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Crisi di governo in Germania: la SPD stacca la spina

 


Articolo originariamente pubblicato da ArbeiterInnenmacht.



Mercoledì, ore 21:25: Scholz si presenta nella Cancelleria davanti alle telecamere. Con il suo consueto tono asciutto, spiega la notizia che pochi minuti prima era apparsa sui media: in qualità di cancelliere ha sollevato dall'incarico il ministro delle finanze Christian Lindner. Questo passo – dice – è necessario per evitare danni alla Germania e per non lasciarla sprofondare nel caos. La riluttanza di Lindner al compromesso non serve al Paese, ma a salvare il proprio partito. Parole pesanti, che arrivano inaspettatamente dalla SPD. Significano infatti la fine del governo semaforo [SPD-verdi-liberali]. Ma cosa è successo, e quali avvenimenti si nascondono dietro la crisi di governo?


COSA È SUCCESSO?

Si possono ricordare malignamente le parole di Lindner: «È meglio non governare che governare male». Perché da mesi c'era la crisi, e ci sono state molte sportellate da parte dell'opposizione, come ad esempio da parte di Markus Söder [leader dei cristiano-sociali bavaresi della CSU]. Anche Merz [leader della CDU] ha fatto del suo meglio per spingere avanti il governo. La cronologia delle controversie è lunga: legge sul riscaldamento, fondi di investimento, assistenza infantile di base, sussidi sociali e infine la questione del bilancio. I partiti di governo si sono ripetutamente bloccati a vicenda e hanno cercato di far valere le loro posizioni attraverso dichiarazioni pubbliche. Da settembre le crepe sono diventate ancora più evidenti. Lindner, bypassando i suoi colleghi, ha pubblicato un documento di 18 pagine per una politica economica completamente diversa da quella prevista nell'accordo di coalizione.

Eppure la fine è arrivata piuttosto all’improvviso. Mentre Habeck [vicecancelliere, Verdi] e Scholz hanno cercato di fingere unità dopo l'elezione di Trump e hanno dichiarato che ora la Germania deve dimostrare la sua capacità di agire, la sera stessa di quel giorno non è rimasto molto di quelle dichiarazioni. Se si crede alle parole di Lindner, anche lui è sembrato del tutto sorpreso dal fatto che dopo mesi di insistenze da parte dei liberali e di umiliazione pubblica da parte degli ex "partner", il governo di coalizione non sia finito con l'annuncio congiunto e "composto" di nuove elezioni, ma con il suo licenziamento da ministro. Che questo sia una messinscena o meno, non ha importanza. È chiaro che questo esito ha qualcosa di positivo, almeno per SPD e FDP: ora hanno la possibilità di incolparsi a vicenda per la fine del governo. Per una volta Scholz ha ricevuto una standing ovation nel gruppo parlamentare SPD per la rottura con la FDP. A sua volta, la FPD ha dato manforte al suo leader, almeno esternamente. I Verdi invece sembrano i meno preparati, perché sono loro stessi alla ricerca di nuovi leader. Per loro la prevedibile e prematura rottura della coalizione arriva in un momento inopportuno, e si è visto.


IL NOCCIOLO DELLO SCONTRO

Non sorprende quindi che Scholz abbia utilizzato il suo discorso come lancio della campagna elettorale per la SPD. Ha delineato il suo piano salva-paese in quattro punti: 1) limitare gli oneri di rete per le “nostre” aziende; 2) garantire posti di lavoro nell'industria automobilistica e nell'indotto; 3) bonus per investimenti e opzioni di defiscalizzazione per le aziende; 4) sostenere l’Ucraina indipendentemente dagli Stati Uniti.

Se si confrontano gli interventi di ieri sera di SPD, Verdi e FDP, si capisce subito dove risiedono le differenze: qual è la loro posizione sul freno all’indebitamento? Deve essere messo da parte per poter garantire i mezzi per un maggiore sviluppo economico, ulteriori forniture e spese per armamenti e allo stesso tempo per finanziare ammortizzatori sociali e massiccie ristrutturazioni aziendali.

La fine prematura della coalizione semaforo evidenzia la crisi nel panorama dei partiti borghesi in considerazione della difficile situazione economica in Germania. La questione centrale è chi dovrebbe pagare i costi (e perché il debito dovrebbe essere contratto). Per quanto riguarda il percorso di riarmo e di militarizzazione, la FDP in realtà non ha alcuna differenza con la SPD, anzi è ancora più guerrafondaia, ma sostiene che il riarmo non dovrebbe essere pagato con nuovo debito, bensì attraverso rigorosi tagli sociali che riguardano redditi, fondi per i rifugiati, età pensionabile e rapporti di lavoro “troppo regolamentati”.

La FDP ha le idee chiare a riguardo, che Lindner presenta anche nel suo documento “trapelato”. Attacchi programmati al diritto di sciopero, attuazione gelida del freno all’indebitamento, ulteriori tagli nel settore sociale. La classe operaia e gli oppressi dovrebbero pagare – e con la massima intensità, non in modo misurato, come hanno in mente la SPD e i Verdi. In nessun caso dovrebbero esserci aumenti delle tasse per le aziende. La SPD e i Verdi, invece, sostengono un percorso in classico stile keynesiano: meglio contrarre più debito e, come ha detto Scholz, non contrapporre la “sicurezza interna ed esterna”. Perseguire quindi gli interessi dell’imperialismo tedesco usando la gommapiuma.

Dato che la FDP è scesa a meno del 5% durante il periodo di permanenza al governo, e ha avuto uno spettacolare tracollo in tutte le elezioni statali (länder), questo dibattito è per loro anche una questione di sopravvivenza. Il partito non solo ha subito negli ultimi mesi uno spostamento a destra, in cui anche la leadership di Lindner è stata messa in discussione, ad esempio attraverso iniziative come “Weckruf Freiheit” [Sveglia Libertà], ma non si arrenderà a nessuna concessione sul tema del freno all'indebitamento, arrivando fino alla possibilità di sciogliere la coalizione, se necessario. In ciò i liberali mostrano un attaccamento nei confronti del proprio elettorato, cosa che alla SPD e alla Linke manca da anni.

Allo stesso modo, ci sono sempre state differenze nell’orientamento tra socialdemocratici e liberali. Il fatto che ciò porti questa volta a una crisi di governo ha cause più profonde della perdita di voti del FDP.


LA CRISI DELLA REDISTRIBUZIONE COME OSTACOLO AGLI INVESTIMENTI

Quando si formò la coalizione “progressista”, non c’era nessuna guerra in Ucraina o a Gaza. Vista in questo senso, la coalizione al governo è vittima anche della svolta annunciata allora dallo stesso Scholz. Perché nel mezzo della guerra, dell’inflazione e della recessione, non è facile essere condiscendenti. Perlomeno non se ci si limita alla realpolitik parlamentare e se si tengono ben presenti gli interessi della classe dirigente, che vengono glorificati come “la nostra economia”.
La crisi della redistribuzione ha come sfondo lo sviluppo economico successivo alla crollo finanziario del 2007/2008. Anche se questa crisi potesse essere rallentata attraverso misure anticicliche e l’espansione del credito e del debito, ciò avverrebbe solo al prezzo di perpetuarne le cause: calo dei tassi di profitto e sovraccumulazione di capitale. Con la recessione globale simultanea dovuta alla pandemia del coronavirus e alla guerra in Ucraina, la situazione per l’imperialismo tedesco, che fino ad allora era riuscito a resistere abbastanza bene, è peggiorata. L’aumento dei prezzi dell’energia ha causato enormi problemi a una nazione esportatrice. A ciò si aggiunge la pressione della competizione e la necessità di innovare in uno dei settori chiave dell’industria tedesca, l’industria automobilistica. Abbiamo esaminato più in dettaglio la situazione attuale nell'articolo “Düstere Wolken“ (1).

Il risultato, tuttavia, è che l’attuale recessione, combinata con lo sviluppo economico degli ultimi anni, ha ridotto enormemente il margine di manovra del Sozialpartnerschaft [modello di "collaborazione sociale" formale fra governo, sindacati e imprese] così com'è finora esistito in Germania, mettendo così in discussione anche i rapporti politici ed economici tra le classi.


