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La polizia di Berlino interrompe il Congresso sulla Palestina. La libertà di parola diventa una farsa

  Con un'azione che ha pochi precedenti recenti di questo tipo, il governo tedesco è arrivato a disturbare, fino all'impedimento fis...

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Il governo dei manganelli alla prova della Palestina

 


Si allarga il divario tra le politiche filosioniste e il sentimento pubblico

Le cariche poliziesche a Pisa e Firenze contro manifestazioni studentesche pro Palestina hanno scosso ampi settori di opinione pubblica. L'immagine diretta della violenza repressiva ha suscitato una reazione diffusa di sdegno. Il Presidente della Repubblica, che il giorno stesso delle cariche poliziesche aveva censurato come «inaccettabile violenza»... il manichino di stoffa bruciato di Giorgia Meloni, ha cercato di riequilibrare la propria immagine con ventiquattro ore di ritardo parlando del ricorso al manganello come fallimento dello Stato.

La verità è che il governo a guida postfascista ha inaugurato una stagione nuova nel rapporto con la piazza. Un rapporto selettivo, naturalmente, a seconda della base sociale coinvolta. Le manifestazioni dei trattori hanno potuto bloccare ripetutamente le strade con relativa facilità, trattandosi della base sociale del governo, seppur contesa tra Fratelli d'Italia e la Lega. Lì la polizia non si è mossa. Quando la base sociale è diversa, diverso è l'intervento dello Stato. Che si tratti dei rave party, degli ambientalisti, dei picchetti operai, degli studenti, lì scatta ripetutamente il riflesso d'ordine degli apparati di sicurezza.
Non c'è bisogno sempre di una direttiva esplicita di Piantedosi, che forse in qualche caso avrebbe persino desiderato di evitare grane. Si tratta del comportamento indotto oggettivamente dal nuovo quadro politico. Il poliziotto si sente incoraggiato dalla presenza al governo, finalmente, degli “amici della polizia”. Da qui un senso di copertura e legittimazione che libera la facilità del manganello, cui si aggiunge la corsa di Lega e Fratelli d'Italia ad intestarsi, in reciproca concorrenza, il plauso della polizia. «Chi tocca un poliziotto o un carabiniere è un delinquente» afferma Salvini dopo i pestaggi per fare da controcanto a Mattarella. È la politica legge e ordine come marchio identificativo della destra.

E tuttavia nei fatti di Pisa e Firenze non c'è solo questo. C'è anche il riflesso indiretto della pressione sionista e del clima generale cui questa concorre.
L'ambasciata israeliana, come peraltro in altri paesi, sta moltiplicando le pressioni istituzionali per delegittimare le manifestazioni pro Palestina. Siamo (ancora) molto lontani dal livello di Germania e Francia, dove la stessa libertà di manifestazione viene abolita o chiamata in causa. Lo dimostrano le mille manifestazioni pro Palestina che si sono svolte liberamente in questi mesi. E tuttavia cresce una campagna intimidatoria, a partire da scuole e università, tesa a rappresentare ogni espressione di antisionismo come sospetto antisemitismo da censurare ed eventualmente reprimere. Basta vedere cosa è accaduto sul palco di Sanremo con la censura a Ghali, e davanti alle sedi della Rai, con pestaggi polizieschi esibiti e rivendicati. Lo stesso intervento del ministro Valditara contro le occupazioni studentesche ha tratto spunto, guarda caso, da occupazioni intitolate (anche) alla solidarietà verso la Palestina. Così a Pisa si è detto che il manganello era necessario per difendere la sinagoga dai facinorosi «amici di Hamas» (Donzelli). Una specifica circolare del ministero degli Interni, dopo il 7 ottobre segnalava peraltro alle forze di polizia il rischio di obiettivi sensibili da tutelare.

Gli ambienti della borghesia liberale mostrano disappunto verso questa politica repressiva. La loro principale preoccupazione è che possa incendiare gli animi e radicalizzare i giovani. È una preoccupazione dal loro punto di vista assolutamente fondata. E tuttavia si tratta degli stessi ambienti borghesi che sostengono con entusiasmo la politica estera filosionista del governo Meloni, che ospitano sulle proprie pagine apologie incantate di Israele (vedi Corriere della Sera e Repubblica), che appoggiano la missione navale imperialista a guida italiana sul Mar Rosso, che invocano pubblicamente la massima unità nazionale tricolore attorno a questa politica contro ogni possibile defezione. In altri termini, l'opposizione borghese liberale al governo Meloni, e al suo manganello, è la stessa che gli assicura una preziosa cintura di sicurezza. Il cosiddetto Piano Mattei, le nuove ambizioni dell'imperialismo italiano in terra d'Africa, i programmi di riarmo accelerato dell'Italia per mettersi al passo delle nuove sfide mondiali conoscono proprio in quegli ambienti la massima celebrazione. Basti vedere l'orientamento strategico della rivista Limes di Lucio Caracciolo. Il governo e i suoi metodi repressivi si avvantaggiano di questo sostegno.

E tuttavia il fronte borghese ha un problema che si chiama proprio Palestina. Cresce infatti ogni giorno il divario tra l'isteria filosionista della borghesia italiana e il senso comune dell'opinione pubblica, in particolare tra i giovani. L'orrore quotidiano delle politiche genocide nella terra di Gaza, le crudeltà dell'occupazione sionista in Cisgiordania, suscitano un naturale senso di identificazione nella causa palestinese nella maggioranza della società. Le manganellate e le censure contro le manifestazioni pro Palestina contribuiscono a rafforzarlo.
Il movimento operaio deve entrare finalmente sulla scena per prendere la testa di questo sentimento giovanile. Dare a questo sentimento una coscienza politica e una prospettiva programmatica – antisionista, antiimperialista, anticapitalista – è il compito dei marxisti rivoluzionari.

Partito Comunista dei Lavoratori

La nostra solidarietà a Ghali


 Diamo la nostra piena solidarietà al rapper Ghali che dal palco di Sanremo, nel più totale silenzio del mondo dello spettacolo, ha avuto la sensibilità e il coraggio di denunciare il genocidio in corso a Gaza. Una denuncia autentica, sentita, profondamente umana.


La reazione isterica dell'ambasciatore d'Israele, che censura la presa di posizione del cantante nel nome della denuncia del 7 ottobre, misura ancora una volta l'arroganza cinica del sionismo, che capovolgendo la realtà presenta ogni legittima resistenza palestinese all'oppressione sionista, quali che siano le sue direzioni e le sue forme, come ragione dei propri crimini mostruosi.
Abbiamo sempre criticato la natura politica di Hamas, ma Hamas è parte della resistenza palestinese, e la resistenza è un diritto di ogni popolo oppresso. Tanto più contro un'occupazione che ha un secolo di storia alle proprie spalle, e che oggi rivela una volta di più, in particolare a Gaza, tutta la propria criminalità genocida: con decine di migliaia di morti, innanzitutto bambini, il 70% di case distrutte, la privazione di acqua, cibo, medicine, fosse comuni di palestinesi bendati, prigionieri esibiti nudi su carri bestiame, uno scenario di orrore senza fine.
Il più crudo atto di resistenza all'oppressione, anche nei suoi aspetti più discutibili, è nulla di fronte a tutto questo.

Ancora più scandaloso, se possibile, è il pronto sostegno alla censura sionista da parte dei vertici della Rai, che hanno sentito il bisogno di rassicurare l'ambasciata sionista circa la linea editoriale filoisraeliana dell'informazione pubblica. Da sempre la Rai e i media hanno rivelato una cinica indifferenza di fronte all'oppressione quotidiana del popolo palestinese. Di più, hanno sempre coperto e giustificato i crimini sionisti contro civili, donne, bambini, e le responsabilità delle potenze imperialiste nel loro sostegno determinante ad Israele. Il fatto che oggi partecipino in prima persona alla pubblica censura di Ghali misura una volta di più il loro squallido servilismo verso il sionismo.

