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La Francia a un bivio

Il movimento dei gilet gialli scuote la Francia.
 
Il movimento ha coinvolto nelle manifestazioni territoriali, complessivamente intese, duecento/trecentomila persone, e incontra le simpatie o l'aperto sostegno della netta maggioranza della società francese (72% a favore secondo un sondaggio accreditato del 5 dicembre). Questo sostegno non è venuto meno neppure dopo gli scontri di piazza e dopo l'ampia campagna di criminalizzazione dei gilet gialli da parte del governo e del ministero dell'Interno. Al contrario. Dopo tre settimane, la combinazione di manifestazioni di strada e sostegno della popolazione ha costretto governo e Macron a revocare le misure più invise e contestate (prima sospensione, poi ritiro della imposta sulla benzina).
La svolta è stata repentina. Il 27 novembre Macron rifiutava sdegnato di rivedere la tassa sui carburanti. Sette giorni dopo l'ha abolita scavalcando Eduard Philippe, Presidente del Consiglio. Il 10 dicembre, nel discorso alla nazione, ha annunciato in aggiunta l'aumento del salario minimo intercategoriale di 100 euro (che poche ore prima il ministro del Lavoro Muriel Penicaud aveva escluso) e l'annullamento del prelievo forzoso sulle pensioni inferiori ai 2.000 euro. È la misura di un clamoroso ripiegamento. Naturalmente, le concessioni sono in buona parte truccate. Macron ha rassicurato le imprese che non dovranno sborsare un euro, sarà tutto a carico del governo, e il governo si rifarà attraverso tagli alla spesa sociale, o nuove tasse sul lavoro, o il ricorso al debito. Ma non è questo il punto. Il punto è politico. Macron “cede alla piazza”, titola Le Figaro, cogliendo la sostanza politica degli avvenimenti. A sua volta l'indietreggiamento del governo e della presidenza della Repubblica possono incoraggiare altre rivendicazioni sociali, nel mentre misurano l'indebolimento verticale del governo. Una crisi politico-istituzionale strisciante è oggi il sottoprodotto della mobilitazione sociale.


IL MOVIMENTO DEI GILET GIALLI E LA SUA NATURA SOCIALE COMPOSITA

Il movimento dei gilet gialli ha una natura composita. Il suo sfondo è l'impoverimento della società francese: 15% della popolazione sotto il livello di povertà; disoccupazione al 10%; metà della popolazione con meno di 1.700 euro, cinque milioni persone con meno di 850 euro.

Il nucleo centrale della sua base sociale è segnato da settori declassati di piccola borghesia, popolazione povera dei centri urbani piccoli e medi, ambienti popolari colpiti da processi concentrati di deindustrializzazione (in particolare nel Nord), popolazione povera delle zone rurali. Ma il movimento coinvolge anche un significativo settore di lavoratori salariati del settore pubblico e privato, di gioventù precaria, di disoccupati. La classe operaia in quanto classe non ha partecipato alla mobilitazione dei gilet, se non in forma atomizzata e dispersa, ma milioni di lavoratori e lavoratrici guardano con simpatia alle mobilitazioni in corso, come rivelano i sondaggi. La paura di una saldatura attiva tra movimento dei gilet gialli, classe operaia, mobilitazione studentesca è al centro delle preoccupazioni politiche della borghesia francese. L'indietreggiamento di Macron di fronte al movimento mira a disinnescare questo rischio.

Il movimento dei gilet gialli non ha una piattaforma definita, né una struttura organizzata capace di selezionarla o di imporla. Esso ha agito fondamentalmente come carta assorbente e cassa di risonanza dei sentimenti confusi che si agitano nel profondo della società francese, dopo dieci anni di grande crisi. Risentimento della provincia contro Parigi; rifiuto dell'impoverimento in atto da parte di settori di classe media, protesta contro i bassi salari, rigetto della precarietà di vita e di lavoro; e al tempo stesso rigetto di lussi e ricchezze della classe dominante, delle ruberie dei politici, della loro sordità alle ragioni "del popolo”: tutto confluisce nel calderone del movimento, componendo un grande cahier de doléances. Il tema sociale e di classe è obiettivamente centrale nella protesta, non nella coscienza e nell'immaginario di chi la esprime. La linea di frattura percepita e rappresentata è prevalentemente quella tra il popolo e il potere politico. Non a caso l'odio verso Macron (“Macron démission!”) è il sentimento dominante del movimento. “Il Presidente dei ricchi” è stato ed è, suo malgrado, il fattore unificante della ribellione; la formula che unisce in sé l'elemento sociale e politico che la anima.


UN MOVIMENTO REAZIONARIO?

