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Giù le mani dai rifugiati eritrei!

La polizia di Minniti si scaglia contro i rifugiati politici, con la complicità di Virginia Raggi

24 Agosto 2017
La carica brutale della polizia a Roma contro rifugiati eritrei che rivendicano il diritto alla casa, il sequestro poliziesco di decine di bambini terrorizzati caricati sulle camionette della celere, sono atti semplicemente infami. Tanto più se praticati contro persone fuggite da torture e vessazioni indicibili. Le responsabilità politiche del ministro degli interni Minniti e della sindaca Raggi sono inequivocabili.
Non si tratta di fatti isolati. Sono il riflesso della campagna più generale che fa dei migranti e dei loro diritti un problema di ordine pubblico, con la gara allo scavalcamento a destra tra PD, Salvini e M5S per catturare il voto xenofobo.

Mentre la grande stampa plaude al ministro Minniti per la diminuzione degli sbarchi dalla Libia, Le Monde pubblica oggi un'inchiesta documentata sulle ragioni vere di questo fatto: la segregazione di masse crescenti di rifugiati da parte di milizie libiche e bande di criminali conniventi con la Guardia costiera e le autorità locali. Questa è la vera collusione coi trafficanti di esseri umani: quella del ministro Minniti e del governo Gentiloni, che forniscono di fatto armi e denaro a forze criminali. Il pestaggio dei rifugiati eritrei di Roma è la prosecuzione della stessa politica.
Partito Comunista dei Lavoratori
 

Ischia: il profitto uccide come nel 1883

L'ideologia borghese del progresso conosce una nuova smentita. A Ischia si muore di terremoto come nel 1883. È passato quasi un secolo e mezzo, la scienza e la tecnica delle costruzioni edilizie ha fatto passi da gigante, ma a Ischia è sufficiente una scossa modesta di 4 gradi richter per produrre crolli, morti, feriti.
In una organizzazione capitalistica della società, dove domina la legge del profitto, si costruiscono case fatiscenti, su terreni improbabili, con materiali di sabbia. L'industria del cemento è in mano alla malavita. I costruttori sgomitano gli uni contro gli altri per assicurarsi gli appalti al massimo ribasso. Gli investimenti pubblici sulla prevenzione antisismica, annunciati solennemente ogni anno, restano al palo, al pari delle spese per la ricostruzione, come si vede in Centro Italia. “Non ci sono le risorse necessarie”, lamentano gli stessi ministri che destinano ogni anno 80 miliardi alle banche di soli interessi sul debito pubblico, mentre perpetuano le regalie fiscali ai padroni e ai loro profitti. Intanto le quotazioni di borsa delle azioni salgono a vette da capogiro e così i relativi dividendi, a fronte di milioni di disoccupati e della miseria dei salari.

Questa è la società borghese, e non c'è rimedio. La rivoluzione sociale è davvero l'unica possibile terapia.
Partito Comunista dei Lavoratori

Nel pantano libico il rimescolamento delle influenze imperialistiche

Il generale Haftar, uomo forte della Libia, sbaraglia equilibri politici e militari e provoca la crisi del governo di Al-Sarraj

18 Agosto 2017
Dal 2014 ad oggi un continuo rimescolamento delle carte tra milizie, tribù e interventi imperialistici. Oggi il generale Haftar, sostenuto da Egitto, EAU, Russia e Francia sbaraglia tutte le forze in campo, costruisce il proprio ruolo di bonaparte libico, e mette in seria crisi la pedina dell'Italia, degli USA e dell'ONU: il Governo di Accordo Nazionale di Al-Sarraj, sempre più isolato, debole e privo di reale sostegno interno. L'Italia, incapace di gestire i propri interessi imperialistici, si lascia sorpassare dal governo francese nel caos libico. Un caos in cui l'unico reale sconfitto risulterà essere il debole proletariato libico
Nel giardino di casa dell'imperialismo d'Italia, in seguito alla caduta di Gheddafi, si è prodotto il più totale caos di milizie, clan e potentati che ora stanno riordinandosi attorno a figure e realtà capaci di polarizzare i diversi interessi. Tutte coinvolte più o meno entro il disegno di ricerca di un nuovo equilibrio di poteri tra soggetti locali e proiezioni imperialistiche internazionali, equilibrio che non esclude la cancellazione o la sopraffazione di alcune parti in conflitto.
Le recenti vicende, legate alla questione migratoria, vedono un profondo rimescolamento degli equilibri, un intervento imperialistico tanto prepotente quanto spiazzante della Francia sotto la guida del nuovo Bonaparte Macron e la crisi della strategia in braghe di tela dell'imperialismo italiano.


La disgregazione del potere politico e la conflittualità tribale in Libia

Gli attori principali delle attuali dinamiche sono vari.
Innanzitutto, il debole e fantasmatico Governo di Accordo Nazionale (GNA) guidato da Fayez Al-Sarraj, insediato a Tripoli dalla prima metà del 2016. Un governo nato senza supporto reale in Libia, vittima costante della guerra settaria di milizie di varia provenienza, immediatamente delegittimato dal parlamento di Tobruk, dal generale Haftar, guida della campagna militare contro gli islamisti e diretta emanazione degli interessi dell'Egitto nella lottizzazione della Libia, e dal parlamento islamista nato sulla campagna di Alba Libica. Tale governo, fin dal principio, ottenne il sostegno dell'ONU e dell'Unione Europea con la benedizione di Obama, Renzi e Hollande, ma nel lungo cammino che porta ad oggi tali sponde si dimostrano non solo non-sufficienti, ma nemmeno così sicure.
È un dato di fatto che il GNA di Sarraj, sostanzialmente, sia il prodotto della necessità delle borghesie libiche legate al petrolio e alla finanza e delle principali aziende petrolifere imperialistiche (Turkish Petroleum Corporation, ENI, Tatneft Company, Total E & P, Statoil, Deutsche Erdoel AG, British Petroleum, Sipex, Medco International), tutte alla ricerca di un minimo di stabilità per riprendere a intessere interessi e commercio. Non per nulla il governo è percepito internamente come tale nonostante la copertura propagandistica dell'unità contro l'ISIS, ma risulta comunque un governo che al momento detiene il controllo sulla NOC (National Oil Corporation), sulla Banca centrale libica e sull'Autorità libica per gli investimenti (LIA, Fondo sovrano libico).
Tale governo si trova subito a fare i conti con i potentati reali libici, prodotti di differenti interessi e di differenti gruppi, clan e famiglie.
Innanzitutto un soggetto che all'attuale si pone sempre più come marginale, ma comunque centrale nei conflitti settari: il governo islamista di Khalifa Ghwell e le milizie a lui fedeli, ciò che rimane del “Nuovo Congresso Nazionale Generale”. Esso fu frutto dell'operazione Alba Libica delle milizie islamiste in opposizione al Congresso Nazionale Generale di Tobruk, nato dalle elezioni del 2014 e sostenitore dell'allora governo Al-Thani, al tempo appoggiato dalle potenze internazionali.
Oggi Ghwell controlla parte della capitale della Libia (Tripoli) e continua a contrapporsi al governo di Al-Sarraj ostinatamente.
Tra i soggetti in campo capaci di sbaragliare completamente le carte in tavola c'è, soprattutto, il generale Khalifa Haftar, il vero uomo forte della Libia, da sempre presente nello scenario delle svariate guerre civili del paese, colpito dalla repressione dell'allora “Decano di tutti i governanti arabi”, il colonnello Mu'ammar Gheddafi. Egli è divenuto il simbolo di un potere militare, tribale e carismatico che ha saputo porsi come ago della bilancia di numerosi eventi cruciali libici.
All'attuale si presenta come nuovo soggetto forte su cui in molti puntano e che fin da principio rapprentava il cavallo dell'Egitto di Al-Sisi - interessato a colpire le emanazioni della Fratellanza Musulmana - e di alcune monarchie saudite.


