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Polarizzazione d'avanguardia e politica di massa

L'indirizzo del PCL nel nuovo scenario politico

18 Aprile 2018
Il 4 marzo ha segnato uno sconvolgimento profondo del quadro italiano. La crisi di consenso delle politiche dominanti e la crisi parallela del movimento operaio - combinandosi e sommandosi nei lunghi anni della grande crisi - hanno prodotto una risultante storica: da un lato il crollo del centro borghese in tutte le sue varianti (PD e Forza Italia), dall'altro la capitalizzazione a destra di questo crollo (M5S e Lega).

Al Nord (ma anche in aree crescenti del centro Italia) il capitalismo dei distretti ha trovato il proprio riferimento nella Flat tax della Lega, che ha costruito attorno a sé un blocco sociale vasto che coinvolge partite Iva colpite dalla crisi ma anche significativi settori di classe operaia industriale spesso dirottati contro gli immigrati e attratti dalla promessa dell'abolizione della Legge Fornero.
Al Sud ha sfondato il M5S con cifre da autentico plebiscito. Un M5S molto legato alla piccola borghesia delle libere professioni, che ha guadagnato la testa dei disoccupati e della popolazione povera del Mezzogiorno attorno alla bandiera del reddito di cittadinanza, ma che ha raggruppato anche la larga maggioranza del lavoro salariato dell'industria, e settori crescenti del pubblico impiego.
Nessuno dei due vincitori (M5S e Lega) è espressione diretta e organica dell'establishment. Entrambi coinvolgono nel loro insieme l'ampia maggioranza del proletariato italiano, e asfaltano la sinistra politica.


UNA CESURA PROFONDA COL PASSATO 
Questo scenario segna una cesura profonda col passato.
Il vecchio bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra che aveva incardinato la Seconda Repubblica è deceduto dopo lunga agonia. Ma al tempo stesso un nuovo equilibrio non è ancora nato, né si delinea. Né il centrodestra né il M5S appaiono in grado di comporre una propria maggioranza parlamentare, mentre una loro collaborazione di governo (pur ricercata) fatica a trovare uno sbocco.

Il M5S si offre alla borghesia italiana (e internazionale) come nuovo architrave della Terza Repubblica. Ma il suo spazio di manovra politico è limitato dalla combinazione di due rigidità difficilmente aggirabili: la necessità di guidare il governo, l'impossibilità di imbarcare Berlusconi. Dal canto suo, la Lega di Salvini non può scaricare Berlusconi se non amputando la propria forza negoziale e mettendo a rischio l'eredità dei suoi voti. Da qui la prolungata paralisi politica.

Senza entrare in previsioni di dettaglio, si impongono in ogni caso due osservazioni di fondo.
La prima è che difficilmente si prospetta una soluzione di legislatura. Le elezioni politiche anticipate (prima o dopo) sembrano inscritte nel risultato del 4 marzo.
La seconda è che l'Italia è l'unico paese imperialista nel concerto europeo nel quale la soluzione di governo è di fatto affidata a forze “populiste”, esterne al centro politico borghese.
Non sono aspetti irrilevanti, perché misurano una contraddizione evidente: la valenza di destra del voto del 4 marzo rafforza il padronato e la sua offensiva sui luoghi di lavoro, ma la borghesia accentua parallelamente la propria crisi di direzione sul piano politico. E l'accentua nel momento stesso in cui lo scenario mondiale sottolinea gli elementi di fragilità del capitalismo italiano (prossimo esaurimento del Quantitative Easing della BCE, ristrettezza dei margini negoziali di manovra sul terreno delle politiche di bilancio e della crisi bancaria, rischi connessi alla guerra commerciale tra blocchi imperialisti per un paese esportatore come l'Italia...).


L'INCOGNITA M5S NELLA TERZA REPUBBLICA 

A tutto questo si aggiunge un'incognita che va al di là della soluzione contingente della crisi politica. Il M5S è in grado di reggere sulle proprie spalle le responsabilità di pilastro della Terza Repubblica? Sicuramente è determinato a rivendicare quel ruolo, al prezzo del più grottesco trasformismo. Ma è attrezzato a reggere gli oneri enormi che l'esercizio di quel ruolo comporta?
È possibile. È possibile che la funzione plasmi l'organo in tempi più accelerati di quanto si pensi. Ma non sarà facile, per ragioni diverse tra loro combinate.

Il M5S non ha una classe dirigente sperimentata nell'amministrazione dello Stato borghese. Le difficoltà registrate nella giunta comunale di Roma sono solo una pallida anticipazione dei problemi ben più complessi che si presenterebbero su scala nazionale. Certo, il M5S può fare (ha già fatto e farà) una vasta campagna acquisti nel libero mercato delle professionalità di governo, imbarcando sul carro del vincitore la folta fila degli aspiranti al ruolo, più o meno improvvisati. Ma come conciliare l'acquisizione di forze esterne con la continuità della disciplina di setta, sotto il comando della Casaleggio Associati?

La seconda incognita, ben più rilevante, riguarda la tenuta del blocco sociale del M5S, nelle sue enormi contraddizioni. Il voto per il M5S del 4 marzo non è la fotocopia del 2013. Non solo, com'è ovvio, per le sue proporzioni, ma anche per il suo significato. Il 25% del 2013 esprimeva principalmente il segno del “vaffa”, del rifiuto dei vecchi partiti. Il 32% del 2018 esprime anche e soprattutto un'attesa, seppure passiva, di cambiamento sociale. Lo sfondamento del reddito di cittadinanza nella popolazione povera del Sud ha questo segno. Si può rispondere a quella domanda, fosse pure in modo distorto, dentro la camicia di forza di una crisi capitalistica irrisolta, e dentro spazi negoziali delle politiche di bilancio in sede UE resi più difficili dallo scenario interno tedesco (crescita dell'opposizione populista alla Merkel) e dagli equilibri europei (fronda rigorista a guida olandese)?

Fare la DC della Terza Repubblica è naturalmente un'ambizione legittima. Ma la DC prosperò non a caso nella stagione del boom, quando la prosperità capitalista offriva ampi margini di spesa clientelare e redistributiva. Fare la DC nell'epoca delle vacche magre è assai più difficile. Tanto più se le bandiere elettorali acchiappavoti (via il Jobs Act! via la Fornero! reddito di cittadinanza!) convivono con le promesse solenni fatte al capitale finanziario in termini di riduzione delle tasse sui profitti, eliminazione dell'Irap, abbattimento di 40 punti percentuali del debito pubblico sul Pil. Le stesse promesse che hanno lastricato la via dell'apertura padronale al M5S, proprio per questo difficilmente rimovibili, ancor più in presenza dell'agguerrita concorrenza salviniana (Flat tax, ecc.).

Tutto lascia credere dunque che un coinvolgimento di governo del M5S metterebbe a dura prova la tenuta del M5S e della sua base sociale. Ma attenzione. Chi pensa che queste difficoltà annunciate andranno di per sé a beneficio della sinistra politica e della sua ripresa rovescia l'ordine dei fattori. Solo una ripresa del movimento operaio sul terreno della lotta di classe può consentire una capitalizzazione a sinistra della crisi possibile del M5S. In caso contrario, in un quadro immutato di ripiegamento delle lotte di massa, una crisi del M5S potrebbe trovare a destra - a determinate condizioni - il proprio sbocco. Persino in una nuova ascesa del salvinismo (e, a rimorchio, di organizzazioni fasciste). Il crollo di consenso del renzismo, in un quadro di prolungata passività sociale, è precipitato a destra, non a sinistra. Perché la stessa dinamica non potrebbe ripetersi col M5S?

Non esiste dunque una dinamica oggettiva delle cose che di per sé possa risolvere i problemi dell'orientamento soggettivo della classe operaia e della sua avanguardia. Affrontare la questione della direzione della classe e del rapporto con la classe è tanto più nel nuovo scenario una questione centrale.
Su questo il Comitato Centrale del nostro partito ha impegnato la propria riflessione, definendo un orientamento generale di azione e proposta politica che approfondirà nella prossima fase.