A maggior ragione ribadiamo la nostra solidarietà a Ghali. Ci auguriamo che la sua denuncia aiuti a rendere ancor più partecipata la manifestazione del 24 febbraio a Milano, a sostegno del popolo palestinese e della resistenza palestinese.

Partito Comunista dei Lavoratori

Ennesimo suicidio nei CPR. No alle prigioni di stato! Abbattiamo i muri del capitale!

 


"Se un giorno dovessi morire, vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta (…) I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. Mi manca molto la mia Africa e anche mia madre. Non c’è bisogno di piangere su di me, la pace sia con la mia anima e che io possa riposare in pace."


Con queste parole, scritte sul muro della sua prigione di Ponte Galeria, Ousmane Sylla, guineano di 22 anni, si è sottratto alla reclusione insensata e crudele inflittagli dallo stato italiano negli ultimi mesi della sua vita. Una reclusione dovuta al suo aver varcato i confini di questo paese, e solamente a questo. Ousmane si trovava in un CPR. Non aveva quindi commesso alcun reato. Era recluso in quanto privo di lavoro, e quindi di permesso di soggiorno.

Con queste parole Ousmane, senza saperlo, risponde anche a Giorgia Meloni e alla sua Africa immaginaria, l'Africa di quel Piano Mattei che dovrebbe tradurre in pratica l'"aiutiamoli a casa loro", cioè l'Africa fantasticata e propagandata a uso e consumo di quella classe capitalista europea che, a suon di prestiti e investimenti, si accinge a spolpare l'osso lanciato dal neocolonialismo dal volto meloniano.

Non c'è nulla di nuovo, in questo ultimo ordinario suicidio di Stato, che lo differenzi dalle decine di altri che sono già avvenuti negli oltre venticinque anni di esistenza degli infami Centri di Permanenza per i Rimpatri, lascito politico del Padre della Patria Giorgio Napolitano, ministro del centrosinistra di Romano Prodi (legge Turco-Napolitano), rimasti in vita con peggioramenti successivi sin dal 1998.
Nulla di nuovo nella modalità in cui il giovane era stato ritenuto idoneo a una permanenza nel CPR. Nulla di nuovo nell'iter burocratico che aveva eliminato ogni possibilità di una sua uscita. Nulla di nuovo nelle proroghe successive, che avevano trasformato la sua detenzione in un incubo che era apparso ai suoi occhi, e che era, senza fine. Nulla di nuovo nella constatazione dell'humus di corruzione del luogo e delle istituzioni coinvolte ("i militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro"). Nulla di nuovo neanche nella solitudine e nello strazio con cui la sua vita è giunta a conclusione, fra abbandono, assenza di cure e controllo, ritardo nei soccorsi, impossibilità di prevenzione.

Non poteva esserci nulla di nuovo perché l'inferno della cosiddetta detenzione amministrativa non può che generare solo, e sempre, la morte di chi non riesce a trovare abbastanza forza per poter a quell'inferno sopravvivere.
Ousmane quella forza non l'ha trovata, perché anche di quella forza è stato privato.

Non esiste un caso "CPR di Milano" o "di Potenza", "di Trapani", "di Macomer", "di Gradisca" o "di Roma": esiste solo un caso "CPR" e "detenzione amministrativa". Facciamo nostre le parole della Rete Mai più Lager - No ai CPR.
Ciò significa, per noi, che non può esserci lotta allo strumento CPR, al suo fine e alla sua logica, se non riconoscendo la loro natura stessa di dispositivo atto a selezionare, smistare, ed eventualmente ed eccezionalmente sopprimere, quella particolare merce che è la forza lavoro importata in questo paese. Ciò vuol dire, semplicemente, affrontare la regolamentazione capitalistica del lavoro immigrato, "regolare" o "irregolare," in Italia e in Europa.

La lotta ai CPR nel nome dello stato di diritto equivale a lottare contro il capitalismo nel nome della bontà d'animo (1). Come se non fosse già il testo della legge a prescrivere che nei CPR (e nelle altre strutture simili) «lo straniero deve essere trattenuto con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità». Come se, una volta che si dovesse mai riuscire ad ottenere (ammesso che ciò sia possibile) il rispetto della dignità umana dei detenuti e la trasformazione dei meccanismi di funzionamento dei CPR, il problema sarebbe risolto.

Al contrario. La lotta ai CPR chiama in causa i lavoratori in quanto tali, immigrati e nati in Italia. Chiama in causa i sindacati. Chiama in causa un programma che unifichi le lotte in difesa delle condizioni di lavoro, del salario, con le lotte per i diritti di chi vive e chi arrivi in Italia.
La lotta ai CPR è una lotta a questo modello di società, una società che innalza muri intorno alle persone mentre li abbatte intorno alle merci e al denaro. La lotta ai CPR è la lotta al capitalismo.




(1) Ci chiediamo che senso abbia, da comunisti, parlare di «assenza di titoli per cui si è presenti nel territorio nazionale» come di una «condizione» da dover affrontare e sanare con non meglio precisati «processi di regolarizzazione». È proprio il concetto di "titolo per poter essere sul territorio nazionale" che va respinto, in quanto cardine della logica criminale e criminogena, oltre che reazionaria in sé, della irregolarizzazione (e clandestinizzazione) dei migranti. Da comunisti e anticapitalisti, la parola d'ordine dovrebbe essere: abbasso le frontiere, no alla divisione dei migranti e alla criminalizzazione, accoglienza di tutti e tutte coloro che cercano migliori condizioni di vita

Partito Comunista dei Lavoratori

La classe operaia argentina torna in campo


 Lo scorso 24 gennaio uno sciopero di massa ha bloccato l’Argentina contro le politiche reazionarie del presidente ultraliberista di destra di Milei, ma anche contro la volontà politica del governo argentino di dare seguito e farsi promotore e vassallo delle politiche del Fondo Monetario Internazionale, che hanno strangolato e continueranno a strangolare i settori popolari del paese sudamericano.


Javier Milei si era presentato come la faccia antisistema, con una retorica cosiddetta anarcocapitalista e anticasta; invece, ha da subito dimostrato che per lui e la destra l’unica “casta” da sfruttare è il popolo. Infatti, l’offensiva di Milei si è subito palesata con la svalutazione del peso e l’idea per ora non realizzata di dollarizzare l’economia argentina, passando per l’eliminazione dei sussidi statali per energia, trasporti e acqua.

In Argentina la svalutazione era già galoppante, e le attuali politiche della destra mileista stanno determinato un ulteriore aumento vertiginoso dei prezzi dei generi alimentari. Inoltre, uno dei motivi che hanno favorito la discesa in campo della classe lavoratrice è stato l’annuncio che i dipendenti pubblici con meno di un anno di anzianità non vedranno rinnovati i loro contratti, andando ad ingrossare le file dei disoccupati.

Nonostante l’autentica marea umana presente – le immagini di Buenos Aires erano impressionanti – il governo della borghesia continua nella sua offensiva con l’emanazione del Decreto de Necesidad y Urgencia (1), un vero e proprio paradigma antioperaio con forma giuridica. Nel decreto, tra le altre misure capestro, si legifera sulla limitazione del diritto di sciopero, sull’abrogazione delle leggi di monitoraggio dei prezzi, sulla privatizzazione delle aziende statali quali Aerolineas Argentinas e YPF (2). Il DNU cancella i regolamenti sulla proprietà terriera, i controlli sulle esportazioni estere e taglia le spese per la previdenza sociale.

Il governo argentino ha adottato come corollario al DNU, o meglio come deterrente alle manifestazioni di massa, un protocollo antiprotesta, firmato dalla ministra della sicurezza Patricia Bullrich, al fine di reprimere le lotte, fino all’impedimento fisico di manifestare, arrivando ad arrestare i manifestanti, senza bisogno di un mandato giudiziario e comminando multe per le stesse azioni attuate dai manifestanti.

