ad essa si rechi oltraggio. Questo lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei nostri morti, e per l’avvenire dei nostri vivi, lo compiremo fino in fondo, costi quello che costi».

Il 29 giugno la Camera del Lavoro indisse uno sciopero generale politico per tutta la giornata del 30 giugno esteso a tutta la provincia, per permettere ai lavoratori e alle lavoratrici di portare tutta la loro forza d’impatto nelle strade di Genova, assieme alle organizzazioni della sinistra e ai militanti politici.
Il corteo fu una mastodontica prova di forza di massa e di classe contro cui nulla potevano le misure repressive che il governo Tambroni aveva sperimentato in altri contesti cittadini: 100.000 antifascisti e antifasciste scesero nelle piazze di Genova. A nulla servì, quindi, l’invio della tristemente celebre celere di Padova, famosa per le sue tattiche antiguerriglia urbana, l’ispezione della città del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri e la sostituzione del questore di Genova con Giuseppe Lutri, noto per l’attività antipartigiana a Torino durante la dittatura fascista.
La UIL, con il suo solito operato opportunista, si oppose allo sciopero ma nulla ottenne di fronte alla coscienza di un movimento dei lavoratori in cui era ancora fervida la memoria delle lotte contro l’occupazione. La CISL non si sbilanciò, lasciando libertà di scelta ai propri iscritti, da una parte per non perdere consensi e dall’altra per non mettere in difficoltà la propria cinghia di trasmissione con la Democrazia Cristiana, di cui era espressione.

I lavoratori e le lavoratrici genovesi, inoltre, venivano da un periodo di fortissima conflittualità contro la deindustrializzazione che era in corso da circa un decennio nonostante il cosiddetto “boom economico” italiano. Celebri furono le 82 giornate di occupazione della San Giorgio e le 72 giornate di occupazione degli stabilimenti Ansaldo nel 1950; l’occupazione di 9 mesi dell’ILVA tra il 1950 e il 1951; le 120 giornate di mobilitazione del porto a cui aderirono anche i metalmeccanici, sommando 4.537.033 ore di sciopero del 1955; le mobilitazioni a cavallo tra il 1957 e il 1958 per la riduzione dell’orario di lavoro e per fermare la chiusura dell’Ansaldo Fossati e dell’Ansaldo San Giorgio; gli scioperi generali dell’estate del 1959 per la difesa dei posti di lavoro e l’enorme conflittualità espressa proprio nel periodo di giugno-luglio del 1960 da parte dei marittimi, non solo con rivendicazioni salariali ma anche con rivendicazioni legate alla libertà e alla dignità sul lavoro, contro i soprusi e le angherie degli ufficiali. Tutta la rabbia e l’organizzazione che aveva rinsaldato la coscienza di classe con le celebri mobilitazioni di quegli anni ebbe un’occasione per esprimersi politicamente e per saldare due anime del movimento operaio: quella dei metalmeccanici e dei portuali professionalizzati che avevano lottato per dimostrare che si poteva lavorare senza padrone, e quella dei ragazzi delle “magliette a righe”, una giovane generazione che si vedeva colpita dalla contrazione delle possibilità occupazionali. I 100.000 antifascisti e antifasciste in piazza quel giorno erano espressione di questa grande mobilitazione generale rilanciata su basi politiche.

Quel giorno la manifestazione vera e propria fluì senza incidenti fino a che non venne conclusa in Piazza De Ferrari, ma il fermento era molto e la rabbia dei lavoratori continuava a non spegnersi. Molti manifestanti cominciarono a intonare canti partigiani e slogan contro la polizia, ai margini della piazza, e contro i Carabinieri, schierati a difesa del Teatro dove il 2 luglio avrebbe dovuto tenersi il VI Congresso del MSI.

A quel punto la polizia e il reparto della Celere risposero alle provocazioni dei manifestanti con lacrimogeni e manganellate. Fu l’inizio della battaglia. In poco tempo gli operai ritornarono in Piazza De Ferrari, furono oltre 5000 quelli che parteciparono fin da subito agli scontri con la polizia, armandosi di tutto ciò che potevano trovare. Molte camionette vengono rovesciate, i poliziotti vengono disarmati, il comandante della Celere viene gettato dagli operai nella fontana della piazza, alcune camionette vengono incendiate e gli operai, facendosi inseguire nei “caruggi” del centro storico, attirano le forze dell’ordine in una trappola, con gli abitanti che lanciano sulle loro teste vasi, bottiglie e tutto ciò che possa provocare dei danni. Alla fine la polizia si ritirò, e solo allora ebbero effetto gli annunci e i proclami di ritorno alla calma dei vertici della CGIL e dell’ANPI. Durante gli scontri furono sparati anche dei colpi di arma da fuoco, ma solo un lavoratore risultò ufficialmente ferito da un proiettile. Il bilancio fu incredibilmente favorevole: 162 feriti tra gli agenti e solo una quarantina tra i manifestanti.
Il movimento di massa e di classe di quella giornata aveva dimostrato che nessun dispositivo di repressione può nulla di fronte alla forza della mobilitazione generale, né tantomeno servono a nulla i tentativi di controllare e imbrigliare la rabbia di classe da parte delle dirigenze moderate e riformiste, più preoccupate delle istituzioni borghesi della possibilità che i disordini possano sfociare in un moto insurrezionale canalizzando il malcontento generale.