CLASSE E POPOLO 
La prima questione che si pone all'avanguardia di classe è la propria autonomia politica dal populismo, in tutte le sue varianti e declinazioni.

Autonomia politica dal populismo significa più cose.
Innanzitutto una chiara e inequivoca contrapposizione al Movimento 5 Stelle. Il PCL ha fatto su questo versante una battaglia politica di lungo corso, in aperta controtendenza rispetto agli orientamenti ammiccanti verso il grillismo di settori significativi della sinistra riformista e centrista, o addirittura alle politiche di aperto sostegno politico ed elettorale al M5S anche da parte di forze d'avanguardia. A maggior ragione consideriamo fondamentale questa battaglia nel nuovo scenario politico.

Autonomia politica verso il grillismo implica intanto una netta collocazione di opposizione e demarcazione politica. L'esatto contrario della politica oggi seguita da Liberi e Uguali (Grasso) e della stessa Sinistra Italiana (Fratoianni). Che, non contenti della vecchia subalternità verso il PD e il centrosinistra, sbandierata nella stessa campagna elettorale, mimano oggi un'apertura parlamentare al M5S iscrivendosi in modo patetico al futuribile governo Di Maio. È il tentativo disperato di scampare al proprio naufragio provando a rientrare nel gioco politico parlamentare dalla porta di servizio. Una politica non solo suicida per chi la conduce ma disastrosa per il movimento operaio.

Ma autonomia dal populismo è una questione più ampia, che va ben al di là dell'opposizione al M5S. Investe la cultura profonda della sinistra politica e della sua avanguardia.
Il rimpiazzo della classe lavoratrice con il “popolo” ha marciato in questi anni in ambienti diversi della stessa avanguardia. Ha investito settori dell'avanguardia sindacale; ha conosciuto rivestimenti culturali e razionalizzazioni teoriche soprattutto da parte del sovranismo di sinistra (Formenti); ha trovato una sua traduzione nell'esperienza in corso di Potere al Popolo, e nei suoi riferimenti internazionali emergenti (Mélenchon). Oggi l'appello congiunto di Francia Ribelle, Podemos, Bloco de Esquerda “Per una rivoluzione democratica in Europa” (Dichiarazione di Lisbona), nel nome della “sovranità del popolo”, “al servizio del popolo”, ripropone e rilancia lo stesso canovaccio in vista delle elezioni europee.

Il PCL contrasta alla radice questa cultura, e propone a tutte le avanguardie di classe, ovunque collocate, una battaglia comune su questo versante.

Non siamo economicisti, siamo comunisti. Sappiamo che la costruzione di un blocco sociale alternativo deve coinvolgere tutte le domande ed istanze delle masse oppresse, anche non direttamente classiste (sociali, di genere, democratiche, ambientaliste...). Istanze che riguardano non solo il proletariato, ma una più ampia massa di popolo. Ma il punto decisivo è quale classe prende la testa del “popolo” e quale traduzione dà alle sue istanze. Perché il popolo come soggetto indistinto al di sopra delle classi e della loro lotta non esiste nel mondo reale, esiste solo nella metafisica borghese. Nel mondo reale o è la classe dei lavoratori salariati che egemonizza la massa popolare nella dinamica della propria lotta (in funzione, per parte nostra, di una prospettiva anticapitalista), oppure sono e saranno le forze di altre classi a subordinare il popolo al capitale, dissolvendo in esso la classe operaia come massa anonima e atomizzata. Questo è il bivio.


POPULISMO DI SINISTRA E SOVRANISMO. PER UNA POLARIZZAZIONE CLASSISTA NELL'AVANGUARDIA 

Questa duplice subordinazione - della classe al “popolo”, e del “popolo” al capitale - può certo avvenire in forme diverse.
Può avvenire in forme reazionarie, come rivela la marea del populismo di destra (lepenismo, salvinismo...), in chiave prevalentemente anti-immigrati. Può avvenire in forme ibride che combinano posture progressiste e vocazione reazionaria, come nel caso del populismo digitale anti-casta a 5 Stelle. Ma può anche avvenire in forme democratiche, come recita il populismo di sinistra di Podemos e Mélenchon, che rimpiazza i confini tra sinistra e destra nel nome della contrapposizione tra oligarchia e popolo, ed espelle la bandiera rossa dalle proprie manifestazioni.

Questo populismo di sinistra non è solo una mistificazione teorica, è un fenomeno politico. Può a volte registrare in forma distorta dinamiche sociali progressive (Podemos è stato anche un sottoprodotto degli indignados, Mélenchon ha anche capitalizzato sul piano elettorale la primavera di lotta del 2016). E tuttavia le subordina alla cultura interclassista del senso comune dominante, che a sua volta contribuisce a nutrire.

In Italia il populismo di sinistra ha allargato il proprio spazio politico - non a caso - grazie alla combinazione di due fattori: un riflusso prolungato del movimento operaio che non ha paragoni tra i paesi imperialisti dell'Unione Europea e il crollo parallelo di Rifondazione Comunista.
Rifiuto dei partiti, demonizzazione della politica nel nome della società civile, sostituzione della classe con la "cittadinanza" progressista o antagonista - in definitiva con il “popolo” - hanno trovato qui la propria radice, col contributo operoso dei dirigenti in disarmo di Rifondazione (blocco giustizialista con Di Pietro, lista civica con Ingroia, lista Tsipras con Barbara Spinelli). Potere al Popolo è l'ultima variante, con declinazione sociale e di sinistra, di questo spartito. Il Fatto Quotidiano, il giornale oggi più diffuso a sinistra, ne è invece la declinazione moderata, pro-grillina e manettara.

Questo spartito del populismo progressista, nelle sue varie forme, non è innocente. È stato al tempo stesso effetto e concausa dello smottamento ulteriore della sinistra politica e dello sfondamento populista anche in settori di avanguardia. La breccia aperta a sinistra dalla tematica del sovranismo è in questo senso emblematica.

Populismo e sovranismo si tengono insieme, anche quando declinati in chiave progressista. Quando si dissolve la classe nel popolo, la bandiera del popolo diventa quella della nazione. E se la nazione è imperialista diventa quella del proprio imperialismo e del proprio Stato. Podemos ha contrapposto la “sovranità democratica” della Spagna al diritto di autodeterminazione della Catalogna. Francia Ribelle di Mélenchon rivendica la proprietà francese della Guyana con tanto di sventolio del tricolore e della tradizione nazionale. Potere al Popolo ha una cifra diversa, ma si richiama pubblicamente a Mélenchon, e ospita al proprio interno le posizioni dichiaratamente sovraniste di Eurostop, che nel dicembre 2016 protestava davanti all'ambasciata tedesca rivendicando la sovranità mutilata dell'Italia.
Resta in ogni caso un fatto abnorme: l'esistenza stessa dell'imperialismo italiano viene rimossa proprio negli anni in cui l'Italia compete con l'imperialismo tedesco nei Balcani e sgomita con l'imperialismo francese in Nord Africa. In compenso, l'economista Bagnai, reverito per anni in tanti i convegni come icona del sovranismo di sinistra (contro i pregiudizi ideologici dei trotskisti), è finito deputato di Salvini. E rivendica, a buon ragione, la continuità dei propri argomenti, candidandosi a un ruolo di cerniera verso M5S e... “sinistra”, nel nome dell'"interesse nazionale" dell'Italia.