La seconda guerra civile libica come processo genealogico

Haftar nel 2014 lanciò la campagna “Operazione Dignità” contro i gruppi islamisti che si stavano imponendo nello scenario libico e, in particolare nel contesto di Bengasi, contro il gruppo sunnita-jihadista Ansar-al-Sharia, responsabile di un attacco al consolato USA che provocò la morte dell'ambasciatore americano Stevens. Con questa operazione e l'appoggio delle milizie di Zintan provocò la crisi del governo di Al-Thani, portò a nuove elezioni per il Congresso Generale Nazionale, costringendo entrambi a rifugiarsi a Tobruk, in seguito anche all'attacco a Tripoli da parte delle forze islamiste di Alba Libica (milizie della capitale e di Misurata).
Da Tobruk Al-Thani e il CNG optarono per la protezione e l'appoggio di Haftar e del suo esercito “irregolare”, evidenziando già al tempo come il generale, che rappresentava interessi di potenza di soggetti diversi dal tradizionale imperialismo europeo (Egitto, Emirati Arabi Uniti etc), potesse essere una pedina importante della ricostruzione libica.
La guerra continuò con l'irruzione nella scena delle milizie di Derna, che si affiliarono all'ISIS, inserendosi nella lotta tra gli islamisti di Misurata e Tripoli e le forze raccolte attorno ad Haftar, il parlamento di Tobruk e Al-Thani. Il tutto, come è immaginabile, si giocava nello scontro per il controllo dei porti, dei gangli infrastrutturali principali e , soprattutto, dei pozzi e delle strutture legate al petrolio e al gas.
Qui si inserirono gli interventi delle compagnie petrolifere interessate a cercare un minimo di stabilità e di pace armata che garantisse l'accesso alle enormi riserve petrolifere e di gas della Libia. Infatti la NOC, guidata da Mustafa Sanallah, da quel momento condusse colloqui con tutte le aziende petrolifere imperialistiche – ENI in primis - per cercare il giusto appoggio alla proposta di un Governo di Accordo Nazionale, capitanato dal “burattino” Al-Sarraj. Il principale problema era indirizzare il “Nuovo Congresso Generale Nazionale” (N-CGN) di Tripoli di Alba Libica e il Congresso Generale Nazionale (CGN) di Tobruk a riconoscerlo e unirsi sotto la sua guida. L'immediata mossa della borghesia petrolifera fu garantire il pieno sostegno della Petroleum Facilities Guard, una milizia di 27.000 uomini al servizio della protezione delle strutture petrolifere, dichiarato pubblicamente dal suo presidente non appena Al-Sarraj arrivò a Tripoli. E siamo già nel 2016.
Nonostante questo né il governo islamista di Ghwenn, né il presidente del N-CGN di Tripoli Bushameinn, né il CGN di Tobruk appoggiarono il nuovo governo. Al di là degli interessi delle dirigenze, però, il Congresso di Tobruk sottoscrisse gli accordi di pace che portarono alla proposta di un governo di unità nazionale, ad esclusione della parte inerente la sottomissione delle forze armate e delle milizie ai ministeri del Governo di Accordo Nazionale, a difesa dell'autonomia e del potere del proprio “condottiero” Haftar. Il “Nuovo Congresso Generale Nazionale” (GAN)di Tripoli, invece, si sciolse per sostenere Al-Sarraj mentre le milizie della Libia Occidentale, prima a sostegno del CGN di Tobruk, si schierarono con il nuovo GAN.
Così le parti geografiche si rovesciano. Ora a Tripoli si trova il governo sostenuto dalla maggior parte degli interessi imperialistici, commerciali e politici dell'occidente, sotto la guida di Al Sarraj e con il controllo dell'Occidente della Libia; mentre a Tobruk e nell'Est della Libia Haftar, la Camera dei Rappresentanti (ex CGN) e il governo di Tobruk portano avanti la loro competizione al GAN.
Qui si crea lo scompiglio: il generale Haftar riesce a ottenere l'appoggio militare celato della Francia sfruttando la propria campagna contro ISIS e islamisti; mantiene l'appoggio dell'Egitto e vede l'apertura dei rapporti con la Russia, sempre più interessata alla campagna internazionale contro l'ISIS per emulare, negli strumenti, l'imperialismo USA.
Questa impasse si protrae fino a metà del 2016, quando, vedendo come i poteri internazionali ricreavano determinati rapporti economici e commerciali a favore del governo di Al-Sarraj – tra cui l'ENI, che trovando un giacimento al largo dell'Egitto, comunica la sua aspirazione ad una relazione commerciale che coinvolga Egitto, Israele, Cipro e una Libia pacificata, affidando un 40% del controllo ad una compagnia composta da Edison (Italia), Total (Francia) e British Petroleum (Inghilterra) - anche Emirati Arabi Uniti ed Egitto puntano ad un avvicinamento tra Parlamento di Tripoli e Parlamento di Tobruk con il coinvolgimento della Francia.
In questo scenario l'attacco di Haftar a Bengasi contro gli islamisti qaedisti, scricchiola e rischia l'isolamento a causa dell'esposizione militare degli USA in supporto al GAN di Al-Sarraj nella ripresa di Sirte contro l'ISIS, della non condanna dell'Egitto a quell'atto, del “possibile” ritiro delle truppe francesi da Bengasi con la sola Russia al fianco.
Qui però arriva il colpo di scena di Haftar che nel settembre 2016 si lancia alla presa dei porti petroliferi (Ras Lanuf, Sidra, Brega, Zueitina) contro la Petroleum Facilities Guard fedele al governo di Al-Sarraj, utilizzando l'espediente dell'attacco alle milizie islamiste (Brigate di Difesa di Bengasi, le stesse contro cui sta portando avanti la sua Operazione Dignità) che avevano preso il controllo di una parte di quelle cittadelle strategiche. Questa operazione scompiglia le carte e permette il “ricatto pretrolifero” (come viene definito dall'agenzia di stampa Nena-News) di Haftar al Governo di Accordo Nazionale, che va in escandescenza. I suoi esponenti si susseguono nel condannare l'attacco e nel definirsi unici legittimati a commerciare petrolio e gas libici. Eppure Haftar e il governo di Tobruk pongono immediatamente sotto il controllo della NOC di Sanallah i terminal dei porti, aprendo rapidamente una relazione proficua per la principale compagnia petrolifera nazionale e per gli interessi dei capitali stranieri.
Ma qui Haftar si fa più scaltro. Non punta più alla destituzione di Al-Sarraj tout court e a dominare il Parlamento di Tripoli, ma ad imporre un potere contrattuale e ricattatorio nei confronti del GNA, per affermarsi come uomo forte della Libia, unico in grado di colpire islamisti dell'ISIS e qaedisti, conquistare posizioni del GNA rendendole più sicure, e difendersi dai continui attacchi delle Brigate islamiste, guadagnando un controllo stabile su tutta la Cirenaica.
Al contrario, il governo di Al-Sarraj fatica a difendere la sua sovranità: il Fezzan rimane fuori controllo, parti della capitale sono in mano a milizie contrapposte, gli attentati islamisti continuano a imperversare, le rese di conti tra milizie rendono impossibile la legittimazione del GAN.
Tra la fine del 2016 e l'inizio del 2017, Khalifa Ghwell tenta un colpo di mano a Tripoli occupando militarmente i ministeri e imponendo la fuga al governo di al-Sarraj nella base navale di Abu Seta.


Lo scenario odierno: Haftar, nuovo Napoleone Libico

In questo quadro diviene evidente come Haftar diventi sempre più la pedina vincente degli interessi dell'imperialismo francese in Cirenaica e della proiezione di potenza della Russia nelle risorse energetiche del Mediterraneo. Il generale, infatti, pare abbia siglato un accordo con la Russia: armi in cambio di una base militare in Cirenaica.
Ma, a questo punto, mentre la scommessa di Francia, Egitto e Russia sembra avere la meglio sui qaedisti di Bengasi, mantenere il controllo e la stabilità dei porti di Ras Lanuf e Sidra e rappresentare un elemento di stabilità per tutta la Cirenaica, quella dell'Italia e dell'Unione Europea vacilla e si mostra impotente.
Il governo russo, comunque, non è particolarmente noto per le proprie posizioni “esclusivamente bi-laterali”, per cui di fronte al primo slancio verso Haftar, ridimensiona e relativizza il concreto supporto militare al governo di Tobruk, e apre a confronti anche con Al-Sarraj: lo scopo è arrivare alla riconciliazione, ma ponendo in chiaro il ruolo diretto delle forze armate russe e della scommessa su Haftar.
Nel marzo 2017 Al-Sarraj riceve l'ennesimo colpo. Mentre a Tripoli si susseguivano manifestazioni di piazza contro le milizie islamiste, sparatorie tra milizie rivali e attentati terroristici, le Brigate al-Nawasi, fino ad allora sostenitrici del GNA, occupano la base di Abu Seta, dove si trovava il governo di Al-Sarraj. L'obiettivo è quello di frenare le azioni e le proteste anti-islamiste nei territori controllati dal governo e preservare il monopolio della repressione delle stesse, gestita direttamente dai miliziani di Misurata, per riaffermare il proprio ruolo nel controllo del territorio soprattutto in alcune zone di Tripoli. Tale azione dimostra ulteriormente il ricatto sotto cui è incastrato il governo debole della diplomazia europea ed italiana.
Non per nulla a maggio 2017 si annuncia l'accordo tra Haftar e Al-Sarraj, sponsorizzato da Emirati Arabi Uniti ed Egitto, e con l'avvallo dell'Italia da parte del duo Gentiloni-Eni e degli Stati Uniti di Trump. Tale arrangiamento prevede la costruzione di un unico esercito regolare alle dipendenze del governo di Accordo Nazionale, comandato dall'uomo forte del momento, Haftar. Contemporaneamente, però, Haftar rimette in mostra il proprio peso, impossessandosi di Derna grazie al supporto aereo dell'areonautica egiziana, scatenando, con questa violazione di sovranità, le ire del governo di Al-Sarraj, impotente di fronte alla genialità del rivale.
Unico elemento di riscatto per la pedina dell'imperialismo tricolore disorientato: le milizie fedeli al GAN riescono a far ritirare le truppe di Ghwell a Misurata, provando così a recuperare in parte il controllo della capitale, allontanando la principale minaccia e potere parallelo a Tripoli, capace di fomentare le componenti più islamiste delle tribù a sostegno del GAN.
Tutta l'operazione mostra la sua tela a luglio, lo scorso mese, quando il Generale Khalifa Haftar denuncia, attraverso gli organi del suo Esercito Nazionale Libico, le ingerenze e il supporto fornito agli islamisti jihadisti di Qatar, Sudan e Turchia. Questo viene immediatamente accompagnato dall'interpellanza dell'Egitto in sede ONU in cui si denunciano queste relazioni, legittimando pienamente le operazioni congiunte egiziane e di Tobruk contro gli islamisti in Cirenaica. Il generale con questa comunicazione d'impatto, ribadendo il proprio ruolo egemonico in campo militare, richiama tutte le milizie tribali e i libici a consegnare le armi e unirsi alle forze legittime dell'Esercito Nazionale Libico, per risolvere definitivamente la situazione nel paese. Haftar si pone sempre più come unica personalità detentrice del potere militare e tribale di Libia, il nuovo uomo capace di portare ordine e stabilità contro gli eccessi delle milizie, le aspirazioni di crescita degli islamisti, la minaccia dell'ISIS e le lotte settarie.


