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NO AI LICENZIAMENTI. NO ALLA DITTATURA DEL PADRONATO!

SOLIDARIETA' AI COMPAGNI LICENZIATI

Il Partito Comunista dei Lavoratori, sezione di Bologna, aderisce al presidio indetto da SGB il 1 maggio alle ore 10 davanti alla sede delle Poste di piazza Liber Paradisus per esprimere la sua massima solidarietà ai compagni sindacalisti Aiachi e Noureddine vittime di  licenziamento da parte della cooperativa Dedalog che lavora per  SDA,  per futili motivi, ma più probabilmente a causa del loro attivismo a favore dei lavoratori del settore.
E’ora che i lavoratori tornino a difendersi unitariamente e attivamente dai licenziamenti. E’ ora di ribellarsi  alla crescente arroganza padronale sui luoghi di lavoro, mascherate da presunte riorganizzazioni o ristrutturazioni aziendali.
Il PCL sostiene l’iniziativa di SGB per  l’immediato reintegro dei compagni licenziati quale momento di resistenza e di rilancio delle lotte contro il padronato e la sua dittatura.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI - SEZ. DI BOLOGNA

Il nostro 25 aprile

Per un antifascismo classista e anticapitalista

Quest'anno il 25 aprile affronta un contesto politico nuovo.

Organizzazioni dichiaratamente fasciste hanno sviluppato nell'ultimo anno il proprio radicamento e la propria forza militante. Lo hanno fatto inzuppando il pane nei sentimenti xenofobi e reazionari cavalcati da tutti i partiti dominanti, dal PD di Minniti “legge e ordine” al M5S, sino alla Lega lepenista, che hanno fatto a gara per intestarsi il blocco dei migranti, i loro respingimenti, la loro segregazione. Le organizzazioni fasciste hanno semplicemente usato questo vento per gonfiare le proprie vele.

Ma se questo vento spira più forte di ieri, anche tra milioni di sfruttati, è perché è stato alimentato dalla resa al capitalismo da parte dei gruppi dirigenti della sinistra politica e sindacale. L'aperta complicità nelle politiche di austerità, il semaforo verde alla Legge Fornero, la smobilitazione della lotta sull'articolo 18, la dispersione dell'opposizione di massa alla “Buona scuola”, non hanno rappresentato solamente una svendita delle ragioni del lavoro agli interessi del profitto, ma hanno anche abbandonato milioni di lavoratori e lavoratrici alla solitudine della propria condizione, alimentando sentimenti di sfiducia, demoralizzazione, disorientamento. Se il crollo del renzismo è avvenuto a destra e non a sinistra è perché la sinistra si era resa da tempo irriconoscibile al suo stesso popolo. Il voto del 4 marzo ha semplicemente registrato la realtà.


DALLA PARTE DEI LAVORATORI, DELLE LAVORATRICI, DI TUTTI GLI SFRUTTATI 

Se questo è vero, non c'è possibile rilancio della battaglia contro il fascismo e contro la destra se non a partire dal recupero di una ragione di classe, dalla parte dei lavoratori contro i capitalisti.
Per anni, anche da parte della sinistra cosiddetta radicale si è rimossa la centralità del lavoro. Gli stessi gruppi dirigenti di Rifondazione Comunista che nel governo Prodi avevano votato la più grande detassazione dei profitti hanno finito col nascondere le ragioni del lavoro dietro le insegne del civismo progressista (Ingroia) e di un “popolo” indistinto. Il M5S, e la sua truffa populista nel nome dei "cittadini", hanno beneficiato anche di questo, così come i sovranismi nazionalisti.
Per rimontare la china è necessaria una svolta. Non c'è il popolo dei cittadini, ci sono le classi. Salariati e capitalisti, padroni e operai, sfruttati e sfruttatori. O si sta da una parte o si sta dall'altra.
Ridisegnare questa linea di confine è centrale per lo sviluppo della coscienza, e lo sviluppo della coscienza è inseparabile dalla lotta, a partire dall'opposizione alla classe capitalista e ai suoi governi.

Quale che sia la futura soluzione di governo, nulla di buono è in cantiere per i lavoratori. Il M5S si candida a partito centrale della Terza Repubblica dei padroni, con l'applauso di Confindustria, banche, UE, e NATO. Altro che alleato democratico dei lavoratori, cui chiedere magari qualche ministero (come vorrebbe Liberi e Uguali)! Occorre preparare una opposizione vera, unitaria, radicale, di massa senza alcuno sconto ai nuovi truffatori.


PER UNA PROSPETTIVA ANTICAPITALISTA 

Ma non c'è vera opposizione di classe senza prospettiva anticapitalista. Questo è il punto decisivo.
Le stesse sinistre che hanno negli anni abbandonato persino la rappresentanza del lavoro, continuano ad illudere ciò che resta del loro popolo con l'eterna fiaba di una possibile riforma democratica e progressista del capitalismo. Una volta era il governo Prodi, ora il governo Tsipras, ogni volta si inventa un fantomatico governo “riformatore” di cui avere fiducia e a cui donare il sangue. Bene, è ora di dire, come provano i fatti, che quel governo non c'è. Che i tempi delle riforme sociali (per disinnescare i rischi di rivoluzione) erano quelli del boom economico e della presenza dell'URSS. Che nelle attuali condizioni storiche, ormai da quasi trent'anni, all'ordine del giorno del capitalismo - chiunque governi - c'è solo la distruzione di diritti e conquiste, con il trascinamento di xenofobia, guerre, miseria sociale e culturale dilagante.
E viceversa, ogni rivendicazione elementare dei lavoratori, in fatto di giustizia sociale ed emancipazione, cozza frontalmente con le compatibilità del capitalismo e della sua crisi, e chiama la necessità di una rottura anticapitalista.
Si tratta di sviluppare in ogni lotta questo elemento fondamentale di coscienza, e di costruire attorno a questa politica di classe anticapitalista una direzione rivoluzionaria del movimento operaio. Senza la quale ogni ribellione è destinata in un modo o nell'altro alla sconfitta.


PER IL PARTITO DELLA RIVOLUZIONE. QUELLO CHE MANCÒ ALLA RESISTENZA 

Questa è anche la lezione della Resistenza, che qui vogliamo ricordare.
Tra il 1943 e il 1945 milioni di lavoratori si ribellarono al fascismo, ma anche alla classe capitalista che si era affidata al fascismo per distruggere il movimento operaio. La rossa primavera di tanta parte del movimento partigiano era nei suoi sentimenti apertamente anticapitalista. Ma il regime staliniano in URSS e il suo PCI in Italia aveva deciso diversamente: l'Italia doveva restare, secondo i patti di Yalta, nel campo del capitalismo. I governi di unità nazionale tra De Gasperi e Togliatti, con la copertura a sinistra di Secchia, servirono a questo. Per questo riportarono i capitalisti al posto di comando, disarmarono i partigiani, ammnistiarono i peggiori sgherri fascisti. Quando il lavoro fu completato, il PCI non era più necessario, e fu sbattuto all'opposizione. E iniziarono i lunghi anni di Scelba. Di certo la mancanza di una alternativa alla sinistra del PCI capace di contendergli la direzione (tra gruppi e organizzazioni centriste che tragicamente invocavano Stalin per criticare il PCI) fu un fattore decisivo nella sconfitta della Resistenza.

Trent'anni dopo, la nuova ascesa del 1968, tradita dal compromesso storico tra DC e PCI, finì per le stesse ragioni con la stessa sconfitta.
Per questo noi oggi, nel ricordare le potenzialità rivoluzionarie della Resistenza partigiana, rivendichiamo la costruzione di ciò che allora mancò: il partito della rivoluzione socialista.
Partito Comunista dei Lavoratori

Il PCL di Bologna aderisce al corteo antifascista

PER UN'OPPOSIZIONE DI CLASSE,
ANTIFASCISTA, RIVOLUZIONARIA

Le recenti elezioni politiche hanno segnato, come non mai  nella storia della Repubblica, un successo delle forze di destra, afasciste come i 5 Stelle o xenofobe come la Lega. Mentre le liste dichiaratamente fasciste non sfondano elettoralmente, ma agiscono in un quadro di aumentato consenso che dà loro nuova energia.
E' necessario ritornare alle lotte dei lavoratori per difendere salario e diritti; a respingere i modelli scolastici padronali; a battersi per pensioni dignitose; a pretendere case dignitose per tutti, italiani e migranti, e così via.
Senza una linea di classe non esiste nessuna ipotesi politica che possa fermare le destre. Dall'altro lato non c'è nessun antifascismo coerente senza lotte dei lavoratori, senza lotta per un altro modello sociale, politico ed economico. 

Il PCL parteciperà al corteo indetto dalla Realtà antifasciste bolognesi, che partirà domani, 25 aprile, alle ore 10 dalla rotonda "Dodi Maracino

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI - SEZ. DI BOLOGNA

Polarizzazione d'avanguardia e politica di massa

L'indirizzo del PCL nel nuovo scenario politico

18 Aprile 2018
Il 4 marzo ha segnato uno sconvolgimento profondo del quadro italiano. La crisi di consenso delle politiche dominanti e la crisi parallela del movimento operaio - combinandosi e sommandosi nei lunghi anni della grande crisi - hanno prodotto una risultante storica: da un lato il crollo del centro borghese in tutte le sue varianti (PD e Forza Italia), dall'altro la capitalizzazione a destra di questo crollo (M5S e Lega).