DIVISIONI DELLA BORGHESIA TEDESCA

Un altro effetto di questo scenario è lo spostamento internazionale verso destra. Nel corso della crisi è aumentata la concorrenza tra le diverse frazioni del capitale, e la situazione della piccola borghesia e delle classi medie salariate è diventata più insicura e instabile, cosa che si è espressa, ad esempio, in Germania con la fondazione dell’AfD. Allo stesso tempo, durante l’era Merkel, l’imperialismo tedesco ha cercato di manovrare nella politica internazionale tra gli Stati Uniti da un lato e Russia e Cina dall’altro, cosa che a sua volta rifletteva le differenze all’interno della classe dominante sulla direzione strategica della Gemania e dell'UE. Con l’aumento degli scontri interimperialisti e la formazione di blocchi di potenze, ciò è diventato più difficile. La guerra in Ucraina rappresenta qui un punto di svolta, perché un’alleanza strategica con la Russia, come avevano cercato di fare Kohl e Schröder, ma anche in parte i governi Merkel, è ormai molto lontana. Ma le cose non sono rimaste ferme a questo punto, perché la vittoria di Trump alle elezioni americane ha messo naturalmente in discussione anche l'orientamento transatlantico della Repubblica Federale Tedesca e dell'UE. Il problema è chiaramente evidente nella politica ucraina. Da un lato, il sostegno all’Ucraina è garantito come un mantra, e la CDU/CSU ne chiede l’aumento. Dall'altra parte, la Germania stessa non può ovviamente sostituire gli Stati Uniti, e una guerra permanente in Europa rappresenta in realtà più un peso che un vantaggio strategico (come pensano apertamente AfD e BSW [il partito di Sahra Wagenknecht] e, velatamente, settori della SPD e della CDU).

Anche se gli attuali partiti della coalizione e la CDU evitassero di ridefinire una politica nazionale prima di nuove elezioni, è difficile immaginare che l’UE possa attuare una politica alternativa alla pacificazione con Putin sotto la guida di Trump. Le dichiarazioni di sostegno all’Ucraina hanno quindi un carattere contraddittorio. I partiti cercano di farsi un nome come potenza protettrice “umanitaria” e allo stesso tempo, negli ultimi anni, hanno annunciato di prendersi in carico l'economia del paese e la ricostruzione dell'Ucraina occidentale con capitale tedesco e statunitense. In ogni caso, vogliono anche il riarmo ucraino in prima linea con la Russia (che poi attraverserebbe effettivamente il loro attuale territorio). D’altro canto, non è possibile permettersi una guerra permanente dal punto di vista economico, politico e militare senza il sostegno degli Stati Uniti.

Indipendentemente dalla situazione in Ucraina, ciò porterà a una imponente accelerazione del riarmamo europeo (compreso un possibile dibattito sull’“indipendenza nucleare della Repubblica Federale Tedesca”), a un nuovo tentativo di rendere l’industria degli armamenti dell’UE più competitiva e quindi, a lungo termine, un rafforzamento dell’Europa, cioè il dominio tedesco nell’UE. Tuttavia, il problema della borghesia tedesca è che non ha una reale idea strategica comune su come questa politica possa essere attuata. Questa divisione, alla fine, ha permeato anche il governo SPD-verdi-liberali, anch'esso caduto a causa di queste contraddizioni.


QUAL È IL PROSSIMO PASSO?

Il capogruppo parlamentare del Partito Liberale Christian Dürr ha annunciato mercoledì sera che tutti i ministri del suo partito avrebbero presentato le loro dimissioni al Presidente della Repubblica. Così accade. Tranne il ministro dei Trasporti Wissing (ora indipendente), si dimettono tutti. Per alcuni, come il ministro dell’Istruzione Stark-Watzinger, questo potrebbe anche essere utile ad evitare ulteriori scandali. Scholz vuole fissare il voto di fiducia la prima settimana della sessione del Bundestag del nuovo anno, cioè il 15 gennaio 2025. Ciò dovrebbe poi consentire nuove elezioni alla fine di marzo. La SPD vuole presentare i progetti di legge più importanti entro Natale. Da parte loro, si vorrebbe un governo di minoranza rosso-verde (SPD-Verdi), anche per poter utilizzare il Bundestag come arena della campagna elettorale.

Se ciò sia fattibile o meno dipende molto dalla benevolenza della CDU. Merz preferirebbe nuove elezioni subito, poiché è una delle forze che ne trarrebbero maggior beneficio, e non vedrebbe l’ora di corteggiare Trump da futuro membro del governo (preferibilmente come Cancelliere), e facendo questo, proteggere in qualche modo anche gli interessi tedeschi, ad esempio attreverso la sua proposta di pace in Ucraina. Resta da vedere se il piano Scholz funzionerà.


CHANCES DI VITTORIA PER GLI ALTRI

In passato Merz è stato molto capace di promuovere se stesso e a condizionare il governo. Secondo il quotidiano Bild, già da due settimane la CDU/CSU si sta preparando alle elezioni anticipate. E le principali associazioni imprenditoriali, come l'associazione del commercio estero (BGA) e l'associazione dell'industria chimica, si sono subito dette d'accordo con l'appello di Merz per nuove elezioni in tempi brevi.

Naturalmente, anche Sahra Wagenknecht sarà in campo: dopo tutto, già ora in Brandeburgo e in Sassonia per loro si pone la questione del governo, e i negoziati per una coalizione possono essere condotti molto meglio se la forza è rappresentata più fortemente nel Bundestag. E prima i negoziati avranno luogo, prima Sahra Wagenknecht potrà smettere di pensare al tipo di coerenza che le sarà necessaria per racimolare più voti possibili.

Alternative für Deutschland trarrà il massimo di beneficio dalle elezioni. Non solo perché continuerà a insistere sull'idea che vede le coalizioni semaforo come una porcheria, ma anche sulla questione della pace. Perché mentre la SPD e i Verdi, ma anche la CDU/CSU e la FDP continueranno a suonare il corno di guerra, AfD e BSW agiranno come partiti pacifisti per quanto riguarda l'Ucraina, e allo stesso tempo continueranno ad assicurare a Israele la sua solidarietà.

La Linke avrà vita più dura. Non solo la visita di Jan van Aken [nuovo co-leader della Linke] in Ucraina ha creato più interrogativi che chiarezza su come si intende effettivamente raggiungere la pace. Ma è soprattutto il partito il cui stato organizzativo è attualmente nelle condizioni peggiori. La Linke si sarebbe potuta rialzarse se le elezioni federali si fossero tenute a settembre, ma le elezioni anticipate rendono più probabile una sua fine prematura.


CHE FARE?

Le prossime elezioni e la formazione del governo decideranno il prossimo corso della Germania. Una cosa è chiara: ci saranno attacchi sociali, con o senza una politica di ammortizzazione da parte della SPD e dei Verdi. Per questo motivo è necessario non aspettare passivamente che si svolgano le elezioni e si consolidi un nuovo governo. Ora dobbiamo piuttosto dire chiaramente: non pagheremo le vostre guerre e le vostre crisi! Stop alla collaborazione sociale, ai licenziamenti di massa e al freno all’indebitamento!

Le autorità statali e locali stanno già operando tagli imponenti, soprattutto nelle spese sociali. La riforma sanitaria porterà anche tagli ai posti di lavoro e licenziamenti, che avverranno non solo nel settore automobilistico. Per respingere con successo questi attacchi è necessaria una rottura con la politica di collaborazione di classe, specialmente quella dei sindacati, e una conferenza d’azione contro la crisi, nella quale la sinistra tedesca discuta su quali rivendicazioni utilizzare per indicare una via d’uscita dall’attuale miseria: attraverso vertenze di contrattazione collettiva e azioni indipendenti. Abbiamo bisogno di una discussione su quale tipo di partito, quale programma, quale politica sono necessari per combattere la crisi. Il crollo della coalizione semaforo, il declino dell'SPD e della Linke rendono chiaro che non dobbiamo semplicemente costruire una resistenza di massa organizzata, ma allo stesso tempo, dobbiamo lottare per un'alternativa rivoluzionaria al riformismo, per la costruzione di un partito rivoluzionario dei lavoratori.


