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La Nadef annuncia una manovra di classe

 


Governo e padronato scaricano sui salariati il proprio costo sociale e politico

28 Settembre 2023

Il governo anticipa con la Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (Nadef) la cornice della prossima legge di stabilità.

Il margine di manovra del governo Meloni è ristretto da un combinato di fattori: un abbassamento verticale del tasso di crescita economica dell'Italia, zavorrata dalla recessione tedesca; un aumento netto del costo dell'energia connesso anche alla guerra; l'aumento progressivo dei tassi di interesse di tutte le banche centrali (con l'eccezione del Giappone), inclusa la BCE, che porta il solo pagamento degli interessi sul debito alle banche in Italia alla cifra di 95 miliardi annui. A ciò si aggiunge l'incognita del nuovo Patto di Stabilità in via di negoziazione in sede UE. Un nuovo Patto che comunque riproporrà la stretta sulle politiche di bilancio dopo la sospensione legata alla pandemia. Non a caso la Nadef annuncia già per il 2025/2026 un drastico abbassamento del ricorso al deficit rispetto al biennio precedente, con un taglio di ben 20 miliardi.

Dentro la camicia di forza di queste compatibilità capitaliste, l'attuale manovra annunciata si fonda un extradeficit di 14 miliardi con cui verrà principalmente finanziato il taglio contributivo del cuneo fiscale. Una partita di giro con cui il governo dà un ritocchino ai salari a spese dei salariati stessi (attraverso il debito) senza che il padronato debba scucire un euro. Non a caso Confindustria chiede formalmente che il taglio contributivo del cuneo fiscale ammonti addirittura a 16 miliardi, ben oltre i 10 che il governo predispone. Una Confindustria sensibile ai salari operai? Al contrario. Confindustria vuole scongiurare lotte e rivendicazioni salariali che possano intaccare i suoi profitti, in forte crescita. Quale migliore soluzione che mettere il tutto a carico dei salariati?

Per il resto, il governo deve conciliare l'operazione sul cuneo con l'esigenza di tutelare il proprio blocco sociale piccolo medio borghese. L'anno scorso gli si diede in pasto la cancellazione del reddito di cittadinanza, in funzione dell'abbassamento dei salari. Quest'anno gli si offre una pioggia di condoni e la trovata del concordato fiscale preventivo biennale: se i tuoi profitti crescono nel biennio non pagherai un euro in più avendo concordato preventivamente con lo Stato.
Per tappare i relativi buchi si annunciano altri due miliardi di tagli alla spesa pubblica, disposti centralmente del ministero dell'economia per le resistenze dei diversi ministeri, e un nuovo giro di privatizzazioni e dismissioni.
Tutte misure contro i lavoratori, per effetti diretti e indiretti. Quanto al rinnovo dei contratti pubblici, solo poche briciole cadute dal tavolo. Illuminante il dispositivo allo studio sulla sanità: non l'aumento dell'investimento nel servizio pubblico, non un vero aumento dei salari e delle assunzioni in un settore disastrato, ma la detassazione degli straordinari di medici e infermieri costretti a spaccarsi la schiena per coprire il servizio.

È l'ora di una grande mobilitazione prolungata di tutto il mondo del lavoro contro il governo e il padronato su una piattaforma di lotta generale. È l'ora di una lotta vera. Di un vero sciopero generale.

Partito Comunista dei Lavoratori

Verso lo sciopero generale dell'11 ottobre

 


9 Ottobre 2021

Unire l'azione d'avanguardia, proiettarla verso la massa più larga del lavoro salariato. Per un fronte unico di classe e di massa

Il governo Draghi esce rafforzato dall'esito delle elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre.

Nessuno dei partiti borghesi ha oggi l'interesse e la volontà di ritirare il proprio sostegno al governo. Non certo il PD e la sua succursale a Cinque Stelle, che fa dell'identificazione in Mario Draghi una delle proprie ragioni di partito organico dell'establishment. Non la Lega, indebolita dal voto e percorsa da forti tensioni interne, con un segretario sotto pressione a favore di una politica di governo più lineare e convinta, senza ammiccamenti populisti.

Prima dell'elezione del nuovo Presidente della Repubblica non sono alle viste cambiamenti politici di sorta. Il grosso del capitale finanziario chiede che Draghi continui a rappresentare l'interesse generale di sistema per gestire i fondi europei, negoziare il nuovo Patto di stabilità continentale, preparare le politiche di rientro dall'enorme indebitamento. L'incertezza dei circoli dominanti è solo sul modo di garantire la continuità: se assicurando a Draghi la presidenza della Repubblica, mettendolo al sicuro per sette anni, oppure puntare sulla sua permanenza come Presidente del Consiglio sino al 2023, e intanto varare una riforma elettorale che consenta di poterlo ripescare come Presidente del Consiglio anche per il dopo voto.

