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Alluvione e futuro


 DI  · AGOSTO 2, 2023

Di Partigiano Stanziale

Chi non conosce l’origine del male è vittima per sempre

A quasi due mesi dall’alluvione in Romagna, il dibattito pubblico si concentra soprattutto nelle polemiche fra opposizioni e maggioranze, in Parlamento e nelle amministrazioni locali. La realtà, la sostanza degli eventi, sembra decadere nell’incomprensibile brusio, sempre più tenue, di particolari irrilevanti.

Così, le vittime dell’alluvione vengono istituzionalizzate, e passivizzate, nella speranza di ottenere qualcosa, prima o poi, per gentile concessione di un sistema il cui funzionamento appare loro incomprensibile. Sicché le giuste rivendicazioni di chi ha perso tutto, invece di confliggere con gli eventuali responsabili della catastrofe, verranno cooptate, e depotenziate, all’interno di un inesistente dialogo con le istituzioni, presunte democratiche. Per cui, concentrarsi sulle tante inefficienze dei soccorsi, sull’insufficienza dei fondi stanziati dal governo post-fascista (per il momento pochi miliardi fino al 2025), sull’assurdità della nomina di un commissario per la ricostruzione a scadenza elettorale (fino alle europee del prossimo anno) e sulle condizioni attuali in cui versano gli alluvionati, (drammatiche per i proletari, a corto di risparmi per sostituire i beni perduti), è giusto e doveroso, ma inutile, se nel frattempo non si cercano le cause della catastrofe.

Un modo di produzione inefficiente e distruttivo

Negli ultimi decenni, in regione è cresciuta in maniera esponenziale la cementificazione di vaste porzioni del territorio. Gli allevamenti intensivi di bovini, in pianura, hanno sostituito gli allevamenti bradi in collina e in montagna. Mentre quelli di polli e suini sono aumentati. L’agricoltura intensiva ha continuato a distruggere la biodiversità (la più varia d’Europa, in quanto sita al confine fra flora continentale e mediterranea). La fertilità della pianura alluvionale, inferiore soltanto al delta del Mekong, con le mono-colture intensive si è estremamente ridotta. Sulla costa si è continuato a costruire, fin sulle spiagge, una quantità infinita di appartamenti, alberghi, campeggi, ristoranti e altri edifici di ogni genere, per il –benessere? – di milioni di villeggianti del ceto medio più o meno benestante (con relativa crescita esponenziale del lavoro nero e dell’evasione fiscale). Infine, il crescente sviluppo industriale e dei trasporti non ha dato letteralmente respiro agli emiliani-romagnoli, con un inquinamento dell’aria secondo soltanto alla Lombardia. Il risultato è che in Emilia Romagna il 100% degli ecosistemi è a rischio.

Un caso esemplare

Come ha mostrato, pochi giorni fa, la trasmissione RAI Report, nel corso degli ultimi anni, in regione, sono stati eseguiti una quantità di interventi per la sicurezza dei centri abitati e del territorio contro il rischio idrogeologico. Nei fiumi sono state realizzate casse di espansione, ampliamenti e abbattimenti degli argini, e altri di vario genere, per aumentare la portata idraulica, per rallentare la velocità della corrente, per consentire alle piene di espandersi e così rifornire le falde sotterranee. Tuttavia, non tutti quelli necessari e urgenti sono stati realizzati, o nemmeno progettati.

Inoltre, la manutenzione degli alvei, dei fossi e dei canali è stata ridotta al minimo, sia in montagna, sia in pianura, come sul litorale adriatico. Di tutto questo Forlì, capitale spirituale della Romagna, funziona come esempio della demenzialità contraddittoria del vigente modello economico, inefficiente e distruttivo, che causa danni irreparabili all’ambiente naturale, alle cose e alle persone. Di come l’alluvione abbia messo a nudo la decadenza di una borghesia e di un ceto politico che assomiglia alla grottesca incoscienza della regina Antonietta di Francia. La quale, a un cortigiano che la informava che il popolo non aveva più il pane, rispondeva infastidita: “Che mangino brioche!”.