Il sorpasso francese sulla strategia dilettante italiana attraverso il Generale Haftar

Qui si consuma l'operazione di rovesciamento degli equilibri attraverso l'intervento del Bonaparte francese, Macròn, e del Napoleone libico, Haftar. Mentre l'Italia era impegnata dalla preparazione di un incontro sull'immigrazione con altri governi europei e africani, il Presidente francese si rende protagonista di un accordo, siglato il 25 luglio sotto l'egida delle Nazioni Unite, tramite il nuovo inviato Salame, tra Haftar stesso e Al-Sarraj. Tale accordo sancisce internazionalmente l'affermazione di Haftar, con l'appoggio aperto di Francia, Egitto, Russia e Cina e in contrappeso alla debolezza di Al-Sarraj. Il tutto con la totale messa in disparte dell'imperialismo italiano, neppure informato dell'incontro anche se ringraziato ufficialmente da Macròn per il lavoro svolto fino a qui, parole che sottintendono un invito a lasciare spazio a chi gioca sul serio e a chi investe sui cavalli vincenti con una strategia di cornice dotata di lungimiranza.
L'armata brancaleone del Partito Democratico e dell'imperialismo italiano prende lo smacco più grande, tagliato fuori dai giochi nel proprio giardino di casa, neppure invitato al consesso internazionale che sanciva il rilancio in pompa magna dell'intervento francese e della affermazione degli interessi capitalistici e militari dell'Eliseo come della Russia.
Dal governo italiano partono così disperati tentativi di riconfermare un ruolo di attore regionale nevralgico, cercando di venire incontro alla necessità di una politica interna in grado di concorrere con destra leghista e Movimento 5 Stelle nel cavalcare il populismo razzista e reazionario, e a quella di recuperare un'immagine internazionale, attraverso un intervento diretto per venire in soccorso dello sgangherato alleato in decadenza Al-Sarraj. In poche parole si cerca di mettersi il fez in testa in Italia e di mettere in mostra un teatrino imperialistico a dir poco farsesco.
Un gioco pericoloso che si consuma sulla pelle di migranti e profughi. Il primo passo del governo, subito dopo il vertice con Macròn, è quello di chiamare a rapporto in Italia al-Sarraj, il quale, cercando nuovo supporto da chiunque possa fornirgli un appiglio, finisce per richiedere il supporto italiano contro i trafficanti. Dopo che già nel 2016 il governo italiano inviò, in termini più propagandistici che di reale supporto militare, 300 uomini (di cui 100 militari) attorno ad un campo medico militare a Misurata per fornire supporto contro l'ISIS; dopo che a giugno 2017 il ministro Alfano ha riconfermato, ad Agrigento, gli accordi economici italo-libici per riaffermare il ruolo dei capitali italiani nella ricostruzione; ora si tenta l'approccio dell'ex membro del PCI, Minniti. Quest'ultimo, in un incontro a Tunisi con il governo di Tripoli, ha cercato di avviare trattative per la costruzione di un area di “Ricerca e Salvataggio” (Search and Rescue, i marines de'noantri) in cui le forze di polizia italiane possano collaborare con la Guardia Costriera libica inviando proprie navi nel contrasto all'immigrazione. Il governo italiano cerca di superare a destra i neofascisti di Generazione Identitaria e dell'operazione Defend Europe, e combina il pasticcio più grande, colpendo definitivamente la credibilità del proprio uomo in Libia.
Al-Sarraj viene immediatamente attaccato da Haftar, che contemporaneamente condanna anche l'ingerenza “coloniale” italiana: la sovranità della Libia non si tocca, soprattutto se mette in discussione il primato ormai consolidato di Haftar, sancito dal nuovo accordo con Egitto, Francia e Russia.
A questo fa seguito la sostanziale ribellione interna dei vice di Al-Sarraj, che rappresentano il sostegno delle principali milizie o componenti dello sgangherato “esercito regolare”. Così il Governo di Accordo Nazionale sancisce la fascia di mare adibita al “Search and Rescue” e immediatamente il generale Ayoub Qassem, della Marina Militare di Tripoli, a nome anche della Guardia Costiera libica, vieta a qualsiasi nave straniera, sia essa ONG o italiana, di entrare senza autorizzazione nelle acque definite in quella zona, ben più ampia delle semplici acque territoriali libiche.
Non a caso è di poche ore fa la notizia di un avvertimento della Marina a suon di scariche di mitraglietta sulla nave Open Arms dell'ONG spagnola Proactiva. Atto a cui consegue la sospensione, da parte di Medici Senza Frontiere, degli interventi di salvataggio, visto lo scenario di denigrazione, attacco e generale diffamazione da parte italiana e l'avvertimento riguardo la disponibilità ad utilizzare le armi della Guardia costiera e della Marina libiche.
In tutto questo si consuma il crollo di appoggio per Al-Sarraj, che rimane sotto lo scacco di tutti gli attori già citati (Fezzan, milizie islamiste, Ghwani, che spesso trascina a sé le potenti milizie di Misurata, alleati interdetti dalla sudditanza al “colonialismo” italiano ed europeo etc) e che ora, si ritrova con una crisi interna, in cui, uno dei suoi quattro vice, Fathi al-Majbari, che rappresenta parte delle milizie della Tripolitania, spinge per una fronda interna contro l'ormai moribondo Al-Sarraj.