Al Nord (ma anche in aree crescenti del centro Italia) il capitalismo dei distretti ha trovato il proprio riferimento nella Flat tax della Lega, che ha costruito attorno a sé un blocco sociale vasto che coinvolge partite Iva colpite dalla crisi ma anche significativi settori di classe operaia industriale spesso dirottati contro gli immigrati e attratti dalla promessa dell'abolizione della Legge Fornero.
Al Sud ha sfondato il M5S con cifre da autentico plebiscito. Un M5S molto legato alla piccola borghesia delle libere professioni, che ha guadagnato la testa dei disoccupati e della popolazione povera del Mezzogiorno attorno alla bandiera del reddito di cittadinanza, ma che ha raggruppato anche la larga maggioranza del lavoro salariato dell'industria, e settori crescenti del pubblico impiego.
Nessuno dei due vincitori (M5S e Lega) è espressione diretta e organica dell'establishment. Entrambi coinvolgono nel loro insieme l'ampia maggioranza del proletariato italiano, e asfaltano la sinistra politica.


UNA CESURA PROFONDA COL PASSATO 
Questo scenario segna una cesura profonda col passato.
Il vecchio bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra che aveva incardinato la Seconda Repubblica è deceduto dopo lunga agonia. Ma al tempo stesso un nuovo equilibrio non è ancora nato, né si delinea. Né il centrodestra né il M5S appaiono in grado di comporre una propria maggioranza parlamentare, mentre una loro collaborazione di governo (pur ricercata) fatica a trovare uno sbocco.

Il M5S si offre alla borghesia italiana (e internazionale) come nuovo architrave della Terza Repubblica. Ma il suo spazio di manovra politico è limitato dalla combinazione di due rigidità difficilmente aggirabili: la necessità di guidare il governo, l'impossibilità di imbarcare Berlusconi. Dal canto suo, la Lega di Salvini non può scaricare Berlusconi se non amputando la propria forza negoziale e mettendo a rischio l'eredità dei suoi voti. Da qui la prolungata paralisi politica.

Senza entrare in previsioni di dettaglio, si impongono in ogni caso due osservazioni di fondo.
La prima è che difficilmente si prospetta una soluzione di legislatura. Le elezioni politiche anticipate (prima o dopo) sembrano inscritte nel risultato del 4 marzo.
La seconda è che l'Italia è l'unico paese imperialista nel concerto europeo nel quale la soluzione di governo è di fatto affidata a forze “populiste”, esterne al centro politico borghese.
Non sono aspetti irrilevanti, perché misurano una contraddizione evidente: la valenza di destra del voto del 4 marzo rafforza il padronato e la sua offensiva sui luoghi di lavoro, ma la borghesia accentua parallelamente la propria crisi di direzione sul piano politico. E l'accentua nel momento stesso in cui lo scenario mondiale sottolinea gli elementi di fragilità del capitalismo italiano (prossimo esaurimento del Quantitative Easing della BCE, ristrettezza dei margini negoziali di manovra sul terreno delle politiche di bilancio e della crisi bancaria, rischi connessi alla guerra commerciale tra blocchi imperialisti per un paese esportatore come l'Italia...).


L'INCOGNITA M5S NELLA TERZA REPUBBLICA 

A tutto questo si aggiunge un'incognita che va al di là della soluzione contingente della crisi politica. Il M5S è in grado di reggere sulle proprie spalle le responsabilità di pilastro della Terza Repubblica? Sicuramente è determinato a rivendicare quel ruolo, al prezzo del più grottesco trasformismo. Ma è attrezzato a reggere gli oneri enormi che l'esercizio di quel ruolo comporta?
È possibile. È possibile che la funzione plasmi l'organo in tempi più accelerati di quanto si pensi. Ma non sarà facile, per ragioni diverse tra loro combinate.

Il M5S non ha una classe dirigente sperimentata nell'amministrazione dello Stato borghese. Le difficoltà registrate nella giunta comunale di Roma sono solo una pallida anticipazione dei problemi ben più complessi che si presenterebbero su scala nazionale. Certo, il M5S può fare (ha già fatto e farà) una vasta campagna acquisti nel libero mercato delle professionalità di governo, imbarcando sul carro del vincitore la folta fila degli aspiranti al ruolo, più o meno improvvisati. Ma come conciliare l'acquisizione di forze esterne con la continuità della disciplina di setta, sotto il comando della Casaleggio Associati?

La seconda incognita, ben più rilevante, riguarda la tenuta del blocco sociale del M5S, nelle sue enormi contraddizioni. Il voto per il M5S del 4 marzo non è la fotocopia del 2013. Non solo, com'è ovvio, per le sue proporzioni, ma anche per il suo significato. Il 25% del 2013 esprimeva principalmente il segno del “vaffa”, del rifiuto dei vecchi partiti. Il 32% del 2018 esprime anche e soprattutto un'attesa, seppure passiva, di cambiamento sociale. Lo sfondamento del reddito di cittadinanza nella popolazione povera del Sud ha questo segno. Si può rispondere a quella domanda, fosse pure in modo distorto, dentro la camicia di forza di una crisi capitalistica irrisolta, e dentro spazi negoziali delle politiche di bilancio in sede UE resi più difficili dallo scenario interno tedesco (crescita dell'opposizione populista alla Merkel) e dagli equilibri europei (fronda rigorista a guida olandese)?

Fare la DC della Terza Repubblica è naturalmente un'ambizione legittima. Ma la DC prosperò non a caso nella stagione del boom, quando la prosperità capitalista offriva ampi margini di spesa clientelare e redistributiva. Fare la DC nell'epoca delle vacche magre è assai più difficile. Tanto più se le bandiere elettorali acchiappavoti (via il Jobs Act! via la Fornero! reddito di cittadinanza!) convivono con le promesse solenni fatte al capitale finanziario in termini di riduzione delle tasse sui profitti, eliminazione dell'Irap, abbattimento di 40 punti percentuali del debito pubblico sul Pil. Le stesse promesse che hanno lastricato la via dell'apertura padronale al M5S, proprio per questo difficilmente rimovibili, ancor più in presenza dell'agguerrita concorrenza salviniana (Flat tax, ecc.).

Tutto lascia credere dunque che un coinvolgimento di governo del M5S metterebbe a dura prova la tenuta del M5S e della sua base sociale. Ma attenzione. Chi pensa che queste difficoltà annunciate andranno di per sé a beneficio della sinistra politica e della sua ripresa rovescia l'ordine dei fattori. Solo una ripresa del movimento operaio sul terreno della lotta di classe può consentire una capitalizzazione a sinistra della crisi possibile del M5S. In caso contrario, in un quadro immutato di ripiegamento delle lotte di massa, una crisi del M5S potrebbe trovare a destra - a determinate condizioni - il proprio sbocco. Persino in una nuova ascesa del salvinismo (e, a rimorchio, di organizzazioni fasciste). Il crollo di consenso del renzismo, in un quadro di prolungata passività sociale, è precipitato a destra, non a sinistra. Perché la stessa dinamica non potrebbe ripetersi col M5S?

Non esiste dunque una dinamica oggettiva delle cose che di per sé possa risolvere i problemi dell'orientamento soggettivo della classe operaia e della sua avanguardia. Affrontare la questione della direzione della classe e del rapporto con la classe è tanto più nel nuovo scenario una questione centrale.
Su questo il Comitato Centrale del nostro partito ha impegnato la propria riflessione, definendo un orientamento generale di azione e proposta politica che approfondirà nella prossima fase.


CLASSE E POPOLO 
La prima questione che si pone all'avanguardia di classe è la propria autonomia politica dal populismo, in tutte le sue varianti e declinazioni.

Autonomia politica dal populismo significa più cose.
Innanzitutto una chiara e inequivoca contrapposizione al Movimento 5 Stelle. Il PCL ha fatto su questo versante una battaglia politica di lungo corso, in aperta controtendenza rispetto agli orientamenti ammiccanti verso il grillismo di settori significativi della sinistra riformista e centrista, o addirittura alle politiche di aperto sostegno politico ed elettorale al M5S anche da parte di forze d'avanguardia. A maggior ragione consideriamo fondamentale questa battaglia nel nuovo scenario politico.

Autonomia politica verso il grillismo implica intanto una netta collocazione di opposizione e demarcazione politica. L'esatto contrario della politica oggi seguita da Liberi e Uguali (Grasso) e della stessa Sinistra Italiana (Fratoianni). Che, non contenti della vecchia subalternità verso il PD e il centrosinistra, sbandierata nella stessa campagna elettorale, mimano oggi un'apertura parlamentare al M5S iscrivendosi in modo patetico al futuribile governo Di Maio. È il tentativo disperato di scampare al proprio naufragio provando a rientrare nel gioco politico parlamentare dalla porta di servizio. Una politica non solo suicida per chi la conduce ma disastrosa per il movimento operaio.

Ma autonomia dal populismo è una questione più ampia, che va ben al di là dell'opposizione al M5S. Investe la cultura profonda della sinistra politica e della sua avanguardia.
Il rimpiazzo della classe lavoratrice con il “popolo” ha marciato in questi anni in ambienti diversi della stessa avanguardia. Ha investito settori dell'avanguardia sindacale; ha conosciuto rivestimenti culturali e razionalizzazioni teoriche soprattutto da parte del sovranismo di sinistra (Formenti); ha trovato una sua traduzione nell'esperienza in corso di Potere al Popolo, e nei suoi riferimenti internazionali emergenti (Mélenchon). Oggi l'appello congiunto di Francia Ribelle, Podemos, Bloco de Esquerda “Per una rivoluzione democratica in Europa” (Dichiarazione di Lisbona), nel nome della “sovranità del popolo”, “al servizio del popolo”, ripropone e rilancia lo stesso canovaccio in vista delle elezioni europee.

Il PCL contrasta alla radice questa cultura, e propone a tutte le avanguardie di classe, ovunque collocate, una battaglia comune su questo versante.