Una classe politica in carriera

Pochi giorni prima dell’alluvione, l’amministrazione comunale (Sindaco Zattini, Lega) lanciava l’idea di -Forlì, città turistica-. Una idea piuttosto balzana, dato che Forlì si è sempre caratterizzata per le attività manifatturiere e agricole. Forse intendeva ribattere alla concorrenza del governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini (PD); il quale, con il consueto linguaggio aziendalista, invitava i sindaci della regione a –fare squadra– al fine di mettere in rete –le proprie competenze e saperi-, per rilanciare l’economia. In entrambi i casi il riscaldamento climatico e rischi connessi non venivano presi in considerazione.

Un mese dopo la catastrofe, a dimostrazione che per i Sindaco era già passata la nottata, i media locali, cartacei e online, pubblicavano la notizia dell’inizio cantiere per completare la circonvallazione intorno alla città: “Fortemente voluti dal sindaco Zattini”. Il progetto prevede: due gallerie, svincoli, rotonde e vari altri lavori. Una spesa di dodici milioni di soldi pubblici; per la gioia dei costruttori e per incentivare la circolazione su gomma, responsabile di buona parte delle emissioni di anidrite carbonica nell’atmosfera e di conseguenza dei fenomeni atmosferici estremi. Mentre la cementificazione della città e zone limitrofe continua senza pause, anzi con rinnovato fervore distruttivo. Due mesi dopo la catastrofe, di nuovo il governatore Bonaccini, tanto per non essere da meno, convocava a convegno le associazioni dei costruttori; i quali (e in quanto tali), esprimevano la ferma volontà di continuare a costruire come prima e più di prima, per creare nuovi posti di lavoro e nuova ricchezza. Insomma, della serie: quando alla pubblicità ci credono anche quelli che la fanno.

Un’opera senza futuro

A proposito di circonvallazione (o asse di arroccamento), la prima parte di essa, realizzata circa vent’anni orsono, per qualche chilometro corre vicina al fiume Montone, sopra un terrapieno alto fino a otto metri. Praticamente, rinchiude in una specie di tinozza alcuni quartieri periferici della città. Allora, il 16 maggio verso mezzanotte, quando l’onda di piena ha superato gli argini, allagando questi quartieri, a un certo punto si è infranta contro un ostacolo insormontabile, ed è cresciuta rapidamente fino a raggiungere un metro e mezzo di altezza. Quindi, accelerando, si è infilata nei pochi sottopassi del terrapieno, passando oltre e allagando altre abitazioni, per poi spandersi nelle campagne retrostanti. E questo la dice lunga sul concetto capitalista di rapporto con l’ambiente naturale, secondo il quale il territorio viene considerato un semplice supporto, o basamento, per qualsivoglia (e ovunque convenga) attività redditizia.

Il ponte della ferrovia

Forlì si trova sopra la -sella- fra i fiumi Ronco e Montone. In realtà i fiumi sono tre, in quanto, poco prima della città, alle acque del Montone si aggiungono quelle di un altro fiume: il Rabbi. Escluso il centro storico, la città si trova in gran parte, più o meno, al livello del letto di secca dei fiumi e al di sotto del livello di piena; per cui a forte rischio idrogeologico. Dal 2014 al 2017, sono stati realizzati diversi interventi per la messa in sicurezza dei quartieri più esposti al rischio alluvione, sia nel Ronco che nel Montone.

Tuttavia, per il Montone, il progetto non prevedeva l’innalzamento del ponte della ferrovia Milano-Lecce, il quale lo scavalca a circa un chilometro a valle del centro storico e poco dopo i quartieri alluvionati. Trattasi di un vecchio manufatto in laterizio (a tre archi e due piloni piantati in mezzo al letto del fiume), ben fatto, ma molto basso (addirittura le rotaie sfiorano il colmo degli argini) e dalla struttura massiccia e ingombrante. Per cui, si può ipotizzare che la presenza di questo ostacolo abbia, perlomeno, aumentato la massa d’acqua che ha scavalcato gli argini quando è arrivata la piena. Ciò non significa che il ponte della ferrovia e la circonvallazione (in misura minore) siano stati la causa dell’alluvione; tuttavia senza di essi, probabilmente, l’area alluvionata sarebbe stata diversa: meno estesa?

