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Antifascismo ieri e oggi

Una robusta riflessione sulle lezioni dell'antifascismo nel 75° anniversario della Liberazione

24 Aprile 2020
Il 25 aprile, quest’anno, anticipa di una settimana l’inizio della fase 2 dell’emergenza coronavirus. E per la fase 2, magari a settembre, in vista di un autunno caldo, la borghesia invoca “l’unità nazionale” dietro Mario Draghi, il più adatto per far pagare ai lavoratori i pesanti esborsi a fondo perduto che il governo è in procinto di regalare a banche e padroni per ripianare le loro perdite.

Storicamente la borghesia invoca l’unità nazionale quando si sente debole e smarrita. Non è quindi un esercizio puramente retorico riesaminare la più celebre delle “unità nazionali” di questo paese, quell’unità antifascista che portò alla nascita della Repubblica. E quale momento migliore per farlo se non questo 75° anniversario della Liberazione?

L’antifascismo storico resistenziale fu un fronte popolare interclassista. Chi c’era nel fronte? C’erano i liberali migliori, quelli del Partito d’Azione, gli stalinisti del PCI, i riformisti socialisti, alcuni esponenti cattolici della futura democrazia cristiana, i preti “rossi”, alcuni intellettuali, persino qualche piccolo padrone “illuminato”. Ed infine, e furono la maggior parte, tantissimi proletari partigiani, il vero e proprio nerbo della Resistenza.

L’idea che l’unità antifascista abbia messo tutti d’accordo dietro a un unico scopo è vera solo in parte, ed esalta solo le menti più superficiali e meno inclini alla riflessione. Primo, perché l’unità non è mai una semplice media di interessi tra le forze che si sono raggruppate; secondo, perché anche quando è un compromesso, come fu dal 1944 al 1947, bisogna sempre chiedersi quale linea programmatica sia stata egemone al suo interno. L’unità, infatti, non è mai un raggruppamento tra parti uguali.

L’unità antifascista raggruppò tutti i componenti dietro il programma sostanziale della grande borghesia finanziaria: sbarazzarsi del fascismo politico per conservare il potere economico mascherandolo dietro una nuova facciata politico-democratica. L’antifascismo liberal-stalinista-socialista-cattolico era cioè un antifascismo capitalista, quindi nella migliore delle ipotesi riformista. L’antifascismo operaio rivoluzionario, purtroppo, non era affatto sullo stesso piano, ma subordinato, nonostante fosse numericamente prevalente.

Già solo per questo dovrebbe venire spontanea una domanda: dobbiamo ripeterlo paro paro l’antifascismo storico? Come è finito l’antifascismo storico resistenziale? Ha vinto o ha perso?
Se stiamo allo scopo che si dettero i dirigenti del fronte antifascista possiamo ben dire con loro “missione compiuta!”. Ma noi non stiamo con loro, bensì con il resto degli antifascisti, composto per oltre due terzi dai partigiani senza particolari ruoli da dirigenti. Questi partigiani altro non erano che gli operai fedeli al PCI, erano il cuore rosso e pulsante della Resistenza. E gli operai, diciamolo pure a malincuore, hanno purtroppo perso, almeno nella loro più intima aspirazione, per la semplice ragione che non avevano soltanto gli stessi intenti politici del fronte antifascista. Avevano anche e soprattutto intenti economici propri: rovesciare il sistema capitalistico e sostituirlo con un regime socialista.

Vedere l’unità di intenti dove c’era una frattura evidente come la Rift Valley vuol dire che non si è guardato con sufficiente attenzione l’antifascismo, e sopratutto lo si è osservato solo dall’alto delle direzioni dei partiti, sprezzanti di chi stava più in basso in prima linea con aspirazioni ben diverse, più alte e nobili. L’ha ricordato, non a noi che l’abbiamo sempre saputo ma agli smemorati che facevano finta di non saperlo, Claudio Pavone nel suo libro epocale Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991).

Pochi hanno letto quel saggio denso e corposo, che comprova ampiamente quanto andiamo dicendo. Ma anche curiosando, per esempio, tra le carte dei tanti archivi della Resistenza sparsi per il web, ci si imbatte facilmente in memorie, come ad esempio queste di Domenico Facelli, il quale ricorda come alla caduta del fascismo si perse ancora un sacco di tempo prima di mettere d’accordo gli antifascisti, perché a differenza degli altri gli operai non si accontentavano della caduta del Duce, perché non ne volevano sapere di «ridare il potere alla classe che per vent’anni aveva dominato attraverso il fascismo».