Non siamo economicisti, siamo comunisti. Sappiamo che la costruzione di un blocco sociale alternativo deve coinvolgere tutte le domande ed istanze delle masse oppresse, anche non direttamente classiste (sociali, di genere, democratiche, ambientaliste...). Istanze che riguardano non solo il proletariato, ma una più ampia massa di popolo. Ma il punto decisivo è quale classe prende la testa del “popolo” e quale traduzione dà alle sue istanze. Perché il popolo come soggetto indistinto al di sopra delle classi e della loro lotta non esiste nel mondo reale, esiste solo nella metafisica borghese. Nel mondo reale o è la classe dei lavoratori salariati che egemonizza la massa popolare nella dinamica della propria lotta (in funzione, per parte nostra, di una prospettiva anticapitalista), oppure sono e saranno le forze di altre classi a subordinare il popolo al capitale, dissolvendo in esso la classe operaia come massa anonima e atomizzata. Questo è il bivio.


POPULISMO DI SINISTRA E SOVRANISMO. PER UNA POLARIZZAZIONE CLASSISTA NELL'AVANGUARDIA 

Questa duplice subordinazione - della classe al “popolo”, e del “popolo” al capitale - può certo avvenire in forme diverse.
Può avvenire in forme reazionarie, come rivela la marea del populismo di destra (lepenismo, salvinismo...), in chiave prevalentemente anti-immigrati. Può avvenire in forme ibride che combinano posture progressiste e vocazione reazionaria, come nel caso del populismo digitale anti-casta a 5 Stelle. Ma può anche avvenire in forme democratiche, come recita il populismo di sinistra di Podemos e Mélenchon, che rimpiazza i confini tra sinistra e destra nel nome della contrapposizione tra oligarchia e popolo, ed espelle la bandiera rossa dalle proprie manifestazioni.

Questo populismo di sinistra non è solo una mistificazione teorica, è un fenomeno politico. Può a volte registrare in forma distorta dinamiche sociali progressive (Podemos è stato anche un sottoprodotto degli indignados, Mélenchon ha anche capitalizzato sul piano elettorale la primavera di lotta del 2016). E tuttavia le subordina alla cultura interclassista del senso comune dominante, che a sua volta contribuisce a nutrire.

In Italia il populismo di sinistra ha allargato il proprio spazio politico - non a caso - grazie alla combinazione di due fattori: un riflusso prolungato del movimento operaio che non ha paragoni tra i paesi imperialisti dell'Unione Europea e il crollo parallelo di Rifondazione Comunista.
Rifiuto dei partiti, demonizzazione della politica nel nome della società civile, sostituzione della classe con la "cittadinanza" progressista o antagonista - in definitiva con il “popolo” - hanno trovato qui la propria radice, col contributo operoso dei dirigenti in disarmo di Rifondazione (blocco giustizialista con Di Pietro, lista civica con Ingroia, lista Tsipras con Barbara Spinelli). Potere al Popolo è l'ultima variante, con declinazione sociale e di sinistra, di questo spartito. Il Fatto Quotidiano, il giornale oggi più diffuso a sinistra, ne è invece la declinazione moderata, pro-grillina e manettara.

Questo spartito del populismo progressista, nelle sue varie forme, non è innocente. È stato al tempo stesso effetto e concausa dello smottamento ulteriore della sinistra politica e dello sfondamento populista anche in settori di avanguardia. La breccia aperta a sinistra dalla tematica del sovranismo è in questo senso emblematica.

Populismo e sovranismo si tengono insieme, anche quando declinati in chiave progressista. Quando si dissolve la classe nel popolo, la bandiera del popolo diventa quella della nazione. E se la nazione è imperialista diventa quella del proprio imperialismo e del proprio Stato. Podemos ha contrapposto la “sovranità democratica” della Spagna al diritto di autodeterminazione della Catalogna. Francia Ribelle di Mélenchon rivendica la proprietà francese della Guyana con tanto di sventolio del tricolore e della tradizione nazionale. Potere al Popolo ha una cifra diversa, ma si richiama pubblicamente a Mélenchon, e ospita al proprio interno le posizioni dichiaratamente sovraniste di Eurostop, che nel dicembre 2016 protestava davanti all'ambasciata tedesca rivendicando la sovranità mutilata dell'Italia.
Resta in ogni caso un fatto abnorme: l'esistenza stessa dell'imperialismo italiano viene rimossa proprio negli anni in cui l'Italia compete con l'imperialismo tedesco nei Balcani e sgomita con l'imperialismo francese in Nord Africa. In compenso, l'economista Bagnai, reverito per anni in tanti i convegni come icona del sovranismo di sinistra (contro i pregiudizi ideologici dei trotskisti), è finito deputato di Salvini. E rivendica, a buon ragione, la continuità dei propri argomenti, candidandosi a un ruolo di cerniera verso M5S e... “sinistra”, nel nome dell'"interesse nazionale" dell'Italia.

Questo mixage di populismo e sovranismo, con i suoi risvolti trasformisti più o meno grotteschi, plasma immaginari e riflessi condizionati diffusi.
È significativo che oggi in Italia persino nel senso comune di estrema sinistra la rappresentazione dell'Italia “schiava di Bruxelles” e della Germania sia spesso più popolare e comprensibile di quella che contrappone operai e padroni. La lotta dei metalmeccanici tedeschi è passata non a caso sotto silenzio. Parallelamente, la fascinazione esercitata dal putinismo in chiave anti-USA - dentro la rappresentazione campista del mondo - è la rimozione non solo della sua realtà reazionaria (e neoimperialista) ma anche delle difficili lotte controcorrente dei proletari russi. Nei fatti la sussunzione indistinta dei salariati nel popolo diventa una linea di frattura silenziosa con i salariati degli altri paesi e con altri popoli oppressi, in subordine al proprio imperialismo o a quello altrui.

L'influenza populista a sinistra pervade peraltro altri terreni, non meno insidiosi. La tesi dell'”immigrazione clandestina” come progetto del capitale globale (Diego Fusaro), l'idea dell'arretratezza della battaglia antifascista (Marco Rizzo) a fronte della centralità della contrapposizione a Bruxelles, l'idea dei diritti civili di omosessuali e transessuali come diritti “borghesi” contrapposti ai diritti sociali (ancora Marco Rizzo), sono tra loro sicuramente diverse, e hanno spazi diversi di diffusione a sinistra, ma hanno tutte una superficie contigua col pensiero corrente dominante, oggi arato da ideologie populiste regressive. Ed hanno aperto a sinistra brecce impensabili dieci anni fa.

La verità è che il superamento della distinzione tra destra e sinistra, caro alle peggiori ideologie reazionarie, diventa la forma ideologica di penetrazione delle categorie della destra nel campo della sinistra e della sua stessa avanguardia. Il populismo di sinistra ne è il veicolo. Più o meno mediato, più o meno inconsapevole, ma non casuale.

Per questa ragione la battaglia classista antipopulista, nel campo stesso dell'avanguardia della classe lavoratrice e dei movimenti sociali, assume una valenza politica centrale. È una battaglia controcorrente per lo sviluppo della coscienza. Segna una prima linea di demarcazione e di raggruppamento che il PCL perseguirà con coerenza. Una linea di polarizzazione classista, anticapitalista, internazionalista, che ricercherà possibili unità d'azione su questo fronte con altre organizzazioni classiste, e che interverrà sulle contraddizioni di Potere al Popolo in un rapporto di interlocuzione aperta con i settori di avanguardia che questo raccoglie.


AVANGUARDIA E MASSA. POPOLO DELLA SINISTRA E POPOLO PENTASTELLATO 

La seconda questione che si pone all'avanguardia di classe è quella della proiezione di massa e della proposta di massa.

La rigorosa delimitazione dell'avanguardia da ogni declinazione di populismo non deve significare avanguardismo. Al contrario. Ha senso solo in funzione della più ampia proiezione verso la maggioranza della classe e degli oppressi al fine di sviluppare loro azione di massa e la loro coscienza politica.

Nei dieci anni del grande riflusso del movimento operaio italiano si è allargata la divaricazione tra l'avanguardia e la massa. Tra le decine di migliaia di militanti e attivisti della classe lavoratrice e dei movimenti sociali che in forme diverse preservano una linea di resistenza e conflitto, e la grande massa dei 17 milioni di salariati. In parte (e soprattutto) è una divaricazione fisiologica trascinata dalla dinamica di passivizzazione, ma in parte è stata ed è l'effetto di una cultura minoritaria dei gruppi dirigenti dell'avanguardia (sindacali e politici) che si è sovrapposta a quella dinamica oggettiva e l'ha approfondita: si tratta della propensione all'autorappresenzazione dell'avanguardia come massa, del proprio sciopero di sigla come sciopero “generale”, del proprio movimento o manifestazione come “il” movimento di massa. La gioia ostentata dai dirigenti del Potere al Popolo dopo l'1% dei voti, sullo sfondo dello sfondamento salviniano e grillino, è in fondo un riflesso della stessa cultura.

Questa cultura dell'autorecinzione non è un'espressione di radicalità ma di moderazione. Confessa non solo la rinuncia alla prospettiva di rivoluzione - che è di massa o non è - ma la stessa rinuncia ad una svolta della lotta di classe, a favore del ripiegamento nella propria nicchia (più o meno) “antagonista” in funzione della conservazione del proprio spazio. Una logica tanto più negativa in un quadro di riflusso del movimento di massa e di arretramento profondo della coscienza di classe.

Il PCL esprime un indirizzo di segno opposto, di azione e proposta.
La funzione dell'avanguardia non è quella di separarsi dalla massa, ma di sviluppare la sua coscienza, elevare il livello della sua azione, conquistarne in prospettiva la direzione. Quanto più la massa arretra tanto più è importante preservare ogni possibile spazio e canale di relazione con la massa per contrastare quell'arretramento e creare le condizioni di una ripresa. Così è sempre stato nella storia migliore del movimento operaio, così è oggi in Italia.