Haftar si conferma sempre di più come lo strumento per la ricostruzione della Libia e per la pacificazione delle oltre 220 milizie in campo, alfiere di interessi imperialistici nuovi e disposti a tutto per affermare un proprio ruolo nella regione. Prima fra tutti la Francia con l'intento di ricostruire il proprio canale coloniale che coinvolge Ciad, Mali e Niger, dei quali controlla valuta ed economia; la Russia, che cerca di porre la propria testa di ponte in Cirenaica; e l'Egitto, che vuole cavalcare la battaglia agli islamisti per rafforzare la propria posizione anche nel fronte interno con i Fratelli Musulmani.
Nel quadro degli equilibri tribali interni, inoltre, continua a strappare dimostrazioni di fedeltà e sostegno da un numero sempre maggiore di tribù, soprattutto le più influenti, strappandole all'ambiguo e debole governo di Al-Sarraj. Tra quelle che son passate a sostenere il nuovo generale di ferro, indebolendo Al-Sarraj, ci sono le tribù Mshait, Obeid, Fwakher, Drasa ma soprattutto le potentissime Warfallah e Gharyan.
Haftar ora si pone, da ottimo Bonaparte, anche come risolutore del problema che affligge il fronte interno italiano: i migranti.
Si lancia così nella proposta di una soluzione senza mediazioni fondata su alcuni capisaldi: l'inutilità e la scarsa sostenibilità del tentativo di fermare il flusso migratorio sulle coste, che significherebbe sobbarcare alla Libia il peso di masse di poveri e diseredati; il divieto a qualsiasi nave, in particolare quelle italiane e delle ONG, di entrare nelle acque territoriali libiche e nella fascia di S&R; il rifiuto degli accordi che Al-Sarraj ha stilato su questo tema, etichettandoli come illegali, illegittimi e dannosi per la Libia e la sua sovranità; l'invito a fornire al suo esercito 20 miliardi di dollari con cui costruirà un sistema militare di filtro e blocco dei flussi a sud della Libia, giocando a spostare sempre più giù la frontiera europea.
- “Dobbiamo invece lavorare assieme per bloccare i flussi sui 4.000 chilometri del confine desertico libico nel sud. I miei soldati sono pronti. Io controllo oltre tre quarti del Paese. Possiedo la mano d'opera, ma mi mancano i mezzi. Macron mi ha chiesto cosa ci serve: gli sto mandando una lista. Corsi di addestramento per le guardie di frontiera, munizioni, armi, ma soprattutto autoblindo, jeep per la sabbia, droni, sensori, visori notturni, elicotteri, materiali per costruire campi armati di 150 uomini ciascuno altamente mobile e posizionati ogni minimo 100 chilometri. Stimo il costo in circa 20 miliardi di dollari distribuiti su 20 o 25 anni per i Paesi europei uniti in uno sforzo collettivo”.
Insomma Haftar sembra l'ultima spiaggia per l'imperialismo italiano, se non vuole rimanere fuori dai giochi ed essere definitivamente sorpassato dalla Francia, nonostante debba ammettere al mondo intero di aver fallito completamente strategia e di aver dimostrato una pessima capacità di gestione dei rapporti e delle relazioni diplomatiche. Il nuovo generale macellaio, pronto a porsi alla guida di un governo al servizio degli imperialismi, si mostra internazionalmente come il solo cavallo vincente e capace di districarsi nel caos libico, sintetizzando gli interessi delle borghesie tribali libiche più ricche e delle borghesie europee, che necessitano di stabilità e lottizzazione delle risorse e di risposte vendibili mediaticamente sul tema migratorio.
In tutto questo, trafficanti, generali e politici utilizzano come principale merce di scambio proprio i migranti che, negli oltre 12 centri di detenzione libici (veri e propri lager, e sono solo quelli ufficiali), sono costretti a torture, condizioni di vita e di igiene bestiali, pestaggi, uccisioni sommarie, deportazioni. Di questi 12, alcuni sono sotto il controllo di Haftar (circa 5) e altri sotto la debole giurisdizione di Al-Sarraj (circa 6), mentre almeno uno è in mano agli islamisti legati al Califfato.
Questo è l'effetto dell'imperialismo e della lotta tra borghesie nazionali per accaparrarsi lo sfruttamento e il commercio di determinate risorse, riducendo gli attori locali in semplici pedine del gioco sporco dei vari esecutivi al servizio dei conglomerati di capitali imperialistici casalinghi.
Ad aggravare qualsiasi prospettiva alternativa nello scenario libico è, poi, la particolare composizione sociale di questo paese e della sua popolazione.
Da sempre la Libia e il “popolo” libico non riconoscono un potere statale “nazionale”. I libici, innanzitutto, percepiscono e costruiscono la propria identità sulla base delle divisioni tribali, vere e proprie organizzazioni sociali, economiche ed ideologiche: si stima che le più importanti siano circa 140-150, di cui 30, le più influenti e potenti, hanno determinato gli equilibri politici nel corso della tormentata storia del paese. La Libia, inoltre, è divisa etnicamente e politicamente in tre grandi regioni, grazie alle mire di semplificazione di gestione coloniale fin dal periodo romano, che esprimono raggruppamenti di tribù in competizione tra loro: la Cirenaica, la Tripolitania e il Fezzan. Allo stesso tempo le divisioni etniche più importanti raccolgono le varie tribù in grandi conglomerati etnici: i berberi (nel nord-ovest), gli arabi/berberi (in tripolitania e in genere nel nord), i tuareg (a sud-ovest) e i tobou (nel sud-est).
Completamente assente per tutti i proletari di questo paese è una coscienza di classe, schiacciata da questo tipo di appartenenze e sovrastrutture ideologiche e sociali.
I fenomeni di urbanizzazione che si sono sviluppati sotto l'era del Rais Gheddafi (personificazione dello strapotere della propria tribù, sostenuta dalle tribù della Tripolitania: Warfallah, Magariha e le tribù Zentan. la principale ossatura dell'esercito del Rais e l'attuale principale base militare di Haftar), iniziano a dar vita ad un primo proletariato urbano, mentre l'ossatura principale del mondo operaio ruota attorno al petrolio (estrazione, raffinazione, trasporto e logisitica portuale), essendo la Libia il secondo paese esportatore dopo la Nigeria, mentre gran parte della popolazione vive di pastorizia e, solo in alcuni casi e in zone particolarmente fertili di agricoltura.
Uno scenario difficile per un paese profondamente arretrato, socialmente ed economicamente, eppure così strategico nei giochi economici, finanziari e politici dell'Africa e dell'Europa.
Cristian Briozzo

Le banche: strumento indispensabile del sistema capitalista

Le banche, le loro funzioni, il loro fine
Nell'immaginario collettivo borghese le banche assolvono un compito preciso e basilare. Raccolgono l'insieme del lavoro mercificato/monetizzato, lo strumento guida di un sistema che normalmente "funziona" facendo guadagnare profitti da capogiro a chi "investe" e "crea" posti di lavoro nella prospettiva di uno sviluppo economico e sociale sempre decantato come il fine ultimo di questa presunta filantropia, ipocrita, ingannatrice e velenosa. Tutto bene quindi. Fino a quando però sopraggiungono dei problemi legati radicalmente alle dirette conseguenze dei meccanismi di accumulazione/sovrapproduzione estesi a livello produttivo nell' economia reale. Ed è così che i cantori del libero mercato naufragano miseramente quando a rischiare seriamente sono le cosiddette "casseforti della democrazia padronale". Le banche vanno salvate perché altrimenti cosa succederebbe ai poveri risparmiatori e all'economia di un dato territorio? Questo sembra essere lo slogan che giustifica continue azioni d'intervento pubblico con buona pace di ogni specifica regola "imposta" dalla BCE, sempre travisata nell'interesse preminente della salvaguardia dell'ente finanziario di turno.
Intendiamoci: tutto questo non rappresenta una novità e direttamente coinvolte negli scandali finanziari degli ultimi tempi sono perlopiù banche che concorrono a determinare una cosiddetta normalità nella più apparente "anomalia" di ciò che accade con sempre più puntualità.


Il Monte dei Paschi. Dati, disastri e strategie
Il caso del Monte dei Paschi di Siena è il più eloquente in tal senso e nello stesso tempo il più "istruttivo" per far comprendere anche ai più riottosi che la struttura reale del sistema, l'architrave di ogni ingegneria politica, l'idea di ogni ipotetico sviluppo economico e di qualsiasi tenuta di stabilità istituzionale, non risiede sostanzialmente in Italia nelle aule di Montecitorio o Palazzo Madama ma, al contrario, trova radici ben più profonde nelle fondamenta dell'intero establishment finanziario, che ad ogni momento di difficoltà si rivolge tranquillamente allo Stato, suo diretto cameriere e "salvatore". Dal 2008 ad oggi anche negli USA, per esempio, oltre 2500 miliardi di dollari pubblici sono finiti nel giro vorticoso legato con qualche eccezione alla "salvezza" delle banche in un contesto in cui la federalità dell'insieme degli stati è andata a farsi benedire nel nome dei più grandi interessi delle" libertà" finanziarie americane.
Gli uomini posti a capo dei più grandi organismi bancari sono poi tra le figure più potenti del sistema, ultrapagati e quindi successivamente "congedati" con cifre da capogiro (si ricordi solo l'esempio di Profumo la cui buonuscita da Unicredit nel 2010 arrivò a toccare la cifra di 40 milioni di euro). La banca senese, nel novembre del 2007, arriva ad acquistare dal Banco Santander, con espressa autorizzazione di Bankitalia (Mario Draghi presidente) ciò che restava del gruppo Antonveneta arrivando a sborsare la folle cifra di 9 miliardi di euro ( a cui se ne aggiunsero successivamente altri 6 per i Fondi di finanziamento). In quel periodo, il valore di mercato oscillava attorno ai 2 e successivamente il presidente del MPS Mussari ebbe qualche problemino con la giustizia. Difficoltà che, vista l'alta "affidabilità" dimostrata, non gli impedì comunque di diventare successivamente presidente di Abi. Perché quest'operazione?
Il Banco Santander stava fallendo ma la banca spagnola risiedeva nella totale benevolenza degli ambienti dell'OPUS DEI e quindi il perché è presto detto. Grazie a questa felicissima operazione i disastri di bilancio si susseguono (MPS nel 2011 chiude con un buco di bilancio di 4,69 md di euro) ma nessuno degli organi di vigilanza (Consob, Bankitalia ecc) sembra aver nulla da obiettare al punto che, in seguito ad evidenti difficoltà finanziarie della stessa banca ci si rivolge quindi agli aiuti statali. Dapprima con Berlusconi nel 2009 (circa 2 md di euro con i consueti Tremonti-bond), poi nel 2012 (3,4 miliardi di euro attraverso l'acquisizione dei cosiddetti Monti bond e soppressione di 4600 posti di lavoro), quindi con il decreto legge del 22 dicembre 2016 in cui venivano stanziati circa 20 md di euro a tutela e salvaguardia degli enti finanziari in crisi (inclusa ovviamente MPS con circa 6,6 md complessivi) e da ultimo (per ora) la recentissima disposizione di legge del luglio 2017 in cui ancora una volta l'istituto senese, a vario titolo, beneficia di altri 5,4 md di euro a fronte di ulteriori 5500 esuberi. Tali interventi coincidono ovviamente con continue ricapitalizzazioni perennemente fallite a testimonianza inequivocabile di un istituto finanziario ormai decotto e fallimentare.
Sono cifre astronomiche che non serviranno a nulla dal momento che il monte globale dei crediti in sofferenza delle varie banche in Italia ammonta a circa 350 miliardi di euro e puntualmente tali "aiuti" servono solo a tappare il buco di bilancio del momento ma non a risolvere strutturalmente un problema che nella sua dimensione finanziaria risulta irrisolvibile. La crisi di sovrapproduzione mondiale ha generato cadute considerevoli del saggio di profitto in quasi tutti i settori produttivi e, logicamente, l'alta e possibile remunerazione immediata di qualche operazione speculativa a livello finanziario non mette al riparo nessuno da situazioni critiche che si possono ampiamente verificare. Il contesto senese ha poi fatto registrare un misterioso incidente: il "suicidio" del responsabile comunicazioni del MPS David Rossi nel marzo del 2013. Episodio alquanto misterioso ed agghiacciante. Il dirigente sembra avesse manifestato l'intenzione di rivolgersi alla magistratura per fare chiarezza su alcuni passaggi finanziari della banca pochi giorni prima del suo decesso.


