Post in evidenza

Ucraina. Dove va la guerra

  La corsa alle armi degli imperialismi in Europa e la piega della guerra. La crisi del fronte ucraino. Il posizionamento dei marxisti rivol...

Cerca nel blog per parole chiave

CONTRO IL GOVERNO DEL CAMBIANIENTE!

Sabato 29 dicembre dalle ore 16, in via del Pratello 90, BOLOGNA,
banchetto di distribuzione di materiale informativo sulla legge di stabilità (finanziaria) appena varata dal

GOVERNO DEL CAMBIANIENTE!

Nell'occasione sarà distribuito anche l'ultimo numero di Unità di Classe

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI
SEZ. DI BOLOGNA

Il M5S sale sugli F-35

Per anni la propaganda grillina ha tuonato contro gli sprechi dei jet militari, in particolare contro gli F-35. Per raccattare voti in tutte le direzioni, anche la posa antimilitarista è sembrata uno strumento utile. 
Ora contrordine! 
Scalata la vetta del governo nazionale, conquistato il Ministero della Difesa (Elisabetta Trenta), conquistato il sottosegretariato alla Difesa (Angelo Tofalo), il M5S si è messo rapidamente l'elmetto. «Da tanti anni abbiamo parlato di questi F-35 in maniera distorta... Non possiamo rinunciare a una grande capacità tecnologica per la nostra aeronautica, che ci mette avanti rispetto a tanti altri paesi» dichiara ora compunto il sottosegretario Tofalo. Via libera dunque alla messe di miliardi per aerei da guerra. 

Il M5S di governo ha bisogno di mettere radici nel cuore profondo dello Stato, innanzitutto nell'apparato militare. La nomina di alti gradi dell'Esercito o dei Carabinieri in ruoli di governo (Ambiente) e sottogoverno non è un fatto casuale. Il M5S cerca legittimazione e riconoscimenti presso i poteri forti, per questo li lusinga con particolari attenzioni. La pioggia di miliardi negli F-35 è il prezzo dell'operazione. Pagheranno la sanità, la scuola, il lavoro. 

Doveva essere “il governo del cambiamento”, ma a cambiare sono solo i governanti (del capitale). Per il resto tutto come prima, a partire dal cinismo e dall'ipocrisia.

Partito Comunista dei Lavoratori

Il gambero allunga il passo

Doveva essere il “non arretriamo di un millimetro”, “non cambieremo di una virgola”, “me ne frego delle letterine di Bruxelles”. È accaduto l'opposto. Il governo giallobruno è arretrato di 7 miliardi, rivedendo al ribasso le sue elemosine sociali, già dimezzate rispetto alle promesse elettorali. Vedremo nei prossimi giorni il formato definitivo della manovra, ma le prime anticipazioni sono inequivocabili.

Legge Fornero? Resta. La stessa quota 100, già limitata dal rigido paletto dei 38 anni, si riduce a una finestra sperimentale di tre anni, con dilazione dei tempi di accesso per pubblici e privati, rinvio di pagamento del TFR, divieto di cumulo con altri lavori, e ovviamente riduzione degli assegni. Poi (forse), dal 2023, 41 anni per tutti, quando il 65% dei pensionati andrà col misto (contributivo e retributivo) e il montante pensionistico ridurrà ulteriormente la pensione. Risultato? La libertà di scelta è in larga misura una finzione. Centinaia di migliaia di lavoratori saranno costretti a pensioni da fame o a continuare il lavoro. Sino a quando? Sino ai 67 anni, naturalmente, l'età prevista dalla legge Fornero, che infatti rimane intatta. Ed anzi aumenterà col meccanismo intatto dell'aspettativa di vita. Altro che abolizione della Fornero! Salvini e Di Maio vogliono salvare la faccia con la “concessione della libertà di scelta”, ma la legge è congegnata in modo tale da restringere il più possibile la platea dei beneficiari per spingerli a continuare a lavorare. L'obiettivo paradossale di Salvini e Di Maio, che dovevano “abolire la Fornero”, è spingere più lavoratori possibile ad andare in pensione proprio con la Fornero. Perché? Per risparmiare, e così continuare a pagare il debito pubblico, ridurre le tasse ai padroni, incentivare le imprese..

“Mai più sacrifici!”, “Se l'Europa ci chiede altri sacrifici sulla pelle degli italiani, diciamo di no ed è un no definitivo”. Chiacchiere. Il governo reintroduce il blocco dell'indicizzazione delle pensioni voluto da Monti. Sopra i 1.530 euro lordi, sostanzialmente 1.000 euro netti, la pensione non sarà più indicizzata, se non parzialmente, al costo della vita. E pensare che proprio dal 1 gennaio 2019 avrebbe dovuto ritornare il vecchio sistema pre-Monti. Invece no. Il governo giallobruno ritorna quatto quatto sulle orme dell'odiato governo Monti-Fornero. Perché? Perché lo chiede l'Europa capitalista e con essa le banche italiane, rigonfie di titoli pubblici, che chiedono garanzie ai “debitori”. Cioè ai lavoratori, alle lavoratrici, ai pensionati. Il governo giallobruno ha semplicemente rassicurato gli strozzini con una tosatura delle pensioni, come tanti governi del passato.

Identico voltafaccia sui beni pubblici.
Ricordate gli annunci solenni dopo il crollo del ponte Morandi? “Mai più i beni pubblici ai prenditori privati!”, “lo Stato prenda il controllo dei beni pubblici a tutela dei cittadini”, “nazionalizzeremo le migliaia di concessionari privati”... Accade l'opposto. Il governo giallobruno annuncia per il solo 2019 18 miliardi di privatizzazioni, che salgono poi su pressione della UE a 20 miliardi. Oltretutto in un solo anno! La più grande privatizzazione di beni pubblici mai effettuata in Italia dal 1997-'98 (governo Prodi). Il più grande regalo a quei “prenditori”, a partire dai Benetton, che venivano fustigati a parole nelle pubbliche piazze. E tutto questo perché? Per continuare a pagare il debito alle banche e gli sgravi contributivi alla imprese. Proprio le banche e le imprese che allungheranno le mani sui cosiddetti beni pubblici dei cittadini.

Doveva essere la manovra del popolo contro l'Europa delle banche. Invece è la manovra concordata con le banche, a vantaggio delle banche, contro il popolo. Più precisamente contro i lavoratori e le lavoratrici, e cioè contro la maggioranza della società. Di Maio e Salvini recitano il trionfo per provare a mascherare la propria truffa. Ma i cerchi non si fanno quadrati. E quando i lavoratori ne prenderanno coscienza, per il governo suonerà la campana. Accade in Ungheria, potrà accadere in Italia.
19 dicembre 2018
Partito Comunista dei Lavoratori

"Non saremo schiavi": la ribellione contro il regime di Orban

Per la prima volta dopo dieci anni, il regime reazionario di Orban incontra un'opposizione di massa.
Centinaia di migliaia di lavoratori e di giovani in larga parte del paese hanno preso la parola contro il governo. La miccia è stata una legge antioperaia varata dal governo dai caratteri scopertamente provocatori. Una legge che prevede 400 ore di straordinari all'anno, una settimana lavorativa di sei giorni o oltre dieci ore giornaliere per cinque giorni. Il lavoratore può formalmente rifiutare, salvo rischiare il licenziamento. Si tratta dunque di uno strumento di legge offerto ai padroni per incrementare in modo massiccio lo sfruttamento del lavoro. Il padronato ungherese plaude entusiasta alla legge. Ancor più plaudono la Opel, la Mercedes, l'Audi, le grandi aziende straniere in particolare tedesche, ma anche italiane, che in Ungheria fanno affari d'oro. La sovranità nazionale sbandierata da Orban è a tutti gli effetti la sovranità dei padroni contro i lavoratori.