Questo mixage di populismo e sovranismo, con i suoi risvolti trasformisti più o meno grotteschi, plasma immaginari e riflessi condizionati diffusi.
È significativo che oggi in Italia persino nel senso comune di estrema sinistra la rappresentazione dell'Italia “schiava di Bruxelles” e della Germania sia spesso più popolare e comprensibile di quella che contrappone operai e padroni. La lotta dei metalmeccanici tedeschi è passata non a caso sotto silenzio. Parallelamente, la fascinazione esercitata dal putinismo in chiave anti-USA - dentro la rappresentazione campista del mondo - è la rimozione non solo della sua realtà reazionaria (e neoimperialista) ma anche delle difficili lotte controcorrente dei proletari russi. Nei fatti la sussunzione indistinta dei salariati nel popolo diventa una linea di frattura silenziosa con i salariati degli altri paesi e con altri popoli oppressi, in subordine al proprio imperialismo o a quello altrui.

L'influenza populista a sinistra pervade peraltro altri terreni, non meno insidiosi. La tesi dell'”immigrazione clandestina” come progetto del capitale globale (Diego Fusaro), l'idea dell'arretratezza della battaglia antifascista (Marco Rizzo) a fronte della centralità della contrapposizione a Bruxelles, l'idea dei diritti civili di omosessuali e transessuali come diritti “borghesi” contrapposti ai diritti sociali (ancora Marco Rizzo), sono tra loro sicuramente diverse, e hanno spazi diversi di diffusione a sinistra, ma hanno tutte una superficie contigua col pensiero corrente dominante, oggi arato da ideologie populiste regressive. Ed hanno aperto a sinistra brecce impensabili dieci anni fa.

La verità è che il superamento della distinzione tra destra e sinistra, caro alle peggiori ideologie reazionarie, diventa la forma ideologica di penetrazione delle categorie della destra nel campo della sinistra e della sua stessa avanguardia. Il populismo di sinistra ne è il veicolo. Più o meno mediato, più o meno inconsapevole, ma non casuale.

Per questa ragione la battaglia classista antipopulista, nel campo stesso dell'avanguardia della classe lavoratrice e dei movimenti sociali, assume una valenza politica centrale. È una battaglia controcorrente per lo sviluppo della coscienza. Segna una prima linea di demarcazione e di raggruppamento che il PCL perseguirà con coerenza. Una linea di polarizzazione classista, anticapitalista, internazionalista, che ricercherà possibili unità d'azione su questo fronte con altre organizzazioni classiste, e che interverrà sulle contraddizioni di Potere al Popolo in un rapporto di interlocuzione aperta con i settori di avanguardia che questo raccoglie.


AVANGUARDIA E MASSA. POPOLO DELLA SINISTRA E POPOLO PENTASTELLATO 

La seconda questione che si pone all'avanguardia di classe è quella della proiezione di massa e della proposta di massa.

La rigorosa delimitazione dell'avanguardia da ogni declinazione di populismo non deve significare avanguardismo. Al contrario. Ha senso solo in funzione della più ampia proiezione verso la maggioranza della classe e degli oppressi al fine di sviluppare loro azione di massa e la loro coscienza politica.

Nei dieci anni del grande riflusso del movimento operaio italiano si è allargata la divaricazione tra l'avanguardia e la massa. Tra le decine di migliaia di militanti e attivisti della classe lavoratrice e dei movimenti sociali che in forme diverse preservano una linea di resistenza e conflitto, e la grande massa dei 17 milioni di salariati. In parte (e soprattutto) è una divaricazione fisiologica trascinata dalla dinamica di passivizzazione, ma in parte è stata ed è l'effetto di una cultura minoritaria dei gruppi dirigenti dell'avanguardia (sindacali e politici) che si è sovrapposta a quella dinamica oggettiva e l'ha approfondita: si tratta della propensione all'autorappresenzazione dell'avanguardia come massa, del proprio sciopero di sigla come sciopero “generale”, del proprio movimento o manifestazione come “il” movimento di massa. La gioia ostentata dai dirigenti del Potere al Popolo dopo l'1% dei voti, sullo sfondo dello sfondamento salviniano e grillino, è in fondo un riflesso della stessa cultura.

Questa cultura dell'autorecinzione non è un'espressione di radicalità ma di moderazione. Confessa non solo la rinuncia alla prospettiva di rivoluzione - che è di massa o non è - ma la stessa rinuncia ad una svolta della lotta di classe, a favore del ripiegamento nella propria nicchia (più o meno) “antagonista” in funzione della conservazione del proprio spazio. Una logica tanto più negativa in un quadro di riflusso del movimento di massa e di arretramento profondo della coscienza di classe.

Il PCL esprime un indirizzo di segno opposto, di azione e proposta.
La funzione dell'avanguardia non è quella di separarsi dalla massa, ma di sviluppare la sua coscienza, elevare il livello della sua azione, conquistarne in prospettiva la direzione. Quanto più la massa arretra tanto più è importante preservare ogni possibile spazio e canale di relazione con la massa per contrastare quell'arretramento e creare le condizioni di una ripresa. Così è sempre stato nella storia migliore del movimento operaio, così è oggi in Italia.

Rapportarsi alla massa significa partire innanzitutto dalla sua realtà.
La massa non è una dimensione uniforme ma stratificata. Non solo per condizioni sociali, ma per livelli di coscienza, esperienza, sentimenti, tradizioni. Ciò vale per la massa dei salariati come vale più in generale per le masse oppresse.
Su questo terreno assistiamo in Italia a modificazioni profonde, che il voto del 4 marzo ha registrato. Il popolo della sinistra (quello, per intenderci, che vive una relazione soggettiva, in forme diverse, con la tradizione del movimento operaio) non è scomparso. Nel milione e mezzo di voti riportato dalle liste della sinistra c'è un lascito importante di quella storia. Ma per la prima volta nella storia d'Italia la sinistra politica nel suo insieme scende sotto il 5% dei voti. È un dato unico tra i paesi imperialisti della UE. Misura il ripiegamento del popolo della sinistra in un bacino di avanguardia, sia pure di massa, mentre la grande maggioranza della massa, a partire dai proletari stessi, si rivolge a partiti populisti, soprattutto (ma non solo) al M5S.
Di più. Attorno al M5S è confluito elettoralmente un settore importante dello stesso vecchio popolo della sinistra che, disarmato dall'irriconoscibilità e dalle compromissioni della sinistra, ha cercato e cerca nel M5S un'alternativa, in non pochi casi “una sinistra vera”. Non è certo questo un fatto positivo, non riflette affatto una radicalizzazione nei comportamenti sociali, semmai spesso una passivizzazione ulteriore. Ma resta un fatto. Un fatto da assumere nell'orientamento dell'avanguardia: l'avanguardia di classe, politica e sindacale, non può oggi sviluppare una battaglia di massa nella stessa classe operaia senza parlare alla base di massa del M5S.

In altri termini, nello stesso momento in cui s'impone la più netta opposizione e denuncia controcorrente della realtà del M5S, è necessario tracciare un canale di comunicazione con la base di massa che l'ha votato. Ciò che pone anche un problema di innovazione di linguaggio e comunicazione, non per adattarsi alla rappresentazione populista, ma per combatterla e sradicarla.


LA SELEZIONE DELLE PAROLE D'ORDINE. DISARTICOLARE I BLOCCHI SOCIALI POPULISTI PER UN FRONTE UNICO DI MASSA

Rapportarsi alla massa significa selezionare le parole d'ordine.
La battaglia anticapitalista per il governo dei lavoratori resta l'asse centrale della propaganda rivoluzionaria, cui il PCL riconduce in ultima analisi ogni intervento di massa, assieme alla propaganda, ad essa connessa, delle rivendicazioni transitorie. Ma l'intervento di massa non si riduce alla propaganda (centrale) della rivoluzione sociale. È necessario tracciare un piano di rivendicazioni immediate che traducano e introducano quel programma sapendo parlare e comunicare alla massa e al suo immaginario. Un piano di rivendicazioni che sappiano entrare nelle stesse contraddizioni dei blocchi sociali reazionari col fine di portarle a rottura in funzione di un blocco sociale alternativo.