(1) https://arbeiterinnenmacht.de/2024/10/29/brd-wirtschaft-duestere-wolken/

Jaqueline Katherina Singh

Riforme istituzionali e compiti dei rivoluzionari


 “Voglio stabilità!” tuona Giorgia Meloni aprendo l’iter delle controriforme istituzionali che spazia in un largo ventaglio di misure: presidenzialismo, premierato, autonomia differenziata; tanto per cominciare.

Perentorio poi il tono dell’invito al “dialogo” alle opposizioni, mentre Renzi e Calenda garantiscono la loro disponibilità sul premierato.

Per il PCL la linea delle riforme non è solo frutto di una base genetica di una destra brutta e cattiva; costitutivamente antidemocratica. Non c’è solo questo.
In realtà Giorgia Meloni è consapevole delle contraddizioni profonde che caratterizzano gli attuali assetti politici: il primato della destra in effetti si regge su un quadro economico di grandi difficoltà che cadono non solo sulle masse proletarie ma anche su quegli stessi settori di media e, soprattutto, piccola borghesia che oggi sono la base di massa dello stesso governo postfascista ma che, domani, potrebbero cambiare orientamento.
In più un astensionismo straripante, soprattutto nel Sud, che si configura come una profonda incognita per il futuro.

A ciò si aggiungono le dinamiche internazionali, che vedono non solo un orizzonte mondiale per gli scontri tra imperialismi nuovi (Russia e Cina) e vecchi (USA, UE, Giappone) ma la stessa Unione Europea lacerata da conflitti non irrilevanti, con lo scontro tra Italia e Francia su Africa e migranti.

Meloni cerca di ricomporre attorno a sé un blocco sicuro conciliando le istanze decisioniste della grande borghesia, con il presidenzialismo, e la pancia dalle voglie materiali di piccola e media borghesia con autonomia differenziata, cuneo fiscale, flat tax e quant’altro.

La "sinistra", che già ha aperto la strada delle controriforme (si veda il ruolo di PD e 5 Stelle sulla riforma dell’articolo 5 della Costituzione, sulle leggi elettorali e altro), declina l’invito al dialogo ma non ha una credibile proposta alternativa.

In realtà le involuzioni antidemocratiche in atto testimoniano una crisi profonda dell’ordine borghese. Solo la scesa in campo del proletariato su una linea di mobilitazione propria di un programma transitorio verso il socialismo e il governo dei lavoratori può fermare la marcia verso il baratro. Il PCL ribadisce l’invito lanciato il 25 aprile a tutta la sinistra reale a un momento di riflessione comune su questi temi.

Pino Siclari

Ucciso dal capitalismo. Ucciso come lavoratore, come studente, come giovane

 


Lorenzo Parelli è morto a 18 anni durante l'alternanza scuola-lavoro

22 Gennaio 2022

I soliti protocolli di cordoglio formale per la vittima, per la famiglia, non cambiano la responsabilità della dominazione capitalistica sul lavoro e del sistema scolastico al servizio delle imprese

È caduto sul lavoro uno studente-lavoratore di 18 anni. Si chiamava Lorenzo Parelli, risiedeva nel Comune di Castions di Strada (ex provincia di Udine). Era studente dell’istituto paritario salesiano Bearzi di Udine (cioè una scuola privata e confessionale sostenuta con risorse pubbliche) e svolgeva l’alternanza scuola-lavoro presso lo stabilimento di Lauzacco (Comune di Pavia di Udine) della Burimec Srl, azienda che produce materiali e attrezzature per la siderurgia e avente il sito produttivo principale a Buttrio, nel cuore del distretto della sedia di Manzano. Ovvero: quel micidiale sistema di esternalizzazione produttiva veicolo di un dumping di diritti e di livelli retributivi della manodopera al fine del taglio dei costi di produzione.
La partitocrazia del governo capitalistico non ha perso tempo nel suo piagnisteo routinario a prendere le difese del sistema dell’alternanza-lavoro. Il presidente della Regione Fedriga e l’assessore al Lavoro Rosolen hanno subito detto che bisogna stare zitti: “l’incommensurabile dolore sofferto dalla famiglia impone a tutti un rispettoso silenzio”. Dal canto suo la componente PD del governo Draghi, per bocca della consigliera regionale Da Giau, ci ha messo in guardia dal “lanciare accuse frettolose”. Il fronte unico della borghesia si è dunque compattato subito, a difesa di questo strumento di utilizzo del lavoro.


PRECEDENTI IN FRIULI VENEZIA GIULIA E ALCUNI TRASCORSI GIUDIZIARI LEGATI ALLA BURIMEC

C’erano già stati precedenti anche in Friuli Venezia-Giulia di infortuni accaduti a studenti in alternanza sul posto di lavoro. Quanto accaduto alla Burimec non è stato un episodio imprevedibile. Tanto più che si inserisce nella mattanza generale di forza-lavoro che è sotto gli occhi di tutti.
La Procura di Udine indaga per omicidio colposo l’amministratore delegato Pietro Schneider, come legale rappresentante della proprietà. Lo Schneider nel settembre 2018 era stato condannato a nove mesi di reclusione (condanna sospesa con la condizionale) per “induzione indebita a dare o promettere utilità”, una formulazione che la GUP del Tribunale di Venezia aveva coniato per descrivere altrimenti la natura concussiva di un rapporto tra lo Schneider e due ufficiali della Guardia di Finanza (uno venne prosciolto l’altro condannato a quattro anni) al fine di ottenere uno sconto su sanzioni dell’Agenzia delle Entrate alla vigilia di un controllo fiscale alla Burimec.


QUELLA FORZA-LAVORO FORNITA DAI PCTO

Lorenzo Parelli faceva parte di quello speciale contingente della forza-lavoro messo a disposizione della proprietà d’impresa, praticamente a costo zero, in forza ad un programma denominato solennemente (con la tipica ipocrisia della mentalità ampollosa di classe borghese quando si tratta di parlare della “formazione” della forza-lavoro) “Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento” (PCTO), o secondo la vecchia dicitura, alternanza scuola-lavoro. Un percorso obbligato introdotto della legge 107 del 2015 detta della “Buona Scuola”.
Che significa alternanza-scuola lavoro? Buona parte del popolo dei salariati adulti non lo sa. A meno che non ne facciano esperienza sul posto di lavoro, essi tendono a confonderlo con dei tirocini finalizzati all’assunzione. L’analfabetismo politico indotto dal conformismo della compatibilità governista, alla ricerca del “menopeggismo” per le classi popolari (governi e amministrazioni della mediatica categoria di “centrosinistra” e concertazione e collateralismo del sindacato “pragmatico”), ha prodotto nei decenni nelle masse lavoratrici un immaginario generale distorto rispetto la realtà del lavoro odierna. Parliamo soprattutto dell’identificazione dei propri interessi di esistenza sociale con gli interessi di classe dei propri sfruttatori, la classe capitalista: se vanno bene i profitti, domani o dopodomani, ci saranno dei benefici anche per la classe lavoratrice, magari per le generazioni più giovani. Rivolgersi elettoralmente verso i partiti borghesi più reazionari come Lega e FdI costituisce l’effetto, e non la causa, di questa dissoluzione della propria identità di classe. La borghesia resta la classe dirigente dell’economia e dello Stato per “legge di natura”, l’unica “naturalmente” ammessa a dirigere lo sviluppo sociale. Fuori da questo ordine c’è solo irrazionalità. Su questo si misura la vera radice della crisi del progetto socialista tra le masse lavoratrici.