La risultante immediata è la continuità dell'azione di governo. Sblocco progressivo dei licenziamenti, con la sua estensione al settore tessile e alla piccola impresa. Archiviazione di "quota 100" in direzione di una riforma pensionistica che aumenta di fatto l'età pensionabile entro il quadro della Legge Fornero. Riforma peggiorativa del reddito di cittadinanza, per allargare il lavoro precario e sottopagato. Continuità di una politica sanitaria che destina al servizio pubblico la voce di spesa più bassa del PNRR mentre rafforza la sanità privata. Continuità di una politica scolastica che copre dietro il sipario della vaccinazione la conservazione delle classi pollaio e l'assenza di trasporti locali che garantiscano sicurezza. Riforma fiscale fondata sulla cancellazione dell'IRAP, che oggi finanzia la spesa pubblica, e su una riduzione della tassazione delle rendite finanziarie (dal 26% al 23%).
Il tutto dentro la cornice di una Nota di aggiornamento al DEF che prevede per il 2022 una riduzione del deficit di bilancio da 11,8% al 5,9%. «Ben 120 miliardi in un anno di minori spese pubbliche e maggiori entrate fiscali» (Il Sole 24 Ore, 5 ottobre).

Questa politica prosegue il proprio corso col sostegno della burocrazia sindacale. Dopo aver concesso lo sblocco dei licenziamenti a Draghi e Confindustria a fine giugno, in cambio di un “avviso comune” che è stato semplicemente una truffa, la burocrazia insiste per essere coinvolta nel negoziato di questa politica di governo. Ma il governo è talmente forte della sua unità nazionale e soprattutto del plauso di tutta la stampa borghese che può permettersi di tenere i sindacati in anticamera, sapendo bene che le loro minacce di mobilitazione sono solo recite da talk show alle quali non seguirà nessuna azione concreta. A sua volta la totale passività sindacale moltiplica i suoi effetti di disorientamento nei luoghi di lavoro, mentre il moltiplicarsi degli omicidi bianchi nelle fabbriche e nei cantieri, a partire dalle ditte d'appalto, misura gli effetti drammatici della precarizzazione del lavoro e della mano libera concessa ai padroni.

In questo quadro l'azione di sciopero generale promossa unitariamente dall'insieme del sindacalismo di classe ha un significato molto positivo. Non ci nascondiamo i limiti dell'azione di sciopero annunciata, a fronte dell'imponenza dello schieramento avversario, né il permanere di pulsioni settarie e microconcorrenziali. E tuttavia è la prima volta dopo tanto tempo che si supera la logica dello sciopero di sigla, autocentrato, in direzione di una convergenza unitaria d'azione.
La piattaforma unitaria su cui è stato convocato lo sciopero ha un forte profilo classista. L'apertura al "no green pass" da parte di alcune delle organizzazioni promotrici pensiamo sia un grave errore, su cui ci siamo già pubblicamente espressi, che potrebbe essere usato strumentalmente dal circuito mediatico per distorcere il significato della giornata di lotta e nascondere la piattaforma classista di convocazione dello sciopero. A maggior ragione, su questa piattaforma, siamo impegnati a sostenere attivamente lo sciopero dell'11 ottobre in tutti i luoghi di lavoro e in ogni organizzazione sindacale. L'opposizione interna nella CGIL (area programmatica Riconquistiamo tutto) ha espresso pubblicamente un appoggio allo sciopero che è importante si traduca in azione reale e presenza diretta nelle manifestazioni annunciate.

Al tempo stesso è necessario ricondurre lo sciopero dell'11 ottobre a un piano d'azione più generale: alla costruzione di un fronte unitario di classe di massa che punti a coinvolgere e rimotivare quella maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici che oggi si attesta per responsabilità delle burocrazie su una posizione di passività, di sfiducia, di scetticismo. Per costruire realmente un fronte unitario di massa e non ridurlo ad una evocazione retorica è essenziale far leva sulle lotte più avanzate che si sono prodotte, per unificarle e dare loro una prospettiva.