Gli agenti del capitale

In generale, le cause dell’alluvione sono state parzialmente naturali. O meglio, dietro un evento di per sé naturale, in quanto causato da un fenomeno naturale (la pioggia), insistono responsabilità delle classi dirigenti, politiche e produttive: locali, regionali e di Governo.

Nello specifico: hanno ignorato gli allarmi degli scienziati, dei movimenti e dell’evidenza, sulla crescente probabilità di fenomeni atmosferici mai accaduti, sempre più estremi e pericolosi. Hanno incentivato un modo di produzione energivoro e inquinante, mettendo a rischio la sopravvivenza delle popolazioni, di loro stessi e delle generazioni future. Non si sono preoccupati di approntare piani di emergenza per le popolazioni colpite da eventuali catastrofi: allarme, soccorso, evacuazione, collocazione degli sfollati, vie di fuga, eccetera. Hanno tagliato i fondi destinati alla protezione civile e agli enti preposti alla salvaguardia dell’ambiente naturale e delle popolazioni soggette a rischio idrogeologico; vuoi per mancanza di risorse economiche, vuoi per disinteresse (che è la stessa cosa). Più precisamente, hanno ignorato le relazioni dei servizi tecnici delle autorità di bacino; nelle quali si indicavano le aree abitate a rischio alluvione e gli interventi necessari e urgenti. (Per approfondimenti invitiamo a fare una ricerca negli archivi dei servizi tecnici, genio civile, della Regione Emilia Romagna). Se in tutto questo vi siano responsabilità di rilevanza penale, di questo o di quel singolo amministratore, eventualmente sarà la magistratura a doverlo appurare; anche se in questi casi è la norma che tutto finisca nell’oblio e che le vittime rimangano senza giustizia. In ogni caso, rimane la colpa collettiva di una classe politica incapace di prendere atto della realtà.

La distruzione chiamata ricchezza

Lo sviluppo economico in Emilia Romagna, particolarmente in Romagna, dopo il 1989 (Caduta del muro di Berlino) praticamente non ha avuto più freni. Le burocrazie sindacali e politiche del PCI aderirono, con l’entusiasmo del neofita ignorante, al modello fordista di crescita quantitativa senza qualità, sottoponendo il territorio alla più bieca speculazione edilizia (urbanistica clientelare contrattata). Non che in precedenza avessero fatto di meglio, tuttavia il modello stalinista in versione togliattiana (espulsione dei ceti popolari dai centri storici e costruzione di quartieri dormitorio nelle periferie) prevedeva un minimo di programmazione e controllo politico (piani regolatori) Questo modello, non certo diverso dalle regioni governate fin dal dopoguerra dalla Democrazia Cristiana, in Romagna è stato meno evidente per l’assenza di grandi città, con la popolazione diluita in centri piccoli o medio piccoli, ma è stato altrettanto e forse più devastante, per l’antropizzazione inflitta all’intero territorio. Esclusa la montagna, abbandonata a sé stessa in quanto poco interessante per gli investimenti. Non è un caso che i paesi di collina e montagna si siano spopolati progressivamente negli ultimi decenni.

Negazionisti contro transizionisti

Nei prossimi anni la questione ambientale diventerà sempre di più importante per vincere le elezioni, specialmente nei paesi occidentali. Le prime avvisaglie si avvertono già negli USA, in vista delle prossime elezioni presidenziali. Da una parte i padroni delle industrie energivore, degli allevamenti e delle monocolture intensive, rappresentati dalle destre negazioniste. Le quali sostengono che il riscaldamento climatico fa parte dei cicli naturali e che prima o poi finirà (o addirittura non lo prendono in considerazione). Dall’altra, la borghesia transizionista, che sta investendo enormi capitali nelle energie rinnovabili e per impossessarsi delle risorse naturali: acqua, suoli fertili e materie prime tecnologiche. Significativo che pochi giorni fa, nel Parlamento Europeo, la norma sul Natur Restoration Law, (per il ripristino degli habitat, parte del più ampio disegno del Green Deal) sia stata approvata con una risicata maggioranza di voti. Ne consegue che nei singoli stati non se ne farà niente o quasi: l’esultanza di Greta Thunberg e solidali è del tutto inappropriata.