“Non saremo schiavi”. Questo è lo slogan che ha animato le proteste contro la legge. Le manifestazioni indette dai sindacati hanno registrato un'ampia partecipazione operaia, e hanno visto l'ingresso in campo di decine di migliaia di studenti. Gli studenti già erano in fase di mobilitazione a favore della libertà di studio e di ricerca nelle università. La saldatura con le manifestazioni dei lavoratori è apparsa loro naturale. Non si tratta di rituali manifestazioni dell'opposizione liberaldemocratica, si tratta di manifestazioni di massa e di classe, le prime dopo lungo tempo nella storia d'Ungheria. Le manifestazioni si sono susseguite con una parabola ascendente negli ultimi cinque giorni, e con tratti radicali. A Budapest la polizia ha dovuto disperdere più volte la folla di lavoratori e giovani che assedia gli edifici dell'Assemblea Nazionale, il Parlamento ungherese. La parola d'ordine dello sciopero generale per la revoca della “legge della schiavitù” ha fatto il suo ingresso nelle strade e nelle piazze della capitale.

Com'è naturale, tutte le forze politiche dell'opposizione cercano il proprio posto al sole nella protesta: Momentum, Dialogo per l'Ungheria, persino i fascisti di Jobbik. Ma la linea dello scontro è estranea all'impostazione liberale come all'impostazione nazionalista e xenofoba. Al contrario, essa è dettata come non mai dalla contrapposizione tra capitale e lavoro, tra capitalisti e operai. Il ruolo dei sindacati è non a caso centrale. La campagna ossessiva di Orban contro i migranti, che ha intossicato milioni di ungheresi, svela sempre più il suo carattere ipocrita. Il problema dell'Ungheria non sono i migranti, praticamente assenti, ma la massiccia emigrazione di 600.000 ungheresi verso altri paesi in cerca di migliori condizioni di vita. La battaglia contro la legge della schiavitù mette a nudo questa verità, e conquista il senso comune di massa.

Chi profetizzava che destra e sinistra sono categorie novecentesche ritrova questo confine proprio in Ungheria, proprio nel paese indicato a modello dai sovranismi nazionalisti alla Salvini, proprio nel paese presentato dai populismi reazionari di tutta Europa come paradigma di stabilità e di ordine. Naturalmente siamo solo all'inizio di una battaglia di massa, di cui seguiremo dinamica e sviluppi. Ma certo i fatti dimostrano che neppure i regimi più consolidati in apparenza sono al riparo della lotta di classe, che prima o poi si riaffaccia e presenta il conto.

La vicenda ungherese ci parla anche di questo.
17 dicembre 2018
Partito Comunista dei Lavoratori

41 miliardi di profitti in Borsa. Prodotti dagli operai, intascati dai padroni

Mentre i salari perdono potere d'acquisto salgono i profitti di Borsa, anche quando scende il valore delle azioni. Nell'anno in cui la Borsa di Milano perde il 13,5% le aziende quotate si avviano a realizzare 41 miliardi di profitti. Tra il 2017 e il 2018, al netto del settore finanziario (banche), il monte utile sale da 19,6 a 24,3 miliardi di utile, nonostante i cali della Borsa. La STMicroelettronics ha perso da inizio anno il 34% in termini di valore dei titoli, ma ha quintuplicato i propri profitti. La CNH Industrial ha perso in valore il 28,9% ma ha triplicato i profitti. La Pirelli ha perso il 18% ma ha triplicato i profitti. Sono i dati forniti dal quotidiano di Confindustria del 16 dicembre.

Come si spiega questo divario? Se le aziende perdono valore patrimoniale i profitti non dovrebbero calare? Invece no, e la spiegazione è semplice: aumenta lo sfruttamento del lavoro.

Da un lato le incertezze della situazione politica, il rischio guerre commerciali, il brusco calo del settore tecnologico a Wall Street hanno disincentivato gli investimenti azionari sul mercato finanziario, provocando le perdite dei titoli. Ma dall'altro lato, le stesse aziende compensano le perdite con l'incremento della pressione sul lavoro: ritmi infernali nelle fabbriche, cancellazione di diritti, precariato dilagante. In una parola: umiliazione del lavoro a vantaggio dei dividendi degli azionisti. È la realtà del capitalismo, tanto più in una stagione di crisi.

Il punto allora non è l'ingiusta ripartizione della ricchezza, come dicono i sociologi liberalprogressisti. Il punto è che la ricchezza degli uni (i capitalisti) è finanziata dalla miseria degli altri (i lavoratori e le lavoratrici). 41 miliardi prodotti dai salariati ma intascati dai loro padroni. 41 miliardi di profitti che il governo SalviMaio vuole ulteriormente detassare, nel mentre svuota le elemosine su reddito e pensioni per rassicurare il capitale finanziario, lo stesso che investe nei titoli di Stato per ingrassare con gli interessi - in crescita - pagati ancora una volta... dai lavoratori.

La verità è che il "governo del cambiamento" è solo un governo del cambianiente.
Soltanto la ribellione di 17 milioni di salariati può cambiare le carte in tavola.
16 dicembre 2018
Partito Comunista dei Lavoratori

La Francia a un bivio

Il movimento dei gilet gialli scuote la Francia.
 
Il movimento ha coinvolto nelle manifestazioni territoriali, complessivamente intese, duecento/trecentomila persone, e incontra le simpatie o l'aperto sostegno della netta maggioranza della società francese (72% a favore secondo un sondaggio accreditato del 5 dicembre). Questo sostegno non è venuto meno neppure dopo gli scontri di piazza e dopo l'ampia campagna di criminalizzazione dei gilet gialli da parte del governo e del ministero dell'Interno. Al contrario. Dopo tre settimane, la combinazione di manifestazioni di strada e sostegno della popolazione ha costretto governo e Macron a revocare le misure più invise e contestate (prima sospensione, poi ritiro della imposta sulla benzina).
La svolta è stata repentina. Il 27 novembre Macron rifiutava sdegnato di rivedere la tassa sui carburanti. Sette giorni dopo l'ha abolita scavalcando Eduard Philippe, Presidente del Consiglio. Il 10 dicembre, nel discorso alla nazione, ha annunciato in aggiunta l'aumento del salario minimo intercategoriale di 100 euro (che poche ore prima il ministro del Lavoro Muriel Penicaud aveva escluso) e l'annullamento del prelievo forzoso sulle pensioni inferiori ai 2.000 euro. È la misura di un clamoroso ripiegamento. Naturalmente, le concessioni sono in buona parte truccate. Macron ha rassicurato le imprese che non dovranno sborsare un euro, sarà tutto a carico del governo, e il governo si rifarà attraverso tagli alla spesa sociale, o nuove tasse sul lavoro, o il ricorso al debito. Ma non è questo il punto. Il punto è politico. Macron “cede alla piazza”, titola Le Figaro, cogliendo la sostanza politica degli avvenimenti. A sua volta l'indietreggiamento del governo e della presidenza della Repubblica possono incoraggiare altre rivendicazioni sociali, nel mentre misurano l'indebolimento verticale del governo. Una crisi politico-istituzionale strisciante è oggi il sottoprodotto della mobilitazione sociale.