L’obiettivo della classe lavoratrice argentina deve essere quello di sconfiggere il “piano motosega” di Milei e il FMI, segnalando contestualmente le responsabilità del peronismo che hanno portato al ripudio popolare del governo, dando sfortunatamente a Milei il ruolo di personaggio politico di alternativa.
La crisi la devono pagare i padroni e i banchieri, opponendo al programma capitalista un piano alternativo e popolare che preveda un aumento immediato, in emergenza, dei salari e delle pensioni, finanziando tali misure con il rifiuto di pagare il debito estero e i piani di finanziamento del FMI.
Inoltre, bisogna imporre forti imposte alle imprese nazionali e multinazionali, salvaguardando il carattere pubblico delle imprese statali e nazionalizzando le imprese pubbliche privatizzate.
Questo programma potrà essere portato avanti solo da un governo di lavoratrici e lavoratori, unico soggetto in grado di migliorare le attuali condizioni del proletariato argentino. Per questo obiettivo marcia il Frente de Izquierda y de Trabajadores (Fronte di Sinistra e dei Lavoratori), unico attore politico realmente alternativo e rappresentativo degli interessi sociali e politici delle lavoratrici e dei lavoratori argentini.




(1) Il Decreto è assimilabile ad un Decreto Legge italiano, per mezzo del quale il governo legifera sulla base della necessità ed urgenza.

(2) Rispettivamente la compagnia di bandiera dell’aviazione civile e l’impresa petrolifera di stato

Lukas Vergara

Marcelo Nowerzstern (Roberto Gramar)


 Mercoledì 31 gennaio ci ha lasciato il compagno Marcelo Nowerzstern, più conosciuto col suo nome politico di Roberto Gramar, fondatore e a lungo dirigente del Partido Obrero (PO) argentino (alla sua epoca, Politica Obrera) e successivamente, nell’emigrazione in Francia e rimanendo sempre legato al PO, del Nuova Partito Anticapitalista (NPA) e della sua tendenza di sinistra Anticapitalisme & Révolution (A&R).

Alcuni tra i compagni più vecchi (di militanza) del partito se lo ricordano perché intervenne al primo congresso del nostro partito, nel 2008. Pochi altri per averlo incontrato a una delle Feste annuali di Lutte Ouvrière a Parigi.

Marcelo è morto di tumore all’età di 82 anni, dopo una vita tutta spesa per la rivoluzione.
Giovanissimo militante socialista, poi del gruppo di estrema sinistra antistalinista (ma non trotskista) centrista Praxis, nel 1961, all’età di 19 anni ne uscì con altri sei giovani compagni, tra cui Jorge Altamira, per dar vita ad un gruppo intorno ad una piccola rivista dal nome di Politica Obrera. Tre anni dopo, nel 1964, rafforzatasi con altri militanti, Politica Obrera si costituì in vera e propria organizzazione. Marcelo ne era uno dei principali dirigenti accanto a Jorge Altamira. Ma benché i due apparissero allora come una specie di coppia di amici personali o politici, i caratteri dei due compagni non potevano essere più distanti (perlomeno se erano già quelli che abbiamo conosciuto in anni successivi). Autocentrato e bonapartistico Altamira, convinto di avere tutte le verità in tasca, anche se irrispettoso solo verso i deboli e non verso chi gli teneva testa. Aperto, democratico e senza manie di grandezza, con un carattere che lo faceva amare da tutti, Marcelo.

All’inizio degli anni ’70 fu tra coloro che allargarono la visione nazionale del PO, ponendolo in contatto con il Partito Operaio Rivoluzionario (POR) di Bolivia diretto da Guillermo Lora e poi con la corrente lambertista (dal suo dirigente principale Pierre Lambert) che nel 1972 diede vita con appunto PO e il POR al Comitato d’Organizzazione per la Ricostruzione della Quarta Internazionale (CORQI). Con impegno internazionalista si trasferì con la sua compagna di tutta una vita Ester (con cui ebbe due figlie in quegli anni) in Cile nel 1971, al momento della presidenza Allende, per cercare di costruire un'organizzazione trotskista conseguente in quel paese. Riuscì in effetti a costruire una piccola organizzazione centrata sulla città di Concepción, la Organizzazione Marxista Rivoluzionaria (OMR), che fu travolta dalla repressione golpista, a eccezione di una cellula di giovani portuali che si mantenne per più di un decennio nella clandestinità.

Marcelo si trovava casualmente a Buenos Aires, ma Ester era in Cile e fu arrestata. Dopo un mese, però, essendo straniera, fu espulsa con altri argentini.
È proprio dopo il golpe, nel novembre del 1973, che Marcelo rappresentò il PO ad una riunione del CORQI, largamente dedicata proprio all’esperienza cilena, e fu lì che chi scrive lo incontrò per la prima volta.
Poiché su decisione congiunta del PO e del CORQI Marcelo fu assegnato al lavoro tra gli esuli cileni, la maggioranza dei quali erano rifugiati in Europa, Marcelo si trasferì a Parigi, come funzionario del CORQI, per dedicarsi a questa attività.
La questione si complicò e assunse aspetti drammatici perché Ester, che doveva partire più tardi per raggiungerlo, fu bloccata all’aeroporto di Buenos Aires e imprigionata sotto l’accusa di far parte di un'organizzazione guerrigliera, anzi di esserne una coordinatrice internazionale nel Cono sud dell’America Latina. Fortunatamente si era prima del golpe militare del marzo 1976, e dopo pesantissimi mesi di prigione con altri prigionieri fu rilasciata ed espulsa, e poté riunirsi con Marcelo e le sue figlie a Parigi.

Nel 1979 Lambert e la sua organizzazione (Organizzazione Comunista Internazionalista, OCI, che dominava il CORQI) decisero di attuare una manovra di unificazione con la corrente detta morenista (dal suo lider maximo Nahuel Moreno), che veniva dalla rottura col Segretariato Unificato della Quarta Internazionale. La presenza del PO, storico avversario politico dell’opportunismo morenista in Argentina, creava evidentemente un problema a tale manovra, per cui, con gli inqualificabili metodi loro propri, i lambertisti cominciarono ad attaccare e poi calunniare il PO, arrivando ad espellerlo dal CORQI nonostante questo gli costasse la rottura anche con il POR e altre organizzazioni minori. Tutto questo in un momento in cui la situazione in Argentina, sotto la dittatura di Videla, era al punto più tragico.

Marcelo naturalmente fu licenziato da funzionario, riuscendo però fortunatamente a trovare presto un nuovo lavoro. Nel frattempo partecipava alla piccola cellula del PO in Francia, partecipando in primo luogo all'azione di solidarietà con i militanti latinoamericani vittime delle varie dittature allora esistenti. Nello stesso periodo riprese il contatto tra noi e le organizzazioni interazionali di cui facevamo parte, da un lato, e il PO, inizialmente via Parigi e tramite soprattutto Marcelo. Contatti facilitati anche dall'estrema gentilezza fraterna di Marcelo e Ester, che finché fu possibile (prima cioè dell’aggravarsi delle condizioni di salute di Marcelo) ospitarono in occasione dei suoi viaggi a Parigi chi scrive nel loro appartamento della periferia della grande metropoli.

Con il ritorno della democrazia borghese in Argentina, Marcelo ritornò per un periodo in Argentina, riprendendo a militare in quello che era diventato il Partido Obrero. Ma ciò non durò a lungo. Ester e le sue figlie, ormai adolescenti e inserite nell’ambiente parigino, erano rimaste in Francia. Dopo circa un anno, anche Marcelo rientrò in Francia. Poiché il PO, con una scelta certo strana per un'organizzazione trotskista, non ha mai avuto una politica di costruzione in situazioni nazionali a partire da piccoli nuclei, il lavoro di politico di Marcelo si limitò per diversi anni al sostegno al PO, anche come suo corrispondente dalla Francia (più qualche rientro breve in Argentina) e alla solidarietà internazionalista. Ma Marcelo era troppo uno spirito politico attivo. Così, vincendo l’approccio limitato di Altamira e, per quanto ci riguarda, con il nostro pieno sostegno, decise circa vent'anni fa di entrare nella sezione del Segretariato Unificato, la Lega Comunista Rivoluzionaria (LCR), poi trasformatasi in NPA. Naturalmente lo fece in difesa di posizioni trotskiste conseguenti, e quando queste si espressero in una battaglia di tendenza partecipò alla vita della sua sinistra (A&R), non solo come militante ma come dirigente, logicamente rispetto alle sue qualità politiche. Infatti nell’unica occasione in cui A&R elesse un proprio esecutivo nazionale, nel 2015, Marcelo fu uno dei suoi nove componenti. E sempre in rappresentanza di A&R fu eletto nel Comitato Nazionale del NPA. È tanto più significativo questo suo impegno perché da diversi anni Marcelo soffriva e si curava per un tumore.