La natura proteiforme e composita del movimento ha consentito l'inserimento in esso, o il fiancheggiamento scoperto, di settori reazionari. In qualche caso elementi fascisti e antisemiti, in altri casi semplici provocatori e avventurieri. La dimensione web del confronto pubblico - tra blog e gruppi facebook - ha offerto, per sua stessa natura, un libero spazio anche a queste voci. L'imbastardimento della coscienza politica di settori di massa offre loro alcune sponde indubbie.

Tuttavia non siamo in presenza di una mobilitazione egemonizzata e guidata dalla destra, come nel caso - in ben altri scenari - della ribellione di Piazza Maidan in Ucraina o delle manifestazioni della MUD in Venezuela. Né il movimento è assimilabile, per stare all'esperienza italiana, al movimento dei "forconi" del 2013, sospinto e diretto in Sicilia da corporazioni proprietarie del trasporto locale. Nessun soggetto politico reazionario guida oggi la protesta dei gilet gialli. Le posizioni reazionarie anti-immigrati sono presenti, ma relativamente marginali. Gesti e atti squadristi sono stati sconfessati e denunciati ripetutamente dai manifestanti stessi. Le rivendicazioni che si affacciano nel movimento sono certo di carattere multiforme, ma comprendono anche istanze sociali classiste, estranee alla cultura della destra: la patrimoniale sulle grandi fortune, l'aumento generale e consistente dei salari, la cancellazione delle tasse sul lavoro, la riduzione dell'età pensionabile. Anche l'eco indiretta delle mobilitazioni di classe contro la legge El Khomri trova un proprio riflesso nei gilet gialli. La bandiera tricolore, non quella rossa, primeggia nelle manifestazioni, ma al tempo stesso i simboli evocati sono simultaneamente il 1789 e il maggio '68. La misura di una grande confusione, ma non certo i simboli della reazione, tanto meno nella storia di Francia.

Lo stesso Front National di Marine Le Pen cerca ovviamente di subordinare il movimento al nazionalismo francese anti-UE, ma si tiene fuori dal movimento stesso, tanto più dopo la sua radicalizzazione e la dinamica di scontri con la Gendarmerie. Le Pen non gioca la carta dell'egemonia sul movimento di piazza, ma quella della sua capitalizzazione elettorale passiva. Come fa, sul suo proprio versante, la France Insoumise di Mélenchon.

Il movimento dei gilet gialli in queste tre settimane ha visto confrontarsi al proprio interno posizioni diverse. Non solo sulla piattaforma rivendicativa, ma anche e soprattutto sul posizionamento da tenere verso il governo e Macron. È la dinamica stessa di scontro frontale e di strada col potere che ha sospinto questa differenziazione. Da un lato, un'area moderata (i "gilet liberi”) spaventata dalla radicalizzazione in atto ha puntato ad una soluzione negoziata col governo che consentisse il riflusso delle manifestazioni di strada e il recupero di un movimento di opinione. Dall'altro, un settore più radicale ha mantenuto una linea di scontro frontale col governo attorno alla rivendicazione delle dimissioni di Macron. Il confronto tra queste due posizioni non misura una differenziazione sociale, ma riflette diverse posture politiche. Non a caso sul primo versante si sono raccolte personalità politiche di estrazione gaullista (Benjamin Cauchy, Laurent Wauquiez) che avevano sostenuto il movimento iniziale per poi rigettare la sua “svolta estremista”. L'arretramento unilaterale di Macron di fronte alla pressione di piazza è anche, per molti aspetti, una sconfitta di questa posizione conciliativa. Mentre gli ambienti della destra, inclusa Marine Le Pen, denunciano «la presenza sempre più significativa tra i gilet gialli di sindacalisti di professione e sinistrorsi di CGT e SUD [Solidaires Unitaires Démocratiques, sindacato francese]».


NEL VARCO APERTO ALTRI SOGGETTI SOCIALI

Tuttavia, allo stato attuale delle cose, il vero punto interrogativo non riguarda la dinamica interna al movimento dei gilet gialli, quanto la possibile irruzione di nuovi soggetti sociali dentro il varco che il movimento ha aperto.

Il movimento dei gilet, nel suo attuale formato e con le sue forme d'azione (blocchi stradali in periferia, manifestazioni settimanali a Parigi), è destinato con ogni probabilità a una parabola discendente (287.000 persone in strada il 17 novembre, 160.000 il 24 novembre, 136.000 il 1 dicembre, 125.000 l'8 dicembre, stando ai dati forniti dal ministero dell'Interno). Ma dentro il varco che è stato aperto si sono affacciati gli studenti, con la crescita e l'estensione delle occupazioni e picchettaggi dei licei (200 scuole in agitazione il 7 dicembre, 450 l'11 dicembre), attorno a proprie specifiche rivendicazioni; e hanno iniziato a muoversi quattro università (a partire da Nanterre, con più di 3.000 studenti coinvolti). L'immagine di 153 giovani studenti inginocchiati con le manette ai polsi e insultati dai poliziotti ha evocato un sentimento vasto di solidarietà e di sdegno, in particolare tra i giovani.