“UN LAVORO PURCHÉ SIA”

Ma la perdita della coscienza di classe, tra le sue conseguenze nefaste, ne ha generata una in particolare. Quella che ha rilanciato la meritocrazia sulla base di chi accetta lo sfruttamento. È il tipico paradigma dello sfruttamento padronale: un lavoro purché sia!
La devastazione sociale di questa scomposizione identitaria è tuttora sottovalutata anche dalle sinistre politiche e sindacali classiste. Essa porta all’autolesionista accettazione, benché di fatto sia una scomposizione della soggettività collettiva e quindi individuale del prestatore di lavoro, che la classe operaia non può sbagliare. Altre categorie professionali, come magistrati, medici, manager d’impresa o statali, hanno il diritto allo sbaglio, la classe operaia no. Si provi ad osservare quando succede un incidente in una fabbrica o in un cantiere, anche mortale, quanto sia diffuso tra i lavoratori, assieme allo sgomento e alla rabbia, quel pensiero traducibile con le frasi “ma se stava più attento”, “doveva prendere più precauzioni” e via dicendo. La parte datoriale viene schermata. La responsabilità delle burocrazie complici dei sindacati di massa (dirigenti della CGIL in particolare, in quanto storicamente identificata nell’immaginario collettivo come il sindacato più forte e più a sinistra) è enorme.
Ma che dire quando la vittima dell’organizzazione capitalistica del lavoro è uno studente medio? Che esperienza poteva avere? Su quale perizia, in merito a precauzioni, poteva contare? Da quale esperienza professionale personale poteva attingere?
“Un lavoro purché sia” significa aver tradotto legalmente la meritocrazia dello sfruttamento nella quale rientra, per gli studenti, la previsione della forzosa partecipazione ai programmi dell’alternanza scuola-lavoro. Di più. La direzione aziendale può, di fatto, deputare lo studente-lavoratore a mansioni anche ben al di là del contenuto del programma formativo. Chi controlla? Come detto all’inizio, si tratta di un contingente messo gratuitamente a disposizione della proprietà d’impresa, con tanto di contributi pubblici (in larga parte pagati dagli stessi salariati attraverso il prelievo fiscale), la quale può impiegarlo, di fatto, alle proprie esigenze organizzative e produttive. Ad affiancare le file di questo contingente arriveranno coloro che percepiscono il reddito di cittadinanza, in forza alla restrizioni introdotte ai requisiti di accesso, e i migranti richiedenti asilo. Proprio il Rdc non a caso è oggetto di strali meritocratici: nonostante tutti i suoi limiti, indirettamente ha rappresentato, in parte, un’opzione non al lavoro, ma al lavoro ipersfruttato, nero o legale.
L’impiego di questo contingente di lavoratori extra contratto va a scapito delle capacità negoziali, e quindi delle condizioni di lavoro, di occupazione, e dell’agibilità giuridica, degli stessi salariati “ordinari”, cioè contrattualizzati.
Le caratteristiche storicamente esistenti della ripartizione per contingenti della merce forza-lavoro, ovvero ripartizione per gruppi di condizioni retributive e giuridiche, rimane sempre la bussola di orientamento per misurare i rapporti di forza nella relazione capitale-lavoro.


RIPRENDERE LA CONTESTAZIONE ALLA SCUOLA SOTTOMESSA AL CAPITALISMO.
SE MUORE O SI INFORTUNA UNO STUDENTE IN ALTERNANZA LA RESPONSABILITÀ È ANCHE DELLA DIRIGENZA SCOLASTICA


La scuola, e l’università, non sono più borghesi. Anzi, semmai, l’istruzione terziaria permette la fuoriuscita dalla sussunzione al regime di classe, dalla stessa reale contraddizione di classe. Un percorso risolutivo di emancipazione individuale. Anche negli ambienti “alternativi” questo sembra essere, oggi, il registro cognitivo maggioritario dell’immaginario delle relazioni sociali. La contestazione alla scuola e all’università sottoposte agli interessi di classe borghese è sparita, almeno nella sua manifestazione diffusa. Tra i riscontri di questo fenomeno regressivo possiamo inserire il paradosso degli scioperi del Fridays For Future organizzati localmente spesso fuori dalle ore di lezione, con la benedizione dei dirigenti scolastici. E’ il riflesso nell’ambiente scolastico del patto interclassista dell’unità nazionale dietro l’”Azienda Italia”, cioè il profitto del capitale.
Da questa visione deriva che l’apparato dirigente scolastico, dal ministero all’apparato locale, non è più (o non è sempre) la controparte. In realtà è proprio questo apparato che garantisce il ruolo gregario del sistema scolastico rispetto l’impresa capitalistica e i suoi mercati. È questo apparato che costituisce lo strumento esecutivo che fa diventare il sistema scolastico un centro d’impiego per manodopera di un segmento del mercato del lavoro senza garanzie di tutela e possibilità di protagonismo. Basti l’esempio di quanto successo nell’aprile 2018 all’ITIS di Carpi (Modena), dove uno studente-lavoratore fu colpito dalla repressione del dirigente scolastico con un 6 in condotta per aver espresso sulla propria pagina Facebook delle critiche rispetto la propria esperienza di alternanza scuola-lavoro. L’apparato dirigente scolastico in questi casi diventa un caporalato legittimato. Per cui, se lo studente-lavoratore si infortuna o addirittura perde la vita, i responsabili scolastici dei progetti dell’alternanza devono essere messi sul banco degli imputati assieme ai proprietari dell’azienda. Devono subire la stessa persecuzione penale.


GLI STUDENTI IN ALTERNANZA SONO STUDENTI LAVORATORI, VANNO SINDACALIZZATI E CONTRATTUALIZZATI

Da marxisti promuoviamo la fusione tra scuola-scienza-lavoro. Ma sappiamo che tale fusione, nella sua applicazione positiva, può avvenire solo grazie ad un autentico governo dei lavoratori costituente un ordinamento socialista. In regime capitalistico questo può diventare solo occasione di sfruttamento e di dumping delle condizioni di lavoro. Ecco perché, come Partito Comunista dei Lavoratori, ne rivendichiamo l’abolizione. Se una partecipazione attiva all’organizzazione del lavoro dell’impresa può tornare utile allo studente, in regime attuale entro termini ben definiti, ebbene questi deve essere inquadrato come un lavoratore, contrattualizzato, con un mansionamento limitato al contenuto del progetto di formazione, e con piena agibilità sindacale, anche nell’elezione di propri rappresentanti. È la via per ricomporre il tessuto sociale della classe lavoratrice, i suoi comparti, i reparti più arretrati con quelli più avanzati e più forti sul piano organizzativo e negoziale.


LA NECESSITÀ DELL'OPPOSIZIONE AL SISTEMA

In questi decenni di conformismo governista, dove essere un partito di massa significa candidarsi per fare meglio di altri gli interessi della classe capitalista, per essere più bravo di altri a garantire l’”unità nazionale”, cioè la “pace sociale”, dove tutti parlano di governo e di amministrazione, anche alcuni di quelli identificati come “sinistra radicale” che inseguono compatibilità con la politica dominante chiamandole “realismo”, è scomparsa a livello di massa la cultura politica dell’opposizione sistemica. L’opposizione totale, generale, a tutti i livelli, ai processi direzionali politici ed economici. L’opposizione fondata sulla lotta di classe. L’opposizione incompatibile con il governo dei rapporti capitalistici, sul piano nazionale come su quello locale.
La costruzione di questa opposizione politica, degli strumenti che questa intende mettere in campo e sviluppare nel vivo della contraddizione capitale-lavoro, non è la preoccupazione dei più, nemmeno tra quelli che pure rifiutano strumenti come l’alternanza scuola-lavoro e l’ambiente istituzionale che li genera. Infatti, molti di loro pensano che governando quell’ambiente lo si può cambiare, con un sistema di alleanze progressive. Dimenticano che se non c’è più una sinistra di classe, di opposizione di massa, lo si deve proprio a quelle impostazioni conciliazioniste e corresponsabili della governabilità capitalistica.
Il discorso da fare invece è proprio l’opposto. Ricomporre il movimento operaio, costruire il blocco popolare anticapitalistico attorno ad esso, inserire, dentro ogni lotta e resistenza alle politiche dominanti, la prospettiva del governo dei lavoratori fondato sulle loro organizzazioni. L’unica prospettiva di governo che deve interessare le masse subalterne al capitale. Costruire il partito di classe, anticapitalista e rivoluzionario, vuol dire dotarsi dello strumento programmatico che fornisce unità e correlazione agli interventi politici dispiegati in tutti i fronti di lotta, per lavorare verso questa prospettiva. E’ il percorso di lavoro politico che si è dato il Partito Comunista dei Lavoratori.

Partito Comunista dei Lavoratori - Friuli-Venezia Giulia

MASSIMA SOLIDARIETA' AGLI ATTIVISTI APS COLPITI DALL' AGGRESSIONE OMOFOBA: LA LOTTA CONTRO OGNI DISCRIMINAZIONE DI GENERE E LA NECESSITA' DELL'AUTODIFESA

 

I


Il Partito Comunista dei Lavoratori-sezione di Bologna esprime la massima solidarietà verso gli/le attivisti/e del Gruppo Trans APS per l'aggressione di stampo omofobo subita sabato notte all'esterno della loro sede in via dell'Unione, a Bologna.