Nel 2017 scoppiò uno scontro del tutto imprevisto e imprevedibile nel PO. Finalmente la maggioranza del suo gruppo dirigente si ribellò al dominio bonapartistico di Altamira, ponendolo in minoranza, fino a portarlo a una scissione nel 2019. Con sorpresa forse di Altamira ma certo non nostra, Marcelo e Ester scelsero senza esitazione la parte giusta, ossia la maggioranza del partito.
Negli ultimi anni il peggiorare delle condizioni di salute obbligò Marcelo a ridurre sempre di più l’attività politica. Questo fu molto negativo per A&R e per noi, in parte politicamente ma soprattutto sul terreno dei rapporti. Perché, anche per la storia comune, Marcelo era certamente il compagno di A&R più vicino a noi. Rispetto allo stesso PO e alle nostre divergenze con esso, non su tutte le questioni importanti ma certo su alcune di esse (l’analisi catastrofista della situazione mondiale, le posizioni confuse e contraddittorie sul processo di restaurazione del capitalismo in Russia e Cina), era più vicino a noi che al PO.

La scomparsa del compagno Marcelo è quindi una grande perdita, per noi come per il PO, in termini politici. Ma soprattutto è una enorme perdita umana per tutti quelli che lo hanno conosciuto. Compensata da una vita piena, felice accanto a Ester per sessant'anni, sempre il lotta per l’avvenire socialista.

Addio Marcelo.

Franco Grisolia

La nota congiunta di Tajani e Weber. Corsa alle armi e lotta tra gli imperialismi

 


Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha annunciato la creazione di una riserva militare ausiliaria con «compiti di sicurezza interna ed esterna» di diecimila unità. Parallelamente il governo ha varato un decreto che accelera la procedura decisionale circa l'impiego estero di forze della Difesa «per il loro immediato impiego operativo». Non c'è ovviamente una connessione diretta tra le due decisioni, ma c'è sicuramente una relazione di fondo. Le nuove ambizioni della politica estera italiana si dotano di nuovi strumenti. Si tratta dell'effetto di trascinamento del nuovo contesto internazionale.


Un esercito e più investimenti strategici. Per l'Europa è l'ora della Difesa comune”: è il titolo della nota congiunta (28 gennaio) del ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani e del Presidente del Partito Popolare Europeo Manfred Weber.

«La stella polare è la NATO... Ma gli alleati transatlantici saranno al nostro fianco solo se anche noi europei saremo disposti a fare la nostra parte. Negli ultimi dieci anni Paesi come Russia e Cina hanno aumentato i loro bilanci per la difesa rispettivamente di quasi il 300% e il 600%. Le forze armate statunitensi hanno speso oltre 800 miliardi di dollari nel 2022. Al contrario, la UE a 27 ha aumentato collettivamente la spesa per la difesa del 20%, arrivando a un livello di poco superiore ai 200 miliardi». Da qui la petizione a favore di un rapido sviluppo del militarismo per una «vera Difesa europea».

Tre sono i passi proposti: «aumentare la capacità di produzione di armamenti, attraverso iniziative militari congiunte. Razionalizzare e unire il più possibile la spesa per risparmiare, puntando a un mercato unico per la Difesa. [...] sviluppare [a lungo termine] una vera “Unione europea di difesa” con forze integrate di terra, mare e aria. [...] Abbiamo creato l'Euro: è stato un successo. Dobbiamo far nascere politica estera e Difesa comune: oggi è una necessità assoluta».

Naturalmente occorre sfrondare la nota delle ridondanze retoriche, tanto più alla vigilia delle elezioni europee: i paesi imperialisti dell'Unione Europea hanno interessi distinti e concorrenziali in molti campi, incluso quello dell'industria militare; si contendono le aree di influenza in diversi scacchieri internazionali (dal Nord Africa al Medio Oriente ai Balcani); non hanno la stessa postura nel rapporto con l'imperialismo egemone USA. La strada di un superimperialismo europeo è e resta dunque disseminata di mine. Un conto era unire gli stati americani in una unica federazione nell'epoca preimperialista, un altro è unire su basi federali Stati imperialisti del vecchio continente con tradizioni nazionali consolidate e rivali.

E tuttavia sarebbe sbagliato non cogliere il significato della nota congiunta. Stretti nella morsa tra il vecchio imperialismo dominante USA e le nuove potenze imperialiste di Cina e Russia, gli imperialismi nazionali europei cercano di recuperare un proprio spazio. Lo possono fare alla sola condizione di accrescere la propria potenza militare. E possono accrescerla a condizione di concertare le rispettive risorse ad un livello più avanzato dell'attuale. Non sappiamo se vi riusciranno, ma sappiamo che le forze politiche centrali dell'establishment continentale (il Partito Popolare Europeo in primis) rivendicano pubblicamente questo intento.

Si conferma una volta di più l'attualità di Lenin del 1915: su basi capitaliste gli Stati Uniti d'Europa o sono impossibili o sono reazionari. Proprio così. Potremmo anzi dire che l'attuale Unione Europea condensa già oggi entrambi gli aspetti. L'unificazione federale è impedita dalle contraddizioni nazionali, ma ogni passo unitario implica la crescita del militarismo. Le sciocchezze che circolano a sinistra su una possibile Unione Europea “di pace” sono contraddette sempre più dall'evidenza.

L'indebolimento dell'imperialismo USA sulla scena mondiale, unito alle ambizioni degli imperialismi rivali, rafforza la linea di tendenza degli imperialismi europei. Essi non hanno dubbi sulla propria collocazione nell'Alleanza Atlantica. Ma sanno e sentono che la vecchia rendita di posizione della tutela militare USA non è più garantita nel futuro storico come lo è stata nel passato.
La nuova lotta tra le potenze per la spartizione del mondo pone gli imperialismi europei di fronte a un bivio: o la rassegnazione al proprio declino o lo sviluppo della propria forza militare.

In questo quadro l'imperialismo tricolore cerca un ruolo. «L’Italia, che ha la Presidenza del G7 per il 2024, nei prossimi mesi avrà un ruolo chiave nel trovare con gli alleati risposte politiche alle richieste europee. E potrà imprimere un’accelerazione proprio sulla Difesa europea, da intendersi come pilastro europeo della Nato, anche avendo a mente l’appuntamento chiave del vertice dell’Alleanza di Washington in luglio». A buon intenditor poche parole.

Partito Comunista dei Lavoratori

Antisemitismo, antisionismo e destra

 


Autunno 2023: l’incedere storico fiammeggia davanti ai nostri occhi. Il conflitto israelo-palestinese fa un salto di qualità dovuto all’eccidio perpetrato dalle forze armate israeliane ai danni della popolazione di Gaza.

Per caratteristiche, intensità, accanimento e crudeltà, laddove alle bombe si aggiunge l’assedio totale con la privazione di cibo acqua, farmaci e cure mediche, l’entità di questo massacro assurge allo stato di un vero e proprio genicidio.

In modo assurdo il riflesso pavloviano delle cancellerie dei paesi imperialisti occidentali Usa e Ue offre immediatamente il proprio sostegno ad Israele nella sua azione criminale. Dicono di voler difendere l’unico stato democratico del Medio Oriente, ma questo sostegno non è innocente. Piuttosto è indispensabile per tutelare i propri interessi geopolitici, strategici ed economici in una area cruciale per gli equilibri mondiali tra le potenze imperialiste di occidente e di Oriente.