La contronatura del capitale

È ormai evidente che i negazionisti non capiscono niente di ecologia e nemmeno sono interessati a capire. Il loro è un mondo estraneo a qualsiasi forma vita che non sia la loro. Al contrario, i transizionisti ne capiscono un po’, ma non possono investire le grandi quantità di capitali che sarebbero necessarie per la messa in sicurezza/adattamento dei territori sempre più a rischio nei prossimi anni. Il limite è che gli investimenti autenticamente ecologici non rendono profitto a breve termine. Si tratta della così detta finanziarizzazione dell’economia. Nella quale, i tempi di riproduzione del capitale al di sopra del tasso medio di profitto, sono estremamente ridotti, per effetto della rivoluzione informatica e telematica. Ma questo non è un’anomalia, sta nella storia dell’economia mercantile: ogni nuova scoperta, potenzialmente progressiva, viene distorta e messa al suo servizio. Anche il capitalismo più progressista, neo-keynesiano, non può abiurare sé stesso.

E le classi lavoratrici?

In questo lotta divaricante fra classi dirigenti e dominanti, da che parte starà la maggioranza delle classi lavoratrici? Negli ultimi decenni, i lavoratori si sono spostati in massa verso destra, reagendo, più o meno consapevolmente, al tradimento delle burocrazie politiche e sindacali dei partiti di sinistra. Nelle ultime tornate elettorali hanno votato per le destre o per il populismo grillino, in molti si sono astenuti. Ma se la direzione dovesse cambiare; nel senso che, da ora in avanti, gli eventi climatici estremi saranno un elemento formante dei conflitti sociali? In questo caso, la questione ambientale interagirà con la questione salariale, con i diritti sociali e civili e nella geopolitica come mai nella storia dei conflitti all’interno della nostra specie. E questo potrebbe essere propedeutico per il ritorno di grandi masse proletarie verso la lotta; e non sarà certo il salario minimo, penosa bandierina del neo PD sinistrorso a cambiare le cose, ad acquietare il conflitto fra capitale e ambiente-lavoro nel prossimo periodo storico. Ma questo è il problema dei problemi; perché solo i lavoratori avrebbero la forza di imporre lo stato di emergenza ambientale nazionale, e trovare le risorse per una vera transizione ecologica. Primi provvedimenti: una tassa patrimoniale fortemente progressiva, blocco immediato della cementificazione, nazionalizzazione (senza risarcimento alla proprietà) delle industrie energivore/inquinanti e messa in sicurezza/bonifica del territorio. Se invece rimarranno ancora passivi continuerà la catastrofe.

Conclusioni provvisorie

In Romagna come nel resto del paese, il dibattito sulla questione ecologica è estremamente arretrato. Rimane concentrato nei particolari, mentre le ragioni, le responsabilità e le colpe rimangono tabù. Ogni tentativo di alzare il livello si scontra contro il muro del presente, senza futuro e visione di insieme. Le scoperte scientifiche sul funzionamento della natura, vengono tacciate di ideologia. Assistiamo al rovesciamento di senso fra natura e cultura, là dove il naturale (la biosfera) diventa un’entità culturale e (quindi opinabile); mentre la cultura dominante (l’economia di mercato) viene considerata naturale e quindi immutabile, nella sacralità della proprietà privata. Nel frattempo, in Romagna, i corsi d’acqua (escluso piccoli interventi di riparazione degli argini) sono rimasti tali e quali a prima dell’alluvione. La materialità dell’urgenza non viene presa in considerazione, per la semplice ragione che è troppo grossa per essere compresa e affrontata. Una spada di Damocle rimane sospesa sul capo dei residenti delle zone a rischio, in Romagna e nel resto del paese. Se dovessero ripetersi le precipitazioni del mese di maggio, ed è probabile che prima o poi avverranno di nuovo, la pianura tornerà sott’acqua e la montagna franerà ancora, ma non sembra interessare a nessuno. Inizia un capitolo feroce della storia dei sapiens.