Tale consapevolezza, più o meno profonda, pervade l’intera vicenda resistenziale e si protrae in maniera decisa almeno fino all’attentato a Togliatti del 1948, per poi scemare a poco a poco negli anni successivi. Anzi, la Resistenza, almeno per i dirigenti, fu anche e sopratutto questo, la guerra più o meno aperta e ai fianchi agli operai, per disorientarli, illuderli e infine disarmarli, sconfiggerli e ricacciarli indietro insieme con i loro desideri più intimi e rivoluzionari.

Durante il periodo della Resistenza gli operai avevano in mano le fabbriche. Al contrario, le colonne d’ercole della Costituzione “antifascista” sono appunto rappresentate dalla proprietà privata delle fabbriche. La Costituzione non prevede di darle in mano agli operai, nega la possibilità che possano occuparle, ha messo l’articolo 42 e la polizia armata a presidiarle: «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».

Questo articolo è il vero e proprio perno della Costituzione borghese “antifascista”. Per tutta la durata della Resistenza, gli operai sono al di là e molto più avanti dell’architrave della Costituzione “antifascista”, che deve ancora arrivare e arriverà per ultima. Il movimento della Resistenza che va dalla caduta del fascismo alla Costituzione del gennaio del 1948, è appunto specialmente ai piani alti il movimento all’indietro per ricacciarli al di qua. I vari accordi tra padronato e CGIL sullo sblocco dei licenziamenti che rimasero lettera morta per anni per la resistenza operaia ne sono la più plastica dimostrazione. Ecco perché il dato oggettivo dice inequivocabilmente che gli operai in quel ciclo di lotte hanno perso. Non si può infatti perdere le fabbriche, cioè tutto, dicendo che comunque si è ottenuto qualcosa. Le fabbriche nel 1943 (come oggi del resto) sono praticamente l’intera ricchezza del paese, lo strumento che "la produce". Nel 1948 la borghesia le ha già soffiate da sotto il naso agli operai in cambio della carta costituzionale. Solo il compagno Pirro può chiamare tutto questo vittoria. Le riconquistate libertà politiche e sindacali, la scala mobile, il diritto di voto per la prima volta alle donne e tante altre "piccole" riforme, non possono ripagare minimamente gli operai di una perdita tanto enorme sul piano storico come quella del controllo delle fabbriche. Di qui la delusione con la conseguente sconfitta delle sinistre, immediatamente successiva al varo della carta, alle politiche del luglio del 1948, e l’inevitabile riflusso nel decennio successivo.

La guerra più o meno velata per strappare le fabbriche agli operai fu combattuta da tutte le forze dell’antifascismo storico resistenziale, ma non sarebbe stata vinta senza il concorso decisivo del PCI, il quale dopo la svolta di Salerno del 1944 fu in prima linea per ricacciarli fuori. In cambio di questo straordinario servizio reso ai padroni, il PCI poté ottenere che su quel pezzo di carta da sventolare il 25 aprile insieme con la bandiera rossa fosse incisa una promessa di rivoluzione a venire, in cambio di una rinuncia a una rivoluzione immediata (Calamandrei, il corsivo è nostro).

L’obiezione che molti fanno, arrivati a questo punto, è che se gli operai erano fedeli al partito, erano evidentemente fedeli anche all’unità antifascista da fronte popolare. Tale obiezione viene dalle stesse menti superficiali e poco inclini allo studio e alla riflessione di prima. Come il fronte popolare antifascista non mette semplicemente tutti concordi dietro un unico scopo, così la fedeltà sostanziale a un partito non si manifesta come il seguito di un cagnolino.

Come ha ben ricostruito Liliana Lanzardo: «la strategia della via democratica al socialismo passa, nei primi anni del dopoguerra, attraverso la collaborazione governativa tra borghesia progressista e movimento operaio […] mentre la classe operaia nella fabbrica si muove in direzione del tutto opposta a quella dell’alleanza col capitale».