Rapportarsi alla massa significa partire innanzitutto dalla sua realtà.
La massa non è una dimensione uniforme ma stratificata. Non solo per condizioni sociali, ma per livelli di coscienza, esperienza, sentimenti, tradizioni. Ciò vale per la massa dei salariati come vale più in generale per le masse oppresse.
Su questo terreno assistiamo in Italia a modificazioni profonde, che il voto del 4 marzo ha registrato. Il popolo della sinistra (quello, per intenderci, che vive una relazione soggettiva, in forme diverse, con la tradizione del movimento operaio) non è scomparso. Nel milione e mezzo di voti riportato dalle liste della sinistra c'è un lascito importante di quella storia. Ma per la prima volta nella storia d'Italia la sinistra politica nel suo insieme scende sotto il 5% dei voti. È un dato unico tra i paesi imperialisti della UE. Misura il ripiegamento del popolo della sinistra in un bacino di avanguardia, sia pure di massa, mentre la grande maggioranza della massa, a partire dai proletari stessi, si rivolge a partiti populisti, soprattutto (ma non solo) al M5S.
Di più. Attorno al M5S è confluito elettoralmente un settore importante dello stesso vecchio popolo della sinistra che, disarmato dall'irriconoscibilità e dalle compromissioni della sinistra, ha cercato e cerca nel M5S un'alternativa, in non pochi casi “una sinistra vera”. Non è certo questo un fatto positivo, non riflette affatto una radicalizzazione nei comportamenti sociali, semmai spesso una passivizzazione ulteriore. Ma resta un fatto. Un fatto da assumere nell'orientamento dell'avanguardia: l'avanguardia di classe, politica e sindacale, non può oggi sviluppare una battaglia di massa nella stessa classe operaia senza parlare alla base di massa del M5S.

In altri termini, nello stesso momento in cui s'impone la più netta opposizione e denuncia controcorrente della realtà del M5S, è necessario tracciare un canale di comunicazione con la base di massa che l'ha votato. Ciò che pone anche un problema di innovazione di linguaggio e comunicazione, non per adattarsi alla rappresentazione populista, ma per combatterla e sradicarla.


LA SELEZIONE DELLE PAROLE D'ORDINE. DISARTICOLARE I BLOCCHI SOCIALI POPULISTI PER UN FRONTE UNICO DI MASSA

Rapportarsi alla massa significa selezionare le parole d'ordine.
La battaglia anticapitalista per il governo dei lavoratori resta l'asse centrale della propaganda rivoluzionaria, cui il PCL riconduce in ultima analisi ogni intervento di massa, assieme alla propaganda, ad essa connessa, delle rivendicazioni transitorie. Ma l'intervento di massa non si riduce alla propaganda (centrale) della rivoluzione sociale. È necessario tracciare un piano di rivendicazioni immediate che traducano e introducano quel programma sapendo parlare e comunicare alla massa e al suo immaginario. Un piano di rivendicazioni che sappiano entrare nelle stesse contraddizioni dei blocchi sociali reazionari col fine di portarle a rottura in funzione di un blocco sociale alternativo.

I poli populisti hanno sfondato nella classe lavoratrice brandendo non solo la clava anti-immigrati o anti-casta, ma anche obiettivi di ampio richiamo sociale, alcuni persino formalmente “classisti”. L'abolizione della Legge Fornero è stata il chiavistello della Lega in settori consistenti della classe operaia del Nord. Il cosiddetto reddito di cittadinanza (reddito minimo a 780 euro) è stata la bandiera del plebiscito grillino presso i disoccupati e la popolazione povera del Meridione. Sia la Lega che il M5S hanno formalmente sventolato nel proprio programma l'abolizione del Jobs Act. Il M5S ha addirittura rivendicato nel proprio programma (poi sbianchettato) la riduzione dell'orario di lavoro. Insomma: per coinvolgere le classi subalterne nei proprio blocco reazionario, i partiti populisti hanno dovuto “legittimare” rivendicazioni progressive, per quanto distorte, facendone bandiera del proprio successo e innescando perciò stesso una aspettativa, per quanto passiva. Al tempo stesso, è del tutto evidente che nessun partito dominante può attuare realmente quelle misure, a partire dal M5S. È una contraddizione potenzialmente esplosiva.

Entrare allora in questa contraddizione da un versante di classe è centrale nel nuovo scenario politico. Non si tratta di alimentare l'aspettativa di massa nei partiti populisti, ma di far leva (anche) su quell'aspettativa ai fini del rilancio di un movimento autonomo di classe e di massa, fuori e contro di essi.

La rivendicazione dell'abrogazione del Jobs Act, e dunque del ripristino dell'articolo 18, può essere rilanciata su basi indipendenti e ricondotta alla parola d'ordine della cancellazione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro.
La parola d'ordine dell'abolizione della legge Fornero (con pensione a 60 anni o 35 anni di lavoro) può essere ripresa e collegata alla rivendicazione della riduzione generale dell'orario di lavoro a 32 ore a parità di paga.
La rivendicazione del reddito minimo (che nella versione a 5 Stelle è strumento di generalizzazione del lavoro precario e sottopagato) può essere trasformata nella parola d'ordine di un vero salario dignitoso per i disoccupati.
Ogni bandiera sociale sollevata strumentalmente dai populisti come strumento di raggiro va ripulita e piegata contro la politica reale e i programmi reali dei populisti. E attorno a queste bandiere va rivendicata una vertenza generale unificante dell'intera classe lavoratrice, della massa dei lavoratori precari e dei disoccupati, preparando le premesse di movimenti reali di lotta. Perché ad esempio non provare a lavorare nel Sud a un movimento reale di disoccupati attorno all'obiettivo di un salario dignitoso, con la creazione e il coordinamento di specifici comitati?

Non si tratta di chiedere al M5S (e tanto meno alla Lega) di mantener fede alle promesse, ciò che significherebbe spacciare per buone quelle promesse, avallare gli equivoci, coprire le illusioni. Si tratta di fare esattamente l'opposto: usare (anche) quelle promesse per denunciare la realtà dell'inganno populista, ricomporre l'unità tra gli sfruttati che il populismo vuole divisi (tra Nord e Sud, tra occupati e disoccupati), preparare il terreno di una svolta di lotta generale, unitaria e di massa, che è e resta la dimensione di lotta necessaria per incidere sui rapporti di forza complessivi, e ricomporre un blocco sociale alternativo.


LA NUOVA IMPORTANZA DELLA BATTAGLIA IN CGIL CONTRO LA BUROCRAZIA SINDACALE 

Rapportarsi alla massa significa battersi per una linea di classe in ogni organizzazione di massa.
Dentro il lungo ripiegamento del movimento operaio e la disgregazione della sinistra politica, la CGIL è rimasta di fatto l'unica organizzazione di massa dei lavoratori salariati. La battaglia di classe e anticapitalista all'interno della CGIL ha un'importanza maggiore di ieri.

La burocrazia dirigente della CGIL è la principale responsabile della disfatta del movimento operaio negli anni della grande crisi, e non solo. Non ha solo svenduto le ragioni del lavoro al padronato, dando semaforo verde alla Legge Fornero e aprendo la diga alla deroga dei contratti nazionali di lavoro e al welfare aziendale, ma ha spezzato ogni dinamica di resistenza e conflitto: ha portato su un binario morto il movimento di opposizione al Jobs Act, ha disperso nel nulla il più grande sciopero generale della scuola del dopoguerra, ha sistematicamente bloccato e isolato le mille vertenze di fabbrica portandole una dopo l'altra alla sconfitta. La conseguenza non è stata solo sindacale, ma politica. Lo sfondamento del populismo nella grande massa dei salariati ha nella linea CGIL la principale responsabile.

Questa linea di fondo non è reversibile. È il codice di una burocrazia che ha come bussola la collaborazione organica col padronato, come mostra una volta di più il recente accordo quadro tra sindacati e Confindustria. Le illusioni spese a piene mani in anni recenti nel gruppo dirigente della FIOM (Landini) come possibile contraltare alla burocrazia si sono scontrate con la realtà del gioco burocratico di chi non ha esitato a regalare ai padroni il peggior contratto dei metalmeccanici pur di entrare in Segreteria CGIL e aspirare alla guida della confederazione.

Ma la CGIL non è solo la sua burocrazia. È anche il luogo in cui si concentra la maggioranza delle masse sindacalmente attive, a partire dai salariati dell'industria, senza le quali è difficile immaginare un'azione generale vincente sul terreno della lotta di classe, a maggior ragione una prospettiva anticapitalista. Per questo la battaglia in CGIL non ha e non deve avere un carattere “residuale”: è parte inseparabile tanto più oggi di una battaglia politica di massa per un'altra direzione del movimento operaio.

La battaglia de “Il Sindacato è un'altra cosa” in occasione del prossimo congresso della CGIL è in questo quadro di grande importanza. È una battaglia che non si limita al terreno congressuale. Si tratta di una tendenza classista che si è assunta le proprie responsabilità in campo aperto tra i lavoratori, a partire dall'opposizione nelle assemblee e nei referendum aziendali nei confronti di contratti capestro, come è stato con un ruolo centrale tra i lavoratori metalmeccanici: le percentuali rilevanti del no all'accordo in numerose grandi fabbriche sono soprattutto un risultato di questa battaglia. Oggi questa battaglia di massa trova la sua naturale continuità e coerenza nel congresso CGIL attorno a un documento alternativo. Per questo il PCL sostiene e sosterrà tale battaglia col massimo impegno dei propri militanti e iscritti.