GKN, Whirlpool, Alitalia: decine e centinaia di lotte in corso restano ad oggi frantumate e disperse, senza una piattaforma unificante e un'azione comune.
L'appello promosso da centinaia di lavoratori di avanguardia e quadri sindacali di diversa appartenenza “Per l'unità di lotta contro i licenziamenti” mira esattamente a questo. Occupare le aziende che licenziano, creare una cassa nazionale di resistenza, rivendicare la loro nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio, significa cercare di far leva sulle esperienze di lotta più radicali (GKN), generalizzare la loro lezione, unificarle al livello più alto, indirizzarle verso una prospettiva anticapitalista.
Per questo porteremo questa proposta dentro lo sciopero dell'11 ottobre e nelle manifestazioni di piazza di quella giornata, per estendere il sostegno all'appello e sviluppare la nostra campagna. Al servizio come sempre di tutto il movimento dei lavoratori.

Partito Comunista dei Lavoratori

La Confindustria sta con il Def di Di Maio

«Non è tanto importante lo sforamento del deficit quanto i risultati che ne deriveranno in fatto di uso intelligente delle risorse [...] Le nostre proposte non sono antitetiche ma complementari a quelle del governo». Con queste parole di Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria, ha ufficialmente benedetto quel Documento di Economia e Finanza (Def) che Di Maio presenta, dal balcone di Palazzo Chigi, come “abolizione storica della povertà”. Come si spiega? Con una considerazione molto semplice: a differenza della sinistra sovranista, abbagliata dalla propaganda pentastellata, la Confindustria ragiona esclusivamente in termini di classe. È interessata, in altri termini, a quanto le entra in tasca, che non è poco, stando agli annunci e alle rassicurazioni ricevute.

Confindustria ha già incassato col Decreto dignità l'estensione dei contratti a termine, portati dal 20% al 30% dell'organico aziendale: un'estensione strutturale del precariato, altro che la sua Waterloo.
Ha già incassato la permanenza del Jobs act in fatto di distruzione dell'articolo 18, altro che la sua “abolizione”.
Ha incassato una soluzione vantaggiosa sulla questione Ilva, con la relativa riduzione degli organici, una compressione di diritti, e l'immunità giudiziaria della nuova proprietà sul versante ambientale, altro che la “salvezza di Taranto”.
Ora le viene promesso una nuova massiccia decontribuzione sulle nuove assunzioni a tempo indeterminato, una ulteriore riduzione della tassa sui profitti (Ires), la stabilizzazione strutturale dei super-ammortamenti e degli incentivi all'Industria 4.0. In altre parole la conferma, la stabilizzazione, la maggiorazione delle regalie ricevute dai governi precedenti di ogni colore, ed in particolare da Renzi, Letta, Gentiloni. Una pioggia di miliardi, per di più strutturale. «Sembra che l'impianto tenga. Per noi è un fatto positivo» ha commentato Boccia. Come dargli torto?


ESTABLISHMENT E CONFINDUSTRIA 

Il governo giallo-verde non è certo nato come emanazione di Confindustria, ma Confindustria fa oggi al nuovo governo una indubbia apertura di credito. Sa di trovarsi di fronte a un governo potenzialmente stabile e di legislatura. Sa che non esistono a breve alternative politiche praticabili, di fronte al crollo delle opposizioni liberali. Dunque si prepara ad usare per l'inverno la legna che ha. Cerca di allargare i canali di dialogo col nuovo esecutivo, ed anzi avanza le proprie richieste “complementari”: aumento della dotazione del Fondo di Garanzia a favore delle imprese; detassazione dei premi di produttività; un nuovo codice degli appalti che lasci ancor più mano libera alle aziende (vedi Sole 24 Ore, 29 settembre). In altri termini, Confindustria batte cassa e rilancia su tutta la linea.

L'establishment nazionale europeista e i suoi giornali (La Repubblica, Il Corriere, La Stampa, Il Massaggero) contrastano il nuovo governo perché non si rassegnano alla propria decapitazione politica. E certo le posture plebee dei nuovi parvenu (vedi vicenda Casalino), la guerra dichiarata di posizione all'alta burocrazia statale (i “burocrati di merda” da estirpare), le ritorsioni giallo-verdi verso la stampa (tagli alla pubblicità e cancellazione dell'Ordine dei giornalisti), la promozione ovunque di propri fiduciari in ogni ruolo di responsabilità politica e amministrativa, dalla Consob alla magistratura, approfondiscono oggi questa linea di frattura, ben al di là della politica economica. Ma Confindustria si posiziona diversamente, fa altri calcoli, ha altri interessi. Non deve tutelare una propria rappresentanza nello Stato borghese, deve servirsi dello Stato borghese e di chi oggi lo guida, chiunque esso sia.


LA FALSA QUESTIONE DEL DEFICIT 

Le sinistre che accettano il dominio del capitale, salvo pretenderlo diverso da quello che è, hanno più volte enfatizzato in questi dieci anni la questione del deficit di bilancio come tema astratto di politica economica svincolandolo da ogni criterio di classe.

