La storia vera di Giorgio Napolitano, il "comunista" preferito di Kissinger
In queste ore la memoria di Giorgio Napolitano è omaggiata a reti unificate. Non è un caso.
La sua biografia riassume storia e deriva della sinistra italiana tra prima e seconda Repubblica. Dallo stalinismo al liberalismo borghese. La massima coerenza nel trasformismo. La massima coerenza contro gli operai.
Da dirigente stalinista del Partito Comunista Italiano, promosso nel Comitato Centrale col fatidico VIII Congresso (1956) si guadagnò i galloni dorati di Togliatti partecipando attivamente al plauso dei carri armati di Mosca contro gli operai ungheresi. Un bagno di sangue che Napolitano, appena trentunenne, salutò come «difesa del socialismo» e «contributo decisivo alla pace mondiale».
Negli anni '60, responsabile del PCI per il Mezzogiorno al posto del vecchio Li Causi, e pupillo prediletto di Giorgio Amendola, inaugurò la propria carriera nell'ala destra della burocrazia PCI, quella che chiedeva una politica di apertura al governo del centrosinistra, e in particolare al partito socialista, in funzione di una promozione istituzionale del PCI. Fu il celebre congresso del 1966, con la dialettica interna all'apparato stalinista tra la posizione movimentista di Ingrao e la destra amendoliana. L'ambizione di Napolitano era quella di succedere a Luigi Longo quale segretario del partito. Ma la sua posizione di confine nella dialettica d'apparato non giocò a suo favore. La nomina di Berlinguer fu per lui uno smacco che si appuntò al dito.
Negli anni '70, aperti dall'autunno caldo e conclusi con l'unità nazionale, Napolitano giocò un ruolo importante. Al fianco dell'anziano Giorgio Amendola combinò la massima diffidenza verso le lotte dei lavoratori e “il ribellismo del '68” con la massima postura governista.
L'allentamento delle relazioni del PCI con Mosca sancito dal «franco dissenso» sull'invasione della Cecoslovacchia (agosto 1968) e al tempo stesso, e soprattutto, l'ascesa di massa che attraversava il paese spinsero i settori decisivi della borghesia italiana (Carli, Agnelli, La Malfa) ad aprire al PCI per una sua corresponsabilizzazione di governo. Era l'unica via per fermare la classe operaia e ricondurla all'ovile. Napolitano fu un uomo di punta dell'operazione. Attivo sostenitore del compromesso storico di Berlinguer, in omaggio alla tradizione togliattiana del dopoguerra, Napolitano fu il principale elaboratore della politica di austerità e sacrifici che accompagnò la politica dei governi di unità nazionale tra il 1976 e il 1978 (prima manomissione della scala mobile, apertura alle privatizzazioni, esaltazione della produttività...). Il "Piano a medio termine" del PCI, che razionalizzò l'austerità, fu scritto da Giorgio Napolitano, quale responsabile economico del partito.
Ma il suo ruolo e scopo principale da allora divenne un altro: quello di legittimare il PCI quale partito di governo presso la diplomazia dell'imperialismo USA. Napolitano fu il primo dirigente del PCI ospitato a Washington. Kissinger, appena reduce dal golpe fascista di Pinochet, chiamò Napolitano «il mio comunista preferito» (1978). Una onorificenza meritata.
Negli anni '80, gli anni del declino del PCI, Napolitano fu il capofila della cosiddetta ala migliorista del partito, il settore della burocrazia maggiormente legato alle amministrazioni locali, quello più aperto verso le socialdemocrazie europee e in Italia verso il PSI di Bettino Craxi.
Quando il governo Craxi varò il decreto di San Valentino del 1984 contro la scala mobile, costringendo Berlinguer a replicare col referendum per tutelare il peso negoziale del PCI, Napolitano capeggiò l'ala della burocrazia più refrattaria a ogni forma di conflitto col PSI. Ebbe dalla sua anche Luciano Lama, che si allineò a Berlinguer solo per disciplina. Dopo la morte di Berlinguer, quando si aprì nella burocrazia la lotta per la successione, Napolitano puntò a rilanciare una propria candidatura: ma la sua posizione di confine nell'apparato ancora una volta gli precluse quello sbocco, aprendo la via prima a Natta e poi a Occhetto.