Purtroppo non è la prima volta che queste/i attiviste/I subiscono episodi di questo stampo e tanto più questo richiama la necessità della vigilanza contro qualsiasi atto discriminatorio contro il genere sessuale e l'organizzazione di forme ormai urgenti di autodifesa. 

Crediamo altresì che normative come il DDL Zan debbano entrare al più presto in vigore per tutelare le persone LGBTQI+ da simili episodi.

Da comunisti rivoluzionari e marxisti conseguenti non abbiamo fiducia nella legislazione borghese, e pensiamo che le normative che vi si inseriscono non possano risolvere i problemi e le discriminazioni a cui quotidianamente sono esposte le minoranze, ma difendiamo ogni singolo passo in avanti nella conquista di maggiori diritti per esse.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI
SEZ. DI BOLOGNA

Un voto per costruire il partito di classe rivoluzionario

 


Appello elettorale

Il PCL è presente alle elezioni comunali di Roma, Milano, Torino, Bologna con proprie liste e propri candidati a sindaco: Franco Grisolia (Roma), Natale Azzaretto (Milano), Massimo Chiesi (Torino), Federico Bacchiocchi (Bologna).

Facciamo appello ai compagni e alle compagne dell'avanguardia di classe e combattiva, agli elettori delusi da una sinistra politica compromissoria e subalterna, perché indirizzino verso il PCL la propria scelta di voto.

Non ci siamo mai compromessi, come altri invece hanno fatto, nei governi nazionali e locali della borghesia. Non abbiamo mai votato le missioni di guerra, la detassazione dei profitti, i fondi integrativi della sanità privata, in cambio di ministeri e sottosegretari. Non abbiamo mai votato il taglio dei servizi locali o le speculazioni immobiliari in cambio di assessori.

Non lo abbiamo fatto e non lo faremo mai, perché ci battiamo per una alternativa di società. Per un governo dei lavoratori e delle lavoratrici che rovesci il capitalismo e riorganizzi la società su basi nuove. È il solo governo che può cambiare le cose, il solo che può interessare i comunisti.

Siamo l'unico partito comunista presente oggi al voto: l'unico che si batte per la rivoluzione sociale; che riconduce i suoi stessi programmi amministrativi alla rottura con questo sistema; che in ogni lotta, dalla GKN ad Alitalia, lavora a ricondurre gli obiettivi immediati della lotta alla prospettiva del potere dei lavoratori. L'unico che cerca, controcorrente, di sviluppare tra i lavoratori una coscienza anticapitalista e internazionalista.

Non siamo elettoralisti, non abbiamo illusioni elettorali. Ogni voto al Partito Comunista dei Lavoratori sarà investito nella costruzione del partito di classe rivoluzionario, il solo di cui i lavoratori hanno bisogno.

Partito Comunista dei Lavoratori

Abolire il Concordato!

 


Lo scontro sulla legge Zan conferma la natura reazionaria del Vaticano e del papato

La Segreteria di Stato vaticana ha compiuto un passo ufficiale presso lo Stato italiano per chiedere la modifica della legge Zan, invocando il rispetto del Concordato.
Non si tratta della abituale ingerenza delle gerarchie cattoliche in fatto di legislazione ordinaria, ma di un passo formale da Stato a Stato. C'è un solo parziale precedente: la denuncia della proposta di legge sul divorzio come lesione al Concordato da parte di Paolo VI nel lontano 1967. Ma in quel caso non intervenne la Segreteria di Stato; parlò direttamente il monarca assoluto della Chiesa. Qui interviene il suo braccio diplomatico, con la minaccia di un'impugnazione giuridica.

L'interpretazione per cui saremmo in presenza di una divisione interna alla Chiesa, di un atto non condiviso dal Papa, è ridicola. Sia perché il segretario di Stato, cardinal Parolin, è un fedelissimo di Bergoglio, sia perché il Papa presunto “progressista” ha sempre espresso le posizioni più reazionarie in fatto di omosessualità. Anche ai tempi del suo vescovato a Buenos Aires, quando denunciò la legalizzazione dei matrimoni gay da parte del governo argentino come «un attacco devastante ai piani di Dio, ispirato dall'invidia del diavolo» (2010). Solo una sinistra italiana papalina ha potuto, e può, presentare Bergoglio come riferimento progressista, indicandolo addirittura ad esempio.

L'iniziativa vaticana si commenta da sé. Nello stesso momento in cui le gerarchie ecclesiastiche di tutto il mondo sono travolte dall'emersione di centinaia di migliaia di crimini, abusi, violenze, normalmente occultati e impuniti, in fatto di pedofilia, la Chiesa chiede che le scuole cattoliche siano esentate dalla legge italiana in fatto di omofobia. Chiede che la Chiesa e le sue proprietà siano un territorio franco sottratto allo Stato. Chiede insomma che la legge italiana si subordini ai dogmi del catechismo.
Nella nota vaticana infatti si legge: «Ci sono espressioni della sacra scrittura e della tradizione ecclesiale e del magistero autentico del Papa e dei vescovi che considerano la differenza sessuale secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa rivelazione divina». Dunque se la “rivelazione divina” considera l'omosessualità peccato, le scuole cattoliche non possono legittimare l'omosessualità parlando di omofobia e transfobia. È il modello di Orban, che vieta si parli di omosessualità nelle scuole prima dei 18 anni.

I partiti più reazionari, da FdI alla Lega, naturalmente esultano. La separazione tra Chiesa e Stato vale per loro solo se si tratta di Islam. Con la Chiesa cattolica vale invece il principio opposto: i dogmi religiosi diventano linea di confine della legge, lo scudo dell'“identità italiana” contro la minaccia degli “invasori”. Il fatto che ci sia qualche partito cosiddetto comunista che gioca di sponda con questi ambienti fa davvero venire il voltastomaco.

Ma se i reazionari esultano, i partiti borghesi liberalprogressisti balbettano. Rassicurano la Chiesa, professano “volontà di dialogo”, annunciano mediazioni. Di Maio attiva il ministero degli Esteri, Letta comprende “il nodo giuridico”, Draghi impegna governo e Parlamento nella ricerca di una soluzione concordata. Lo stesso presentatore della legge, Zan, si affretta a dichiarare al Corriere che la Chiesa non deve temere nulla: le scuole cattoliche potranno continuare a fare quello che vogliono, in virtù del «principio di autonomia scolastica, che è generale e si applica a tutte le scuole, pubbliche e private». Di più: «In Aula alla Camera, proprio per venire incontro alle preoccupazioni di parte del mondo cattolico, è stato precisato che le iniziative dovranno essere coerenti con il piano triennale dell'offerta formativa e con il patto di corresponsabilità educativa tra scuole e famiglie. Questo per ribadire oltre ogni ragionevole dubbio che il tutto potrà – non dovrà – avvenire nel rispetto dell'autonomia scolastica» (Alessandro Zan, Corriere della Sera, 23 giugno).

Oltre ogni ragionevole dubbio, il messaggio in soldoni è il seguente: “Cari vescovi e cardinali, potrete continuare a far ciò che volete, come prevede il Concordato e le stesse leggi scolastiche; vi abbiamo già dato tutte le garanzie possibili, al punto che alla Camera anche Lega e FdI hanno votato la legge; ora in cambio dateci la solita finta patacca da esibire come “vittoria” agli occhi del mondo laico e progressista. Per voi non cambierà nulla, permetteteci almeno di salvare la faccia”. Sarà questo il mercimonio dei prossimi giorni.

La verità è che solo rompendo con la Chiesa, a partire dalla cancellazione del Concordato, è possibile salvaguardare con coerenza i principi più elementari di laicità, e con essi i diritti delle donne, degli omosessuali, delle lesbiche, dei transessuali, di tutti gli oppressi. Il punto vero non è se la legge Zan viola il Concordato o meno, ma che l'intervento della Segreteria di Stato vaticana chiarisce una volta di più, se ve ne era bisogno, che il Concordato è un'arma intollerabile in mano alla Chiesa a tutela dei suoi privilegi. Inclusa la scandalosa evasione fiscale di 5 miliardi di euro sottratti allo Stato, da tempo accertati e che nessuno le chiede.