Si muovono anche alcuni settori sindacalizzati della classe. Alcune sezioni sindacali della CGT (impresa Lafarge) dichiarano di associarsi ai gilet gialli. CGT e Force Ouvrière dei trasporti hanno indetto uno sciopero a tempo indeterminato a partire dal 9 dicembre per chiedere la remunerazione degli straordinari. I sindacati dei braccianti e organizzazioni della piccola proprietà contadina hanno proclamato lo stato di agitazione. La CGT, dopo tre settimane di passività, ha dovuto convocare per il 14 dicembre una giornata d'azione nazionale attorno ad una piattaforma generica di rivendicazioni minimali (“per i salari, le pensioni, la protezione sociale”). La logica della burocrazia è ovviamente quella di usare i gilet gialli come leva di rilancio del proprio ruolo insostituibile di controllore sociale agli occhi di Macron e del MEDEF, la Confindustria francese. Il segretario Martinez ha dichiarato: «Se il governo vuole degli interlocutori sociali siamo ben contenti di ricoprire quel ruolo» (Le Monde, 8 dicembre). Ma il punto è se al di là dei calcoli della burocrazia, l'iniziativa sindacale possa trascinare di fatto una ripresa d'azione del movimento operaio, e un suo ingresso nella scena della crisi.

“E se i salariati si ribellano?” è il titolo di un libro edito in Francia da qualche mese, scritto da Patrick Artus. Dà la misura del vero spauracchio della borghesia francese.


MACRON E LA BUROCRAZIA SINDACALE

Le relazioni tra Macron e le burocrazie sindacali sono una cartina di tornasole dell'evoluzione politica francese.

Macron ha costruito la sua stagione politica attraverso la ricerca di una relazione diretta tra “il Presidente” e il popolo, rimuovendo ogni spazio di reale negoziazione coi sindacati. Prima lo scontro sul peggioramento ulteriore della Legge El Khomri, l'equivalente del Jobs Act italiano, poi il braccio di ferro prolungato coi ferrovieri, sono stati impostati con questa logica. Oggi l'aspirante Bonaparte è costretto a constatare che la relazione diretta col popolo per comporre attorno a sé un blocco d'ordine non solo è fallita ma si è risolta in uno scenario opposto: la ribellione di ampi strati popolari contro la stessa immagine del Presidente. “Voleva fare il re ed ha generato i sanculotti”, ha osservato con una battuta brillante il giornalista Raphael Glucksmann. A questo punto il mancato re ha dovuto chiedere ufficialmente ai sindacati di promuovere un appello pubblico alla calma per scongiurare il peggio, e le burocrazie sindacali si sono affrettate ad accogliere la supplica di Macron formulando un appello pietoso (“chiediamo a tutti di evitare la violenza”) per incassare la legittimazione offerta loro da un sovrano decaduto. Solo SUD ha rifiutato di firmare l'appello e di incontrare Philippe. È la prova che il regime della V Repubblica non si regge sull'autorità del governo, né tanto meno sulla sua autorevolezza, ma sulla passività delle direzioni del movimento operaio, che oggi, a fronte del collasso del PS e del PCF, sono essenzialmente le burocrazie sindacali. Le stesse burocrazie che rifiutarono di promuovere un vero sciopero generale contro Hollande sulla legge El Khomri offrono oggi a Macron una ciambella di salvataggio. Se la ciambella tiene o è bucata lo dirà il corso successivo degli avvenimenti.


L'IRRUZIONE DELLA CLASSE OPERAIA COME FATTORE DECISIVO

In ogni caso, solo l'irruzione sulla scena del movimento operaio francese può dare una prospettiva alla mobilitazione in corso, a partire da un baricentro sociale, una piattaforma generale, una forma di organizzazione. Solo un'egemonia di classe sulla protesta sociale può liberarla da retaggi e influenze piccolo-borghesi, come da ogni equivoco reazionario.

La rivendicazione dello sciopero generale attorno ad una piattaforma di rivendicazioni unificanti diventa centrale nell'attuale scenario. Si tratta di chiedere innanzitutto che i sindacati di massa si assumano questa responsabilità, portando questa rivendicazione nella giornata d'azione del 14 dicembre come in ogni lotta di settore; e al tempo stesso di unire nell'azione tutti i settori di avanguardia della classe disponibili a battersi per l'innesco concreto di una dinamica generale di sciopero.