I costi occupazionali delle "giostre" speculative

Un altro aspetto tragico legato alle conseguenze dei disastri legati al mondo finanziario sono i continui licenziamenti.
Da gennaio 2017a luglio dello stesso anno sono stati 17500 gli esuberi occupazionali. I numeri più rilevanti sono quelli riferiti ai gruppi bancari maggiori. In febbraio è stato il momento di Unicredit che contestualmente ad una ricapitalizzazione da 13 miliardi di euro ha sottoscritto un'intesa per 3900 uscite aprendo l'utilizzo del fondo di solidarietà di settore fino a 54 mesi.
Nelle settimane scorse l'accordo raggiunto in Intesa San Paolo, nell'ambito dell'operazione sulle banche venete (esposizione complessiva dello stato di 17 md di euro), ha esteso lo stesso utilizzo del fondo fino a 84 mesi per la prima tranche da 1000 esuberi e a 60 mesi per le successive 3000 uscite. Lo stesso piano industriale del MPS 2017/2020 prevede, come è stato detto, circa 5500 esuberi e già 1200 uscite entro la fine dell'anno. Nella primavera appena passata sono stati invece accordati piani di uscita in Banca Marche (270 risorse), Carichieti (69) e Banca Etruria (20) propedeutici all'integrazione in UBI. Chi non si ricorda di questi nomi? Con l'acquisizione di queste tre nuove "Good Bank" UBI ha aggiornato il piano industriale annunciando altri 1318 esuberi che si aggiungono ai 700 ancora da "concordare" come cifra residuale delle precedenti previsioni. Ci sono poi da considerare le 340 uscite sottoscritte a gennaio in Cariferrara preliminare all'acquisizione della banca da parte di Bper. Altro fronte caldo è Carige: a febbraio si stimavano ulteriori 155 esuberi che andavano ad aggiungersi ai 600 già preannunciati. Ora si parla di un possibile innalzamento fino a 900 uscite.
340 (l'accordo è di Aprile) sono i licenziamenti invece nell'Istituto Centrale delle Banche Popolari Italiane mentre 131 sono gli esodi arrivati a maggio in CheBanca!. La Popolare di Bari, infine, ha annunciato circa 500 tagli e si attendono altre "novità" sulle Casse di Rimini, San Miniato e Cesena su cui aleggia l'interesse di Crèdit Agricole: a Rimini si parla di 90 esuberi, circa 140 a San Miniato.

Un'ecatombe! E lo "spettacolo" continua.

Enrico Pellegrini

L'ordine poliziesco regna a Bologna!

La celere di Bologna sgombera Laboratorio Crash e Làbas

Laboratorio Crash e Làbas sgomberati in un solo colpo da centinaia di celerini, mentre Merola, il mandante, è in ferie e Minniti, il "puparo", pensa ad impedire a chi fugge da guerre e miseria di sbarcare sulle coste italiane. In una parola: il governo del Pd, locale e nazionale. A Bologna si coniuga con il sostegno alla lobby della speculazione edilizia, preferibilmente targata LegaCoop. Del resto, come potrebbe essere eletto un sindaco a Bologna, se non godesse dell'appoggio del mondo delle cooperative?
È ancora recente lo sgombero degli abitanti di via Gandusio dalle case ACER, alcune decine persino con contratti regolari, senza neanche permettere loro di portar via gli effetti personali.
Oggi tocca alle ultime due più rilevanti esperienze autogestite in città, tolte dalle mani della speculazione edilizia. In agosto, con la gente in ferie, stordita dalle operazioni anti-migranti, si dà il via agli sgomberi polizieschi in grande stile.

Coloro che avevano votato Merola alle elezioni comunali dello scorso anno perché pensavano fosse meglio di una leghista ora sono serviti: il PD governa esattamente come la Lega, ormai senza più neanche la parvenza dell'offerta di servizi sociali, oggi quasi inesistenti.

Mentre esprimiamo la nostra solidarietà ai militanti di Làbas e Laboratorio Crash sgomberati, invitiamo tutte le forze di classe al fronte unico contro le politiche liberticide del Pd e dei poteri forti che vi stanno dietro.
Partito Comunista dei Lavoratori - Sezione Bologna

 

Scontro governo italiano-onlus: cade l’ultimo velo dell’ipocrisia imperialista

In questi giorni abbiamo assistito alla rottura tra il governa Gentiloni e le onlus che si occupano dei salvataggi in mare dei migranti dispersi, dopo il tentativo di far approvare loro un codice di comportamento che ne limiti fortemente l’azione.
Soprattutto ha destato scalpore il rifiuto di Medici senza frontiere, che gode di notorietà, consenso e sostenitori nel nostro paese.
Senza entrare nel merito del motivi contingenti di questa rottura, mi soffermo su un dato che ovviamente non viene messo in risalto dai mass media. Le onlus hanno sempre svolto un ruolo importante per le potenze imperialiste contribuendo a velare di umanitarismo il loro intervento sui vari scenari internazionali. Solitamente la carovana delle organizzazione umanitarie più o meno finanziate e in collaborazione con i governi dei paesi imperialisti, segue le loro politiche di aggressione economico-militare nei confronti di paesi o intere aree geopolitiche che hanno la disgrazia di ricadere sotto le loro mire predatorie. È il caso del Medio Oriente, dei paesi del Maghreb, del Nord e Centro Africa, ad esempio.
Ciò, tra le altre forme di devastazione della vita di centinaia di milioni di persone, provoca le migrazioni di massa che i governi dei paesi imperialisti europei sono decisi a fermare costi quel che costi, anche in termine di vite umane.
Ecco dunque che casca il proverbiale asino! L’imperialismo mostra tutto il suo cinismo e rinnega anche le agenzie che hanno sempre avuto il ruolo ipocrita di rivestire di umanitarismo la sua pelosa coscienza.
Si può ben capire la sorpresa e l’incredulità delle onlus. Quello che si capisce meno è che nessuno tra le organizzazioni più importanti della sinistra riformista e neppure tra gli intellettuali, che solitamente si riempiono la bocca dei valori democratici del cosiddetto Occidente, faccia come il famoso bambino della favola gridando finalmente: il Re è nudo! O forse no, visto che sono pronti a governare insieme ai peggiori rappresentanti dell’imperialismo.
Insomma, di menzogna in menzogna, prima l’imperialismo muove alla guerra per ragioni umanitarie, quindi per la guerra santa contro il terrorismo, naturalmente ad esclusione della agenzie terroristiche al suo servizio, poi siccome nonostante tutto i fatti hanno la testa più dura delle idee è costretto a far cadere la foglia di fico delle agenzie umanitarie che coprono la vergogna della sua rapina internazionale, la quale tra l’altro provoca, come una vera e propria nemesi storica, le migrazioni di massa verso i paesi imperialisti.
Sempre più è evidente, a chiunque abbia una minima coscienza di sinistra, che è necessario combattere l’imperialismo e i suoi rappresentanti, di destra o di... sinistra (sic), a cominciare da quelli di casa propria.
Federico Bacchiocchi

G20 Amburgo: libere tutte, liberi tutti!

Il Partito Comunista dei Lavoratori chiede con forza l’immediato rilascio di tutti i compagni e le compagne arrestati ad Amburgo durante il G20 e ancora detenuti in Germania.