Non si tratta di confinare nella sola CGIL l'impegno sindacale classista di avanguardia, che oggi trova la propria espressione in una pluralità di organizzazioni sindacali. Il nostro stesso partito ha una presenza articolata anche nei sindacati di base, in particolare tra quelli di impostazione più apertamente classista. Ma in ogni sindacato classista poniamo l'esigenza della ricomposizione di un fronte di massa, della rifondazione democratica e classista di un sindacato di massa, di una linea d'azione e programma anticapitalista. Una prospettiva inseparabile dalla battaglia centrale in CGIL contro la sua burocrazia dirigente, oggi condotta dall'opposizione interna a questo sindacato.

Al tempo stesso, nel nuovo scenario politico, la battaglia contro la burocrazia CGIL non può limitarsi al solo piano sindacale. La CGIL è oggi l'unica organizzazione che per il suo insediamento potrebbe attivare un'opposizione di massa al populismo vincente del 4 marzo. L'esatto opposto delle attuali aperture CGIL a un governo M5S-PD, in linea guarda caso con la borghesia italiana. Si tratta allora di chiamare pubblicamente la CGIL alle sue responsabilità politiche di opposizione, a fronte della disgregazione della sinistra; di incalzare le sue contraddizioni sul piano politico; di sviluppare anche per questa via la coscienza dei settori più avanzati della sua base di classe attorno alla necessità di una alternativa politica di direzione del movimento operaio. Che è un aspetto decisivo per la stessa rifondazione sindacale.
Marco Ferrando

I riders fra precarizzazione e attacchi ai diritti sociali e sindacali dei lavoratori

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Gig economy, sfruttamento e autorganizzazione

17 Aprile 2018
Prima assemblea nazionale dei fattorini, ospitata da Riders Union Bologna
Mercoledì 11 aprile 2018 si è tenuta al Tribunale di Torino sezione Lavoro la prima causa civile intentata da sei ex lavoratori di Foodora contro il colosso multinazionale. I ricorrenti denunciavano l'illegittimità del licenziamento, avvenuto nel 2016, a seguito delle prime proteste dei riders autorganizzati contro l'abbassamento della retribuzione oraria, ovvero l'improvvisa interruzione del rapporto di lavoro, per il riconoscimento della natura subordinata della prestazione lavorativa, per il mancato versamento dei contributi.

Da quell'udienza è stata prodotta la prima sentenza in materia in Italia. Una sentenza classista e filopadronale, che ribatte la natura di lavoratori autonomi dei sei ex Foodora, dando ragione all'azienda.

La difesa dei riders toccava più punti: ovvero smentiva la retorica della libertà di scelta lavorativa in merito ai turni e all'accettazione degli ordini, sulla base di testimonianze dei lavoratori stessi, vessati in molti casi di rifiuto ordini a causa della fine del turno o di manifesta illegittimità dell'assegnazione (per distanza chilometrica o condizioni meteo, ad esempio). Si denunciava la questione del controllo a distanza dei lavoratori, tramite l'app della piattaforma la quale, anche per il fatto di non essere riconosciuta tra le app disponibili nel play store dello smartphone, poteva accedere a dati personali, gps, e informazioni del lavoratore, e quindi seguirlo tramite geolocalizzazione per tutto il percorso svolto in turno. Inoltre, a conferma di ciò, si hanno testimonianze di ordini che arrivavano anche senza avere effettuato il log in nell'app. Infatti i legali chiedevano un risarcimento di ventimila euro per violazione della legge sulla privacy e 100 euro al giorno per il mancato rispetto delle norme antinfortunistiche. Senza contare la parte relative al trattamento retributivo: da 5 euro iniziali un paio d'anni fa, a 3 euro e 60 netti, fino all'introduzione sempre più diffusa del cottimo.

Il lavoratore non può rifiutare ordini, e la sua prestazione - e quindi la possibilità di trovare turni - si misura secondo un sistema di rating vessatorio che determina l'apertura dei calendari delle ore di lavoro: più consegne realizzi, più il tuo punteggio si alza, e prima puoi accedere alla prenotazione delle ore. Da aggiungere che, a 48 ore dall'inizio del turno, non è più possibile annullare la prenotazione.
Infatti il contrasto al rating e l'abolizione del ranking (il punteggio del singolo rider, un algoritmo che considera numero di consegne, tempi e disponibilità) sono al centro delle rivendicazioni dei riders in generale. Le applicazioni delle piattaforme comprendono una valutazione delle performance che incide sulla possibilità effettiva di riservare ore per lavorare: un punteggio alto permette che il calendario turni si apra prima, creando quindi un clima di ansia, competizione ed esclusione.
Rientra nello stesso ambito di pratiche opprimenti anche il sistema di bonus (a partire da quelli relativi al meteo, assegnati in caso di pioggia o neve), ovvero percentuali minime sulla retribuzione totale, il cui reale scopo è quindi di mettere i lavoratori in condizioni di estrema pressione durante la prestazione lavorativa (aumentare la velocità per effettuare la consegna, nonostante la pericolosità delle strade), oppure i bonus legati a determinati giorni o momenti della giornata, in veste di contentino, quindi temporanei e rispondenti più ai bisogni economici delle singole aziende che così sperano di accrescere il loro organico.
Controllo, pressione psicologica, competizione al ribasso: gli algoritmi che presiedono alla gestione di queste app e datori del lavoro fantasma determinano i tempi di vita e lavoro dei ciclo - fattorini a costo fattore lavoro zero e senza alcuna tutela del tipo assicurativo e nel non rispetto delle norme in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Questo è quello contro cui i riders ex Foodora e i riders in generale si battono.
Chiaramente la sentenza riflette il clima di pesante attacco alla classe lavoratrice, agli studenti e ai giovani lavoratori che, nel contesto di precarizzazione assoluta del mondo del lavoro, si trovano a fronteggiare, assieme tutti i settori, la brutale stretta rincarata da anni di riforme filopadronali di svendita dei diritti sociali e di conquiste pluridecennali del movimento operaio.
Non a caso la sentenza, di cui si attendono le motivazioni, è stata pronunciata da quello stesso Tribunale che, solo qualche mese fa, giustificò il licenziamento ai danni di una dipendente di una società di smaltimento rifiuti, a seguito dell'appropriazione da parte della lavoratrice di un monopattino, escluso dal ciclo di smaltimento, da regalare al figlio minore. Alla lavoratrice, in condizioni economiche disagiate, assegnataria di casa popolare e con problemi di affitto, il Tribunale si pronunciò per un versamento di 18 mensilità.
Uno scorcio di situazione di fatto che dimostra la condizione comune che vive la classe operaia oggi, e che dai riders a tutto il mondo del lavoro chiama ad una convergenza delle mobilitazioni.

Detto ciò, la premessa comincia dal dato di struttura di queste piattaforme del food delivery.
Partiamo dall'esempio di un'altra azienda, Glovo. Quest'ultima nasce in Spagna come start up nel 2015, e fa il suo ingresso in Italia nel 2016 tramite un'altra start up di consegna a domicilio, milanese, Foodhino srl, che attualmente stipula i contratti di lavoro con i fattorini. Nelle condizioni d'uso dell'app emerge quindi che la capogruppo con sede a Barcellona è Glovoapp23 s.l.
Da un rapporto relativo al mercato della consegna del cibo a domicilio in Italia, emerge che i dati in merito al transato aggregato dichiarato nel 2017 dalle aziende corrisponde per Deliveroo a più di 20 milioni di euro, mentre Foodora, JustEat, UberEATS, CosaOrdino, Sgnam, MyMenu e Glovo non hanno dichiarato nulla. Anche sul valore economico dei capitali raccolti nei giri di investimento in Italia, non è dichiarato da praticamente nessuna di queste imprese, a parte Sgnam che dichiara di aver raccolto 450 mila euro. Idem per quanto riguarda il quantitativo di ordini annui gestiti.
Sulle sedi legali, emerge il dato che Glovo ha sede legale a Barcellona, e quindi opera nella pratica in Italia come Foodinho, mentre invece Foodora o Deliveroo hanno sede a Milano. Di conseguenza a quale legislazione neoliberista rispondono? Con il beneplacito della retorica UE sulla libera circolazione dei fattori di produzione, di capitali e lavoro, le imprese battezzano la propria sede in base alle agevolazioni fiscali e al basso costo del lavoro. E a questa logica partecipano chiaramente anche le imprese nel settore del food delivery. Eludendo qualsiasi normativa, a partire da quella fiscale: il numero di dipendenti dichiarato è irrisorio. Sempre con riferimento a Glovo, dal rapporto ne risultano più di 100, ma dalla visura camerale si appura che i lavoratori dipendenti erano 9 e i collaboratori 14. Inoltre, per quanto riguarda i fattorini, essendo Glovo operante in 10 città, dovrebbe avere più di 2000 fattorini, i quali devono pagare una cauzione per il materiale (cubo, powerbank, carta aziendale, portacellulare, pantaloni e giacca antipioggia). Per cui, non avendo mai depositato bilanci, tramite Foodinho che opera in Italia per Glovo, non è dato sapere quale sia la trattenuta aziendale che frutta dalle cauzioni raccolte. Di conseguenza, il mancato deposito dei bilanci, fra i requisiti richiesti per mantenere lo status di start up, può far venir meno l'aderenza di questa impresa all'interno della categoria, con tutti i benefici fiscali, di sgravi e riduzione del costo del lavoro che ciò comporta.
Elusione totale delle tutele di lavoro e delle norme antinfortunistiche che passa inosservata agli occhi delle istituzioni borghesi, le quali scelgono di legalizzare ulteriori attacchi per la precarizzazione dei giovani.