La propaganda israeliana può contare su potenti alleati capaci di controllare i principali mass media occidentali e con essa, almeno così si augurano, l’opinione pubblica di questa parte di mondo.
Qualcosa però va storto.

La realtà del genocidio va in onda sui canali dell’informazione mondiale non occidentale e non ad essa subalterni e viene veicolata in maniera virale sui social. Questa realtà non può, così, essere nascosta o travisata.
Esplode il più grande movimento mondiale di sostegno ad un popolo storicamente oppresso dai tempi della guerra imperialistica americana contro il Vietnam.

Nei paesi arabi, in Indonesia, in Suda America, in Canada, negli Usa centinaia di migliaia, soprattutto giovani scendono in piazza per sostenere la causa palestinese e chiedere il cessate il fuoco immediato.
In Europa mobilitazioni imponenti si verificano nel Regno Unito e in Spagna.

La Francia e la Germania sono attraversate da manifestazioni piene di tensione con le forze dell’ordine.


LA REPRESSIONE DEI GOVERNI OCCIDENTALI CONTRO LE MOBILITAZIONI PRO-PALESTINA

Le autorità francesi già dal 10 ottobre vietano le manifestazioni in solidarietà alla Palestina. Una misura completamente antidemocratica e tanto più odiosa di fronte alla sacrosanta indignazione di fronte agli indiscriminati bombardamenti che stanno distruggendo Gaza e provocando stragi tra i civili, tra cui, numerosissimi, bambini e donne. La repubblica borghese, stato servo dell’imperialismo francese, mostra i muscoli. Ma gli arresti e anche il divieto della sola esposizione della bandiera palestinese non fermano il moto spontaneo di solidarietà. Tanto che il giornale di destra Le Figaro, lancia una campagna isterica contro le compagne e i compagni dell’NPA colpevoli di schierarsi con la resistenza palestinese ed invocare una nuova Intifada, chiedendone lo scioglimento.

Anche in Germania le manifestazioni sono tutte vietate, si susseguono arresti di attivisti filopalestinesi. In questo Paese il governo socialdemocratico si è schierato immediatamente e senza incertezze con Israele, condendo la sua complicità con una forma particolarmente nauseante di ipocrisia: il presunto senso di colpa per l’immane sterminio pianificato delle persone di origine ebraiche durante la II guerra mondiale il cui prezzo però sarebbero chiamati a pagarlo…i palestinesi!

È una scusa, è evidente! In realtà il governo tedesco come quello francese e quello italiano difendono i propri interessi imperialistici nell’area medio Orientale, in alleanza, nella fattispecie con l’imperialismo americano.
La costante sia in Francia che in Germania è l’attacco ideologico che accompagna quello repressivo. Praticamente tutte le manifestazioni o anche solo le espressioni di contrasto ai massacri israeliani e all’invasione di Gaza e della Cisgiordania vengono bollate come complici di Hamas e antisemite.

Hamas, è a tutti gli effetti una importante organizzazione combattente della resistenza palestinese di natura piccolo borghese e ideologia islamista reazionaria. Un’organizzazione che i marxisti rivoluzionari all’interno, e nel pieno e incondizionato sostegno alla resistenza armata palestinese, devono combattere politicamente. Tuttavia, a meno di bollare come tale tutta la Resistenza palestinese, non può essere considerata un’organizzazione terroristica ed essere così privata di ogni diritto di guerra.

Tanto più i civili palestinesi non possono essere bersaglio di bombardamenti e di attacchi da parte delle forze armaste israeliane perché contengono, presuntamente o meno, i propri combattenti.

Se c’è una guerra di invasione tra Israele e la Palestina, quest’ultima ha il diritto di difendersi armi in pugno e cacciare l’invasore. E il popolo palestinese ha tutto il diritto di sostenere la resistenza come meglio può e crede.
Ma l’accusa più velenosa agli attivisti pro-Palestina è quella di antisemitismo su cui torneremo.


L’APPOGGIO AL SIONISMO DA PARTE DELLA DESTRA EUROPEA

L’appoggio di Israele travalica i confini dei maggiori gruppi del parlamento europeo. Sia il Partito Popolare Europeo che il Partito Socialista Europeo hanno fin da subito sostenuto il governo israeliano e la sua rappresaglia sulla popolazione civile di Gaza, manifestando solo qualche timido distinguo secondario di fronte ai più efferati massacri, dimostrando uno schieramento trasversale filosionista.

Ma i confini di tale schieramento sono andati oltre i confini del moderatismo politico. La destra europea, anche quella estrema ha confermato una volta di più la propria ricollocazione ideologia al fianco dello stato di Israele, nell’interesse complessivo delle potenze imperialiste europee e americana.

I più grandi partiti, da Rassemblement National di Le Pen al AFD in Germania che la compongono hanno partecipato alla canea filosionista e repressiva nei confronti delle manifestazioni al fianco della lotta palestinese nei rispettivi paesi.

Non diversamente hanno agito la Lega e Fratelli d’Italia nel governo italiano. Gli ambienti intellettuali liberali tendono considerare questa una evoluzione positiva della destra che avrebbe lasciato le sponde di un antisemitismo malcelato. In realtà questa presunzione si basa sull’equivoco tra antisemitismo e antisionismo. Se la destra si è più o meno sbottonata la camicia dell’antisemitismo è solo perché, chiamata a reali o potenziali responsabilità di governo, si è assunta in pieno l’onere di rappresentare gli interessi imperialistici occidentali che vedono nell’entità israeliana e nel suo armamento un baluardo insostituibile in Medio Oriente.

La connessione tra la natura reazionaria del sionismo e la destra europea si fa più intima trovando fertile terreno comune nell’ideologia suprematista bianca e filoccidentale di entrambi i movimenti e nel razzismo nazionalista, più esplicito in Israele, come medesimo alimento di campagne antiarabe e islamofobe che fanno presa purtroppo sia nel proletariato israeliano che in quello europeo percorso a sua volta d tensioni xenofobe nei confronti del proletariato migrante.


L’ISLAMOFOBIA CRESCENTE IN EUROPA

I ripetuti interventi militari in Medio Oriente (Iraq, Siria,) e nei paesi mussulmani dell’asia (Afghanistan) e del nord Africa (Libia) da parte dell’imperialismo americano e d delle coalizioni a geometria variabile degli imperialismi europei, con il loro corollario di “scontro di civiltà” e guerra al terrorismo, hanno rinfocolato nell’opinione pubblica americana ed europea un forte sentimento islamofobo. In Europa, in particolare, questa forma specifica di pregiudizio razziale si è connessa alla xenofobia crescente nei confronti dei migranti, in gran parte provenienti da paesi mussulmani.

Seppure sottostimati e non rappresentativi dell’entità del fenomeno, perché significativamente non esistono procedure corrette presso le forze dell’orine per rilevarli segnalarli e registrarli, gli incidenti di carattere islamofobo e razzista nei confronti dei mussulmani e dei migranti sospettati di esserlo sono in forte aumento negli ultimi anni.

A titolo esemplificativo nel Regno Unito nel decennio dai rilevamenti delle forze di polizia i crimini di odio e a sfondo razziale nei confronti della popolazione ritenuta di fede islamica sono cresciuti di oltre il 50%.
In Germania il recente studio sulle propensioni autoritarie della popolazione riporta che oltre il 70% della popolazione concorda sul fatto che dovrebbe essere vietata l’immigrazione musulmana e che quasi l’80% si sente estraneo a causa della presenza musulmana.