1 Agosto 2017
I compagni veneti Maria e Fabio, candidati nelle nostre liste a Belluno alle recenti elezioni comunali, sono in stato di arresto in Germania da settimane, e con loro ci sono anche altri quattro ragazzi italiani.
Fermati e poi reclusi per il solo fatto di aver partecipato alle manifestazioni contro i potenti del mondo durante le giornate anti-G20 ad Amburgo. Fabio e Maria sono stati arresti non durante azioni violente ma mentre prestavano soccorso ad una ragazza ferita con una frattura esposta al piede.

Per il momento non c’è alcuna intenzione da parte del tribunale ordinario di istruire i processi in tempi brevi. Con la scusa del pericolo di fuga, la procura ha impedito il rilascio su cauzione e di arresti domiciliari, potendo così allungare i tempi della detenzione preventiva fino a sei mesi.
La repressione dello Stato tedesco, che non è riuscito a impedire lo svolgimento delle proteste a fermare questa fresca ondata rivoluzionaria, ora mostra tutta la sua violenza contro i compagni arrestati.

Il Partito Comunista dei Lavoratori esprime la massima solidarietà e vicinanza a Fabio, Maria e a tutti i compagni colpiti dalla repressione, detenuti per aver espresso la libertà di poter manifestare contro i potenti che sono a custodia del sistema capitalistico, e ne chiede l'immediata liberazione senza capi di imputazione e pene.
Il Partito Comunista dei Lavoratori denuncia al contempo la totale inerzia del governo italiano che a tutt'oggi nulla ha fatto per intervenire presso le autorità tedesche per ottenere il rilascio dei sei arrestati. Tutto questo è scandaloso!

Chiediamo che il Ministro degli esteri si attivi immediatamente.
Invitiamo tutti e tutte a protestare presso il governo italiano e l'ambasciata tedesca, anche inviando mail che rivendichino l'immediato rilascio dei detenuti.
"
Ambasciata tedesca:  https://italien.diplo.de/Vertretung/italien/it/Kontakt.html
Governo:http://presidenza.governo.it/AmministrazioneTrasparente/Organizzazione/TelefonoPostaElettronica/email.html
"
Invitiamo inoltre tutti e tutte a far sentire la propria solidarietà ai compagni detenuti. È possibile scrivergli recapitando lettere in formato cartolina a questi indirizzi:

- JVA Billwerder - Dweerlandweg n° 100 - 22113 Hamburg - Germany

per:

Riccardo Lupano
Emiliano Puleo
Orazio Sciuto
Alessandro Rapisdarda
Maria Rocco


- JVA Hahnöfersand - Hinterbrack 25 - 21635 Jork – Germany

per:

Fabio Vettorel
Partito Comunista dei Lavoratori

Il Partito Comunista dei Lavoratori di fronte alle prossime elezioni politiche

Lo scenario politico italiano si avvicina rapidamente alle prossime elezioni politiche segnato dai perduranti effetti dell'onda lunga del voto del referendum del 4 dicembre e della crisi del renzismo.
Il voto del 4 dicembre ha avuto come prima conseguenza la fine del progetto istituzionale e politico di Renzi; un progetto centrato sulle ambizioni dell'uomo solo al comando, pesantemente reazionario, che è franato sotto il peso delle contraddizioni emerse dalle prove di forza su articolo 18 e Buona Scuola che hanno avuto come conseguenza l'erosione significativa delle basi di consenso iniziali del renzismo. Il governo Renzi ha vinto le proverbiali battaglie, per perdere poi la guerra.

L'effetto politicamente più rilevante del 4 dicembre è la fine di ogni tentativo di costruire nel breve periodo un bipolarismo artificiale, basato sulla tradizionale alternanza di governabilità. L'Italia si trova oggi sprofondata in un quadro tripolare fortemente instabile, in larga misura confermato dal voto delle amministrative di giugno, e caratterizzato dall'assenza congiunta di un baricentro politico affidabile e di un paracadute istituzionale, da cui discende l'aperta possibilità di una crisi politico-istituzionale per il nostro paese. Se l'erosione del consenso dei partiti tradizionali di governo in Europa attraversa in modo trasversale tutta l'Unione, in nessun caso come in Italia la borghesia si trova senza un'ipotesi spendibile di governo che vada oltre il fragile equilibrio che tiene insieme il governo Gentiloni.

Le tre destre che dominano lo scenario politico italiano sono ad oggi attraversate da contraddizioni interne. Il renzismo si arrocca intorno al Capo e alla sua non negoziabile ambizione di riconquistare il governo, da qui il rifiuto di ogni ipotesi di coalizione di centrosinistra nello scenario post-referendum e le nuove frizioni interne con l'area di Orlando e Cuperlo, che potrebbero anche lasciar presagire una nuova spaccatura. Il centrodestra ha tratto nuova linfa vitale dall'affermazione nelle amministrative, ma paradossalmente la vittoria accentua, anziché risolvere, la guerra intestina tra Berlusconi e Salvini, entrambi indisponibili a cedere la leadership della coalizione su cui pesano inoltre le incertezze riguardo alla legge elettorale. Il M5S ha subito una grossa battuta d'arresto alle elezioni amministrative ma malgrado ciò continua a disporre di uno spazio politico considerevole. Si è lanciato in una pesante propaganda reazionaria per tentare di recuperare consensi sulle paure e sui peggiori umori trasversali che attraversano il paese sul tema dell'immigrazione. Contemporaneamente punta alla vittoria alle regionali siciliane da usare come trampolino di lancio per le politiche. Prosegue il proprio lavoro di accreditamento verso la borghesia e il padronato, a cui offre, tra le altre, l'abolizione dell'Irap e la disintermediazione nel rapporto con i lavoratori, ossia in altre parole un attacco esplicito al sindacato in quanto tale. La marcia verso il governo nazionale che il M5S si è dato continua ad alimentare infine il clima da guerra tra bande che ha caratterizzato la vita del movimento in molti dei suoi settori fondamentali, locali e nazionali, e come testimoniato da ultimo dalla vicenda delle comunali di Genova.

Il pasticcio parlamentare che si è consumato sulla legge elettorale è stata una cartina di tornasole delle crisi irrisolte che attraversano i partiti del cosiddetto patto a quattro, e misurano l'assenza di una strategia a breve termine di Renzi, fino all'ultimo indeciso se tentare la carta delle elezioni anticipate. Lo scambio politico organizzato da Renzi e Berlusconi, centrato sul proporzionale e con lo sbarramento al 5%, permetteva ai due di liberarsi da un lato della Lega e dall'altro di MDP, e a Renzi di giocarsi le elezioni senza il peso sulle spalle della legge di stabilità. La convergenza di M5S e Lega Nord sull'ipotesi si misurava sulla necessità dei primi di giocare, in assenza di premio elettorale, la gara col PD sul testa a testa su chi sia il primo partito, mentre per i secondi di capitalizzare l'exploit lepenista alle presidenziali francesi prima che si potesse disperdere.

Ma l'accordo non ha retto alle tensioni e alle frizioni interne a M5S e PD che, unite a sentimenti di contrarietà alle elezioni anticipate e alla legge elettorale in quanto tale in parlamento, hanno prodotto il pasticcio parlamentare sull'emendamento Biancofiore che ha portato il PD a dichiarare immediatamente “morta” la legge e iniziando una gara allo scaricabarile col il M5S.


IL BALLO DELLE SINISTRE RIFORMISTE 


Il campo della sinistra riformista è in grande subbuglio negli ultimi mesi. Gli strappi e le dinamiche parlamentari sulle leggi elettorali hanno costretto i vari soggetti in campo a riformulare in continuazione ipotesi di alleanze e di cartelli, caratterizzandosi contemporaneamente per una grande litigiosità e per il più limpido opportunismo.
L'ipotesi della legge elettorale proporzionale con sbarramento al 5% spingeva Campo Progressista, MDP, Sinistra Italiana e persino anche il PRC al tentativo di costruire un accordo di cartello obbligato per superare la fatidica soglia. La stessa iniziativa del Brancaccio promossa da Falcone e Montanari era nata inizialmente con l'intento di spingere per questa soluzione, dando una veste unitaria, civica e popolare all'operazione, capace di tenere dentro tutti. Ma il crollo dell'ipotesi di legge elettorale in parlamento ha fatto esplodere le contraddizioni e rilanciato i lavori di riposizionamento a sinistra, oltre che la caratteristica litigiosità delle varie anime, come testimoniato dalle recentissime bagarre tra Campo Progressista e MDP, con l'annullamento dell'incontro tra Pisapia e Speranza.
Il ritorno al Consultellum col 3% di sbarramento ha riaperto le danze, e il futuro rapporto col PD è uno degli spartiti che i gruppi dirigenti suonano più di frequente. Così si passa da Pisapia e le ambizioni di un progetto di nuovo centrosinistra alle varie ipotesi di una seconda lista “civica e progressista”, promossa dai promotori dell'iniziativa del Brancaccio, che aspira a coinvolgere il PRC e una Sinistra Italiana perennenente in bilico tra l'uno e l'altro campo. Una lista civica che sarebbe una riedizione di liste civiche già sperimentate nel passato con Ingroia e Barbara Spinelli, e che si caratterizzano per la rimozione di ogni orizzonte classista.