Per quanto riguarda il lato contrattuale, al 99% all'insegna della prestazione autonoma (art. 2222 c.c.), comporta che non esistano assicurazione, ferie, malattie, con costo del materiale a carico del fattorino (spesso non a norma, da ultimo i caschi forniti da Deliveroo ne sono un esempio), utilizzo di propri mezzi (dalla bici alla moto, passando per il forfait internet e quindi il cellulare), per i quali la manutenzione è affare del lavoratore, zero contributi e imposizione di una partita IVA fantoccio superata la soglia dei cinquemila euro.
Un esempio pratico che si cala alla perfezione nell'evoluzione mostruosa della legislazione del lavoro italiana: dal co.co.pro al co.co.co, al voucher alla nuova normativa sulla prestazione occasionale e il libretto di famiglia nel quadro ultimo del Jobs Act e successive modifiche.
Ebbene, il contratto d'opera, ovvero il lavoro autonomo occasionale ex 2222 c.c., si differenzia da queste ultime, essendo imponibile, prevedendo quindi una ricevuta per prestazione occasionale con tanto di ritenuta di acconto del 20% pagata dal committente. Tutto ciò spesso nella difficoltà di fatture ambigue, che portano come conseguenza un iter ad ostacoli per quando riguarda la dichiarazione dei redditi percepiti o il tentativo di recuperare in parte le ritenute di acconto versate, poiché la detrazione per redditi di lavoro autonomo risulta un abbaglio.
Di fatto quanto entra in tasca al rider? Una miseria, anche solo prendendo in considerazione l'esempio di Glovo, che ha abbassato il minimo orario da 6,40 euro netti a 4,40 euro netti. Senza contare che, da Glovo in poi, le aziende mirano, passato il primo periodo di espansione, a ridurre la paga fino all'introduzione del cottimo tout court. Prima fra tutte, appunto, Foodora, che da 5,60 euro l'ora passò a 4 euro lordi a consegna, ovvero 3,60 euro a consegna netti. Fu anche a partire da ciò che iniziarono le prime mobilitazioni a Torino e a Milano, e da qui la ritorsione, di cui sono stati vittime anche i 6 riders della vicenda giudiziaria, del ''nuovo tipo di licenziamento'' della gig economy: il blocco dell'app da parte della azienda, di modo che, da un momento all'altro, il lavoratore si ritrova "sloggato" e non riceve più consegne. Quindi, di fatto, viene licenziato.

A latere del modello prevalente di finto lavoratore autonomo, vi sono alcuni casi di applicazione del co.co.co (collaborazioni coordinate continuative) post-Jobs Act (dlgs 81/2015), ovvero la parasurbordinazione, che comporta contributi a carico 1/3 del lavoratore e 2/3 al committente.
Ma appunto la linea di tendenza attuale delle piattaforme è quella del passaggio a cottimo su tutto il territorio nazionale: dal graduale abbassamento delle paghe orarie fino all'istituzione del pagamento a consegna. Come per esempio a Milano con Deliveroo o a Torino con Foodora.

Si tratta quindi di un modello lavorativo che punta anche a dividere ed isolare i lavoratori, oltre che a regalare agevolazioni fiscali e altri vantaggi alle piattaforme, sulla pelle di chi lavora, esposto a rischi relativi alla sicurezza e alla salute personale. Purtroppo, solo a Bologna, negli ultimi mesi si sono registrati vari incidenti che hanno colpito riders in turno, senza che ciò destasse alcun clamore.

In questo contesto di degrado e pericolosità lavorativa, le risposte in termini di mobilitazioni non si sono fatte però attendere. Da Torino e Milano, fino a Bologna, attraverso l'autorganizzazione su più livelli (da assemblee di piattaforma fino ad assemblee generali della categoria), si è arrivati a creare innanzitutto una rete di solidarietà fra lavoratori, per combattere in primis l'isolamento al quale le aziende vogliono condannare sotto ricatto i riders.
Dai bisogni immediati, ovvero con la collettivizzazione di servizi per la manutenzione di bici o l'offerta di spazi dove potersi fermare fra un turno e l'altro, alla risoluzione di problemi che possono insorgere durante l'orario di lavoro, fino alla gestione collettiva in delegazione per l'imposizione di rivendicazioni contrattuali faccia a faccia con i rappresentati delle aziende.
Nel contesto bolognese è nata infatti Riders Union Bologna, che è riuscita a riunire le lotte e le esigenze provenienti dalle assemblee dei riders delle varie piattaforme cittadine, da quelli di Deliveroo a quelli di Glovo. In un'ottica di promozione e riunione delle mobilitazioni, a seguito dello sciopero dei lavoratori di Glovo in febbraio contro la riduzione della paga oraria, ha rilanciato la mobilitazione attraverso uno sciopero generale di tutti i riders cittadini verso la fine del mese, anche per denunciare la normale pratica delle piattaforme di costringere a lavorare con condizioni meteo avverse, ovvero con in un periodo di fortissime nevicate e temperature abbondantemente sotto zero.
Le condizioni di lavoro estremamente dure, e d'altra parte la combattività dei lavoratori delle singole piattaforme nella rivendicazione di tutele maggiori, a Bologna e nel resto del paese oltre che in tutta Europa, ha spinto alla ricerca dell'unità e della convergenza delle lotte, della risposta collettiva alla repressione e alle ritorsioni, e al collegamento con il resto del mondo del lavoro sfruttato.

Da qui l'importantissima giornata del 15 aprile, data in cui si è tenuta la prima assemblea nazionale dei lavoratori del settore, a Bologna, organizzata da Riders Union Bologna. Presenti riders da Torino, Milano, Roma, Modena, La Spezia, Padova e tante altre città, senza contare la presenza di due lavoratori del Collectif des coursier-e-s (Belgio) e del Collectif livreurs autonomes de Paris CLAP (Francia), oltre che di tante realtà, sindacali e non, venute ad assistere.
Un'iniziativa necessaria e fondamentale per organizzarsi nelle rivendicazioni e nelle pratiche, sulla base delle molteplici esperienze, come quella della "Carta dei diritti dei lavoratori digitali" presentata in Comune a Bologna. Iniziativa messa in atto dai riders cittadini come primo strumento di negoziazione a livello territoriale, con l'obiettivo di porre delle regole alle piattaforme che operano localmente e quindi fissare delle tutele per chi lavora, e da portare avanti nelle mobilitazioni sui singoli punti.
Il contenuto di questa Carta scaturisce dai bisogni e dalle rivendicazioni espresse dalle assemblee di piattaforma, secondo un'autorganizzazione su più livelli, dallo specifico al generale, ovvero Riders Union Bologna, in questo caso. Monte orario garantito, salario minimo orario contro il cottimo, assicurazione totale contro gli infortuni, indennità complete (maltempo, ferie, malattia, contributive...), sicurezza nelle condizioni di lavoro (materiali e attrezzature lavorative, etc.), rifiuto di trattamenti discriminatori (ranking, rating, violazioni della privacy e dati personali...), per i diritti sindacali e di organizzazione, per la trasparenza dei contratti.

Si tratta cioè delle tutele e dei diritti per i quali un intero settore sta lottando da mesi, in un contesto generale di precarizzazione del mondo del lavoro post-Jobs Act, di politiche antisociali e di offensiva contro la classe operaia. Rivendicazioni che sono emerse e sono state ribadite con forza dall'assemblea.
L'incontro ruotava infatti sull'organizzazione delle esperienze e delle rivendicazioni attraverso le differenti modalità di mobilitazione e iniziative messe in campo dai ciclo-fattorini, in quanto modalità complementari e autorganizzate, all'insegna del coordinamento, dell'unità e poi della solidarietà e del legame con il resto del mondo del lavoro in lotta, a partire da quello della logistica. Per questo motivo l'assemblea ha segnato un fondamentale momento di confronto, in vista inoltre del lancio di un Primo maggio di lotta generalizzata e internazionale.
M.P.

COMUNICATO STAMPA: ADESIONE DELLA SEZIONE DI BOLOGNA DEL PCL AL PRESIDIO CONTRO LA GUERRA IN SIRIA INDETTO DA SGB

La sezione di Bologna del Partito Comunista dei Lavoratori aderisce al presidio davanti al consolato francese indetto da SGB  giovedi 19  aprile alle ore 17 per protestare contro i bombardamenti in Siria.
CONTRO LA GUERRA, DA UN VERSANTE CLASSISTA E INTERNAZIONALISTA
Il partito Comunista dei Lavoratori si oppone  all'aggressione in Siria dell'imperialismo Usa, di Francia e Gran Bretagna. 
Ma lo facciamo dal versante dei popoli oppressi, non degli imperialismi e potenze rivali. E denunciando tutti gli interessi in gioco, non solo una parte.
NO ALL'AGGRESSIONE IMPERIALISTA IN SIRIA
VIA L'ITALIA DALLA NATO E LA  NATO DALL'ITALIA
PER L'UNITA' E L'INDIPENDENZA DEI LAVORATORI, DELLE LAVORATRICI, DEI POPOLI OPPRESSI CONTRO TUTTI GLI IMPERIALISMI E CONTRO  LO STATO SIONISTA
PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI
SEZ. DI BOLOGNA
Il volantino del PCL:

Contro la guerra, da un punto di vista classista e internazionalista

13 Aprile 2018 - Nei prossimi giorni è probabile un attacco militare in Siria da parte dell'imperialismo USA, dell'imperialismo francese, dell'imperialismo inglese, con l'appoggio attivo dello Stato d'Israele e dell'Arabia Saudita. La motivazione pubblica dell'attacco annunciato, cioè l'uso di armi chimiche da parte di Assad per espugnare la città di Douma, è un pretesto falso e ridicolo. Non per il fatto che Assad disdegni necessariamente le armi chimiche, come vorrebbero tanti cantori del suo presunto progressismo (il regime dispotico di Damasco è stato ed è capace di tutto). Ma perché in ogni caso i macellai dell'imperialismo “democratico” - che per lungo tempo hanno oltretutto sostenuto Assad - non si muovono certo per ragioni ideali, come dimostra il calvario di morte, orrori e distruzione di venticinque anni di guerre “umanitarie” in Medio Oriente. L'unica bussola degli imperialismi sono i propri interessi, economici e strategici. Ogni loro mossa è in funzione di questi interessi. Nel campo della propaganda, della diplomazia, delle bombe.