I poli populisti hanno sfondato nella classe lavoratrice brandendo non solo la clava anti-immigrati o anti-casta, ma anche obiettivi di ampio richiamo sociale, alcuni persino formalmente “classisti”. L'abolizione della Legge Fornero è stata il chiavistello della Lega in settori consistenti della classe operaia del Nord. Il cosiddetto reddito di cittadinanza (reddito minimo a 780 euro) è stata la bandiera del plebiscito grillino presso i disoccupati e la popolazione povera del Meridione. Sia la Lega che il M5S hanno formalmente sventolato nel proprio programma l'abolizione del Jobs Act. Il M5S ha addirittura rivendicato nel proprio programma (poi sbianchettato) la riduzione dell'orario di lavoro. Insomma: per coinvolgere le classi subalterne nei proprio blocco reazionario, i partiti populisti hanno dovuto “legittimare” rivendicazioni progressive, per quanto distorte, facendone bandiera del proprio successo e innescando perciò stesso una aspettativa, per quanto passiva. Al tempo stesso, è del tutto evidente che nessun partito dominante può attuare realmente quelle misure, a partire dal M5S. È una contraddizione potenzialmente esplosiva.

Entrare allora in questa contraddizione da un versante di classe è centrale nel nuovo scenario politico. Non si tratta di alimentare l'aspettativa di massa nei partiti populisti, ma di far leva (anche) su quell'aspettativa ai fini del rilancio di un movimento autonomo di classe e di massa, fuori e contro di essi.

La rivendicazione dell'abrogazione del Jobs Act, e dunque del ripristino dell'articolo 18, può essere rilanciata su basi indipendenti e ricondotta alla parola d'ordine della cancellazione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro.
La parola d'ordine dell'abolizione della legge Fornero (con pensione a 60 anni o 35 anni di lavoro) può essere ripresa e collegata alla rivendicazione della riduzione generale dell'orario di lavoro a 32 ore a parità di paga.
La rivendicazione del reddito minimo (che nella versione a 5 Stelle è strumento di generalizzazione del lavoro precario e sottopagato) può essere trasformata nella parola d'ordine di un vero salario dignitoso per i disoccupati.
Ogni bandiera sociale sollevata strumentalmente dai populisti come strumento di raggiro va ripulita e piegata contro la politica reale e i programmi reali dei populisti. E attorno a queste bandiere va rivendicata una vertenza generale unificante dell'intera classe lavoratrice, della massa dei lavoratori precari e dei disoccupati, preparando le premesse di movimenti reali di lotta. Perché ad esempio non provare a lavorare nel Sud a un movimento reale di disoccupati attorno all'obiettivo di un salario dignitoso, con la creazione e il coordinamento di specifici comitati?

Non si tratta di chiedere al M5S (e tanto meno alla Lega) di mantener fede alle promesse, ciò che significherebbe spacciare per buone quelle promesse, avallare gli equivoci, coprire le illusioni. Si tratta di fare esattamente l'opposto: usare (anche) quelle promesse per denunciare la realtà dell'inganno populista, ricomporre l'unità tra gli sfruttati che il populismo vuole divisi (tra Nord e Sud, tra occupati e disoccupati), preparare il terreno di una svolta di lotta generale, unitaria e di massa, che è e resta la dimensione di lotta necessaria per incidere sui rapporti di forza complessivi, e ricomporre un blocco sociale alternativo.


LA NUOVA IMPORTANZA DELLA BATTAGLIA IN CGIL CONTRO LA BUROCRAZIA SINDACALE 

Rapportarsi alla massa significa battersi per una linea di classe in ogni organizzazione di massa.
Dentro il lungo ripiegamento del movimento operaio e la disgregazione della sinistra politica, la CGIL è rimasta di fatto l'unica organizzazione di massa dei lavoratori salariati. La battaglia di classe e anticapitalista all'interno della CGIL ha un'importanza maggiore di ieri.

La burocrazia dirigente della CGIL è la principale responsabile della disfatta del movimento operaio negli anni della grande crisi, e non solo. Non ha solo svenduto le ragioni del lavoro al padronato, dando semaforo verde alla Legge Fornero e aprendo la diga alla deroga dei contratti nazionali di lavoro e al welfare aziendale, ma ha spezzato ogni dinamica di resistenza e conflitto: ha portato su un binario morto il movimento di opposizione al Jobs Act, ha disperso nel nulla il più grande sciopero generale della scuola del dopoguerra, ha sistematicamente bloccato e isolato le mille vertenze di fabbrica portandole una dopo l'altra alla sconfitta. La conseguenza non è stata solo sindacale, ma politica. Lo sfondamento del populismo nella grande massa dei salariati ha nella linea CGIL la principale responsabile.

Questa linea di fondo non è reversibile. È il codice di una burocrazia che ha come bussola la collaborazione organica col padronato, come mostra una volta di più il recente accordo quadro tra sindacati e Confindustria. Le illusioni spese a piene mani in anni recenti nel gruppo dirigente della FIOM (Landini) come possibile contraltare alla burocrazia si sono scontrate con la realtà del gioco burocratico di chi non ha esitato a regalare ai padroni il peggior contratto dei metalmeccanici pur di entrare in Segreteria CGIL e aspirare alla guida della confederazione.

Ma la CGIL non è solo la sua burocrazia. È anche il luogo in cui si concentra la maggioranza delle masse sindacalmente attive, a partire dai salariati dell'industria, senza le quali è difficile immaginare un'azione generale vincente sul terreno della lotta di classe, a maggior ragione una prospettiva anticapitalista. Per questo la battaglia in CGIL non ha e non deve avere un carattere “residuale”: è parte inseparabile tanto più oggi di una battaglia politica di massa per un'altra direzione del movimento operaio.

La battaglia de “Il Sindacato è un'altra cosa” in occasione del prossimo congresso della CGIL è in questo quadro di grande importanza. È una battaglia che non si limita al terreno congressuale. Si tratta di una tendenza classista che si è assunta le proprie responsabilità in campo aperto tra i lavoratori, a partire dall'opposizione nelle assemblee e nei referendum aziendali nei confronti di contratti capestro, come è stato con un ruolo centrale tra i lavoratori metalmeccanici: le percentuali rilevanti del no all'accordo in numerose grandi fabbriche sono soprattutto un risultato di questa battaglia. Oggi questa battaglia di massa trova la sua naturale continuità e coerenza nel congresso CGIL attorno a un documento alternativo. Per questo il PCL sostiene e sosterrà tale battaglia col massimo impegno dei propri militanti e iscritti.

Non si tratta di confinare nella sola CGIL l'impegno sindacale classista di avanguardia, che oggi trova la propria espressione in una pluralità di organizzazioni sindacali. Il nostro stesso partito ha una presenza articolata anche nei sindacati di base, in particolare tra quelli di impostazione più apertamente classista. Ma in ogni sindacato classista poniamo l'esigenza della ricomposizione di un fronte di massa, della rifondazione democratica e classista di un sindacato di massa, di una linea d'azione e programma anticapitalista. Una prospettiva inseparabile dalla battaglia centrale in CGIL contro la sua burocrazia dirigente, oggi condotta dall'opposizione interna a questo sindacato.

Al tempo stesso, nel nuovo scenario politico, la battaglia contro la burocrazia CGIL non può limitarsi al solo piano sindacale. La CGIL è oggi l'unica organizzazione che per il suo insediamento potrebbe attivare un'opposizione di massa al populismo vincente del 4 marzo. L'esatto opposto delle attuali aperture CGIL a un governo M5S-PD, in linea guarda caso con la borghesia italiana. Si tratta allora di chiamare pubblicamente la CGIL alle sue responsabilità politiche di opposizione, a fronte della disgregazione della sinistra; di incalzare le sue contraddizioni sul piano politico; di sviluppare anche per questa via la coscienza dei settori più avanzati della sua base di classe attorno alla necessità di una alternativa politica di direzione del movimento operaio. Che è un aspetto decisivo per la stessa rifondazione sindacale.
Marco Ferrando

AMAZON:Ipersfruttamento, controllo pervasivo, precarietà e ricatto


L'azienda multinazionale agisce con i pieni poteri concessi dal JobsAct nella giungla del libero mercato.