A sua volta non si può rompere con la Chiesa, e cancellare il Concordato, senza rompere con la borghesia italiana, i suoi partiti, i suoi governi.

La Chiesa è da sempre parte organica del capitalismo italiano, con le sue banche, le sue partecipazioni azionarie, le sue gigantesche proprietà immobiliari. Il Concordato del 1929 tra il cardinal Gasparri e Benito Mussolini non fece che sancire giuridicamente questa realtà, con un matrimonio di reciproci interessi. Il PCI di Togliatti lo mise in Costituzione col famigerato articolo 7. Il suo aggiornamento nel 1984, sotto il governo Craxi, assicurò al matrimonio lunga vita. La presenza della Chiesa in tutte le istituzioni dello Stato borghese e della vita pubblica (scuola, sanità, giustizia, esercito) lo testimonia quotidianamente.

Non è un caso che i partiti della sinistra cosiddetta radicale (PRC, PdCI) che si sono avvicendati nei governi con la borghesia e/o che aspirano a parteciparvi non solo non hanno mai rivendicato l'abolizione del Concordato, ma hanno cercato di legittimarsi presso gli ambienti clericali, a volte esaltando il Papa di turno. È la ragione per cui solo un partito marxista rivoluzionario, proprio in quanto anticapitalista, può essere coerente sino in fondo sullo stesso terreno delle libertà democratiche e dei diritti civili.

Via il Concordato!
Giù le mani della Chiesa dai corpi e dai diritti delle donne, degli omosessuali, delle lesbiche, dei transessuali, di tutti gli oppressi!

Partito Comunista dei Lavoratori

Diretta Facebook. Capitalismo, crisi ambientale e transizione ecologica

 


Domenica 16 maggio, ore 10:30

Il video dell'evento:




Lo sviluppo e la crisi del capitalismo ha portato alla devastazione del nostro pianeta come mai prima d'ora.

L'azione dell'uomo negli ultimi due secoli ha influito drasticamente sull'equilibrio degli ecosistemi. L'uomo però non produce in modo individuale su questo pianeta, ma opera all'interno della società e del modo di produzione del proprio periodo: questo sistema si chiama capitalismo e la borghesia è la classe dominante.

È per questo che la borghesia ed i suoi governi sono i principali responsabili dell'inquinamento e supersfruttamento della terra. È per questo che il superamento di questa società è il primo passo verso la salvaguardia del globo e della vita dell'umanità.

Ne parliamo con:

Diego Ardissono, Segreteria PCL

Gioele Costantini, Commissione ambiente PCL

Ruggero Rognoni, Commissione ambiente PCL

Luca Gagliano, Commissione ambiente PCL

Stefano Falai, Commissione ambiente PCL


Non mancare!

Partito Comunista dei Lavoratori

VIDEO: 13 MARZO 2021 - GLI INTERVENTI DEI COMPAGNI DEL PCL E DELL'OPPOSIZIONE CGIL ALLA GRANDE MANIFESTAZIONE A PIACENZA IN SOSTEGNO DELLE LAVORATRICI E DEI LAVORATORI FEDEX-TNT: ARAFT E CARLO LIBERI SUBITO!

 


Classe contro classe, forza contro forza! Intervento del compagno Luigi Sorge, operaio Stellantis di Cassino, alla manifestazione di Piacenza in solidarietà ai 25 operai della TNT che nella mattina del 10 marzo sono stati portati in Questura dopo perquisizioni e ai due coordinatori del Si Cobas che sono stati arrestati ai domiciliari con accuse di resistenza aggravata. L’imputazione è di aver guidato lo sciopero di tredici giorni contro i padroni della FedEx, che ha costretto l’azienda a un passo indietro. La resistenza allo sfruttamento non è un crimine ma un esempio. L’unica vera associazione a delinquere è la borghesia e il suo Stato! Libertà per i compagni arrestati! Arafat e Carlo liberi!


Unità di classe contro la repressione dei padroni e del loro Stato! Intervento del compagno Renato Pomari, militante dell'Opposizione CGIL e del PCL.


Partito Comunista dei Lavoratori


Le balle insultanti della Stampa sui rider

 


Spudorata propaganda dei giornali al servizio (come sempre) dei padroni

È di giorni fa la notizia di un rider che riesce a guadagnare 2000 euro al mese (Da commercialista a rider felice, La Stampa, 15 gennaio). Notizia di per sé ampiamente criticata, poi smentita da diverse testate, fino al giornale stesso che l'ha pubblicata.
Senza entrare nel vivo della polemica, che poco ci interessa poiché sappiamo bene quali sono le condizioni dei rider, e dei rider abbiamo già scritto molto, se è vero che il rider Emiliano Zappalà (persino il nome è risultato essere falso) di cui parla l'articolo della Stampa guadagna 2000 euro (ma a volte fino a 4000) al mese, questo non può essere preso come caso tipo.
La Stampa aggiunge alla fine dell’articolo una nota, dove smentisce parte dell’articolo. In particolare, che un rider guadagna mediamente 7.50€ l’ora, e in media 839€ al mese.

Quello che ci interessa però è il messaggio di fondo trasmesso da questa notizia. Un messaggio che delinea perfettamente il pensiero medio della borghesia, della nostra classe dominante: lavora sodo, lavora molto, non lamentarti e i risultati arrivano! I risultati non arrivano? Allora vuol dire che sei tu lavoratore il problema. Evidentemente sei tu stesso la causa del fatto che non trovi lavoro o che invece di guadagnare 2000 euro al mese ne guadagni a malapena 600. Chiaro, no?

Nell’epoca del CoViD molti si sono dedicati al lavoro di rider, ed è molto aumentata la richiesta di consegne. Molti di essi lamentano di essere sottopagati, spesso di fare consegne per pareggiare i costi, dipendenti spesso da una app controllata da un sistema con dietro una multinazionale che rifiuta qualunque tipo di trattativa. Una nuova falange di classe operaia sottoposta ad uno sfruttamento devastante, e chi si lamenta viene immediatamente allontanato e prontamente sostituito.
Ora la notizia di Zappalà, che riesce a guadagnare oltre 2000 euro al mese facendo 100 km al giorno in bicicletta (quasi una tappa del Giro d’Italia, con il borsone sulla schiena a consegnare roba). Uno schiaffo a tutti i riders.

Non ci stupisce la complicità della stampa borghese, che nonostante l'evidenza dei fatti non cede di un millimetro nel diffondere queste fantasticherie, per portare avanti il sogno liberale dello sfruttamento giocando sulla crisi di migliaia di lavoratori che oggi più che mai sono sotto la ghigliottina padronale.

Riproponiamo quindi l’unità di tutti i lavoratori con la lotta dei rider, proprio ora che sono diventati una categoria fondamentale per buona parte del commercio, insieme ai lavoratori della logistica.

Partito Comunista dei Lavoratori

Perché la stampa padronale di mezzo mondo solleva il tema delle diseguaglianze sociali?

 


Il sonno inquieto della borghesia

17 Novembre 2020

Il Guardian britannico pochi giorni or sono ha fatto i conti in tasca al grande capitale internazionale, sollevando il tema dell'allargamento enorme delle disuguaglianze sociali. L'analisi ha individuato i capitalisti che nel mondo hanno in tasca più di un miliardo di dollari (850 milioni di euro): 2189 "super-ricchi", il numero più alto di sempre, che nell'anno del lockdown hanno accresciuto il proprio patrimonio complessivo del 27%, passando da 8000 miliardi a 10200 miliardi. Paradigmatica la ricchezza di Bezos, fondatore di Amazon, che in poche settimane è passato da un patrimonio di 115 miliardi a quello di 189 miliardi.

Questi dati sulla ricchezza dei grandi capitalisti americani sono ricorrenti da tempo sulla stampa borghese europea. Trasudano anche il dispetto dei governi imperialisti del vecchio continente per la sfrontata evasione fiscale dei monopoli delle piattaforme on line, peraltro protetti in misura determinante dalla potenza statale degli USA, alla faccia dei teorici di un capitale talmente globalizzato da fare a meno degli Stati nazionali. Di certo quei dati riflettono la gigantesca concentrazione capitalista al livello più elevato e scandaloso. Tanto più sullo sfondo della pandemia mondiale e delle sue ricadute sociali sulla maggioranza dell'umanità.