IMPERIALISMI A CONFRONTO

Nel ginepraio del Medio Oriente si agitano oggi interessi imperialisti profondamente diversi e tra loro conflittuali. La guerra siriana ne è l'epicentro.
Due sono le cordate imperialiste che si confrontano. La prima è quella imperniata sull'imperialismo USA: ne fanno parte i suoi alleati imperialisti europei, la potenza israeliana, il regime saudita. La seconda si raccoglie attorno agli interessi dell'imperialismo russo: comprende il regime teocratico iraniano e il regime siriano. Due campi di forze, gli uni contro gli altri armati, che si contendono la spartizione del Medio Oriente. Due campi che tendono a sussumere nella propria orbita, a scapito del campo rivale, ogni ogni altro interesse esistente in regione. L'imperialismo USA non ha esitato ad usare le forze kurde come propria fanteria nella “guerra all'ISIS”, salvo negare loro ogni diritto nazionale. L'imperialismo russo non ha esitato a incunearsi nelle contraddizioni interne al campo della NATO, tra USA e Turchia, incoraggiando le ambizioni di Erdogan e rifornendolo dei moderni sistemi antimissile.

La disfatta delle rivoluzioni arabe del 2011 con la deriva reazionaria che ne è seguita ha fatto da sfondo a questa contesa. Lo stesso sviluppo dell'ISIS tra il 2014 e il 2016 è figlio di questo scenario.


LA TEMPORANEA “VITTORIA” DI PUTIN

Questa contesa ha incoronato un (temporaneo) vincitore: il blocco russo-iraniano.

L'intervento militare della Russia e dell'Iran è stato determinante per garantire la tenuta del regime di Assad e il suo recupero territoriale. Per entrambi un indubbio successo.
L'Iran ha consolidato una propria area di influenza lungo l'asse sciita, seppur pagando sul fronte interno i costi sociali di questa espansione (vedi i movimenti di opposizione al regime nel 2017).
Ma soprattutto la Russia di Putin ha incassato il vantaggio maggiore. Ha rinverdito le proprie ambizioni di potenza internazionale, ben al di là di quei confini “regionali” in cui gli USA volevano relegarla. Ha rilanciato una propria presenza diretta in Medio Oriente, sedendo a capotavola della sua spartizione (vertici di Astana). Ha guadagnato una posizione negoziale preziosa da spendere su ogni altro terreno e contenzioso (Ucraina). Ha difeso e consolidato il proprio sbocco sul Mediterraneo, con risvolti economici e militari (Tartus e Latakia). Ha infine incassato sul fronte interno il dividendo elettorale patriottico (successo di Russia Unita alle elezioni presidenziali).

Le basi materiali dell'imperialismo russo sono fragili sul fronte economico interno. Ma il regime di Putin ha di fatto capitalizzato a proprio vantaggio la grande crisi dell'egemonia USA in Medio Oriente. Dopo la disfatta in Iraq e l'impantanamento in Afghanistan, l'imperialismo USA non ha potuto rilanciare una presenza diretta significativa di proprie truppe nella regione: presenza incompatibile con la tenuta del consenso interno, e con i margini economici ristretti dalla crisi capitalistica. Da qui il tentativo di Obama di sganciarsi dal Medio Oriente con una manovra combinata (annuncio della ritirata dall'Afghanistan, accordo di pace con l'Iran), in funzione di un ribilanciamento strategico contro la Cina sul Pacifico. Ma l'operazione è clamorosamente fallita, aprendo un vuoto che la guerra siriana ha dilatato. La Russia si è prontamente inserita in questo spazio, aggravando la crisi politica USA.


LA CONTROFFENSIVA DELL'IMPERIALISMO USA

Oggi il nuovo corso di Donald Trump vuole recuperare il terreno perduto sulla scacchiera del Medio Oriente (e non solo). L'attacco militare in Siria si colloca in questo quadro.

Naturalmente influiscono su questa scelta anche motivazioni interne, come la volontà di Trump di reagire alla guerra che gli muove la FBI e una parte rilevante dell'establishment, con una ricercata drammatizzazione del confronto internazionale, capace di guadagnargli il consenso dell'opinione pubblica sciovinista e di ricomporre attorno al Presidente gli apparati dello Stato.

Ma soprattutto pesa l'interesse internazionale dell'imperialismo USA.
Donald Trump non punta alla guerra contro la Russia (come non puntava alla guerra contro la Corea). Gli stessi vertici del Pentagono consigliano prudenza al Presidente. E il Presidente continua oltretutto ad alternare minacce alla Russia e annunci di ritiro dalla Siria. Un quadro contraddittorio e instabile, che in ogni caso non definisce ancora il vero obiettivo politico dell'operazione militare annunciata: rovesciare Assad o inviare come un anno fa un semplice segnale di avvertimento, poco più che simbolico? Probabilmente né l'una né l'altra cosa. Gli USA vogliono semplicemente riequilibrare i rapporti di forza in Medio Oriente. I bombardamenti annunciati mirano a indebolire Assad, minare la stabilizzazione del regime, ridimensionare la vittoria russa nella partita siriana, rilanciare il potere negoziale americano nella definizione dei nuovi assetti ed aree di influenza. Natura e tempi dell'operazione militare saranno calibrati in base a questa esigenza.

Tre sono i fattori che concorrono in questa direzione.
In primo luogo, l'attacco in Siria serve a rispondere alle pressioni incalzanti dei propri alleati regionali: Israele e Arabia Saudita. Il nuovo corso di Trump punta a ricostruire gli assi strategici fondamentali dell'imperialismo USA con tali paesi (riconoscimento di Gerusalemme come capitale sionista, e nuovo riarmo di Ryad). Ma sia Israele che Arabia Saudita sono nemici mortali dell'Iran, oggi rafforzato dall'asse vincente con la Russia. Sia Israele che Arabia Saudita chiedono dunque agli USA di arginare con la propria forza militare l'espansione iraniana e di cestinare gli accordi con l'Iran stretti da Obama. Trump accoglie questa richiesta alleata.

In secondo luogo, l'attacco in Siria vuole parlare alla Turchia, alleato NATO. La frattura con Erdogan e le nuove relazioni della Turchia con Mosca sono un fattore di massimo allarme per gli USA. Impedire che queste relazioni si trasformino in una vera e propria ricollocazione di campo della Turchia assume valenza strategica. L'iniziativa militare contro Assad, e la conseguente polarizzazione dello scontro, vuole bloccare quella possibile saldatura scompaginando il quadro, e provando a recuperare l'”alleato” turco (con esiti incerti).

Infine l'iniziativa USA mira a riaffermare la direzione americana del fronte imperialista europeo. Un fronte imperialista allineatosi agli USA nelle sanzioni alla Russia (guerra diplomatica attivata dalla Gran Bretagna) ma percorso in realtà da contraddizioni profonde. Tra una Francia che vorrebbe rilanciare una propria autonoma grandeur imperialista (propria iniziativa in Nord Africa, minaccia di un autonomo intervento militare contro l'espansionismo turco nel nord siriano, rivendicazione di un proprio possibile attacco anti-Assad in caso di rinuncia USA...). Un imperialismo tedesco che cerca in ogni modo di preservare un proprio spazio di manovra autonomo verso la Russia e la Cina, in funzione dei propri interessi. Un imperialismo italiano che vorrebbe salvaguardare le relazioni commerciali con la Russia, ma dispone di una forza negoziale assai più limitata (anche per via della crisi politico istituzionale interna) e dunque obtorto collo segue gli USA. Chiedendo in cambio il sostegno americano nel contenzioso con l'imperialismo francese in Libia e in Africa.

Con l'attacco in Siria, Trump chiede a tutti i riottosi alleati della NATO un pronto riallineamento attorno agli USA, quale prima potenza mondiale. 'America first' significa anche questo.


CONTRO LA GUERRA, DA UN PUNTO DI VISTA CLASSISTA E INTERNAZIONALISTA

Da questo quadro generale emerge un dato inequivocabile. A confrontarsi oggi in Siria non sono la reazione e il progresso. Sono due diversi blocchi imperialisti e le potenze regionali loro alleate (o che sfruttano il loro conflitto), entrambi nemici dei lavoratori e dei popoli oppressi.

Non è certo fronte del progresso l'imperialismo “democratico” USA ed europeo, come vorrebbero settori delle leadership kurde nell'attesa di un proprio riconoscimento come debito di riconoscenza per la guerra all'ISIS. Ma non lo è neppure il neoimperialismo russo del bonaparte Putin, alleato dei peggiori nazionalismi xenofobi europei, o il regime reazionario di Teheran che impicca i sindacalisti e opprime le donne nelle forme peggiori. La verità è che entrambi i blocchi arruolano i lavoratori in un conflitto che non li riguarda, che ne fa carne da macello, e che viene per di più scaricato sul loro portafoglio.

Contro i due fronti imperialisti si tratta di ricostruire il punto di vista indipendente della classe lavoratrice e la sua solidarietà di classe internazionale. Ovunque. In Medio Oriente, dove solo la classe lavoratrice può dare uno sbocco progressivo alle aspirazioni delle masse oppresse, ponendosi alla testa delle rivendicazioni nazionali del popolo palestinese, del popolo kurdo, della nazione araba, contro ogni imperialismo e contro lo Stato sionista, nella prospettiva di una federazione socialista del Medio Oriente. Nei paesi imperialisti, dove solo il proletariato può rovesciare la dittatura di quella piccola minoranza di capitalisti e di banchieri che non solo sfrutta i propri operai ma opprime altri popoli e partecipa al saccheggio del mondo, anche attraverso le guerre.