Importante, tanto più in questa fase, l'incoraggiamento e sviluppo delle forme di autorganizzazione, nei luoghi di lavoro in lotta e nelle scuole occupate. Le forme di autorganizzazione dei lavoratori possono diventare un centro di raggruppamento più largo degli strati popolari, e un fattore di direzione della protesta sociale dei territori.

Da questo punto di vista l'iniziativa promossa dai compagni di Anticapitalisme & Révolution (componente marxista rivoluzionaria del NPA) attorno alla parola d'ordine dello sciopero generale, delle assemblee generali in tutti i luoghi di lavoro, dello sviluppo dell'autorganizzazione della lotta, rappresenta un'azione esemplare.

Di certo un'eventuale dinamica di sciopero generale e di autorganizzazione, nell'attuale contesto politico-istituzionale, potrebbe aprire in Francia una crisi rivoluzionaria: da una parte per lo sviluppo dell'egemonia di classe sulla protesta popolare; dall'altro per l'estensione del fronte sociale di massa a fronte dell'indebolimento sostanziale del consenso e delle istituzioni borghesi.


VIA MACRON! GOVERNO DEI LAVORATORI E DELLE LAVORATRICI!

Per questa stessa ragione è importante introdurre, nella mobilitazione di massa e di classe, la prospettiva di un'alternativa politica: un governo dei lavoratori, delle lavoratrici, della popolazione povera di Francia.

La stessa centralità della parola d'ordine unificante “dimissioni di Macron” pone l'esigenza di un'indicazione alternativa. Macron è incerto se rimuovere o meno Eduard Philippe e cambiare cavallo, mentre tutte le contraddizioni del suo campo si acuiscono. Le Pen e Mélenchon per ragioni complementari e simmetriche chiedono lo scioglimento dell'Assemblea nazionale ed elezioni anticipate: il caro vecchio ricorso della borghesia francese di fronte all'ingovernabilità del conflitto sociale (vedi l'accordo tra PCF e De Gaulle per stroncare nelle urne il maggio '68). Il PCF e il PS si affidano all'attesa delle elezioni europee tra sei mesi, senza peraltro sapere in che formato andarci. Nessuna forza politica della sinistra riformista francese avanza né una proposta di lotta sul terreno sociale né una prospettiva politica alternativa a Macron, incapaci di andare oltre il piccolo recinto autoconservativo della routine parlamentare e istituzionale.

La direzione del Nouveau Parti Anticapitaliste, formazione di matrice trotskista, propone positivamente la convergenza delle lotte, ma rimuove la prospettiva politica. È il riflesso di una posizione centrista che si affida alla dinamica del movimento senza segnare una rotta, magari col riflesso condizionato, sottotraccia, dell'attesa di qualche soluzione riformista (un governo “antiausterità” senza rottura col capitale), utopica e subalterna al tempo stesso. Non è questa la logica dei marxisti rivoluzionari.

Il governo dei lavoratori e delle lavoratrici, basato sulle forme di autorganizzazione di classe e di massa, è l'unica alternativa politica progressiva alla crisi di Macron e della V Repubblica francese. Lo è oggettivamente, perché le stesse rivendicazioni sociali che si affacciano nella mobilitazione in corso non possono essere realmente soddisfatte nel loro insieme senza rompere con le compatibilità del capitale, a partire dalla cancellazione di un debito pubblico che ammonta a quasi il 100% del Pil, ciò che solo un governo dei lavoratori può fare. Ma lo è anche soggettivamente: perché la dinamica di rottura col potere politico è profonda, e ampi settori di massa cercano a modo loro una soluzione radicale della crisi. Questa soluzione radicale la deve avanzare il movimento operaio contro il capitalismo francese. Il protagonismo del movimento operaio può oggi segnare la dinamica degli eventi, e può farlo compiutamente solo se assume una propria prospettiva di alternativa sociale come bandiera contro il capitale. Se non saranno i lavoratori e le lavoratrici ad offrire una soluzione alla crisi francese, sarà la reazione, sia essa nella forma di una possibile stabilizzazione del governo Macron per mezzo della repressione e della ripresa delle politiche bonapartiste, sia essa nella forma dello sviluppo, come in altri paesi europei, di una deriva reazionaria che provi ad imporre una diversa gestione capitalistica della crisi, di carattere nazionalista e populista, in ogni caso sempre contro il lavoro.

Proprio per questo sosteniamo fino in fondo l’appello alla lotta della classe lavoratrice ed all’autorganizzazione lanciato da A&R che pubblichiamo su questo stesso sito.

Questo è il bivio di prospettiva che si è aperta in Francia, e che non riguarda solo la Francia.

12 dicembre 2018 
Marco Ferrando