Tuttavia, non stiamo parlando di un fenomeno che riguardi esclusivamente le fasce popolari. Secondo il rapporto European Islamophobia Report – 2022 episodi riconducibili al pregiudizio antiislamico si riscontrano anche nel mondo della politica, dei media e delle istituzioni. A tal proposito il rapporto denuncia che, nonostante le raccomandazioni delle Nazioni Unite, la ministra dell’Integrazione del governo austriaco abbia organizzato il convegno sul contrasto alla segregazione e all’estremismo a cui hanno partecipato undici paesi europei e il cui intento è stato quello di “esportare la sua battaglia contro la cosiddetta politica Islam”.

Tra gli alleati del governo austriaco in questa poco nobile “battaglia “si pone con fervore crescente la Francia di Macron ormai sulla strada della repressione della popolazione musulmana del suo paese, contro la quale ha condotto un’ostruzione sistematica che ha comportato il controllo di circa 2000 istituzioni musulmane, 118 chiusure e il sequestro di oltre 10 M di euro nel solo periodo tra il gennaio e l’agosto del 2022. Nel campo dell’educazione il governo francese ha portato avanti, sotto le mentite spoglie del Piano Laicità politiche di controllo del corpo delle donne musulmane.

In Olanda le recenti elezioni politiche hanno visto trionfare il partito populista di destra di Geert Wilders che ha fatto dell’anti-islamismo uno dei suoi campi di battaglia prioritari. La polizia tedesca dal canto suo percorsa da crescenti fibrillazioni naziste come ormai si è evidenziato da molti anni anche se per lo più silenziata dai rapporti ufficiali del governo, si è resa responsabile di numerosi atti persecutorie illegali a sfondo razziale. Ovviamente molti di questi eventi hanno colpito la popolazione musulmana.

L’Italia ha ora un governo le cui componenti principali sono partiti i cui esponenti hanno fatto in più occasioni campagna elettorale contro l’islamismo e per il divieto e la chiusura delle moschee. Tanto che la sindaca leghista di Monfalcone si è sentita in diritto di condurre una la propria battaglia per la chiusura di ben due moschee, il divieto del burkini in spiaggia per le musulmane e del velo per le bambine a scuola.

In conclusione l’islamofobia non è solamente riconducibile ad un pregiudizio che serpeggia nella popolazione a dispetto dei più elementari principi difesi dagli stati democratici europei, come accade per le altre forme di razzismo, tra i quali sicuramente va annoverato l’antisemitismo, ma contamina anche partiti ed esponenti di governo, media pubblici e privati e le istituzioni al massimo livello rappresentando così una sorta di armamento ideologico lelle politiche interne ed internazionali delle potenze imperialiste occidentali.


ANTISEMITISMO: ALIBI E REALTÀ

Anche gli episodi di antisemitismo sono in crescita, soprattutto in Germania ed in Italia dove la tradizione antisemita, dovuta probabilmente al lascito dei regimi totalitari del passato, nazismo e fascismo, è più radicata Secondo l’Osservatorio Antisemitismo i casi in Italia sono quasi decuplicati nel decennio 2023-2023 passando da circa 50 a oltre 400.

Il problema è reale, perché mostra che in maniera crescente un settore della popolazione può essere potenzialmente attratto da suggestioni politiche razziste come l’antisemitismo, non escludendone altre come abbiamo visto, discriminatorie nei confronti di stranieri, migranti, islamici e persone di diverso colore della pelle.
Tuttavia, rispetto all’islamofobia, il problema dell’antisemitismo si differenzia perché nella quasi pressoché totalità dei casi esso non solo non riceve alcun incoraggiamento politico-istituzionale o sui media generalisti, come accade invece per la prima, ad esclusione di relativamente piccole e poco influenti frange dell’estrema destra fascista e nazista e dei loro strumenti di propaganda, ma viene attivamente combattuto da essi.

In parole povere la percezione pubblica ad ogni livello, da quello popolare a quello politico, istituzionale e dei mass media sembra essere significativamente molto più adeguata rispetto all’islamofobia.

Facendo ancora riferimento ai dati riportati dall’osservatori grande parte degli episodi citati sono insulti molto spesso veicolati dai social media come Istagram e Facebook, mentre gli episodi violenti per fortuna sono in numero ridotto. Inoltre, spesso tra le segnalazioni riportate alcune sono evidentemente viziate da un pregiudizio ideologico che riduce l’obbiettività del dato. Ad esempio, viene riportato tra i casi quello di un “Giornale studentesco di un istituto superiore milanese scritto da studenti ma sotto supervisione e responsabilità dei docenti, pubblica un articolo che, in modo semplicistico e denso di pregiudizi ideologici, ricostruisce e spiega le radici dell’attuale conflitto tra Hamas ed Israele. Il testo è una specie di scolastica dell’antisionismo che, manicheamente, pone Israele sul banco dei colpevoli ed i palestinesi su quello delle vittime. (corsivo mio)

L’analisi è attraversata da un approccio filo Hamas e fa trasparire l’idea che lo Stato ebraico sia illegittimo.”
Ora a prescindere dalla conoscenza esatta dei fatti e qui evidente l’intento dell’Osservatorio di equivocare tra antisionismo, ossia la legittima contrapposizione ad un’ideologia politico-religiosa fortemente sospetta di suprematismo e razzismo nei confronti della popolazione araba di Palestina, e l’antisemitismo, cioè il razzismo soprattutto europeo occidentale che giustificò la persecuzione fino allo sterminio degli ebrei. Questa sovrapposizione impropria viene invece data per scontata dai redattori dell’Osservatorio. Tuttavia, questo equivoco è tutt’altro che innocente ma piuttosto serve a stigmatizzare la solidarietà alla Palestina nell’opinione pubblica e ad alimentare politiche repressive nei confronti del grande movimento mondiale a sostegno della lotta del popolo palestinese.

Il contenuto di un’altra segnalazione di un presunto episodio di antisemitismo riguarda l’attacco politico alla grande manifestazione del 28 ottobre svolatasi Roma in sostegno della causa palestinese e contro il genocidio di Gaza. Le parole del breve articolo “Slogan e parole di odio al corteo pro-Palestina svoltosi ieri a Roma, con circa ventimila partecipanti giunti da tutta Italia. “Israele terrorista”, “Israele assassino”, “Israele criminale”, sono alcuni dei cori che si sono levati dal cuore della manifestazione.” tendono immancabilmente a confondere la contestazione radicale dello Stato di Israele e della sua politica di occupazione militare della Palestina con il pregiudizio antisemita ed antiebraico. Ciò che appare, però, più grave è che questo voluto e del tutto ideologico fraintendimento viene utilizzato come una clava per attaccare le manifestazioni pro-Palestina e chiederne la repressione.

Purtroppo, una conferma indiretta di questo atteggiamento deriva dal comportamento delle autorità che rappresentano la comunità ebraica italiana, le quali mentre sono giustamente solerti nel porre all’evidenza pubblica ogni minimo segnale di antisemitismo non hanno trovato tempo in questi due mesi di esprimere neanche una parola di compianto per le vittime civili di gaza, soprattutto donne e bambini.

Sul terreno della sovrapposizione abusiva tra antisemitismo e antisionismo le organizzazioni ebraiche sioniste si riuniscono con i governi delle principali potenze imperialiste europee, come Francia e Germania, a tutela dei loro interessi geopolitici. È l’alibi ideologico con cui attaccare e cercare di fiaccare il grande movimento al fianco della lotta palestinese ed il sostegno crescente che riceve dall’opinione pubblica. Un alibi spesso smascherato da vasti settori ebraici che partecipano attivamente al movimento contro il sionismo, come si è visto soprattutto negli USA.


LA POSIZIONE STORICA DEL TROTSKISMO CONSEGUENTE RIGUARDO AL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE

L’alibi della lotta antisemitismo deve essere respinto al mittente. Nel sostegno ad un’occupazione militare da parte di uno stato colonialista non si ritrova una goccia del contrasto di qualsiasi discriminazione contro popoli e settori oppressi della società. Tanto più nei confronti del popolo ebraico.

Da questo punto di vista l’identificazione del popolo ebraico, dei suoi intimi interessi con la “difesa” dello stato israeliano è totalmente abusiva, oggi, quando le forze armate israeliane stanno compiendo lo sterminio della popolazione di Gaza e stanno terrorizzando i cittadini della Cisgiordania, quanto ieri.