IL MOVIMENTO DEI GILET GIALLI E LA SUA NATURA SOCIALE COMPOSITA

Il movimento dei gilet gialli ha una natura composita. Il suo sfondo è l'impoverimento della società francese: 15% della popolazione sotto il livello di povertà; disoccupazione al 10%; metà della popolazione con meno di 1.700 euro, cinque milioni persone con meno di 850 euro.

Il nucleo centrale della sua base sociale è segnato da settori declassati di piccola borghesia, popolazione povera dei centri urbani piccoli e medi, ambienti popolari colpiti da processi concentrati di deindustrializzazione (in particolare nel Nord), popolazione povera delle zone rurali. Ma il movimento coinvolge anche un significativo settore di lavoratori salariati del settore pubblico e privato, di gioventù precaria, di disoccupati. La classe operaia in quanto classe non ha partecipato alla mobilitazione dei gilet, se non in forma atomizzata e dispersa, ma milioni di lavoratori e lavoratrici guardano con simpatia alle mobilitazioni in corso, come rivelano i sondaggi. La paura di una saldatura attiva tra movimento dei gilet gialli, classe operaia, mobilitazione studentesca è al centro delle preoccupazioni politiche della borghesia francese. L'indietreggiamento di Macron di fronte al movimento mira a disinnescare questo rischio.

Il movimento dei gilet gialli non ha una piattaforma definita, né una struttura organizzata capace di selezionarla o di imporla. Esso ha agito fondamentalmente come carta assorbente e cassa di risonanza dei sentimenti confusi che si agitano nel profondo della società francese, dopo dieci anni di grande crisi. Risentimento della provincia contro Parigi; rifiuto dell'impoverimento in atto da parte di settori di classe media, protesta contro i bassi salari, rigetto della precarietà di vita e di lavoro; e al tempo stesso rigetto di lussi e ricchezze della classe dominante, delle ruberie dei politici, della loro sordità alle ragioni "del popolo”: tutto confluisce nel calderone del movimento, componendo un grande cahier de doléances. Il tema sociale e di classe è obiettivamente centrale nella protesta, non nella coscienza e nell'immaginario di chi la esprime. La linea di frattura percepita e rappresentata è prevalentemente quella tra il popolo e il potere politico. Non a caso l'odio verso Macron (“Macron démission!”) è il sentimento dominante del movimento. “Il Presidente dei ricchi” è stato ed è, suo malgrado, il fattore unificante della ribellione; la formula che unisce in sé l'elemento sociale e politico che la anima.


UN MOVIMENTO REAZIONARIO?

La natura proteiforme e composita del movimento ha consentito l'inserimento in esso, o il fiancheggiamento scoperto, di settori reazionari. In qualche caso elementi fascisti e antisemiti, in altri casi semplici provocatori e avventurieri. La dimensione web del confronto pubblico - tra blog e gruppi facebook - ha offerto, per sua stessa natura, un libero spazio anche a queste voci. L'imbastardimento della coscienza politica di settori di massa offre loro alcune sponde indubbie.

Tuttavia non siamo in presenza di una mobilitazione egemonizzata e guidata dalla destra, come nel caso - in ben altri scenari - della ribellione di Piazza Maidan in Ucraina o delle manifestazioni della MUD in Venezuela. Né il movimento è assimilabile, per stare all'esperienza italiana, al movimento dei "forconi" del 2013, sospinto e diretto in Sicilia da corporazioni proprietarie del trasporto locale. Nessun soggetto politico reazionario guida oggi la protesta dei gilet gialli. Le posizioni reazionarie anti-immigrati sono presenti, ma relativamente marginali. Gesti e atti squadristi sono stati sconfessati e denunciati ripetutamente dai manifestanti stessi. Le rivendicazioni che si affacciano nel movimento sono certo di carattere multiforme, ma comprendono anche istanze sociali classiste, estranee alla cultura della destra: la patrimoniale sulle grandi fortune, l'aumento generale e consistente dei salari, la cancellazione delle tasse sul lavoro, la riduzione dell'età pensionabile. Anche l'eco indiretta delle mobilitazioni di classe contro la legge El Khomri trova un proprio riflesso nei gilet gialli. La bandiera tricolore, non quella rossa, primeggia nelle manifestazioni, ma al tempo stesso i simboli evocati sono simultaneamente il 1789 e il maggio '68. La misura di una grande confusione, ma non certo i simboli della reazione, tanto meno nella storia di Francia.

Lo stesso Front National di Marine Le Pen cerca ovviamente di subordinare il movimento al nazionalismo francese anti-UE, ma si tiene fuori dal movimento stesso, tanto più dopo la sua radicalizzazione e la dinamica di scontri con la Gendarmerie. Le Pen non gioca la carta dell'egemonia sul movimento di piazza, ma quella della sua capitalizzazione elettorale passiva. Come fa, sul suo proprio versante, la France Insoumise di Mélenchon.

Il movimento dei gilet gialli in queste tre settimane ha visto confrontarsi al proprio interno posizioni diverse. Non solo sulla piattaforma rivendicativa, ma anche e soprattutto sul posizionamento da tenere verso il governo e Macron. È la dinamica stessa di scontro frontale e di strada col potere che ha sospinto questa differenziazione. Da un lato, un'area moderata (i "gilet liberi”) spaventata dalla radicalizzazione in atto ha puntato ad una soluzione negoziata col governo che consentisse il riflusso delle manifestazioni di strada e il recupero di un movimento di opinione. Dall'altro, un settore più radicale ha mantenuto una linea di scontro frontale col governo attorno alla rivendicazione delle dimissioni di Macron. Il confronto tra queste due posizioni non misura una differenziazione sociale, ma riflette diverse posture politiche. Non a caso sul primo versante si sono raccolte personalità politiche di estrazione gaullista (Benjamin Cauchy, Laurent Wauquiez) che avevano sostenuto il movimento iniziale per poi rigettare la sua “svolta estremista”. L'arretramento unilaterale di Macron di fronte alla pressione di piazza è anche, per molti aspetti, una sconfitta di questa posizione conciliativa. Mentre gli ambienti della destra, inclusa Marine Le Pen, denunciano «la presenza sempre più significativa tra i gilet gialli di sindacalisti di professione e sinistrorsi di CGT e SUD [Solidaires Unitaires Démocratiques, sindacato francese]».