Naturalmente a noi non interessa il velato cinismo con cui la studiosa prende per buone le definizioni che i politici danno di sé e dei loro alleati, per cui in primo luogo è dato per scontato che una parte della borghesia sia progressista, quando è almeno dal 1917 che nessuna sua parte ha mai dimostrato storicamente di esserlo, ma soprattutto, in secondo luogo, il Partito Comunista diventa “il movimento operaio”, mentre il vero movimento operaio, la classe operaia medesima, resta semplicemente “la classe operaia”, quasi la sua azione non contasse nulla per farne parte davvero.
A noi, qui, interessa soltanto mostrare inequivocabilmente come gli operai avessero idee diametralmente opposte a quelle del loro partito. Ci volle tutta la doppiezza togliattiana, la chiusura di sedi, numerose esautorazioni d’ufficio ed espulsioni, per riuscire a tirarsi dietro il grosso della classe senza giungere a una vera e propria frattura con la base. Il che però non vuole dire che la classe seguì il partito come chi è convinto che la linea sia giusta. La classe sentì puzza di bruciato ad ogni passo, ma seguì il partito come lo segue chi lo riconosce come qualcosa comunque di suo. Dopo vent'anni di fascismo, gli operai ignoravano gran parte delle vicende, non potevano chiarirsi tutto in un colpo cosa fossero lo stalinismo e i suoi partiti. In breve, non riuscirono a liberarsi in tempo delle loro illusioni in Stalin e nel PCI, ma non furono comunque fedeli come marionette. Al contrario, seguirono obtorto collo il partito, e questa contraddittoria fedeltà fu fatale per i loro sogni di gloria.

La sconfitta dell’antifascismo operaio classista pregiudica pesantemente anche la presunta vittoria storica interclassista del suo partito di riferimento, il PCI. Forse hanno vinto gli altri partiti, che non avevano ufficialmente lo stesso programma, ma non certo il PCI. Non tanto perché alla fine del ciclo, tolta la forza economica alla sua base, il PCI è espulso dal governo borghese da De Gasperi e battuto alle elezioni, ma perché ricacciare indietro gli operai all’apice della mobilitazione, per poi sperare di farli avanzare successivamente, per via parlamentare, smobilitati e delusi, appare subito come un assurdo controsenso. Infatti, per un robusto marxista come Bordiga (qualcuno legge ancora i suoi vivacissimi scritti?), era chiarissimo già allora come fosse impossibile, quando commentava sarcastico Togliatti che presentava la Costituzione come chissà quale trofeo e come inizio di chissà quale avvenire di sicuro progresso.

Dal punto di vista programmatico, però, per la sconfitta definitiva dell’antifascismo "comunista" costituzionale bisogna aspettare il 2007, anno della nascita del PD, con cui si chiude la parabola del PCI-PDS-DS. Nella Costituzione, infatti, il famoso testo della stucchevole promessa di rivoluzione per il povero PCI che ci aveva rinunciato recitava così: «È compito dello Stato rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale… che impediscono il pieno sviluppo della persona umana...». Tecnicamente, se la frase ha un senso, significava che era compito dello Stato ridare le fabbriche agli operai, di quello stesso Stato borghese che si era appena ricostruito facendosele riconsegnare da Togliatti. Prosaicamente, era la famosa “via italiana al socialismo”, il vecchio programma socialdemocratico del “partito nuovo”, come si definiva il PCI repubblicano. La Costituzione diventava, nella narrazione degli stalinisti italiani, il perno dell’ennesima variante del socialismo per via di riforma.
Nel 2007, per i San Tommaso a cui il Bordiga del 1947 non basta, anche questo capitolo si chiude per sempre: attraverso la svolta della Bolognina del 1989-’91, la via italiana al socialismo si rivela per quello che è: la via italiana dal PCI al PD. Dalla promessa immaginaria di una trasformazione di uno Stato borghese in uno socialista alla trasformazione opposta di un partito operaio (stalinista) in un partito pienamente borghese. Game over!

Riproporre ancora, tredici anni dopo, un antifascismo sconfitto subito nella sua classe portante, quella operaia, e definitivamente negli intenti programmatici del suo principale partito nel 2007, significa preparare nuove sconfitte senza aver neanche speranza di mezze vittorie politiche come quelle della Resistenza.

Infatti, la vittoria politica dei partiti antifascisti è stata oltretutto ottenuta nell’epoca del crollo dello Stato borghese e del disfacimento del fascismo. La borghesia oggi ha ben saldo nelle mani il suo Stato, non deve ricostruirlo. Gli operai, pur con la bella prova degli scioperi di marzo per difendersi dall’emergenza coronavirus, non hanno in mano le fabbriche. Se la borghesia chiama all’unità nazionale – contro il movimento operaio, anche se questo non lo dice – è perché sa che alla ripresa, per tenerlo buono, non ha alcuna riforma da offrirgli, ma solo l’accelerazione e il raddoppio delle misure lacrime e sangue che abbiamo già visto e sperimentato nell’ultimo decennio abbondante di crisi. Il rischio quindi di una ribellione furiosa e di uno scontro frontale col movimento operaio esiste, e per quanto noi marxisti, prudenti, non lo diamo per scontato, è indubbiamente sentito dalla borghesia.