«I bundisti [membri del Bund, partito socialista ebraico cui appartenevano la maggioranza dei combattenti dell’insurrezione del ghetto, nda] non aspettavano il Messia, né pensavano di emigrare in Palestina. Pensavano che la Polonia fosse il loro paese e combattevano per una Polonia giusta e socialista, in cui ogni nazionalità avrebbe avuto la propria autonomia culturale, e in cui i diritti delle minoranze sarebbero stati garantiti». (Marek Edelman, comandante militare del ghetto di Varsavia. Socialista antisionista. Sostenitore dei diritti del popolo palestinese). Sono le parole dell’eroico comandante ebreo dell’insurrezione del ghetto di Varsavia contro l’occupazione nazista che nel 1943 cercò disperatamente di anticipare la liberazione della città e di risparmiare la vita a decine di migliaia di propri connazionali.

Edelman fu cinicamente avversato dal sionismo di destra che lo iscrisse tra i “nemici” di Israele per il suo appoggio ai partigiani palestinesi. La sua vita eroica fu dunque sempre un esempio inconfutabile di antisionismo antirazzista in lotta senza quartiere contro l’antisemitismo.

La tradizione politica da cui proviene il PCL incarnò e proseguì lungo lo stesso solco contro ogni forma di razzismo e perciò contro il sionismo. Già nel 1939 i trotskisti palestinesi (di origine sia araba che ebraica) dichiaravano «la loro intera solidarietà con il movimento nazionalista arabo.


Nel suo numero di novembre-dicembre 1947, Quatriéme Internationale, organo del Comitato Esecutivo Internazionale, riassumeva così le posizioni dell’Internazionale: “La posizione della Quarta Internazionale di fronte al problema palestinese resta chiara e netta come in passato. Essa sarà all’avanguardia della lotta contro la spartizione, per una Palestina unita e indipendente, nella quale le masse determineranno sovranamente la loro sorte attraverso l’elezione di un’Assemblea costituente»

Il Congresso mondiale della Quarta Internazionale riunitosi nell’aprile del 1948 riassumeva le posizioni complessive del nostro movimento in questi termini: «Negli Stati arabi del Medio e del Vicino Oriente e in Africa del Nord le sezioni e gruppi della Quarta Internazionale sono a favore dell’unificazione dei Paesi arabi in federazioni di repubbliche arabe libere. Queste sezioni lottano per l’eliminazione dell’imperialismo – britannico e francese – contro l’intervento imperialista degli USA, contro i proprietari terrieri complici degli imperialisti, contro il loro strumento: la Lega araba; per delle Assemblee costituenti e per la più larga democrazia» … «In ciò che concerne particolarmente la Palestina, la Quarta Internazionale respinge come utopica e reazionaria la soluzione “sionista” alla questione ebraica; dichiara che il ripudio totale del sionismo è la condizione sine qua non per una fusione delle lotte degli operai ebrei con le lotte emancipatrici, sociali e nazionali dei lavoratori arabi». Il contrasto dell’antisemitismo, così come di ogni forma di razzismo e pertanto del sionismo è una naturale conseguenza dell’antimperialismo della Quarta internazionale di Trotsky.

Anche su questo terreno i marxisti rivoluzionari condussero sempre una battaglia senza quartiere nei confronti delle ideologie borghesi, conservatrici e liberali, e quelle maggioritarie, al tempo, nel movimento operaio: la socialdemocrazia e lo stalinismo entrambi favorevoli alla nascita dello stato di Israele, uno stato borghese, eretto sul sangue del popolo palestinese e protetto dall’imperialismo USA.


PER UNA PALESTINA LIBERA, DEMOCRATICA LAICA E SOCIALISTA

Il PCL, rivendica pienamente questa grande tradizione politica. Per questo sviluppa una polemica anche nei confronti di partiti nazionali e internazionali della sinistra comunista di varia ascendenza comprese alcune organizzazioni trotskiste che rifiutano sostanzialmente l’appoggio incondizionato alla resistenza palestinese.

Il PCL combatte nella sinistra tutte le posizioni che in nome del pacifismo o del carattere democratico di Israele in definitiva mettono sullo stesso piano oppressi ed oppressori con vari stratagemmi: da quello di un’agognata pace nonostante l’oppressione violenta che subisce il popolo palestinese a quella della demonizzazione di Hamas e della resistenza palestinese in nome del presunto diritto di Israele a difendersi, o tutt’al più collocandosi in una ambigua posizione di disfattismo bilaterale, in sostanza una diserzione.

Il PCL non riconosce affatto questo diritto giudicandolo solamente l’abuso di un regime coloniale sorretto dagli USA e dagli imperialismi europei, e, in una diversa misura, persino dagli imperialismi loro rivali quali quello russo e cinese. Al contrario auspica e persegue la distruzione rivoluzionario dello stato sionista.

I marxisti rivoluzionari non riconoscono gli accordi di Oslo e ritengono del tutto irrealistica la proposta dei due stati per due popoli, oggi ridotta ad una foglia di fico per i governi delle potenze imperialiste e i partiti filo-imperialisti che appoggiano Israele e così favoriscono il massacro della popolazione palestinese. Per questo denunciano con forza tutte le forze della sinistra che vi fanno riferimento.

Si pongono incondizionatamente al fianco della resistenza armata palestinese contro l’occupazione israeliana, con il fine della liberazione della Palestina e di tutto il suo territorio storico, ossia quello precedente al piano di spartizione del novembre del 1947 voluto dalle Nazioni Unite.

Questo appoggio incondizionato al movimento partigiano palestinese non significa alcun sostegno alla sua direzione politica, detenuta soprattutto dall’alla militare di Hamas che considerano un’organizzazione fondamentalista islamica di natura reazionaria.

Combattono il fine politico della costituzione di una repubblica islamica perseguito dalle organizzazioni islamiste a capo della resistenza palestinese, perché lo considerano un obbiettivo reazionario, oppressivo nei confronti delle minoranze e delle donne e destinato solamente a svendere la libertà del popolo palestinese agli interessi dei regimi arabo-islamici e di altre potenze imperialiste come Russia e Cina.

Contrappongono a questo proposito il fine della costruzione di una Palestina, libera laica e socialista, l’unica che possa garantire la piena emancipazione del popolo palestinese e la tutela dei diritti di tutte le minoranze a cominciare da quella ebraica. Allo stesso tempo sono ben consapevoli che lo sviluppo socialista della Palestina è impossibile se non nel quadro della più grande rivoluzione araba e socialista del Medioriente che si ponga il fine di distruggere tutti i regimi islamisti reazionari, e di sconfiggere tutte le potenze imperialiste che opprimono il popolo arabo con la costruzione di una Federazione socialista di tutto il Medioriente.

Il PCL, pertanto, è impegnato giornalmente nella promozione e nella partecipazione ad ogni forma di iniziativa in solidarietà con la lotta del popolo palestinese e con l’enorme movimento che si è sviluppato in tutto il mondo a suo sostegno

Federico Bacchiocchi

La nostra Africa

 


La vera natura del Piano Mattei

31 Gennaio 2024

Il governo Meloni sventola il Piano Mattei. Le opposizioni borghesi liberali (PD, M5S, Azione) criticano l'insufficienza dei mezzi e le modalità operative, ma condividono i suoi obiettivi. In definitiva tutti i partiti borghesi e l'intera stampa padronale salutano la proiezione in Africa come occasione storica dell'Italia. Vediamo allora di cosa si tratta.

L'Africa è oggi un terreno strategico della competizione sfrenata fra i poli imperialisti, vecchi e nuovi. Non è un caso. La sua popolazione ha un tasso di crescita senza paragoni al mondo. L'età media è bassissima. La riserva di manodopera a basso costo è potenzialmente immensa. Le materie prime di cui l'Africa dispone, sia nel campo delle energie fossili che in quello delle nuove materie prime (litio e cobalto in primis), rappresentano una ricchezza sterminata. La superficie di terra non coltivata – 40% – non ha pari in altri continenti. La corsa all'Africa ha qui le sue prime ragioni materiali.