NEL VARCO APERTO ALTRI SOGGETTI SOCIALI

Tuttavia, allo stato attuale delle cose, il vero punto interrogativo non riguarda la dinamica interna al movimento dei gilet gialli, quanto la possibile irruzione di nuovi soggetti sociali dentro il varco che il movimento ha aperto.

Il movimento dei gilet, nel suo attuale formato e con le sue forme d'azione (blocchi stradali in periferia, manifestazioni settimanali a Parigi), è destinato con ogni probabilità a una parabola discendente (287.000 persone in strada il 17 novembre, 160.000 il 24 novembre, 136.000 il 1 dicembre, 125.000 l'8 dicembre, stando ai dati forniti dal ministero dell'Interno). Ma dentro il varco che è stato aperto si sono affacciati gli studenti, con la crescita e l'estensione delle occupazioni e picchettaggi dei licei (200 scuole in agitazione il 7 dicembre, 450 l'11 dicembre), attorno a proprie specifiche rivendicazioni; e hanno iniziato a muoversi quattro università (a partire da Nanterre, con più di 3.000 studenti coinvolti). L'immagine di 153 giovani studenti inginocchiati con le manette ai polsi e insultati dai poliziotti ha evocato un sentimento vasto di solidarietà e di sdegno, in particolare tra i giovani.

Si muovono anche alcuni settori sindacalizzati della classe. Alcune sezioni sindacali della CGT (impresa Lafarge) dichiarano di associarsi ai gilet gialli. CGT e Force Ouvrière dei trasporti hanno indetto uno sciopero a tempo indeterminato a partire dal 9 dicembre per chiedere la remunerazione degli straordinari. I sindacati dei braccianti e organizzazioni della piccola proprietà contadina hanno proclamato lo stato di agitazione. La CGT, dopo tre settimane di passività, ha dovuto convocare per il 14 dicembre una giornata d'azione nazionale attorno ad una piattaforma generica di rivendicazioni minimali (“per i salari, le pensioni, la protezione sociale”). La logica della burocrazia è ovviamente quella di usare i gilet gialli come leva di rilancio del proprio ruolo insostituibile di controllore sociale agli occhi di Macron e del MEDEF, la Confindustria francese. Il segretario Martinez ha dichiarato: «Se il governo vuole degli interlocutori sociali siamo ben contenti di ricoprire quel ruolo» (Le Monde, 8 dicembre). Ma il punto è se al di là dei calcoli della burocrazia, l'iniziativa sindacale possa trascinare di fatto una ripresa d'azione del movimento operaio, e un suo ingresso nella scena della crisi.

“E se i salariati si ribellano?” è il titolo di un libro edito in Francia da qualche mese, scritto da Patrick Artus. Dà la misura del vero spauracchio della borghesia francese.


MACRON E LA BUROCRAZIA SINDACALE

Le relazioni tra Macron e le burocrazie sindacali sono una cartina di tornasole dell'evoluzione politica francese.

Macron ha costruito la sua stagione politica attraverso la ricerca di una relazione diretta tra “il Presidente” e il popolo, rimuovendo ogni spazio di reale negoziazione coi sindacati. Prima lo scontro sul peggioramento ulteriore della Legge El Khomri, l'equivalente del Jobs Act italiano, poi il braccio di ferro prolungato coi ferrovieri, sono stati impostati con questa logica. Oggi l'aspirante Bonaparte è costretto a constatare che la relazione diretta col popolo per comporre attorno a sé un blocco d'ordine non solo è fallita ma si è risolta in uno scenario opposto: la ribellione di ampi strati popolari contro la stessa immagine del Presidente. “Voleva fare il re ed ha generato i sanculotti”, ha osservato con una battuta brillante il giornalista Raphael Glucksmann. A questo punto il mancato re ha dovuto chiedere ufficialmente ai sindacati di promuovere un appello pubblico alla calma per scongiurare il peggio, e le burocrazie sindacali si sono affrettate ad accogliere la supplica di Macron formulando un appello pietoso (“chiediamo a tutti di evitare la violenza”) per incassare la legittimazione offerta loro da un sovrano decaduto. Solo SUD ha rifiutato di firmare l'appello e di incontrare Philippe. È la prova che il regime della V Repubblica non si regge sull'autorità del governo, né tanto meno sulla sua autorevolezza, ma sulla passività delle direzioni del movimento operaio, che oggi, a fronte del collasso del PS e del PCF, sono essenzialmente le burocrazie sindacali. Le stesse burocrazie che rifiutarono di promuovere un vero sciopero generale contro Hollande sulla legge El Khomri offrono oggi a Macron una ciambella di salvataggio. Se la ciambella tiene o è bucata lo dirà il corso successivo degli avvenimenti.


L'IRRUZIONE DELLA CLASSE OPERAIA COME FATTORE DECISIVO

In ogni caso, solo l'irruzione sulla scena del movimento operaio francese può dare una prospettiva alla mobilitazione in corso, a partire da un baricentro sociale, una piattaforma generale, una forma di organizzazione. Solo un'egemonia di classe sulla protesta sociale può liberarla da retaggi e influenze piccolo-borghesi, come da ogni equivoco reazionario.

La rivendicazione dello sciopero generale attorno ad una piattaforma di rivendicazioni unificanti diventa centrale nell'attuale scenario. Si tratta di chiedere innanzitutto che i sindacati di massa si assumano questa responsabilità, portando questa rivendicazione nella giornata d'azione del 14 dicembre come in ogni lotta di settore; e al tempo stesso di unire nell'azione tutti i settori di avanguardia della classe disponibili a battersi per l'innesco concreto di una dinamica generale di sciopero.

Importante, tanto più in questa fase, l'incoraggiamento e sviluppo delle forme di autorganizzazione, nei luoghi di lavoro in lotta e nelle scuole occupate. Le forme di autorganizzazione dei lavoratori possono diventare un centro di raggruppamento più largo degli strati popolari, e un fattore di direzione della protesta sociale dei territori.

Da questo punto di vista l'iniziativa promossa dai compagni di Anticapitalisme & Révolution (componente marxista rivoluzionaria del NPA) attorno alla parola d'ordine dello sciopero generale, delle assemblee generali in tutti i luoghi di lavoro, dello sviluppo dell'autorganizzazione della lotta, rappresenta un'azione esemplare.

Di certo un'eventuale dinamica di sciopero generale e di autorganizzazione, nell'attuale contesto politico-istituzionale, potrebbe aprire in Francia una crisi rivoluzionaria: da una parte per lo sviluppo dell'egemonia di classe sulla protesta popolare; dall'altro per l'estensione del fronte sociale di massa a fronte dell'indebolimento sostanziale del consenso e delle istituzioni borghesi.


VIA MACRON! GOVERNO DEI LAVORATORI E DELLE LAVORATRICI!