Perciò mettiamo in guardia i compagni che come noi stanno lavorando per la mobilitazione più ampia e radicale che si sia mai vista in questo paese, perché qualora la rabbia operaia scoppiasse davvero, mettendo all’angolo la borghesia, il fascismo che ci ritroveremo davanti non sarà certo quello alla frutta e moribondo del 1945, ma un fascismo molto più simile a quello in ascesa, giovane e forte, della marcia su Roma del 1922. Quello che i fronti popolari interclassisti se li mangiava in un boccone. Non tanto in Italia, dove Stalin non aveva ancora avuto il tempo di prepararli, ma in Spagna, nel 1936, dove dettero dimostrazione imperitura e storica di tutta la loro impotenza di fronte alla versione spagnola del fascismo in ascesa: il franchismo.

L’antifascismo da fronte popolare interclassista, dunque, non si può dire abbia fatto il suo tempo, come tutte le cose venute male e storicamente sbagliate, perché sostanzialmente riformiste. È proprio che è tanto più retorico e acritico perché fondamentalmente inattuale.

Quello che va ricostruito non è l’antifascismo di Stalin, ma quello di Lenin, l’antifascismo del fronte unico interamente classista, cioè l’antifascismo proletario e rivoluzionario, l’unico in grado di battere il fascismo controrivoluzionario in ascesa. Ai tempi del Duce questo tipo di antifascismo si manifestò in Italia non nella forma piccolo-borghese del fronte popolare, ma in quella sostanzialmente genuina degli arditi del popolo, fondati nel giugno del 1921.

È, quella degli arditi del popolo, la forma più attuale per l’antifascismo di oggi.
Anche gli arditi del popolo allora furono sconfitti, nonostante alcune iniziali e brillanti vittorie, ma ciò non fu a causa di una formula sbagliata di antifascismo, ma degli errori del PCd'I appena nato, che non comprese le direttive di Lenin. Lenin, di cui non onoreremo mai abbastanza i 150 anni dalla nascita della sua grandezza, voleva che il PCd'I si unisse agli arditi del popolo per esserne alla testa contro il fascismo. Il settarismo estremista di Bordiga lo impedì per purezza di partito. Così gli arditi del popolo, privati del partito rivoluzionario e quindi di una fetta importante della classe operaia, coi socialisti che tenevano con le mani legate l’altra fetta, furono lasciati soli e condannati alla sconfitta.

Oggi, alla vigilia di un nuovo possibile ciclo di lotte, nel parziale stand-by del momento, il fascismo non è ancora in ascesa come allora, perciò i nuovi arditi del popolo non si sono ancora formati. Però, sapendo che senza comunisti e classe operaia saranno destinati di nuovo alla sconfitta, possiamo imparare dalla Storia preparando i più arditi tra gli arditi del popolo: gli arditi del partito militante e rivoluzionario; perché senza la ricostruzione del suo insostituibile ruolo di guida dell’antifascismo tutto, l’antifascismo non sarà mai vittorioso.

Viva il 25 aprile!
Viva i partigiani!
Viva la Resistenza!




Approfondimenti:

Per il rapporto tra classe operaia e PCI, si legga di Liliana Lanzardo “Classe operaia e Partito Comunista alla Fiat – la strategia della collaborazione 1945-1949” (Einaudi, 1971).

Per la forte opposizione che la linea del PCI incontrò, si legga del grande Arturo Peregalli: “L’altra Resistenza – Il PCI e le opposizioni di sinistra 1943-1945” (Graphos 1991) e “Togliatti guardasigilli 1945-1946”, (Colibrì 1998, quest’ultimo scritto con Mirella Mingardo).

Per i commenti sarcastici e in presa diretta di Bordiga sulla Costituzione, consigliamo questi due scritti: “Abbasso la Repubblica borghese, abbasso la sua Costituzione”, del 1947, e “I socialisti e le costituzioni”, del 1949.

Sugli Arditi del popolo e le loro prime formazioni armate, da leggere è senz’altro “Dal nulla sorgemmo” di Valerio Gentile (Red Star Press, 2012).

Infine, sull’impietoso bilancio dell’unità nazionale antifascista, molto preciso e sintetico è il capitolo: “Il PCI al governo nel ’44-47” di Antonio Moscato, contenuto in “Sinistra e potere” (Sapere, 2003)
Lorenzo Mortara