E' ormai noto a tutti coloro che non vogliono chiudere gli occhi davanti all'evidenza cosa significhi lavorare nei settori della logistica e affini nell'era della precarietà assoluta, dello smantellamento dei diritti sindacali, del logoramento delle condizioni salariali, dell'aumento dei carichi di lavoro accompagnato dai tagli al personale e dall'aumento della disoccupazione, del sindacalismo addomesticato e neutralizzato a semplice gestore del malcontento nei processi di aggressione frontale da parte di padronato e amministrazioni.

Turni massacranti e ritmi alienanti e pericolosi per la salute; continue pressioni ad uscire al di fuori dell'orario di lavoro ordinario per sopperire ad una organica e voluta carenza di personale per poter aumentare le quote di profitto estrapolate dal lavoro dei dipendenti; precarietà in crescita che aumenta masse di lavoratori ricattabili a cui è possibile chiedere ogni tipo di prestazione extra e, perchè no, illegittima, non retribuita o in nero; controllo pervasivo dei movimenti, dei ritmi, dei minimi errori, del livello di produttività e degli obiettivi senza la minima considerazione delle variabili umane (stanchezza, malattia, genitorialità, distrazione, fatica etc); pause negate e criminalizzate.

Così, da varie inchieste, emergono dati sconcertanti: turni fino a 55 ore settimanali e fino a 10 ore consecutive; dai 6 ai 9 secondi per imballaggio a disposizione per raggiungere obiettivi di 300 articoli all'ora, non più di 30 secondi per l'impacchettamento; lavorazioni a cottimo che possono portare il pagamento a 8 centesimi a "pezzo"; ritorsioni, sanzioni disciplinari e mobbing contro chi non garantisce piena disponibilità ad ogni tipo di pressione o richiesta.

A documentare questi dati sono le testate giornalistiche più importanti, alcune sicuramente interessate a colpire un concorrente dei propri finanziatori, semplicemente perchè questi ultimi vorrebbero poter accedere e raggiungere lo stesso livello di aggressione, temendo però l'eccessiva spudoratezza del nuovo magnate del settore. Le inchieste perciò arrivano dal NewYorkTimes, dal Mirror, dal Guardian, da Linkiesta, da LaStampa, dall'Espresso etc.

L'altro dato, non meno importante, riguarda le relazioni sindacali. L'azienda regolarmente rifiuta, nega o rimanda gli incontri con i sindacati, anche i concertativi ed "affidabili" CGIL-CISL-UIL, tentando di delegittimare lo strumento della contrattazione collettiva e del confronto con i lavoratori in quanto classe, ricercando il diretto contatto e "dialogo" con il singolo lavoratore, per "accoglierne" le esigenze riconducendole e corregendole entro la logica aziendale, per farlo ragionare su quanto i disegni siano più grandi e di come la grande famiglia possa sopravvivere solo con i sacrifici e gli sforzi di tutti. Poco importa se questi "sforzi" ricadano esclusivamente su lavoratori da 1.000 euro netti al mese, i benefici si concentrano tutti nel patrimonio di Jeff Bezos che si stima tra i 105 (stima Bloomberg) e i 125 (Stima Forbes) miliardi di dollari.

Tutto ciò non è nulla di nuovo, e non è nemmeno patrimonio esclusivo di Amazon e del patron Jeff Bezos, che su questo impero di sfruttamento di avanguardia si è costruito il patrimonio e la ricchezza che lo ha portato al primo posto nella classifica degli uomini più ricchi del mondo. Condizioni e tendenze simili, in alcuni casi anche peggiori, sono registrabili in tutte le aziende di logistica in cui la giungla delle cooperative rende il tutto anche più intricato e continuamente spinto oltre ogni parvenza di distinzione tra legalità e illegalità, con vere e proprie truffe ai danni dei lavoratori e della previdenza pubblica. E' così quindi in TNT, DHL, BRT, SDA, FedEx, FERCAM etc. Lo sta diventando anche nella più grande azienda italiana, al momento ancora sotto controllo pubblico, il Gruppo PosteItaliane (proprietario al 100%, peraltro, di SDA).

Ora sconcerta l'ultima grande invenzione e brevetto che in casa Amazon vogliono far proprio: il braccialetto per il controllo dei movimenti, dei ritmi e delle azioni del dipendente, un braccialetto che possa inviare anche vibrazioni e messaggi al lavoratore non appena commetta un errore o faccia qualcosa di non permesso dall'azienda. Insomma si passa dal lavoro schiavizzato al lavoro del controllo pervasivo e totalitario, la robotizzazione dell'essere umano trasformato in un carcerato controllato sul lavoro e, perchè no, attraverso social e tecnologie, nel privato (non sono rari i casi di regolamenti interni aziendali in cui si avvertono i dipendenti di sanzioni in caso di diffusione di informazioni o commenti che possano danneggiare l'immagine dell'azienda sui social – per cui non solo non è possibile scioperare e sindacalizzarsi ma addirittura nemmeno lamentarsi delle condizioni di lavoro).

l' ipocrisia peggiore si registra nel coro dei vari esponenti dei partiti confindustriali e padronali, nella maggior parte dei casi gli stessi che si sono fatti promotori e sostenitori di politiche e decreti sul lavoro che hanno incentivato e permesso tutto questo, dando mano libera e carta bianca alla costante tendenza del mercato e dei capitali di schiacciare e schiavizzare il mondo del lavoro per poter estrapolare quote sempre maggiori di profitto e sfruttamento. A partire proprio dagli esponenti del Partito Democratico il cui Jobs Act, assieme al decreto Poletti, ha aperto alla totale precarizzazione del lavoro trasformando in precario anche il contratto a tempo indeterminato grazie alle "tutele crescenti", ha cancellato la possibilità di vedere un reintegro in caso di licenziamenti illegittimi con la cancellazione dell'art.18 e ha allargato la platea di giustificazioni aziendali con cui coprire tagli e licenziamenti, prima illegittimi, rendendo quasi incontestabili legalmente gli esuberi di massa e lo scarico sui lavoratori dei rischi aziendali. Infine, proprio il JobsAct, ha aperto alla possibilità per le aziende di controllare il lavoratore a 360°, dagli spostamenti alle comunicazioni private.

Non per nulla già un primo sciopero su questo tema si registrò il 24 Marzo 2015 in Fincantieri, sciopero che coinvolse i cantieri di Muggiano (La Spezia), di Riva Trigoso e di Sestri Ponente, perchè l'azienda voleva installare dei microchip negli scarponi dei lavoratori per controllarne spostamenti e ritmi.

Non solo. Questi governi, con il consenso bipartisan, hanno neutralizzato legalmente il ruolo del sindacato relegandolo a semplice sottoscrittore delle scelte padronali, accolto ai tavoli di trattativa solo se accetta la condizione di ricoprire il ruolo ritagliato nel teatrino delle trattative per smussare alcuni angoli, far fare qualche sfogo illusorio ai propri iscritti con qualche ora di sciopero isolata e portare a compimento i progetti aziendali e governativi. Tutte le sigle che non stanno a questa logica saranno escluse aprioristicamente dai salotti delle chiacchere concertative, tutti i lavoratori che esprimono risentimento e conflittualità che possono mettere in discussione questo copione devono essere prima di tutto "ricondotti a ragione" dai sindacati e, se questo non bastasse, isolati, sanzionati o lasciati a casa.

Oggi però tutti, in campagna elettorale, si indignano ed esprimono parole di sconcerto per le condizioni di quei lavoratori e di quelle lavoratrici eppure tutti sono responsabili delle politche di aggressione al mondo del lavoro di questi ultimi 40 anni, da Liberi&Uguali fino a Fratelli d'Italia. A questi si aggiungono coloro che si sono presentati alle porte della politica come movimento "antisistema" e i cui esponenti, oggi per domani, corrono nei principali salotti e club della borghesia nazionale e internazionale ad assicurare la propria affidabilità nel guardare agli interessi del profitto, delle speculazioni e dello sfruttamento, proprio come sta dimostrando DiMaio per il Movimento5Stelle e Salvini per la LegaNord (ormai non più Nord e già ampiamente organica alle politiche di aggresione del lavoro portate avanti dai governi di Centrodestra).