Per questa stessa ragione è importante introdurre, nella mobilitazione di massa e di classe, la prospettiva di un'alternativa politica: un governo dei lavoratori, delle lavoratrici, della popolazione povera di Francia.

La stessa centralità della parola d'ordine unificante “dimissioni di Macron” pone l'esigenza di un'indicazione alternativa. Macron è incerto se rimuovere o meno Eduard Philippe e cambiare cavallo, mentre tutte le contraddizioni del suo campo si acuiscono. Le Pen e Mélenchon per ragioni complementari e simmetriche chiedono lo scioglimento dell'Assemblea nazionale ed elezioni anticipate: il caro vecchio ricorso della borghesia francese di fronte all'ingovernabilità del conflitto sociale (vedi l'accordo tra PCF e De Gaulle per stroncare nelle urne il maggio '68). Il PCF e il PS si affidano all'attesa delle elezioni europee tra sei mesi, senza peraltro sapere in che formato andarci. Nessuna forza politica della sinistra riformista francese avanza né una proposta di lotta sul terreno sociale né una prospettiva politica alternativa a Macron, incapaci di andare oltre il piccolo recinto autoconservativo della routine parlamentare e istituzionale.

La direzione del Nouveau Parti Anticapitaliste, formazione di matrice trotskista, propone positivamente la convergenza delle lotte, ma rimuove la prospettiva politica. È il riflesso di una posizione centrista che si affida alla dinamica del movimento senza segnare una rotta, magari col riflesso condizionato, sottotraccia, dell'attesa di qualche soluzione riformista (un governo “antiausterità” senza rottura col capitale), utopica e subalterna al tempo stesso. Non è questa la logica dei marxisti rivoluzionari.

Il governo dei lavoratori e delle lavoratrici, basato sulle forme di autorganizzazione di classe e di massa, è l'unica alternativa politica progressiva alla crisi di Macron e della V Repubblica francese. Lo è oggettivamente, perché le stesse rivendicazioni sociali che si affacciano nella mobilitazione in corso non possono essere realmente soddisfatte nel loro insieme senza rompere con le compatibilità del capitale, a partire dalla cancellazione di un debito pubblico che ammonta a quasi il 100% del Pil, ciò che solo un governo dei lavoratori può fare. Ma lo è anche soggettivamente: perché la dinamica di rottura col potere politico è profonda, e ampi settori di massa cercano a modo loro una soluzione radicale della crisi. Questa soluzione radicale la deve avanzare il movimento operaio contro il capitalismo francese. Il protagonismo del movimento operaio può oggi segnare la dinamica degli eventi, e può farlo compiutamente solo se assume una propria prospettiva di alternativa sociale come bandiera contro il capitale. Se non saranno i lavoratori e le lavoratrici ad offrire una soluzione alla crisi francese, sarà la reazione, sia essa nella forma di una possibile stabilizzazione del governo Macron per mezzo della repressione e della ripresa delle politiche bonapartiste, sia essa nella forma dello sviluppo, come in altri paesi europei, di una deriva reazionaria che provi ad imporre una diversa gestione capitalistica della crisi, di carattere nazionalista e populista, in ogni caso sempre contro il lavoro.

Proprio per questo sosteniamo fino in fondo l’appello alla lotta della classe lavoratrice ed all’autorganizzazione lanciato da A&R che pubblichiamo su questo stesso sito.

Questo è il bivio di prospettiva che si è aperta in Francia, e che non riguarda solo la Francia.

12 dicembre 2018 
Marco Ferrando

Una settimana decisiva

14, 15, 17 dicembre: organizziamo la risposta generale!

12 Dicembre 2018
Appello di Anticapitalisme & Révolution, corrente di sinistra nel NPA

 Macron è bruciato, tenta di spegnere l’incendio… ma qualsiasi cosa avvenga resterà carbonizzato.
La questione ora è quella di aumentare il vapore e orientare il tiro. Di rinforzare il movimento. Di sostenere la collera che si esprime su tutto il territorio per finalmente vincere!

La collera dei gilet gialli è la collera del mondo del lavoro e della gioventù. È la collera di quelli e quelle che non arrivano alla fine del mese, che sono i “lasciati indietro” di questa società che Macron, il presidente dei ricchi, incarna a meraviglia!

Non lasciamo che l’estrema destra strumentalizzi la miseria del nostro campo sociale! Ovunque uniamoci alla battaglia con gli strumenti che sono nostri: gli scioperi, le assemblee generali, i blocchi!

Ovunque facciamo appello ad assemblee generali. Ovunque costruiamo lo sciopero, la sua generalizzazione e massificazione.

Che mille assemblee generali fioriscano tra i ferrovieri, alle Poste, nel settore auto. Non bisogna avere paura di farlo!

Per vincere non ci possono essere scorciatoie, non si può evitare l’ostacolo: bisognerà costruire un movimento d’insieme, uno sciopero generale!

La gioventù ci mostra la via: i liceali e le liceali hanno bloccato più di 400 licei venerdì 7 dicembre. Stanno costruendo lo sciopero!

Gli studenti e studentesse si sono riuniti in assemblee generali di massa, come quella di Nanterre lunedì 10 dicembre, con più di tremila studenti che hanno appena votato il blocco della facoltà fino a giovedì 13 dicembre.

Questa settimana è decisiva: un numero sempre maggiore di sindacalisti rifiutano il dialogo sociale, che serve in realtà solo allo Stato e ai padroni!

Questa settimana deve servire per unirsi al movimento in corso per aumenti di salario, contro la precarietà e per scelte che rompano con una società basata sullo sfruttamento, le oppressioni e il disastro ecologico.

Sì, noi possiamo vincere! Sì, noi possiamo cambiare tutto!

Scioperiamo ovunque il 14 dicembre, manifestiamo il 15 dicembre e continuiamo il 17 dicembre.

Per discuterne, quale che sia il tuo sindacato, il tuo fronte di lotta; che tu sia comunista, trotskista, autonomo o cane sciolto... vieni, incontriamoci martedì 11 dicembre alle 19,30 alla Bourse du travail, Republique.
Anticapitalisme & Révolution
 
 

Corinaldo: non esistono capitalismi buoni

Il profitto, ancora una volta, alla base della tragedia

La notte tra venerdì 7 e sabato 8 dicembre, a Corinaldo, in provincia di Ancona, si è consumata una strage.
La discoteca Lanterna Azzurra ha venduto 1.400 biglietti per il concerto del trapper Sfera Ebbasta.
Un pubblico soprattutto di minorenni, giovani al punto da essere accompagnati dai genitori fin dentro la discoteca. Il locale si suddivide in diversi vani, e la sala principale, quella che ha ospitato il cantante col relativo pubblico, dispone di una capienza massima di 469 persone. Numero scandalosamente inferiore a quello dei biglietti venduti. Il sito ticketone.it (multinazionale tedesca Cts Eventim, già nel mirino dell’Antitrust) non ha badato a limiti. Ma ancora meno ha badato la direzione del locale che, davanti alla folla sproporzionata, avrebbe dovuto porre il divieto d’accesso con risarcimento dei biglietti venduti.