PER UNA MOBILITAZIONE IMMEDIATA CONTRO LA GUERRA

È necessaria una immediata mobilitazione contro la guerra sul nostro fronte interno. Il nemico principale è in casa nostra. Negli Stati Uniti, nei paesi europei, nel “nostro” Paese. È urgente una mobilitazione larga, unitaria, di tutte le sinistre - politiche, sindacali, associative, di movimento - che rivendichi l'opposizione incondizionata all'attacco imperialista in Siria, il rifiuto di concedere le basi militari all'attacco, il rifiuto della NATO. Una mobilitazione che denunci il rapido e scontato allineamento agli USA di tutti i partiti borghesi che si candidano al governo del capitalismo italiano, a partire dal M5S, il più atlantista di tutti. Una mobilitazione che chieda l'iniziativa reale del movimento operaio e sindacale contro la guerra, ben al di là di platoniche prese di distanza.
Dentro questa mobilitazione unitaria porteremo il nostro punto di vista coerentemente classista, internazionalista, contro tutti gli interessi imperialisti che si muovono in Medio Oriente (e non solo). Disponibili a pubbliche iniziative comuni con tutte le forze che vogliano valorizzare insieme questo autonomo punto di vista classista.
Partito Comunista dei Lavoratori

La crisi politica italiana si avvita

Il M5S si candida a partito centrale del capitale

Dopo il voto del 4 marzo, la crisi politica italiana resta irrisolta. La Seconda Repubblica è caduta, ma la Terza Repubblica è ancora lontana dal delineare i propri equilibri. Il vecchio centro politico borghese, rappresentato in forme diverse dal PD e da Forza Italia, è crollato sotto il peso della prolungata gestione delle politiche d'austerità negli anni della grande crisi, e del fallimento impietoso del renzismo. Ma i grandi vincitori del 4 marzo – Movimento 5 Stelle e Lega - che hanno sicuramente capitalizzato quel crollo, faticano a trovare un quadro d'intesa. La Lega ha difficoltà a scaricare Berlusconi, perché non vuole disarmare la propria forza negoziale verso il M5S, e perché punta ad ereditarne i voti. Il M5S non può caricarsi sulle spalle la zavorra del Cavaliere, correndo il rischio di una immediata precipitazione d'immagine. Mentre il PD è attraversato da una guerra per bande di difficilissima composizione, e dagli esiti potenzialmente mortali.
In questo quadro, a un mese e mezzo dal voto, la Presidenza della Repubblica si trova in mano un pugno di mosche. Nessuna soluzione politica si è delineata, neppure in termini provvisori, mentre un rapido ritorno alle urne, con una legge elettorale immutata, rischierebbe di riproporre la medesima paralisi in un quadro ulteriormente logorato e drammatizzato. Da qui il possibile tentativo di una soluzione istituzionale della crisi nella forma del cosiddetto governo del presidente: quello per cui cui la Presidenza della Repubblica si erge al di sopra delle contraddizioni irrisolte tra le forze parlamentari per forzarle a un accordo sotto la propria garanzia e supervisione, avanzando direttamente una propria proposta di premier e di programma. Ma quale sarebbe la base parlamentare di appoggio di questo ipotetico governo, e quale il livello di coinvolgimento in esso dei partiti vincitori del 4 marzo? Una soluzione Monti, con ministri tecnici, appare sepolta dall'esperienza Fornero, mentre un coinvolgimento di Lega e M5S riproporrebbe i problemi irrisolti di bilanciamento ed equilibrio politico. In ogni caso, se a questo si arrivasse (e non è escluso), sarebbe una soluzione politica di breve durata, in attesa di nuove elezioni.


DI MAIO SI OFFRE AL GRANDE CAPITALE

Ma se è vero che il ginepraio della crisi politica non ha ancora trovato uno sbocco, è anche vero che è già ricchissimo di indicazioni. Una in particolare: è emersa nella forma più clamorosa il vero volto del Movimento 5 Stelle.

Tonnellate di demagogia sparse a piene mani in questi anni sono state smentite in pochi giorni. Il partito che rifiutava le alleanze coi partiti offre alleanze intercambiabili ad ogni partito. Il partito che anteponeva il programma alle poltrone è disposto a negoziare ogni programma pur di ottenere la poltrona decisiva: quella di Presidente del Consiglio. Più precisamente la presidenza di Luigi Di Maio. Se il PD accetta Di Maio premier, Di Maio è prontissimo a fare il governo col PD (Renzi incluso). Se è Salvini ad accettare Di Maio premier, Di Maio farà il governo con Salvini, campione xenofobo del centrodestra. Insomma, la più cinica spregiudicatezza in funzione di un obiettivo di potere, secondo la scuola consumata della tradizione borghese. Sarebbe questo il nuovo che avanza?

Ma non si tratta semplicemente di una spudorata disinvoltura. Si tratta di altro. Il nuovo corso di Luigi Di Maio candida il M5S a partito centrale della borghesia italiana, ad architrave della Terza Repubblica. Di fronte al crollo del vecchio centro politico borghese (PD e Forza Italia), il M5S si presenta al capitale finanziario, italiano ed europeo, come nuovo asse di riferimento: l'unico che può portargli in dote un consenso elettorale di massa, ed in particolare il controllo del Meridione. È l'obiettivo - sicuramente ambizioso - di una nuova DC. Il posizionamento politico centrale tra Lega e PD serve ad incarnare questo ruolo. Il profilo politico responsabile e istituzionale del M5S è l'abito pubblico di questo disegno.

Non è un obiettivo improvvisato. La Casaleggio Associati ha promosso con cura e da tempo l'interlocuzione con Confindustria, con i grandi azionisti, con i fondi esteri, con le ambasciate straniere, a partire dagli ambienti UE ed USA. A tutti ha offerto garanzie e fedeltà, in cambio di un riconoscimento politico. Questo è il vero “contratto di programma” di cui parla Di Maio: non un foglietto di impegni da esibire a Porta a Porta, di berlusconiana memoria - quella può essere al più la veste scenica, ma un patto sociale e politico con il capitalismo italiano e i suoi alleati nel mondo.
Alla UE viene offerta la garanzia della riduzione del deficit (entro l'1,5) e l'abbattimento del debito pubblico attraverso il suo pagamento (ben 40 punti di riduzione del debito pubblico sul Pil in dieci anni, più di quanto previsto dal Fiscal Compact). Agli USA viene garantita la fedeltà incondizionata al Patto Atlantico, con tutto ciò che ne consegue. Perché rifiutare l'occasione di tanta grazia?


IL GRANDE CAPITALE CAMBIA CAVALLO

La borghesia infatti risponde. Confindustria dichiara che il M5S è «una possibile opportunità». La Fiat (Marchionne) che «non c'è ragione di avere paura». La CEI che «c'è bisogno di una soluzione nuova». Tutti i poteri forti inviano propri emissari al convegno annuale della Casaleggio Associati a Ivrea per attivare relazioni, aprire canali, depositare richieste. Il padronato ha cambiato cavallo.

Tutto ciò ha un suo riflesso politico: la grande stampa borghese si è espressa a favore di un governo M5S-PD. Di Maio come presidente, il PD come controllore. La polemica con la parte renziana del PD che vorrebbe restare all'opposizione (per salvare se stessa) ha questo segno: “Il PD non deve arroccarsi, deve farsi coinvolgere, non può ignorare l'interesse nazionale per interessi di parte”. L'interesse nazionale è improvvisamente diventato Di Maio. Uno che ha dato garanzie affidabili al capitale, l'unico che può assicurargli la base di sostegno del 32% dei voti. Il PD deve solo arginare eventuali esuberanze residuali del nuovo centro pentastellato, mettendosi a sua disposizione. È non a caso la soluzione preferita da Mattarella, ed è la prima soluzione che lo stesso Di Maio ha proposto («senza preclusioni» per Renzi).


IL BLUFF DEL M5S È SVELATO

È vero, questa soluzione, per quanto preferita, è in realtà assai difficile. Sia per l'esiguità dei numeri parlamentari di una simile maggioranza (nonostante l'apporto già garantito del drappello di LeU), sia per le resistenze del campo renziano, molto forte al Senato, sia per il travaglio interno di un PD che fatica a trovare un asse alternativo di direzione. Il paradosso è che solo Renzi potrebbe intestarsi una svolta "aperturista" verso il M5S che possa essere gestita dal PD.

Ma resta, in ogni caso, il dato di fondo. Comunque vadano le cose, milioni di lavoratori e lavoratrici hanno votato il M5S come strumento di cambiamento, e si ritrovano un M5S quale strumento di conservazione. Il partito cosiddetto antisistema si candida a soluzione di sistema, mentre il famoso programma di svolta sta evaporando ogni giorno di più. Il reddito di cittadinanza si è già trasformato nel potenziamento del REI (reddito di inclusione) renziano. L'abolizione della Fornero nella sua timida “riforma”. L'abrogazione del Jobs Act è letteralmente sparita.
Il passo del gambero è rapidissimo, e tutto questo prima ancora di accedere al governo. È immaginabile il dopo.

Ecco allora la verità: il M5S ha preso milioni di voti tra gli sfruttati per portarli in dote ai loro sfruttatori. Le promesse erano solo menzogne e raggiro. Come il PCL, instancabilmente, aveva denunciato e previsto. Spesso controcorrente, anche all'interno della sinistra.
I fatti hanno la testa più dura delle parole, e spesso anche della memoria.

Partito Comunista dei Lavoratori