Solo un programma rivoluzionario e anticapitalista può dare una prospettiva di miglioramento a questi lavoratori. Solo la prospettiva di un fronte unico di classe e di massa, che riunisca tutto il mondo dei lavoratori e delle lavoratrici contro il blocco delle borghesie e della finanza, sopra la spinta di uno sciopero generale ad oltranza, può rispondere a questi attacchi con una forza in grado di far indietreggiare la classe padronale e rilanciare la conquista di diritti e condizioni dignitose.
Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici può garantire l'applicazione di misure efficaci come le nazionalizzazioni senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori, la riduzione dell'orario di lavoro con l'istituzione di un salario minimo garantito, la cancellazione della precarietà e della disoccupazione. Solo una Sinistra Rivoluzionaria può farsi portavoce di queste istanze, e il PCL è in prima linea nell'affermare questa necessità e nel darle concretezza programmatica in questa prossima campagna elettorale, come in ogni terreno d'intervento del nostro partito.
Partito Comunista dei Lavoratori

Le ragioni di un programma rivoluzionario

 Il tema del programma acquista durante le tornate elettorali una notevole attenzione e un vasto uditorio. È utile approfittare di questo momento per fare chiarezza su quali sono le ragioni di un programma rivoluzionario, cosa lo contraddistingue e a che cosa serve. Questo è fondamentale soprattutto a sinistra, per fare chiarezza tra un programma di rivoluzione sociale e tutte le diverse declinazioni di illusioni riformiste

IL PROGRAMMA E LE RIVENDICAZIONI 

Durante le elezioni quasi tutti i programmi si configurano come un lungo elenco di rivendicazioni. Il punto cruciale da osservare è che una rivendicazione, pur radicale, non serve a qualificare un programma come rivoluzionario. Di più; un insieme di rivendicazioni radicali, da solo, non si qualifica come un programma rivoluzionario. È importante capire questo punto, per capire le ragioni di un programma rivoluzionario.

Una rivendicazione che viene percepita dal senso comune come particolarmente radicale è quella della nazionalizzazione. È una parola d'ordine che accomuna i programmi di diverse liste e anche di diversi riferimenti internazionali. Nel programma di Potere al Popolo si parla di “ripubblicizzazione delle industrie e delle infrastrutture strategiche privatizzate negli anni passati“; il laburista Jeremy Corbyn, cui Liberi ed Uguali cerca esplicitamente di riferirsi, rivendica la “nazionalizzazione di imprese vitali come acqua, energie, trasporti” e “istruzione universitaria gratuita” rivendicazione ripresa pari pari da Grasso; lo stesso Melenchon nel suo programma per le presidenziali francesi, parlava di “Nazionalizzazioni possibili in caso di interesse generale dello Stato“.

La nazionalizzazione dunque, riportando alcuni settori strategici nelle mani dello stato, configura il programma di cui fa parte come un programma rivoluzionario? La risposta è ovviamente negativa.

Per una duplice ragione.

In primo luogo se la nazionalizzazione non è esplicitamente rivendicata come senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori, non entra minimamente in conflitto con la proprietà dei mezzi di produzione dei soliti pochi padroni, imprenditori, capitalisti, cui viene elargito in cambio un sostanzioso indennizzo, come per altro previsto dalla stessa Costituzione. L'indennizzo e l'assenza di controllo operaio sulla produzione ha come conseguenze che da un lato assicura ai padroni un compenso economico che sarà presto reinvestito in altri settori, dall'altro che non c'è un passaggio di proprietà da una classe (i padroni) ad un altra (i lavoratori), ma lo stato si fa garante della proprietà privata, in attesa di poterla riconsegnare ai suoi padroni borghesi, come il record di privatizzazioni operate in Italia negli ultimi vent'anni ha drammaticamente confermato.

In secondo luogo, una singola rivendicazione radicale, fosse anche una di quelle centrali (che intervenga cioè sul sistema bancario o su un settore industriale strategico) fino alle sue estreme conseguenze (l'esproprio), non configura da sola un programma rivoluzionario. Perché? Su questo punto si darà più lunga spiegazione in un paragrafo successivo dedicato, ma qui si possono anticipare due temi centrali, che si intrecciano tra loro: in prima istanza le istituzioni borghesi non sono il terreno di trasformazione sociale. Nessun programma di riforma radicale opererà mai, attraverso il parlamento borghese, una trasformazione sociale o un passaggio di potere da una classe ad un'altra, in secondo luogo e come in parte implicato dal primo passaggio, non ci sarà alcuna trasformazione sociale senza il coinvolgimento della massa di salariati senza, cioè, la discesa in campo dei lavoratori con la loro forza organizzata, che spezzino le istituzioni borghesi e ne costruiscano di nuove, basate sulla loro autorganizzazione a partire dai luoghi di lavoro. Il programma rivoluzionario deve cioè convincere e dunque ottenere la simpatia non della maggioranza di generici elettori, ma la maggioranza dei lavoratori.

Se una singola rivendicazione radicale non trasforma un programma in un programma rivoluzionario, nemmeno un insieme di rivendicazioni radicali è sufficiente a configurare un programma rivoluzionario.

Un programma come quello di Potere al Popolo, molto lungo e dettagliato, contiene molte rivendicazioni anche radicali, ma l'insieme di queste rivendicazioni non trasforma quella proposta in un programma rivoluzionario, vediamo perché.

Scorrendo le rivendicazioni ci imbattiamo in alcune proposte che tutti nella sinistra radicale trovano accettabili, persino di buon senso: cancellazione di JobsAct, Fornero e Collegato Lavoro; riduzione dell'orario di lavoro a 32 ore settimanali; una patrimoniale; la nazionalizzazione della banca d'Italia e via discorrendo. Che cosa manca, dunque? Manca il passaggio da semplice elenco di rivendicazioni radicali a progetto anticapitalista. Per evitare che un programma sia solo una lista di petizioni di principio, occorre che ci sia una proposta programmatica anticapitalista reale. È impossibile combattere la disoccupazione e rivendicare l'abolizione delle controriforme del lavoro, senza rivendicare la ripartizione del lavoro esistente tra tutti, tramite la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. Ma se in ogni parte del mondo e dell'Italia il capitalismo estende gli orari di lavoro, riduce i salari, precarizza le condizioni di lavoro, come trasformiamo queste rivendicazioni da semplici oggetti del desiderio a rivendicazioni reali? Si può fare questo passaggio solamente assumendo il governo dei lavoratori come orizzonte politico generale, la rottura dell'ordinamento sociale esistente e la sua ricostruzione su basi socialiste.

Questo snodo centrale vale per ogni aspetto del programma.
Se si vuole avere la più piccola speranza di realizzare anche solo uno degli aspetti di un vasto programma di trasformazione sociale, bisogna mettersi in rotta di collisione con l'esistente. Su tutte le illusioni del caso è meglio sgomberare il campo da dubbi: l'esperienza degli ultimi 30 anni ci ha dimostrato che non esisterà mai alcun governo di centrosinistra amico degli sfruttati e dei lavoratori e che allo stesso modo non ci sarà alcun governo che opererà in rotta con il sistema sotto la pressione di alcun presunto “controllo popolare” o “pressione dal basso”.

Nell'epoca del capitalismo in crisi, non ci sono mezze misure che possono reggere il confronto con la brutalità e la ferocia con cui i padroni si stanno riprendendo tutto quello che sono stati costretti a cedere con trent'anni di lotte straordinarie nel dopoguerra.