Seguono le ragioni politiche e strategiche. Le vecchie potenze imperialiste di tradizione coloniale, a partire dalla Francia, hanno subito lo sfaldamento della propria area di influenza e controllo. Le nuove potenze imperialiste, Cina e Russia, nel corso dell'ultimo decennio hanno allargato a dismisura la propria presenza nel continente: la Cina investendo prevalentemente in infrastrutture (Nuova Via della Seta), la Russia offrendo protezioni militari e diplomatiche (Burkina Faso, Mali, Repubblica Centrafricana, Niger). Gli Stati Uniti e l'Unione Europea cercano ora uno spazio di recupero.

L'Italia si candida a paese pivot dell'impresa. L'imperialismo italiano gioca una partita multipla: si offre agli USA come alleato affidabile, senza le posture grandeur dell'imperialismo francese; cerca di rimpiazzare la Francia nell'Africa subsahariana capitalizzando in proprio il suo declino; si presenta in sede UE come naturale apripista di un rilancio europeo in Africa, e come crocevia strategico in fatto di rifornimenti energetici (Italia come hub del gas nel Mediterraneo). Il Piano Mattei è la leva centrale dell'operazione. Il protagonismo dell'Italia nella missione navale nel Mar Rosso, il nuovo investimento nel militarismo italiano annunciato dal ministro Crosetto rientrano in questa politica estera.

Il Piano Mattei è fortemente centralizzato nella sua struttura di comando. La presidenza del Consiglio dei Ministri capeggia la sua cabina di regia. Il PD contesta questa modalità di gestione perché taglia fuori strutture e ambienti dell'alta burocrazia statale, nel campo della cooperazione e degli affari esteri, con cui il PD ha tradizionalmente buone entrature. Ma non è questo che interessa a noi. A noi interessa il contenuto della missione. Un contenuto classicamente imperialista.

All'incontro con venticinque capi di stato africani sedevano non a caso i gioielli di famiglia del capitalismo italiano. ENI, ENEL, Fincantieri, Leonardo, SNAM, Terna, ACEA, Salini Impregilo. ENI svolge il ruolo centrale. Si tratta della principale azienda straniera operante nel continente africano. Il suo obiettivo è estendere il controllo su giacimenti di gas e petrolio, dall'Algeria al Mozambico all'Angola, o strappando nuove concessioni da gestire in proprio o attraverso accordi di cartello con aziende locali (come la Sonatrach algerina). L'essenziale è evitare che se ne approprino concorrenti.

Tra marzo 2022 e maggio 2023 ENI ha realizzato in Africa ben undici intese strategiche (Benin, Egitto, Repubblica Democratica del Congo, Mozambico, due intese rispettivamente in Libia, Algeria, Angola). L'azienda sbandiera la propria disponibilità a lasciare al mercato domestico il 90% del gas che produce in Africa e nel mondo, secondo le parole di Descalzi. Balle. Sono le promesse che ENI sventola da decenni, puntualmente smentite dalla stessa composizione della bilancia commerciale italiana e dall'immiserimento progressivo dei paesi ospitanti. Peraltro nel caso neppure consultati, come ha dichiarato, a denti stretti, il presidente dell'Unione Africana Moussa Faki. La coltivazione estensiva di biocarburanti è un altro aspetto della missione ENI. La ottiene o strappando la concessione di terre incolte, sottratte così alla produzione agricola, o attraverso l'esproprio indotto di contadini e terre ad altro adibite. Nell'un caso come nell'altro una spoliazione di ricchezza in un continente già segnato dalla fame.

È la stessa logica predatoria che presiede l'azione del capitalismo italiano in altri settori. Operano in Africa 1600 imprese italiane, in segmenti che vanno dai prodotti chimici ai macchinari alle infrastrutture. Nel campo delle infrastrutture domina il gruppo Salini Impregilo, impegnato in particolare nel settore idroelettrico. Le sue dighe in Etiopia sono oggetto di contestazione da parte di contadini poveri, privati per questa via dell'accesso all'acqua per le proprie colture. Ed è solo un esempio tra i tanti.

Il debito è una leva centrale del Piano Mattei.
La questione del debito estero africano sta letteralmente esplodendo. Il debito estero continentale ammonta oggi a 655 miliardi di dollari (282 verso investitori privati, 223 verso organizzazioni multinazionali, 149 accordi bilaterali). Rappresenta un terzo del debito pubblico complessivo (1800 miliardi di dollari). È cresciuto di quasi il 200% tra il 2010 e il 2020. La recente impennata dei prezzi dei beni alimentari, che i paesi africani sono costretti a importare a causa del saccheggio cui sono sottoposti, ha ulteriormente pesato sulla loro bilancia dei pagamenti, e dunque sul debito estero. L'innalzamento generale dei tassi d'interesse ha fatto il resto. Ghana, Zambia, Etiopia hanno dichiarato il default. Kenya e Senegal seguono a ruota. Il solo pagamento degli interessi sul debito estero sta prosciugando le riserve valutarie del grosso dei paesi africani, a scapito di sanità, istruzione, servizi sociali, già disastrati.

Il Piano Mattei partecipa a questa rapina. I cinque miliardi stanziati – presi peraltro dal Fondo per il Clima e da quello di Cooperazione – si risolvono prevalentemente in prestiti. Cassa Depositi e Prestiti, SACE, SIMEST, sono tutte coinvolte nell'operazione, e per questo erano presenti all'incontro di Roma. L'Italia fa leva sulla disperazione finanziaria dei clienti africani per ottenere in cambio di prestiti importanti concessioni in fatto di giacimenti, terre, materie prime.
Il debito estero è insomma il nodo scorsoio dell'operazione.

Non c'è solo un utile economico. Il blocco delle migrazioni dall'Africa è l'altro obiettivo del Piano Mattei, a uso e consumo delle esigenze elettorali del governo, e di Fratelli d'Italia in particolare.
La retorica di Giorgia Meloni secondo cui lo sviluppo e prosperità garantiti all'Africa dal Piano provvederebbero a disincentivare le partenze appartiene al genere letterario dell'imperialismo umanitario, che ha alle spalle più di un secolo di storia. Storia di crimini e di sangue. La verità è esattamente opposta. La continuità della rapina dell'Africa, cui il Piano Mattei per la sua parte concorre, è una garanzia della continuità delle migrazioni. Proprio per questo il governo interviene sui paesi africani chiedendo loro, in cambio di prestiti, di bloccare militarmente i flussi con misure d'ordine e di polizia, e di predisporre sul proprio territorio i centri di detenzione dei migranti. È la logica dell'accordo Italia-Tunisia, e dell'accordo con la Turchia sul versante Haftar in Libia. È la logica dell'intesa fra Italia e Albania, oggi esportata in Africa.

Questo nuovo protagonismo italiano in politica estera non appartiene solo alla destra. Ha il sostegno di ambienti liberali e dei poteri decisivi dell'establishment. Il Corriere della Sera, La Stampa, e la rivista Limes in particolare, sono da tempo impegnati nel sollecitare una politica estera italiana all'altezza delle nuove sfide. Tutta la loro argomentazione si basa sul fatto che la politica mondiale ha ormai rotto gli argini delle vecchie diplomazie del dopoguerra, e che l'Italia deve riscoprire il proprio “interesse nazionale” dotandosi degli strumenti adatti, naturalmente entro il quadro della concertazione europea. La campagna favorevole alla nuova corsa agli armamenti dei paesi UE da parte di tutta la borghesia italiana muove da qui. Il piano Mattei è parte di un riposizionamento generale dell'imperialismo di casa nostra.

Solo una sinistra anticapitalista e rivoluzionaria può sviluppare nel movimento operaio l'opposizione all'imperialismo tricolore.

Partito Comunista dei Lavoratori