PER UN CARTELLO DELLA SINISTRA CLASSISTA 

Non sarà l'ennesima illusione riformista a poter portare una parola di verità durante la prossima campagna elettorale. Non lo sarà nella sua forma più marcatamente governista, incarnata da Pisapia e da D'Alema. Non lo sarà nella sua veste civica: in primo luogo perché tutti gli attori e i protagonisti del rinnovato “civismo” sono in realtà uniti principalmente dall'essere stati scaricati dal carro di Pisapia. Più in generale, tutti i gruppi dirigenti coinvolti in questo o quel progetto di lista riformista di sinistra sono stati parte attiva dei governi padronali che hanno contribuito negli anni non solo a colpire duramente i lavoratori, i loro salari e i loro diritti, ma sono anche, come conseguenza di ciò, responsabili di una disfatta di lungo corso della sinistra politica italiana, incapaci di prospettare una soluzione di classe indipendente alla crisi e interessati esclusivamente alla loro salvezza istituzionale. In secondo luogo perché non sarà la rimozione di ogni orizzonte di classe, non sarà l'imboscamento dietro un civismo progressista e democratico che potrà dare prospettiva indipendente agli sfruttati.

Come Partito Comunista dei Lavoratori consideriamo da sempre le elezioni un importante momento di propaganda rivoluzionaria. Nella tornata elettorale che ci aspetta, dove tre destre si contenderanno la leadership del paese e dove un arcipelago di piccole sinistre riformiste spargeranno illusioni in un quadro ancora in via di definizione, noi riteniamo cruciale che ci sia lo spazio per una voce apertamente classista e anticapitalista, una voce che non parta dal principio astratto di unità della sinistra pur che sia, ma parta dal principio di realtà che solo una sinistra marcatamente classista, anticapitalista e rivoluzionaria può rispondere alle esigenze e ai bisogni della classe lavoratrice e delle masse operaie.

Le leggi elettorali della democrazia borghese oppongono ingenti ostacoli alla presentazione e alla rappresentanza di formazioni classiste e rivoluzionarie. Sia in termini di sbarramenti, sia in primo luogo in termini di difficoltà burocratiche per costruire una presentazione a carattere nazionale che possa guadagnare la tribuna della più ampia comunicazione di massa. L’enorme mole di firme autenticate necessarie per la presentazione di formazioni non istituzionali a conclusione della legislatura ne è un esempio.

In questa situazione concreta, riteniamo come Partito Comunista dei Lavoratori che sia possibile costruire con Sinistra Anticapitalista e a Sinistra Classe Rivoluzione un cartello elettorale classista e anticapitalista, rispettoso della riconoscibilità di ogni soggetto, che punti a superare gli ostacoli burocratici indicati e dunque a consentire una presenza elettorale classista con una presenza su ampia parte del territorio, e quindi un profilo nazionale. Un cartello elettorale che certo non annulla i diversi percorsi e progetti, ma che punti a valorizzare i riferimenti comuni classisti mettendoli al servizio di una campagna elettorale unitaria. Una campagna mirata alla ricomposizione di una opposizione di classe, unitaria, radicale e di massa. Una campagna che sia capace di parlare alle masse di lavoratori, di migranti, di precari, di disoccupati, al movimento delle donne e delle minoranze oppresse, alla domanda di svolta ambientalista, da una comune angolazione classista, internazionalista e anticapitalista.

Come PCL riteniamo che una presentazione indipendente e con un profilo nazionale della sinistra classista, possibile solo se unita, sia un passaggio centrale oggi per smascherare tutte le illusioni riformiste che vengono seminate sia da chi persegue apertamente un nuovo centrosinistra, sia da chi vuole imboscarsi nel civismo democratico aclassista, sia da chi sbandiera il sovranismo nazionalista di sinistra.

Dentro questo comune quadro generale, come Partito Comunista dei Lavoratori, continueremo la nostra specifica battaglia controcorrente per la costruzione di un autonomo partito marxista rivoluzionario impegnato per la prospettiva di un governo dei lavoratori e della rivoluzione socialista.
Partito Comunista dei Lavoratori

Venezuela, l'elezione della Costituente madurista

Combattere la destra reazionaria senza appoggiare il bonapartismo piccolo-borghese

1 Agosto 2017
Domenica 30 luglio, in mezzo a disordini e scontri quasi da guerra civile, si sono svolte in Venezuela le elezioni della cosiddetta Assemblea costituente promossa dal governo Maduro. I risultati di tali elezioni sono controversi dal punto di vista del livello di partecipazione (41% secondo il governo, 12% secondo la MUD). Sono dati in realtà difficilmente accertabili. Anche se è verosimile che la crisi profonda di consenso del chavismo abbia favorito un'alta astensione al voto, ben al di là dell'influenza diretta della campagna boicottatrice delle destre.

Abbiamo indicato su questo sito le modalità di elezione dei deputati alla Assemblea (vedi articolo "Maduro presenta i criteri per l'elezione della Assemblea Costituente", 6 giugno). Non vi è nulla di democratico, né dal punto di vista della fasulla "democrazia borghese", né tanto meno da quello della democrazia operaia. I deputati della parte territoriale sono eletti con il sistema maggioritario, uno per municipalità indipendentemente se questa abbia duemila o settecentomila abitanti (unica eccezione Caracas che ne elegge ben... tre); quelli della parte sociale, che comprende anche i rappresentanti del padronato, sono eletti con criteri non consiliari, ma corporativi. Anche senza tenere conto di vari altri meccanismi di pressione (per esempio sui dipendenti pubblici), basta questo per svelare l'obbiettivo del regime chavista. Eliminare la formale democrazia borghese e sostituirla con istituzioni fortemente controllate da un regime che, di fronte alla propria crisi, accentua ulteriormente i propri caratteri bonapartisti e antidemocratici.

Tuttavia noi marxisti rivoluzionari non siamo dei democratici piccolo-borghesi innamorati del suffragio universale paritario. Partiamo sempre dagli interessi della classe operaia e della rivoluzione socialista, e subordiniamo a questi i pur importanti criteri della democrazia "pura" (una testa, un voto).


LA NATURA REAZIONARIA E FILOIMPERIALISTA DELLA MUD 

Nel quadro della situazione venezuelana dobbiamo riconoscere che il movimento di massa che si sta mobilitando contro il regime e per "libere" elezioni è un movimento reazionario e totalmente proimperialista. Una larga parte dei suoi dirigenti è costituito dallo stesso personale politico che nel 2002, quando Chavez godeva del sostegno della maggioranza della popolazione, fomentò un colpo di Stato militare contro di lui. Allora evidentemente a questi figuri la "democrazia" non importava granché. Una vittoria della MUD rappresenterebbe un drammatico passo indietro per il proletariato e il Venezuela. Il suo programma rivendica apertamente la privatizzazione di tutte le imprese dello Stato, la fine dei sussidi sociali alle famiglie povere, la liberalizzazione dei prezzi dei beni alimentari, la vendita dell'intero patrimonio immobiliare pubblico. In poche parole, la demolizione di quel sistema sociale delle missiones su cui il chavismo negli anni d'oro aveva costruito la propria base d'appoggio, a favore degli interessi del capitale finanziario internazionale. Non a caso l'imperialismo USA e tutti gli imperialismi della UE sono attivamente schierati con la MUD in nome della “libertà”: la libertà dei propri affari, per la riconquista del pieno controllo sul Venezuela. Non a caso la Federcameras, Confindustria venezuelana, ha apertamente sostenuto e finanziato il cosiddetto sciopero generale indetto da sindacati legati alla MUD contro il governo Maduro.

Tanto più in questo contesto appare in tutta la sua gravità l'appoggio che forze diverse del movimento trotskista riservano alla mobilitazione diretta dalla MUD, nel nome della lotta “per la democrazia” e “per una vera Assemblea costituente”. È il caso della Lega Internazionale dei Lavoratori (LIT) a cui appartiene il PdAC italiano, e ancor più della Unione Internazionale dei Lavoratori (UIT, una scissione della LIT) rappresentata in Venezuela dal Partito del Socialismo e della Libertà, dotato di una relativamente importante presenza nel sindacalismo combattivo di fabbrica, che è giunta a sostenere lo sciopero padronale della Federcameras. Per la LIT e la UIT moreniste, in particolare, si tratta in realtà di un intero corso politico internazionale che le ha condotte nell'ultima fase a salutare come “rivoluzionaria” la mobilitazione reazionaria di Piazza Maidan in Ucraina; ad esaltare una indistinta “rivoluzione siriana” rimuovendo l'evidenza – da un certo punto in poi - del carattere oggettivamente reazionario islamico e/o proimperialista assunto dall’essenzialità delle forze opposte al regime di Assad; a partecipare inizialmente alle mobilitazioni della destra contro il governo Rousseff in Brasile. Il tutto nel nome della... “democrazia” e della partecipazione ai “movimenti reali di massa”. Subordinare gli interessi del proletariato e della rivoluzione socialista alla bandiera della “democrazia” significa capovolgere il metodo e i principi del marxismo rivoluzionario, e contribuire a compromettere la sua immagine e credibilità internazionale nei settori dell'avanguardia, a tutto vantaggio di ambienti stalinisti e campisti. Quanto ai movimenti di massa, la storia ha ben visto movimenti a carattere reazionario, che i marxisti rivoluzionari hanno combattuto, senza subordinarsi ai governi borghesi o piccolo-borghesi ai quali essi si contrapponevano. Il fatto di dichiarare di voler sottrarre la direzione di tali movimenti alla destra o quello di rivendicare parole d’ordine operaie (non pagamento del debito, controllo operaio...) rende solo più assurdamente ridicola questa partecipazione oggettiva del morenismo alla controrivoluzione.