LA POLARIZZAZIONE DELLA RICCHEZZA

Tuttavia l'attenzione verso questa ristrettissima “élite mondialista”, possibilmente estera – che tanto appassiona i sovranisti – rischia di occultare lo scandalo della classe capitalista di casa propria, quella tutelata dal “nostro” Stato borghese.
Prendiamo FCA. Tutti conosciamo la copertura di risorse pubbliche di cui ha goduto in fatto di crediti bancari, per quasi 7 miliardi. Tutti sappiamo che la sola fusione con la francese PSA arricchirà gli azionisti di altri 3,3 miliardi. Tutti sappiamo che al pari di tutti i capitalisti, FCA ha avuto in dono il taglio dell'IRAP, con soldi presi dalla sanità, e il taglio dell'IRES (tassa sui profitti) dal 34,5% al 20% circa nel corso degli ultimi tredici anni. Ma alle cedole parassitarie degli azionisti si aggiungono gli stipendi sontuosi dei manager dell'azienda, che peraltro normalmente sono anche azionisti della stessa. Il caso di John Elkann è emblematico. Dopo aver incassato in quanto azionista tutto ciò che poteva incassare, John Elkann ha fatto il pieno anche in quanto manager. Per la precisione, nel 2019 ha intascato come stipendio 37,7 milioni di euro. Cioè 1250 volte quanto guadagna il salariato medio della FCA. Il quale per guadagnare quanto Elkann dovrebbe lavorare 1250 anni.

Qualcuno dirà che si tratta di un caso estremo. No, è un dato esemplificativo della divaricazione generale della ricchezza.
Prendiamo un altro angolo di misurazione: il livello di risparmio delle classi sociali. Carlo Bonomi, nel minuetto con Landini, ha affermato che è meglio evitare (persino) la detassazione degli aumenti salariali, perché significherebbe incentivare non i consumi ma i risparmi. L'argomento non solo è insultante, perché suppone che un salariato a 1200 euro mensili possa oggi risparmiare qualcosa; ma è scandaloso perché occulta una realtà esattamente opposta: l'enorme crescita dei depositi bancari delle imprese italiane, quelle che Bonomi rappresenta. Il Sole 24 Ore (16 novembre) mette nero su bianco le cifre: nell'anno della nuova grande recessione, le imprese italiane hanno accresciuto del 21% le proprie somme in banca, per 365 miliardi di euro. La borghesia che non rinnova i contratti piangendo miseria è quella che fa lo sciopero degli investimenti mettendo in banca ciò che succhia dal lavoro salariato. Mentre dieci milioni di lavoratori e lavoratrici italiani/e su diciotto, secondo i dati della Fondazione Di Vittorio, guadagnano meno di 1200 euro, e in media tra 700 e 800.


LIBERARE IL MONDO DA UNA CLASSE DI PARASSITI

Questa voragine sociale che sta ulteriormente precipitando inquieta alcuni ambienti della borghesia. Nel 2006 il finanziere americano Warren Buffett poteva dire trionfante: “la lotta di classe la stiamo facendo noi ricchi contro i poveri e la stiamo vincendo”. Era la vigilia della grande crisi del capitalismo mondiale. Oggi la stessa stampa borghese che documenta l'abisso delle disuguaglianze si interroga sui possibili contraccolpi sociali. Il capo del gigante bancario svizzero UBS si chiede «Esiste il rischio che i ricchi finiscano sotto accusa? Sì. Ne sono consapevoli? Sì».
Il nuovo quotidiano di De Benedetti, dal nome augurante (Domani), chiede alla politica di trovare il modo di «disinnescare questa bomba sociale» per tempo.

Paradossalmente, lo stesso padronato che si arricchisce sulla miseria degli operai ha una coscienza della loro forza che è maggiore di quella che oggi hanno gli operai stessi. Dare una coscienza di classe al proletariato è il compito più che mai di tutte le avanguardie. L'unico modo per sgombrare la via della rivoluzione e liberare il mondo dalla classe di parassiti che lo governa.

Partito Comunista dei Lavoratori

Il vento di Francia

Un grande sciopero generale scuote la Francia, contro la “legge Fornero di Macron” e del suo Primo ministro. Uno sciopero che ha carattere continuativo, si combina con manifestazioni di massa, chiede il ritiro della riforma. Uno sciopero che coinvolge molte categorie del settore pubblico, a partire dai trasporti, dagli ospedali, dalle scuole, con altissimi livelli di partecipazione (80% di scioperanti tra i ferrovieri, quasi il 60% tra gli insegnanti, una percentuale analoga nella sanità). Uno sciopero indetto dai sindacati CGT, FO, Solidaire, con la eccezione della CFDT (che tuttavia sciopera nelle ferrovie), ma sospinto da centinaia di assemblee di lavoratori e lavoratrici, che giorno dopo giorno provvedono a votare la sua continuità. Uno sciopero che polarizza il sostegno attivo della massa dei giovani studenti e l'aperta simpatia della maggioranza larga della società francese. Questo è lo sciopero che da cinque giorni paralizza la Francia.

I frettolosi teorizzatori del tramonto delle forme di lotta “novecentesche” subiscono ancora una volta la smentita più clamorosa. Ancora una volta in Francia.


LA LEGGE FORNERO DI MACRON

Un grande sciopero generale, come ogni forma di esplosione sociale, ha sempre fattori scatenanti e radici lontane.
Il fattore scatenante, la classica goccia che ha fatto travasare il vaso, è una riforma liberal-liberista del sistema pensionistico francese, la bestia nera del capitalismo d'oltralpe. Il progetto di riforma è annunciato da tempo e al tempo stesso ancora indefinito nei suoi dettagli. Non la soppressione dei privilegi corporativi, come lo presenta il governo, con l'intento di dividere i lavoratori, ma la soppressione di una sudata conquista del movimento operaio francese: il diritto di andare in pensione a 60/62 anni d'età, e non oltre.
Non è la prima volta che la borghesia francese parte all'attacco delle pensioni. Ci ha già provato col governo Juppé nel 1995, quando fu costretta a rinunciare da un imponente sciopero generale di 20 giorni consecutivi. Ci ha riprovato con Sarkozy nel 2010, dove ha eroso il muro dei 60 anni di età pensionabile, ma senza ottenere lo sfondamento voluto. Ora Macron prova a sferrare il colpo decisivo.

Le ipotesi di riforma che aleggiano da tempo, fatte filtrare da dietro le quinte per tastare il polso alle masse, sono tra loro diverse: si parla di pensione “a punti” legata ai contributi versati; di un innalzamento incentivato dell'età pensionabile a 64 anni, attraverso una penalizzazione pensionistica sotto quella soglia; di un ricalcolo dell'importo della pensione sull'intera vita lavorativa (e non più sugli ultimi 25 anni). Vedremo nei prossimi giorni come l'operazione verrà articolata, e quale sarà la combinazione di queste misure. Due sono tuttavia i punti chiari. Il primo è che in ogni caso si va in direzione di una chiara compressione dei diritti della grande massa dei salariati. Il secondo è che Macron non può retrocedere da questa linea d'attacco se non smentendo clamorosamente la sua principale promessa elettorale alla borghesia. Da qui la rotta di collisione e i limitati spazi di manovra.

Non si tratta peraltro del solo onore della Presidenza della Repubblica, ma anche di un problema economico serio per il capitale. Il capitalismo francese conosce da anni un andamento economico debole. Il peso strutturale della spesa pubblica è il nemico numero uno della MEDEF (la Confindustria) e dei partiti borghesi. Le pensioni a loro volta sono il grosso della spesa pubblica. “Non si può recidere la spesa pubblica senza intervenire sulle pensioni” grida in coro la grande stampa borghese. Industriali, banchieri, economisti e mananger usano ogni giorno quintali di inchiostro per affermare che non può decollare l'economia francese se non ci si libera di questa zavorra.