IL PROGRAMMA ED IL FINE 

Il programma rivoluzionario è costantemente orientato verso il fine. Il fine è la rottura del sistema sociale capitalista e la riorganizzazione della società su basi socialiste. In questo senso le rivendicazioni che costituiscono il programma rivoluzionario devono soddisfare tre caratteristiche: a) devono partire dalle condizioni immediate, oggettive, della classe sociale di riferimento; b) devono funzionare da ponte tra queste condizioni immediate e il livello di coscienza attuale della classe lavoratrice e l'obbiettivo finale, ovvero la rivoluzione, dunque devono essere esplicitamente contro la proprietà capitalistica; c) devono essere collegate al solo strumento che quel fine e di conseguenza quelle stesse rivendicazioni è in grado di mettere in atto, ovvero il governo dei lavoratori e delle lavoratrici.

La battaglia per la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario è un classico esempio.
Si parte da alcune condizioni immediate: da un lato abbiamo l'insieme delle condizioni dei lavoratori in Italia, fatto di un tasso di disoccupazione permanentemente sopra il 10%, l'allungamento dell'età pensionabile, l'estensione e lo spezzettamento degli orari di lavoro, milioni di ore di cassa integrazione. La riduzione dell'orario di lavoro a parità di paga rompe con questo paradigma, allargando il numero dei lavoratori effettivi senza impoverirli. Il lavoro esistente deve essere suddiviso tra tutti i lavoratori, quelli oggi a lavoro e quelli disoccupati o parzialmente impiegati e sulla base di ciò deve essere calcolata la durata della settimana lavorativa. Il salario deve rimanere quello precedente e comunque non inferiore ad un minimo fissato per legge di almeno 1500 euro.

La distribuzione dell'orario di lavoro a parità di paga attraverso la redistribuzione del lavoro stesso, emerge quindi come necessità dalle condizioni oggettive della classe lavoratrice ad oggi.

In che modo questa rivendicazione si pone come ponte con il fine?

I padroni, i capitalisti e i loro guardaspalle oppongono una presunta irrealizzabilità ad ogni rivendicazione che migliorerebbe le condizioni di vita dei lavoratori e peggiorerebbe quelle delle loro tasche. Il senso comune, la stampa, i media, parlano di “interesse nazionale” e rilanciano la vecchia menzogna del patto sociale per cui “se stanno bene i padroni, allora staranno bene anche i lavoratori”. Questa truffa è ormai completamente smascherata dalla realtà. Dovunque il capitalismo e i suoi governi difendono il benessere dei padroni a discapito di quello dei lavoratori. I profitti sono garantiti e tutelati dissanguando i lavoratori e i proletari in generale. La contraddizione tra le uniche rivendicazioni progressive che l'insieme del movimento dei lavoratori può accettare per migliorare le proprie condizioni immediate di vita e il profitto dei capitalisti svela il trucco della società borghese: nel capitalismo in crisi non c'è nessuna compatibilità possibile tra salari, diritti e salute dei lavoratori da un lato e profitti dei padroni dall'altro. Dal capitalismo gli sfruttati e gli oppressi non hanno più niente da ottenere. Se non ci si vuole rassegnare alla disperazione e allo sconforto, bisogna trovare una via diversa. Per imporre quelle misure progressive necessarie al miglioramento delle condizioni immediate è necessario allora un tipo di governo diverso, non un governo del capitalismo, pur in salsa “centrosinistra”, ma un governo contro il capitalismo. Un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, che organizzi la loro forza e imponga queste misure di emergenza sociale. L'instaurazione di un governo dei lavoratori e la riuscita di queste rivendicazioni è cosa che passa dalla lotta, dall'unificazione del fronte dei lavoratori e dall'assunzione di questo fronte di una direzione politica esplicitamente anticapitalista e rivoluzionaria.

Si potrebbe fare lo stesso tipo di ragionamento per la sola rivendicazione dell'abolizione della Legge Fornero. La cancellazione della legge Fornero è una rivendicazione sacrosanta. Dal fronte padronale viene opposta l'irrealizzabilità e l'irresponsabilità di tale proposta per i costi che ricadrebbero “sulla società”. Ma l'aumento dell'età pensionabile rappresenta già, di fatto, lo scaricamento dei costi sociali della crisi sulle spalle dei lavoratori! Da un lato bisogna quindi che l'abolizione della Fornero non sia una semplice petizione astratta e dall'altro bisogna ribaltare la logica dell'insostenibilità dei costi, sbandierata dai padroni. La risposta di fronte a questo bivio è semplice: è necessario abolire la Fornero per migliorare le condizioni di vita di milioni di lavoratori e per farlo è necessario abolire unilaterlmente il debito pubblico verso banche e assicurativi che costa ogni anno 70 miliardi di soli interessi, liberando così le risorse necessarie ad un nuovo sistema pensionistico. Sono questi i “costi sociali” da prendere in considerazione! Quelli che ingrassano le tasche di un manipolo di possidenti e azionisti a discapito della maggioranza della società. Ma quale governo si porrebbe in aperta rottura con il capitalismo a tal punto da mettere in discussione il sistema strangolatore del debito? Ancora una volta l'esperienza diretta ci mostra come sperare di fare questo tipo di operazioni dentro il sistema borghese conduce inevitabilmente alla tragedia. Il tradimento di Tsipras in Grecia è una lezione indelebile. Ancora una volta solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici può imporre questo tipo di rivendicazioni progressive.


IL RUOLO DELLA MASSA 

Il programma rivoluzionario è un programma per un'alternativa di società. Per questo a differenza dei vari programmi riformisti buoni per ogni tornata elettorale, il programma rivoluzionario è uno strumento di lotta quotidiano indispensabile per il partito della rivoluzione.

Affrontare il tema del programma rivoluzionario ci dà la possibilità di indagare alcuni aspetto fondamentali della politica comunista. In questo paragrafo si tratterà di tre punti: a) la risposta alla domanda posta nel primo paragrafo, cioè perché le rivendicazioni radicali anche coerenti da sole non bastano a configurare un programma di rivoluzione; b) in che cosa consiste la politica rivoluzionaria e in che modo questa si distingue dalla politica riformista vicino e lontano dalle elezioni; c) perché presentare un programma rivoluzionario durante una tornata elettorale è parte della politica rivoluzionaria. Abbiamo visto nel primo paragrafo di questo breve testo come un insieme di rivendicazioni da sole non configurino un programma rivoluzionario e abbiamo osservato, nel secondo paragrafo, come le rivendicazioni necessitino di un metodo transitorio e di uno stretto collegamento tra i bisogni immediati della classe e il fine del socialismo per poter configurare un programma rivoluzionario. Mancano però ancora alcuni ingredienti perché si possa parlare di politica e programma conseguentemente rivoluzionari. Non c'è processo rivoluzionario possibile senza l'irruzione delle masse nella lotta e non c'è lotta di massa che possa diventare un processo rivoluzionario senza un partito comunista con un programma e una politica rivoluzionaria. O il programma rivoluzionario è uno strumento per la conquista della simpatia delle masse operaie, sfruttate e oppresse al progetto del comunismo, oppure è poco più di una lista della spesa.

Per questo un programma rivoluzionario è tale solo ed esclusivamente se è il programma di un partito conseguentemente marxista rivoluzionario. Per essere tale un partito comunista deve essere in opposizione a tutti i governi padronali, quale che sia il colore del loro schieramento e deve tutelare l'autonomia degli interessi di classe del proletariato; deve avere la capacità di collegare gli obbiettivi di lotta immediati, con la prospettiva anticapitalista di fondo; deve assumere una prospettiva socialista internazionale; deve, da ultimo, battersi per un governo dei lavoratori, ovvero per la presa del potere da parte della classe lavoratrice. In questo quadro l'enorme massa dei diciassette milioni di lavoratori salariati gioca un peso ineliminabile. Un partito comunista che vuole essere tale, deve orientare la sua politica su questo ordine di grandezza, alla conquista di questa maggioranza della società, rifuggendo ogni tentazione minoritaria o settaria. Negli ultimi anni la forza di questa massa è rimasta inespressa, imbrigliata dalla burocrazia sindacale, disillusa dai tradimenti della sinistra riformista, corteggiata dalle sirene del populismo. Si tratta di lavorare in controtendenza, per rilanciare l'entusiasmo, per unificare il movimento dei lavoratori attraverso il più ampio fronte unico di lotta possibile, su obbiettivi chiari e anticapitalisti.