Ma il capitalismo delle multinazionali e quello dei piccoli esercenti di provincia si comporta allo stesso, criminale modo: perseguire il massimo profitto, facendo carta straccia di leggi e normative quando queste si rivelano d’intralcio.

Il risultato è l’orrore. In seguito all’emissione di un gas urticante da parte di uno o più astanti (espediente, per altro, sempre più diffuso in occasioni simili per rubacchiare nel panico), l’aria si è fatta irrespirabile e la folla si è precipitata fuori per le uscite di sicurezza, una delle quali sbarrata. Il peso insostenibile delle persone ha fatto cedere le balaustre, e qualcuno è scivolato finendo schiacciato dalla calca, perdendo così la vita.

Una tragedia annunciata: tra i 14 e i 20 anni, il bilancio è di un centinaio di feriti, dieci in condizioni critiche e sei morti. La sola vittima adulta, Eleonora Girolimini di Senigallia, 39 anni, è morta calpestata nel fuggi fuggi mentre proteggeva la sua bambina di 11 anni, ora in terapia presso gli psicologi, urlando «C’è la piccola!... C’è la piccola!...». Atroce.

Il Ministro dell’Inferno, l’indomani, dal palco di Piazza del Popolo a Roma, ha dedicato un minuto di silenzio alle vittime promettendo che chi sbaglia paga.
Ne siamo sicuri, come ha pagato chi ha sbagliato per il Ponte Morandi e come paga lui in persona e il suo partito tutto per i 50 milioni rubati allo Stato. O, nella sua lingua, al «popolo italiano».

Il dibattito che segue in queste ore è di un’omertà che nulla ha da invidiare alla mafia. E del resto il capitalismo altro non è che mafia costituzionale.

Tutti a ciarlare, dal governo all’opposizione, sull’opportunità o meno del permesso ai minorenni per i concerti, sulla militarizzazione delle discoteche e sull'identificazione del farabutto o la farabutta dello spray.

Non una parola sui primi responsabili del dramma. Non si fanno circolare neanche le generalità del proprietario del locale. E nessuna parola sulla multinazionale che ha venduto i biglietti.

In compenso eccoli scattanti, da Salvini a Meloni, a puntualizzare "così non fan tutti" e che bisogna distinguere chi sbaglia dalla stragrande maggioranza che non sbaglia. Anzi, ci aspettiamo che traducano l’episodio in un elemento di campagna per la flat tax, argomentando che se lo Stato non tassasse i piccoli imprenditori, costoro non si troverebbero costretti ad aggirare le norme per sopravvivere.

Tanti gentili distinguo e moderazione lessicale («sbaglio» in luogo di «crimine pianificato») per assassini poliziotti e imprenditori non si utilizzano però mai quando nel crimine finisce lo straniero.
Figurarsi, poi, se si fa la minima menzione ai casi in cui stranieri, e per di più poveri, e per di più a rischio espatrio dopo il Decreto sicurezza, come un Mustafa El Aoudi, gli omicidi tentati da italiani li sventano!

Non serve essere uno scienziato per porsi la domanda più elementare: «Ma i veri responsabili? Ma i padroni?». Il chiacchiericcio intorno alza una cortina di ferro intorno alla loro responsabilità, giocando alla liquidazione totale, giorno dopo giorno, silenzio dopo silenzio, deviazione dopo deviazione, persino della pensabilità della loro colpa. Anche di questo si costituisce la nuova fase storica.
Il governo sa, del resto, di dovere il proprio appoggio proprio a quei piccoli capitalismi distrettuali: esso stesso ne è parte.

Quand’anche mai questi capitalisti venissero chiamati a processo, coi soldi fatti proprio grazie a queste occasioni, allo sfruttamento legalizzato più quello illegale che emerge solo in casi di drammi, compreranno fior d’avvocati che dimostreranno la loro innocenza o ne allevieranno le colpe. È la giustizia nel capitalismo.
Trasgredire la legge è vitale al padronato anche per farla franca e trasgredirla ancora. Chissà di quante altre infrazioni si comporrà la mancia che la proprietà della Lanterna Azzurra corrisponderà ai propri difensori legali!

La destra populista racconta, ed è idea anche di alcuni ambienti di sinistra, che vi sia un capitalismo cattivo, quello della finanza e dei grandi delocalizzatori, e un capitalismo buono, mite, quasi naturale; che fa il suo senza pestare i piedi a nessuno. Quello della piccola e media borghesia, cioè i piccoli e medi espropriatori.

Il capitalismo, seppure si divide tra capitalismi più e meno ricchi, è un meccanismo identico di spoliazione di ricchezza da parte dei proprietari sulla pelle dei produttori di quella ricchezza, d’ogni genere, materiale e immateriale: i lavoratori, i proletari, la classe operaia.

La strage di Corinaldo sia elemento di riflessione sulla natura di tutti i capitalismi, piccoli e grandi, di oggi e di ieri, e dimostri indelebilmente come, parafrasando una canzone, non esistano capitalismi buoni.
10 dicembre 2018
Salvo Lo Galbo

Di Maio e i padroni

Il quotidiano di Confindustria Il Sole 24 Ore ha ospitato sabato 8 dicembre una lunga lettera aperta agli industriali del Ministro Luigi Di Maio, con tanto di titolo di apertura di prima pagina: “Di Maio alle imprese: lavoriamo insieme”.

Il titolo tiene fede all'articolo. Un ministro del lavoro che ignora le pietose richieste di incontro delle burocrazie sindacali propone formalmente ai padroni «un metodo di confronto continuo»: l'avvio di un «tavolo permanente per le piccole e medie imprese» per «permettervi di fare gli imprenditori» e «capire insieme qual è la direzione che deve prendere lo sviluppo dell'Italia».

Il cuore mieloso della lettera è naturalmente la Legge di stabilità.
Nello stesso momento in cui il governo svuota ulteriormente le proprie elemosine sociali su reddito e pensioni per rassicurare le banche e la Commissione Europea, Di Maio garantisce pubblicamente i padroni sui vantaggi della finanziaria per i loro profitti: abbassamento delle tasse al 15% per le piccole imprese nel 2019, con la promessa di estenderlo nel 2020; abbattimento dell' IRES dal 24% al 15% (anche per chi “assume” lavoro precario); proroga del superammortamento renziano per gli investimenti; sgravio contributivo sino a 80.000 euro l'anno per le assunzioni a tempo indeterminato; un miliardo ogni anno per la sovvenzione degli investimenti in “alta tecnologia”... Infine l'annuncio per il futuro di 200 miliardi mobilitati attraverso la Cassa Depositi e Prestiti per le infrastrutture, e l'ulteriore liberalizzazione del codice degli appalti (quella che moltiplica gli omicidi bianchi).