Peraltro, proprio lo scontro col movimento dei gilet gialli lo scorso anno ha ulteriormente complicato le cose. Per cercare di disinnescare il movimento dei gilet – infinitamente più modesto dello sciopero attuale ma fattore di potenziale contagio – Macron aveva fatto un anno fa (esattamente il 10 dicembre del 2018) alcune parziali “concessioni” sociali, in direzione in particolare del reddito familiare, delle pensioni minime, della revoca di maggiorazioni di imposta. Per la borghesia altri 4 miliardi sul groppone dell'odiata spesa pubblica. Ma soprattutto una confessione politica di debolezza. Il Presidente ha cercato di equilibrare le concessioni estorte dalla piazza con la soppressione parziale dell'imposta sul patrimonio (“imposta di solidarietà sulle fortune”) e con una flat tax vantaggiosa sui redditi da capitale. Ma questo l'ha costretto a maggior ragione al finanziamento in deficit delle concessioni ai gilet gialli. Oggi l'attacco al sistema pensionistico è indotto anche dalle necessità del governo nel quadro dei patti di stabilità europei. Per giocare la carta della grandeur francese sui tavoli continentali (e non solo), e reggere il negoziato complesso col capitalismo tedesco, Macron deve esibire un quadro economico in regola sul fronte interno, il fronte delle pensioni innanzitutto.


LA MEMORIA DEL PROLETARIATO FRANCESE. LO SPETTRO DEL '95

Tuttavia nello sciopero generale in atto vivono non solo fattori contingenti, ma anche l'esperienza del proletariato francese. Non solo la sua memoria lontana (lo sciopero generale del 1936 che strappò il sabato festivo e lo sciopero generale del maggio 1968 che conquistò il salario minimo intercategoriale), che pure ha depositato indirettamente un suo lascito. Ma anche la memoria più recente: la grande lotta di massa del 2006 contro il governo Villepin e il suo contratto precarizzante di primo impiego (CPA), che costrinse il governo ad una clamorosa retromarcia; e soprattutto il grande sciopero generale vittorioso del 1995 contro Juppé proprio a difesa delle pensioni.

Oggi la memoria del '95 è non a caso un riferimento dominante del dibattito pubblico in Francia. Sulla stampa borghese sembra la memoria della peste. Sulla stampa della sinistra riformista è la memoria di una lotta importante ma datata. Per un settore della classe lavoratrice è invece la memoria di una vittoria possibile attraverso l'uso della propria forza. Se forme di mobilitazione tradizionali seppur insistite, come contro la legge El Khomri di Hollande, non hanno ottenuto risultati, mentre una lotta di piazza settimanale, spuria, ma continuativa come quella dei gilet gialli ha costretto Macron a fare concessioni, la conclusione è che allora anche i salariati debbono andare a una prova di forza. E la prova di forza dei salariati è lo sciopero. La memoria del '95 riassume questa conclusione.


LE PREOCCUPAZIONI DELLA BORGHESIA. E DELLA BUROCRAZIA SINDACALE

La prova di forza che si è aperta in Francia è al centro delle preoccupazioni della borghesia.
Anch'esso memore del 1995, il governo teme la ricomposizione di massa del fronte sociale. Tutto l'ultimo anno è stato speso nel tentativo di disinnescare i rischi di esplosione. Macron ha fatto di tutto in questa direzione: ha imbandito il cosiddetto “grande dibattito” con la società francese, simulando l'umiltà dell'ascolto in mille incontri coi “cittadini”; ha ricoperto di promesse diverse categorie professionali; ora offre la rivalutazione degli stipendi degli insegnanti per bloccarne la convergenza di lotta coi ferrovieri, salvo confessare che non ha i soldi per l'operazione.

Ma ora i nodi sono giunti al pettine. Macron ha preso un anno di tempo per allontanare da sé lo spettro dello scontro sociale sulle pensioni, ma non è riuscito ad evitarlo. Ora lo sciopero generale apre contraddizioni nella borghesia. Il presidente della MEDEF consiglia a Macron di rinunciare alla riforma a punti delle pensioni e di accontentarsi di un innalzamento del monte di contributi necessario. Il Consiglio di orientamento sulle pensioni, una sorta di consulta governativa di esperti sul tema, pubblica un nuovo rapporto e raccomanda a Macron la virtù della prudenza. Lo stesso primo ministro Édouard Philippe mostra tentennamenti, avendo paura di essere usato da Macron come una sorta di ascaro sul fronte sociale per essere poi scaricato e bruciato. Per questo fa filtrare sulla stampa di essere più disponibile del Presidente al “dialogo sociale”. Nel momento stesso in cui vanno allo scontro i diversi attori borghesi si premurano di predisporre, in ordine sparso, un proprio spazio di ritirata.

Ma la stessa preoccupazione investe le burocrazie sindacali. La CFDT si è tenuta fuori dallo scontro per giocare il ruolo di interlocutore privilegiato e responsabile del governo, ma la polarizzazione in atto restringe gli spazi dell'operazione. La preoccupazione è soprattutto negli ambienti dirigenti di Force Ouvrière (FO) e della CGT. Le burocrazie sono state costrette allo scontro sociale dalla pressione di larghi settori della base militante e dalla sfida aperta di Macron alla loro stessa forza negoziale. Ma hanno il terrore di essere scavalcate dalla dinamica di massa e di non riuscire a controllarla. Il loro obiettivo è di vincere ai punti riconquistando pacificamente un tavolo di concertazione col governo sullo stesso tema delle pensioni per riaffermare il proprio ruolo di regolatori del conflitto, a garanzia delle ordinate relazioni industriali. Ma gli stessi processi di radicalizzazione che i burocrati evocano per chiedere udienza al governo rendono pericoloso il loro gioco. Dominique Maillot, importante dirigente di FO, lo confessa apertamente a Le Monde: “Attenzione, uno sciopero è un giorno dopo l'altro, e io posso dirvi che nessuno può sapere cosa accadrà. Il '95 nessuno l'aveva previsto all'inizio" (1 dicembre).


IL NODO DELLA DIREZIONE DEL MOVIMENTO

Le preoccupazioni hanno un fondamento. Nel 1995 la burocrazia sindacale aveva un peso e una capacità di controllo, nonostante tutto, molto superiore all'attuale. Disponeva di un tasso di sindacalizzazione più esteso e aveva relazioni politiche con partiti riformisti ancora strutturati (Partito Socialista e Partito Comunista Francese). Il decennio della grande crisi e il crollo della vecchia sinistra politica ha trascinato con sé una profonda disaffezione verso i sindacati nelle stesse file dei salariati. Lo stesso fenomeno dei gilet gialli e la sua presa in ambienti operai si è nutrito (anche) di questo sentimento. Questa situazione non priva i sindacati maggiori del potere di promuovere lo sciopero, come dimostrano i fatti, ma può indebolire la loro capacità di controllarlo. “Essi rischiano di perdere il controllo del movimento senza poter impedire un suo debordamento” scrive Le Monde il 4 dicembre.

Nelle stesse pagine Le Monde descrive lo sviluppo di comitati e assemblee di base formatisi in diversi settori per impulso di attivisti sindacali di diversa collocazione e di lavoratori non sindacalizzati, proprio in preparazione dell'inizio della sciopero del 5 dicembre con l'intento di dirigerlo. La parola d'ordine “lo sciopero è degli scioperanti” ha acquistato popolarità in ambienti diversi e misura al tempo stesso volontà di lotta e diffidenza verso le burocrazie: è l'espressione a suo modo di una domanda di democrazia operaia e di autorganizzazione.

Vedremo nei prossimi giorni se queste potenzialità si svilupperanno o regrediranno. Analizzeremo il posizionamento politico di tutti gli attori in scena anche sul versante politico. Documenteremo l'intervento attivo nella lotta dei marxisti rivoluzionari francesi. Verificheremo se entrerà nella lotta il proletariato industriale, che oggi versa in maggiori difficoltà, ma la cui mobilitazione darebbe una piega decisiva alla dinamica degli avvenimenti.

Ma una cosa già la possiamo affermare: le tre ore di sciopero contro la legge Fornero in Italia da parte della burocrazia CGIL sono umiliate dallo sciopero generale continuativo in Francia contro una riforma antioperaia delle pensioni dopo tutto più modesta di quella di Monti.
Sicuramente la lotta in corso in Francia è una ragione non solo di solidarietà internazionalista contro i sovranismi di ogni tipo ma anche un terreno di battaglia politica per un'altra direzione del movimento operaio italiano.
Partito Comunista dei Lavoratori