Si può finalmente rispondere alla domanda iniziale: perché le rivendicazioni radicali anche coerenti da sole non bastano a configurare un programma di rivoluzione? Il programma rivoluzionario è tale solo se è parte di un progetto rivoluzionario che comprende un partito coerentemente comunista e che si batte per la conquista della direzione politica della maggioranza degli sfruttati.

Da ciò conseguono importanti considerazioni in merito alla politica rivoluzionaria. O il partito ha una proiezione di massa e un intervento sulla massa oppure il suo programma è un'arma spuntata.

Questo è un elemento cruciale di distinzione politica. Prendiamo l'esempio del PC guidato da Marco Rizzo. Dal PC di Rizzo ci distanziano enormi abissi, sia in termini di storia politica (Rizzo fu parte di quel gruppo dirigente che spaccò il PRC per sostenere il Governo D'Alema bombardiere di Belgrado), sia intermini di costruzione del partito (basta leggere lo statuto del PC di Rizzo per rendersi conto che non c'è nessuna traccia di centralismo-democratico e del funzionamento dei partiti comunisti delle origini), sia come riferimenti politici (il PC di Rizzo sostiene la monarchia dinastica della famiglia Kim in Corea del Nord). Ma quello che interessa qui è analizzare come dietro slogan e rivendicazioni, si può nascondere una prassi politica che niente ha a che vedere con la politica rivoluzionaria.

Formalmente il PC di Marco Rizzo rivendica alcune parole d'ordine coerenti: ad esempio la nazionalizzazione senza indennizzo di alcune aziende come l'Alitalia e la Piaggio. Ma questo non contribuisce in nessun modo a caratterizzare il partito di Rizzo in un partito rivoluzionario e non solo per quanto detto poco sopra. Il PC di Rizzo ricalca in sedicesimi in Italia la metodologia di intervento politico del fratello maggiore KKE in Grecia. Tenta di costruire una scalata al sindacalismo di base, nel tentativo di emulare il controllo del KKE sul PAME, costruendo un intervento assolutamente settario e completamente sganciato da ogni prospettiva di massa. Il KKE si è caratterizzato in negativo per il suo ruolo nefasto durante la stagione di straordinarie mobilitazioni in Grecia contro i governi della Troika precedenti a Syriza. Il PAME si è sistematicamente opposto a rivendicare lo sciopero generale prolungato, ha costantemente organizzato le sue manifestazioni, i suoi cortei e i suoi scioperi distaccati e in opposizione alle enormi manifestazioni di massa che sconquassarono la Grecia in quei mesi, ha tenuto la sua forza organizzata in disparte, quando non l'ha usata per... difendere il parlamento greco dai manifestanti stessi, di fatto operando per dividere il fronte dei lavoratori invece di unificarlo e tutto al servizio di una logica di sopravvivenza e continuità d'apparato. Il PC di Rizzo, fuori da un contesto tumultuoso come quello della Grecia in rivolta, riproduce pedissequamente lo stesso tipo di costruzione ed intervento.

Per sviluppare una politica rivoluzionaria coerente bisogna necessariamente lavorare all'unificazione del fronte di lotta dei lavoratori, a prescindere dalla loro collocazione sindacale, bisogna combattere senza tregua le burocrazie sindacali, bisogna dare ad ogni singola lotta, ogni singola vertenza, la prospettiva generale di unificazione in un'unica grande vertenza del mondo del lavoro che assuma le rivendicazioni anticapitaliste del programma rivoluzionario come proprie.

In questo quadro dovrebbe risultare chiaro perché presentare un programma anticapitalista, rivoluzionario, alle elezioni borghesi fa parte della politica rivoluzionaria. Le elezioni sono un momento di grande attenzione da parte di grandi masse in generale, ma in fasi storiche come quella attuale, di grande riflusso delle lotte, di difficoltà del mondo del lavoro e dei movimenti sociali di costruire momenti di lotta radicale, prolungata o anche semplicemente di vaste dimensioni, la tribuna che le elezioni offrono è uno strumento irrinunciabile per parlare alle orecchie di milioni di lavoratori e lavoratrici, precari, disoccupati e sfruttati.

Il grande circo delle elezioni tartassa le menti degli espropriati con le promesse elettorali dei populisti di tutti i colori e le inganna con le false speranze dei riformisti vecchi e nuovi. I rivoluzionari hanno il dovere di utilizzare questo momento così peculiare per dire attraverso ogni spazio possibile una parola di verità: che in questo sistema sociale gli sfruttati non hanno più niente da ottenere, che per strappare qualsiasi risultato progressivo si deve assumere la prospettiva di rompere con il capitalismo, che l'unico modo per farlo è fare leva sulla forza di milioni di lavoratori organizzati, che solo un governo che sia espressione di questa forza può attuare le rivendicazioni necessarie a migliorare le condizioni immediate di vita della stragrande maggioranza della popolazione, che solo facendola finita col capitalismo si può ricominciare a rialzare la china.


CLASSE, DIREZIONE, PARTITO 

Si possono trarre importanti lezioni dallo studio di che cos'è un programma rivoluzionario, che chiamano in causa alcuni degli elementi fondamentali della politica comunista. Un programma rivoluzionario è innanzitutto un programma di un partito rivoluzionario. È attraverso il suo programma, attraverso la definizione dei suoi obbiettivi, che il partito parla alla sua classe sociale di riferimento. C'è un rapporto dialettico fondamentale qui. Il programma parte dalle condizioni immediate cui versa la classe di riferimento (ad esempio il bisogno di ridurre l'orario di lavoro a parità di paga per garantire il lavoro a una più ampia fetta di proletariato) ma non vi si appiattisce, anzi diventa uno strumento per elevare la coscienza della classe a cui parla da semplice difesa dei propri interessi immediati a comprensione che quegli interessi immediati possono essere soddisfatti solo a patto di entrare nell'ottica di spezzare il capitalismo e riorganizzare la società su basi socialiste. È questo uno dei ruoli cruciali del partito, quello di difendere e diffondere la necessità di una coscienza rivoluzionaria. Il partito però non può accettare di lasciarsi relegare al ruolo di buon consigliere. È necessario che sviluppi una lotta per la conquista della direzione del movimento operaio. Con questa formula non si intende questa o quella soggettività d'avanguardia, politica o sindacale, che si proclama in tal senso, ma chi materialmente guida la maggioranza della classe operaia. Uno dei drammi della storia recente in Italia è stato il vuoto politico che si è generato a sinistra e il ruolo di supplenza che la CGIL ha avuto come direzione maggioritaria del movimento operaio. Ruolo attraverso cui ha operato sistematicamente svendite e tradimenti, contribuendo in maniera incisiva al clima di sfiducia e smobilitazione (su tutti valgano la smobilitazione della lotta contto il Jobs Act e la paura di andare fino in fondo sulla Buona Scuola). Oppure più recentemente in Catalogna, il movimento indipendentista ha espresso una direzione piccolo borghese che ha trasformato nel giro di poco tempo una straordinaria mobilitazione democratica e progressiva di massa da un potenziale punto di rottura rivoluzionario degli equilibri capitalistici in UE ad una grottesca farsa di proporzioni storiche.

Il programma allora assume anche il ruolo di strumento di conquista della maggioranza e della sua direzione politica. La politica comunista è un rapporto dialettico costante tra il partito rivoluzionario, la classe di riferimento e il programma di rottura col capitalismo a cui il partito lotta per conquistare la maggioranza di questa classe.


Nicola Sighinolfi