I giorni successivi furono, infatti, emblematici. Da una parte la dirigenza del PCI si confrontava con il governo e i vertici della DC nella ricerca di un compromesso per poter depotenziare la rabbia di militanti e lavoratori, disposti a continuare la battaglia anche nei giorni successivi qualora non fosse stata ritirata la concessione allo svolgimento del congresso del 2 luglio. Alla fine le burocrazie del “grande” Partito Comunista Italiano considerarono un “giusto” compromesso che il VI congresso del MSI si potesse svolgere a Nervi anziché in centro città. La CGIL invece non accettò il compromesso, sotto la sferzante pressione della sua base, riconoscendo il rischio di perdere ulteriormente la propria credibilità di fronte ad un movimento di massa combattivo e radicale. Vennero preparati trattori per sfondare le recinzioni della polizia, molotov, e issate barricate. Alcuni ex combattenti partigiani disotterrarono anche le loro armi nascoste per prepararsi alla guerriglia urbana verso cui pareva volersi dirigere l’azione delle forze dell’ordine, che militarizzarono le zone sensibili della città in tenuta da guerra, con filo spinato e grate.

Oltre mezzo milione di lavoratori e cittadini si mobilitano per lo scontro finale, il cui esito avrebbe potuto essere realmente insurrezionale e rivoluzionario, ma ciò che mancò, come sempre, fu la volontà delle dirigenze politiche e sindacali di assecondare questa potenza. Anzi, entrambe le dirigenze giocarono tutte le loro carte diplomatiche per calmare gli animi e trovare una soluzione con le istituzioni.
Tambroni, sotto la pressione della stessa borghesia intimorita dal potenziale insurrezionale della città e del movimento antifascista genovese, che stava ottenendo solidarietà anche in altre zone d’Italia – Roma, Milano, Torino, Livorno, Ferrara – in cui si erano tenuti cortei in supporto all’azione del 30 giugno, continuò a far pressioni sulle dirigenze MSI per lo spostamento del VI congresso a Nervi, al Teatro Ambra. I dirigenti del MSI chiesero in cambio il divieto di far sfilare gli antifascisti in centro città. Alla fine di questo braccio di ferro furono i dirigenti del Movimento Sociale Italiano a rinunciare al congresso e a ritirarsi di fronte alla sproporzione delle forze e al timore di finire spazzati via da una mobilitazione che si sarebbe fatta un baffo tanto delle forze dell’ordine quanto dei “cento militanti” fascisti disposti a menar le mani.

Di fronte a ciò, immediatamente la CGIL ritirò la convocazione dello sciopero e le dirigenze del PCI esultarono per la vittoria. Il vero scopo fu uno solo: gettare acqua sul fuoco di una rabbia sociale che avrebbe sorpassato qualsiasi velleità riformista e moderata di quelle dirigenze.

Nei giorni seguenti, sull’onda dei fatti di Genova, si scatenarono proteste e manifestazioni legate all’antifascismo in tutta Italia, in cui la polizia spesso aprì il fuoco tra i manifestanti, ferendo e ammazzando, per disperdere le forze di una pericolosa onda rossa. Il governo Tambroni e l’apparato statale borghese misero in mostra tutte le loro funzioni di garanzia del sistema socio-economico, di protezione della legittimità delle organizzazioni fasciste e, soprattutto, di difesa degli interessi delle borghesie contro la minaccia di un movimento radicale che potesse spingersi verso prospettive insurrezionali e rivoluzionarie. Le dirigenze riformiste del PCI e della CGIL, invece, cercarono di direzionare quella rabbia e quel malcontento verso soluzioni interne alle logiche democratico-borghesi, accontentandosi della caduta del governo Tambroni del 19 luglio e dell’apertura della fase dei governi di centrosinistra con il coinvolgimento del PSI al fianco della Democrazia Cristiana.
I processati per le giornate di Genova furono 43, per la maggior parte lavoratori. I condannati saranno praticamente tutti, 41, con pene fino a 4 anni e 5 mesi. A parte il supporto economico fornito dall’ANPI, divennero sostanzialmente la contropartita delle dirigenze riformiste per lo “sfogo” della piazza.
Una vittoria della mobilitazione di massa e di classe, sì, ma a metà.
Cristian Briozzo