Dopo l'offerta di un simile bengodi, Di Maio conclude la lettera ai padroni con parole alate: «L'Italia è come una maestosa aquila che si è spezzata le zampe... Se lavoreremo insieme presto potremmo nuovamente spiccare il volo». A prescindere dall'incerta sintassi, il messaggio è inequivoco: il M5S offre le ali ai capitalisti, come hanno fatto negli ultimi decenni tutti i governi padronali, nessuno escluso. Con una differenza duplice: il M5S si rivolge a tutti i padroni, non solo ai grandi; e porta loro in dote il consenso sociale di milioni di operai, impiegati, disoccupati, cioè di quelli che continueranno a pagare l'80% del carico fiscale per finanziare le regalie alle imprese.

In conclusione: Di Maio vuole contendere alla Lega il blocco piccolo-medio borghese proprietario del Nord, per la stessa ragione per cui Salvini vuole scendere a Sud e invadere le roccaforti elettorali 5 Stelle. I due imbroglioni di governo si disputano le grazie dei padroni, mentre invocano i voti degli sfruttati.
Sino a quando reggerà questa truffa?
10 dicembre 2018
Partito Comunista dei Lavoratori

Un no di classe e anticapitalista al TAV

La questione TAV Torino-Lione è da molti anni - sostanzialmente dal 1992 - al centro di un'opposizione di massa di larga parte della popolazione della Val di Susa, ma anche di un confronto politico pubblico. L'avvento del governo SalviMaio e le contraddizioni interne che lo percorrono (anche) su questo tema ha in qualche modo nuovamente precipitato lo scontro. La manifestazione interclassista del 31 ottobre a Torino a favore del TAV promossa dalle organizzazioni confindustriali e delle libere professioni ha segnato sotto questo profilo un salto di qualità della contrapposizione in atto. Da qui la contromobilitazione prevista per l'8 dicembre a Torino, promossa da tutte le organizzazioni No TAV, e la sua valenza nazionale.
Il Partito Comunista dei Lavoratori è nettamente collocato sul fronte No TAV, a partire da una motivazione di classe e da un progetto alternativo di società.

Non siamo per principio contro le grandi opere, nel nome del “piccolo è bello”. Vi sono grandi opere obiettivamente necessarie anche nel campo dell'alta velocità, magari disertate o passate in secondo piano dai governi borghesi. Né vale il concetto dell'opposizione di principio alle grandi opere per il fatto che coinvolgono gli interessi di potentati economici. Nella società borghese tutto ciò che è costruito e prodotto ha un finalità di profitto, non per questo siamo contrari alla produzione di cappotti o di alimenti. Neppure può essere eretto a criterio assoluto la contrarietà a una grande opera da parte di settori popolari dei territori direttamente interessati, perché a certe condizioni un interesse generale può essere prioritario rispetto a interessi locali. La stessa storia generale delle ferrovie lo dimostra.
Da questo punto di vista, ogni cultura comunitaria che declini la dimensione territoriale del movimento come nuovo modello di soggettività antagonista alternativa alla dimensione generale di classe ci pare non solo sbagliata ma pericolosa.

UN'OPERA INUTILE SE NON PER CHI CI FA PROFITTO

La nostra opposizione netta e radicale al TAV muove da un'altra angolazione, da un'angolazione anticapitalista.

Il TAV Torino-Lione non risponde a una ragione sociale dei lavoratori. Ha un impatto ambientale devastante, perché scavato in una montagna piena di uranio e di amianto. Non è stata progettata per il trasporto viaggiatori, ma per il trasporto merci. Per di più, su un calcolo di volume di traffico merci molto superiore all'attuale: dagli anni '90 ad oggi il traffico merci tra Italia e Francia lungo l'attuale linea ferroviaria Frejus è crollata di due terzi, quella su linea stradale è calata del 27%, il traffico merci alpino totale (ferro più gomma) è calato del 36%. L'argomento per cui l'Alta Velocità Torino-Lione servirebbe a ridurre in misura significativa il trasporto merci su gomma è del tutto infondato. Da questo punto di vista il Tav si configura nel migliore dei casi come un'opera inutile, salvo naturalmente per gli interessi dei costruttori coinvolti e per la relativa catena degli appalti.

SI INVESTE NEL TAV MENTRE SI TAGLIANO I TRENI PENDOLARI

Questa opera inutile è spaventosamente costosa. Quasi 8 miliardi complessivamente, di cui un miliardo e mezzo già speso. Una enormità, messa a carico dei contribuenti lavoratori. Una enormità tanto più rilevante a fronte del taglio sistematico degli investimenti pubblici in opere sociali di pubblica utilità, anche in fatto di trasporto pubblico. Le Ferrovie dello Stato sono sempre più una grande holding capitalistica interessata ai processi di concentrazione/fusione con altri settori (prima ANAS, oggi pare Alitalia), e al procacciamento di lucrosi affari in giro per il mondo a caccia di profitti. Per finanziare tali operazioni, foraggiate da risorse pubbliche, le Ferrovie hanno tagliato regolarmente i treni pendolari regionali, e le lunghe tratte per passeggeri meno redditizie, incluse le tratte di collegamento con la Francia. Per non parlare dei tagli alla manutenzione ordinaria dei convogli, con conseguenze drammatiche sulla sicurezza stessa dei passeggeri. In questo quadro i miliardi di investimento nell'alta velocità Torino-Lione sono obiettivamente uno scandalo: risorse direttamente sottratte a un sistema ferroviario pubblico in disfacimento per soddisfare interessi privati.

IL TAV CONTRO LE VERE EMERGENZE TERRITORIALI E AMBIENTALI

Non solo. La destinazione di una cifra così imponente è tanto più inaccettabile a fronte dell'ordine più generale delle emergenze vere che interessano il territorio italiano. Riassetto idrogeologico, messa in sicurezza antisismica di edifici pubblici e privati, bonifiche ambientali a partire dall'amianto e dai rifiuti, riparazione di una rete idrica ridotta a colabrodo, sono tutti terreni urgenti di investimento pubblico che separatamente e nel loro insieme richiedono risorse imponenti, per diverse centinaia di miliardi; risorse strutturalmente negate da un sistema capitalistico che ha priorità opposte: pagare il debito pubblico alle banche (70-80 miliardi di soli interessi ogni anno), continuare a detassare i profitti, assistere con risorse pubbliche le aziende private. Per non parlare delle spese in armamenti o delle regalie a scuole privata, sanità privata, Vaticano. In questo quadro generale, i miliardi di risorse pubbliche a favore del TAV Torino-Lione sono obiettivamente un insulto. È comprensibile che le organizzazioni Confindustriali di Lombardia e Piemonte si mobilitino a favore dell'opera, non lo è che lo facciano i grandi sindacati dei lavoratori, se non per la stessa sudditanza al padronato che segna la loro politica più generale.

NO AL GOVERNO REAZIONARIO SALVIMAIO!

Lo scontro sul TAV ha assunto oggi una valenza politica che trascende la questione specifica.