IL FALLIMENTO POLITICO DEL BONAPARTISMO CHAVISTA 

Al tempo stesso non possiamo condividere l'impostazione politica di quelle forze che, all'opposto, confondono la giusta contrapposizione alla destra reazionaria venezuelana con l'identificazione nel cosiddetto “socialismo bolivariano” o nell'appoggio critico al regime bonapartista del chavismo. Nell’ambito di chi si richiama al trotskismo, è stato il caso di Marea Socialista (già corrente di sinistra del PSUV chavista e organizzazione osservatrice del Segretariato Unificato in Venezuela) e del gruppo interno al PSUV della Tendenza Marxista Internazionale (IMT, a cui appartiene Sinistra Classe Rivoluzione, ex Falcemartello) (1). È una posizione che rimuove la realtà del chavismo. Il chavismo non rappresenta in alcun modo un regime socialista o di transizione al socialismo. Tanto meno un regime di “potere operaio e popolare”. Si tratta di un regime bonapartista piccolo-borghese, politicamente autonomo dall'imperialismo, ma che ha cercato e cerca di stabilizzare un compromesso con la borghesia venezuelana e con l'imperialismo stesso: paga regolarmente il debito estero, preserva la proprietà privata delle banche, salvaguarda la proprietà privata di larga parte dell'industria, paga indennizzi sontuosi a grandi gruppi nazionalizzati in un quadro economico in cui del resto (come ha dovuto ricordare lo stesso Manifesto) la quota del settore privato dell’economia venezuelana nell’epoca chavista è passato dal 65 al 71%. Parallelamente blocca le elezioni sindacali nelle aziende e nega i diritti sindacali dei lavoratori con una politica di irregimentazione del movimento operaio e di contrapposizione alle sue lotte, mentre affida agli alti gradi del corpo borghese degli ufficiali le leve di controllo del potere politico e istituzionale e i conseguenti benefici economici. Questo equilibrio politico e sociale, che reggeva negli anni del boom petrolifero, è precipitato con la crisi mondiale, spianando la strada alla destra reazionaria. Per questo abbellire e appoggiare il regime chavista, rimuovere il suo fallimento, significa privare la classe operaia venezuelana di una via d'uscita indipendente dalla crisi del regime. E contribuisce a confondere ulteriormente la coscienza politica dell'avanguardia di classe su scala internazionale.


CONTRAPPOSIZIONE ALLA DESTRA, SENZA SOSTEGNO A MADURO. PER UNA SOLUZIONE OPERAIA E SOCIALISTA DELLA CRISI 

È necessario più che mai sviluppare una politica indipendente, classista e socialista, nella crisi venezuelana. Una posizione di aperta contrapposizione alla mobilitazione reazionaria, senza riserve e ambiguità. E al tempo stesso pienamente autonoma dal chavismo, dal governo Maduro, dalle sue truffe bonapartiste. Si può e si deve lottare in prima fila contro Kornilov, senza appoggiare politicamente Kerenskij: è la grande lezione del bolscevismo e della rivoluzione russa, che riformismo e centrismo sistematicamente rimuovono.

Sul piano sociale va rivendicata l'aperta rottura con la borghesia venezuelana e il capitale finanziario internazionale. Cessazione del pagamento del debito pubblico, nazionalizzazione senza indennizzo delle banche e del commercio con l'estero, esproprio della grande industria sotto il controllo dei lavoratori, controllo operaio e popolare sui prezzi, a partire da medicinali e beni alimentari. Solo queste misure anticapitaliste e antimperialiste possono tagliare gli artigli della speculazione, unire la classe operaia venezuelana, costruire la sua egemonia sulle più ampie masse della popolazione povera, disgregare il blocco sociale reazionario.

Ma soprattutto è necessario congiungere questo programma sociale di emergenza ad una prospettiva politica indipendente. Non la “vera Assemblea costituente”, ma il potere dei consigli dei lavoratori e delle strutture di massa autorganizzate.

La parola d'ordine dell'Assemblea costituente in Venezuela è oggi una parola d'ordine subalterna: o si traduce nella rivendicazione di libere elezioni, ciò che oggi rivendica la MUD e che significherebbe secondo ogni evidenza la sua vittoria; oppure si traduce nell'avallo più o meno critico della cosiddetta Costituente di Maduro, ossia nella subordinazione al bonapartismo piccolo-borghese. Spiace che anche Frazione Trotskista (rappresentata in Italia dalla FIR) abbia fatto propria questa parola d'ordine (che oggi sembra generalizzare dal Brasile alla Spagna).

È invece centrale la battaglia per una autorganizzazione democratica di massa, per la libera elezione di consigli dei lavoratori nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro, per la formazione di comitati popolari nei quartieri, per il coordinamento progressivo e la centralizzazione di queste strutture sul piano nazionale. Solo l'autorganizzazione democratica di massa, su basi consiliari, può costruire una alternativa di potere reale alla destra e al bonapartismo chavista, e far uscire la classe operaia industriale dalla situazione di passività di fronte alla crisi in atto. Solo un congresso nazionale di delegati eletti dai lavoratori, dalle masse oppresse, dalle loro strutture, può sviluppare un fronte unico di massa contro la reazione nella prospettiva di un governo dei lavoratori. L'unico governo che può realizzare le misure sociali di svolta e realizzare la democrazia vera: non la “democrazia” imperialista della MUD, né quella del bonapartismo chavista, ma la democrazia operaia.

È questa la posizione corretta alla fine assunta dalle organizzazioni del Coordinamento per la Rifondazione (dopo varie oscillazioni del Partido Obrero argentino sul tema della Assemblea costituente, e con differenziazione dalla posizione del gruppo venezuelano Opcion Obrera) (3) e del Comitato per una Internazionale Operaia (con l’organizzazione venezuelana Izquierda Rivolucionaria), che in mezzo a tanta confusione salvano in Venezuela l'onore del trotskismo.
Con l’evidente necessità di rifondare una Quarta Internazionale degna del suo nome e capace, come hanno mostrato cento anni fa Lenin, Trotsky e il partito bolscevico di andare controcorrente rispetto ai rappresentati, di “destra” o di “sinistra” delle altri classi, in nome esclusivamente degli interessi storici del proletariato e del socialismo mondiale.



Note:

(1) Il gruppo International Marxist Tendency ha mantenuto, con qualche cautela vista la disastrosa crisi sociale attuale, una politica di sostegno al bonapartismo bolivarista. Invece Marea Socialista ha rovesciato le sue posizioni. Ha rotto col PSUV nel 2014, accusandolo di degenerazione rispetto al chavismo. Ha cercato poi di presentarsi alle elezioni politiche, ma il regime le ha rifiutato “democraticamente” il riconoscimento come partito legale (come del resto al Partito Comunista Venezuelano). Oggi si pone su una posizione democraticista, proponendo, come la destra, elezioni subito e cercando di “mediare” tra le forze in lotta.

(2) La base della mobilitazione di massa diretta dalla MUD è la piccola borghesia, la gioventù studentesca e settori semiproletari impiegatizi. Il chavismo mantiene il sostegno dei settori più poveri della popolazione, semiproletari e sottoproletari, che hanno beneficiato delle missiones e dei sussidi della politica redistributiva del regime. La classe operaia industriale è, nella sua maggioranza, passiva.

(3) Opcion Obrera è l’unico gruppo rivoluzionario coerentemente all’opposizione del governo che ha deciso di sostenere la partecipazione critica alle elezioni della Assemblea costituente di Maduro, per cercare di eleggere deputati di opposizione di sinistra, dimostrando nel contempo una volontà di fronte unico alla base chavista. La Commisione internazionale del PO ha risposto con la riconferma del sostegno alla posizione del boicottaggio. Benché valutiamo errata la posizione di Opcion Obrera, data la chiarezza delle sue posizioni di opposizione di sinistra al regime, riteniamo la differenza esistente importante ma di carattere esclusivamente tattico.
Partito Comunista dei Lavoratori