Fu solo negli anni '90 che Napolitano cominciò finalmente ad andare all'incasso dei meriti acquisiti in precedenza presso la borghesia italiana (e non solo italiana).
In prima fila nello scioglimento del PCI alla Bolognina, dopo la caduta del Muro di Berlino, Napolitano incrociò il crollo della prima Repubblica e l'avvio della seconda.
Eletto Presidente della Camera nel 1992, fu sufficientemente abile per evitare di restare sotto le macerie del craxismo e al tempo stesso sufficientemente spregiudicato per puntare in prima persona a ruoli di governo.
Quando nacque il primo governo Berlusconi, nel 1994, intervenne in Parlamento per censurare ogni opposizione pregiudiziale. Berlusconi andò platealmente a stringergli la mano. Napolitano divenne il primo ministro degli Interni di estrazione PCI, nel governo di Romano Prodi (1996-1998), quello che con i voti della Rifondazione di Bertinotti, Ferrero, Rizzo, varò il lavoro interinale e il record delle privatizzazioni in Europa. Da ministro degli interni di scuola Pecchioli, Napolitano contribuì col varo di una legge che per la prima volta istituiva la detenzione amministrativa dei migranti (legge Turco-Napolitano), la legge antesignana dei futuri CPR. Una legge infame. Erano gli anni del tentato blocco navale contro l'”invasione” degli albanesi, quello con cui nel 1997 si speronò e affondò nel mare d'Otranto un barcone con più di cento migranti. Un crimine impunito. Il ministro degli Interni Napolitano gestì e coprì l'operazione, e la sua cancellazione successiva dalla memoria nazionale della sinistra.
Ma la carriera di Napolitano nella sua seconda vita era appena iniziata. Nel 2006, forte del suo prestigio, venne nominato Presidente della Repubblica. Da Presidente della Repubblica, collaborò prima col secondo governo di Romano Prodi tra il 2006 e il 2008 (quello che col voto di Rifondazione detassò i profitti passando l'IRES dal 34% al 27,5%), poi col terzo governo Berlusconi (2008-2011), di cui coprì per “responsabilità istituzionale” tutta la legislazione ad personam, le leggi contro il lavoro, la controriforma Gelmini contro la scuola pubblica, firmando e controfirmando tutte le peggiori schifezze.
Quando nel 2011 precipitò la crisi della maggioranza che sorreggeva Berlusconi, cercò di fare l'impossibile per cercare di garantirgli la sopravvivenza. Lo mollò solo sotto la pressione del capitale finanziario nazionale e internazionale con lo spread a 575 punti. Ma invece di convocare le elezioni, patrocinò il governo di unità nazionale di Mario Monti e la sua politica di lacrime e sangue contro i salariati, a partire dalla famigerata legge Fornero. Una politica sostenuta dal PD e consentita dalla CGIL – con la pubblica benedizione di Napolitano – che spianò la strada all'ondata populista tra i salariati.
Rieletto nel 2013 per mancanza di alternative, Napolitano sospinse il tentativo di riforma reazionaria delle istituzioni con un esplicito appello al Parlamento italiano nel nome della governabilità. Fu Matteo Renzi a raccogliere il mandato di Napolitano. La sua gestione personalistica dell'operazione la condannò, com'è noto, alla rovina. Napolitano fu abile ancora una volta a sottrarsi alle macerie di quel renzismo che aveva sospinto, e poi a concludere la propria carriera con un ritiro onorato.
Napolitano uomo delle istituzioni? Certamente. Un servitore fedele dello Stato borghese in tutte le vite che ha attraversato. Sempre dall'altra parte della barricata di classe. Sempre contro i lavoratori.
La borghesia giustamente lo acclama, col coro unanime di tutti i partiti. Landini ha parlato in queste ore, vergognosamente, di «uno di quei padri di cui possiamo sempre andare fieri» (testuale). A noi allora il compito di ricostruire tra i lavoratori la memoria vera di un loro ostinato avversario.