Il TAV è diventata una croce per il governo reazionario SalviMaio, in particolare per il M5S. Il M5S di governo ha già capovolto le proprie promesse elettorali in relazione alla vicenda TAP, esponendosi ad una contestazione frontale delle popolazioni salentine e di settori significativi di propri attivisti. Una nuova capitolazione di M5S sul TAV potrebbe innescare un effetto valanga in termini di credibilità pubblica del partito, ben al di là della Val Susa. Al tempo stesso la Lega di Salvini, già in tensione col proprio blocco imprenditoriale del Nord, ha difficoltà a subire un vero blocco della TAV, e preme sul M5S per rimuovere ogni veto. Paralizzato dalle proprie contraddizioni, il governo ha sinora cercato di guadagnare tempo con la favola della verifica costi-benefici, cercando in realtà un punto di mediazione interna (eliminare alcuni lavori considerati superflui come la stazione di Susa e mantenere il tunnel di base). Nei fatti, come sul resto, cerca di camuffare la continuità col passato attraverso soluzioni cosmetiche e accorgimenti-truffa.
Respingere le mediazioni-truffa, battersi per bloccare il TAV, è anche una forma di opposizione politica a un governo reazionario, xenofobo, truffaldino e ai suoi progetti di stabilizzazione.

Con queste motivazioni il PCL parteciperà alla manifestazione dell' 8 dicembre a Torino contro la TAV. Non lo faremo certo in una logica di sostegno al M5S, o anche solo di pressione critica nei suoi confronti. Lo faremo in una logica di opposizione aperta al governo di M5S e Lega, contro ogni forma di illusione nel grillismo. Per questo il nostro striscione dirà: NO alla TAV, NO al decreto sicurezza, NO al governo SalviMaio.
Partito Comunista dei Lavoratori

Contro il governo e per le nostre condizioni di vita, organizziamoci senza i nostri nemici!

Prosegue la protesta dei gilet gialli in Francia

1 Dicembre 2018
Pubblichiamo l'editoriale dell'ultimo numero di Anticapitalisme & Révolution, giornale dell'omonima corrente di sinistra nel NPA francese

 La mobilitazione dei "gilets jaunes" (gilet gialli) ha riunito circa 300.000 persone, in più di 2.000 presidi e azioni. Un movimento all'altezza di alcuni di quelli che abbiamo conosciuto in questi ultimi anni contro gli attacchi antisociali, pur senza raggiungere per esempio il livello delle manifestazioni del 2016 contro la Loi Travail.
La rabbia contro l'aumento del prezzo dei carburanti non potrebbe essere più legittima. Milioni di lavoratori e lavoratrici sono obbligati ad utilizzare la loro macchina per andare al lavoro, perché non esistono trasporti pubblici, delle linee ferroviarie sono state chiuse, li si è obbligati ad accettare un lavoro a decine di chilometri dal loro domicilio... L'ipocrisia del governo, che pretende di agire per il bene dell'ambiente, non inganna nessuno. Per lottare realmente contro gli inquinatori bisognerebbe occuparsi dei grandi gruppi capitalisti del petrolio come Total, che accumulano milioni di benefici.

UNA COLLERA LEGITTIMA, FAGOCITATA DAI NOSTRI PEGGIORI NEMICI

Purtroppo, la mobilitazione del 17 novembre è stata l'occasione per alcuni fra i peggiori reazionari del paese di scatenarsi: si sono registrati insulti, aggressioni fisiche, slogan nauseabondi, come a Bourg-en-Bresse dove una coppia di omosessuali sono stati picchiati a sangue, a Saint-Quentin, dove un'automobilista velata è stata costretta a togliersi il velo... A Tours, su una camionetta riverniciata in blu-bianco-rosso campeggiava lo slogan: «i francesi prima di tutto, fuori i migranti. Forza, onore, patria». Tutto un programma.
Non c'è da meravigliarsi, quando si conosce il percorso di certi leader autoproclamati. In un video visto milioni di volte, il militante di Debout la France [Alzati Francia, partito politico di destra, ndr] ed ex Fronte Nazionale Frank Buhler se la prende con i disoccupati e le disoccupate che accusa di cavarsela meglio di quelli e quelle che lavorano. Ecco il veleno della divisione! In certe regioni, come nel Vaucluse, sono dei militanti del Rassemblement National [nuovo nome assunto dal Front National di Le Pen, ndr] e di altri gruppuscoli identitari ad avere organizzato le riunioni di preparazione del 17 novembre. Spesso, le organizzazioni di poliziotti più vicine all'estrema destra hanno sostenuto la mobilitazione. Gli stessi che sgomberano i lavoratori che occupano le loro fabbriche, manganellano i manifestanti e prendono di mira la gente nelle periferie... sarebbero ora dal lato delle classi popolari?

IL MONDO DEL LAVORO DEVE CONTARE SULLE PROPRIE LOTTE

Dai Repubblicani al Rassemblement National, la destra e l'estrema destra cercano di dividere gli sfruttati secondo le loro origini, colore della pelle, religione, genere o orientamento sessuale... E di fare credere ai lavoratori e alle lavoratrici di nazionalità francese che avrebbero degli interessi comuni ai loro padroni. Questi movimenti ci distraggono dalle rivendicazioni che permetterebbero di fronteggiare l'aumento del costo della vita, a cominciare dall'aumento dei salari, con la loro indicizzazione all'aumento dei prezzi.
È attraverso lo sciopero, bloccando i profitti del padronato e l'economia del paese, che noi riusciremo ad ottenere delle vittorie. Solo i lavoratori e le lavoratrici hanno questo mezzo d'azione, non i politici borghesi, che affermano di parlare a nome nostro. È perché le centrali sindacali non hanno proposto assolutamente nulla di serio per contrastare le misure antisociali del governo e del padronato - neanche l'ombra di una prospettiva di mobilitazione dopo la giornata di sciopero del 9 ottobre scorso - che l'esasperazione generale si è espressa attraverso i gilet gialli. Perché Macron, il quale non ascolta che i capitalisti, che sono i suoi committenti, dovrebbe ascoltare la collera? Ma i sindacati, dal canto loro, devono finalmente rendersi conto di questa collera, e convocare immediatamente una giornata di sciopero intercategoriale contro il carovita, attraverso cui la classe operaia potrebbe esprimersi indipendentemente dai reazionari e del padronato del trasporto su strada.
Ed è il tempo di raggruppare i numerosi settori che vogliono lottare. Questo è il senso dell'appello lanciato da una quarantina di sindacati o collettivi di tutta la Francia, come gli ex Goodyear di Amiens, i postini e le postine del 92° dipartimento, in sciopero dal 26 marzo, gli operai della Ford Blanquefort la cui fabbrica è minacciata di chiusura, gli ospedalieri di Rouvray che hanno impedito la soppressione dei servizi, dei professori di ZEP [Zone d’éducation prioritarie], dei lavoratori di McDonald's, dei ferrovieri e ferroviere repressi dopo il loro sciopero, degli studenti e studentesse mobilitati contro la selezione all'università... Tutti e tutte insieme, questi settori propongono di manifestare il 15 dicembre a Parigi, dall'Eliseo alla sede della Confindustria francese, il MEDEF. Questa iniziativa sarà un'occasione di fare sentire, in piena indipendenza, il nostro campo sociale!
Anticapitalisme & Révolution