Ovviamente è vero che il Fiscal compact, la riduzione progressiva del deficit sul Pil, l'obiettivo del pareggio di bilancio, hanno rappresentato strumenti normativi funzionali a comprimere le condizioni di vita dei lavoratori e della popolazione povera. Ma non è vero l'inverso. Non è vero, cioè, che lo sforamento dei famigerati parametri europei rappresenti di per sé il metro di una svolta sociale. Lo può credere l'ex viceministro Fassina, oggi travolto dalla passione patriottica, che saluta il nuovo Def coma l'alba di una nuova storia. Ma i padroni, che sanno far di conto, ragionano in termini diversi: se lo sforamento del deficit al 2,4% per tre anni consecutivi consente di finanziare una nuova messe di regalie per i profitti, perché dovremmo impiccarci ai decimali? Peraltro i governi Renzi, Letta, Gentiloni, hanno fatto deficit superiori all'attuale deficit "rivoluzionario" per riempire il portafoglio di banche e imprese e dispensare mance elettorali, come quella degli 80 euro. Nel famigerato decennio 1997-2006 il deficit medio fu del 3,2, eppure mai come in quel decennio fu a tutto vantaggio dei padroni.


IL GOVERNO E IL PROPRIO BLOCCO SOCIALE 

Si obietterà: “Ma oggi è diverso, perché la nuova finanziaria è finalmente del popolo. Come non vedere che il nuovo deficit serve a finanziare reddito di cittadinanza e la revisione della legge Fornero?”.

Diceva il vecchio Cartesio che una falsità è una verità incompleta. Certo il nuovo governo giallo-verde deve le proprie fortune di consenso, e dunque la propria forza politica, alle promesse sociali avanzate. Non vuole e non può ammainare le proprie bandiere se non al prezzo di suicidarsi. Ma questa è solo una faccia della verità. L'altra faccia è che lo stesso governo deve e vuole amministrare le leggi del capitale finanziario, che è e resta la potenza sociale dominante. Deve dunque garantire i profitti d'impresa, tutelare la competitività del capitalismo italiano sul mercato internazionale, difendere gli interessi del grande capitale; e ciò oggi significa ovunque non solo colpire le ragioni del lavoro (precarizzazione, disarticolazione dei contratti nazionali...) ma riservare al padronato una quota ingente delle risorse pubbliche (detassazione, decontribuzione, incentivi).

Qui sta allora la ragione materiale dello sforamento triennale del deficit al 2,4%: provare a tenere insieme le elargizioni generose al capitale con una mancia di elemosine sociali: difendere i padroni col consenso delle loro vittime. È il senso dell'intera operazione giallo-verde.


UN'IMPOSSIBILE QUADRATURA DEL CERCHIO 

Riusciranno nell'ardita impresa?
La vera domanda è per quanto tempo riusciranno a governare le contraddizioni interne al proprio (composito) blocco sociale. Capitalismo dei distretti e disoccupati del Mezzogiorno, pressioni nordiste e suggestioni populiste, esigenze elettorali e mercato finanziario. La legge di stabilità sarà al riguardo un primo banco di prova, al di là della pura cornice del Def.

Non volendo tassare il grande capitale, ma anzi promettendogli la più grande detassazione del dopoguerra nel corso di questa legislatura; non volendo combattere l'evasione fiscale, ed anzi annunciando nuovi e più estesi condoni, il governo giallo-verde può finanziare le proprie bandiere elettorali - reddito di cittadinanza e abolizione della legge Fornero - solo in due modi: facendo più deficit e tagliando le spese. Non esiste una terza possibilità.

L'ampliamento del deficit non è indolore, tanto più nel momento in cui lo sforamento si combina col terzo debito pubblico del mondo, e tanto più nel momento in cui il debito pubblico italiano è in prevalenza nella pancia delle banche tricolori. Lo vediamo in questi giorni. Una parte dei fondi esteri vende i titoli italiani. I grandi creditori tengono i titoli o rinnovano il loro acquisto solo in cambio di rendimenti maggiori, nella classica logica degli strozzini. Se i rendimenti salgono si produce una contraddizione: le banche e assicurazioni, innanzitutto italiane, che ne detengono la gran parte incassano più soldi grazie alla crescita degli interessi (il decennale Btp viaggia tra il 3 e il 4%); ma al tempo stesso i titoli si svalutano e dunque si svaluta il capitale bancario che li possiede: da qui la caduta delle azioni bancarie in Borsa. In ogni caso, il governo si candida a pagare maggiori interessi sul debito agli strozzini, al punto che la solita crescita dei rendimenti tra marzo ed oggi ha comportato il costo aggiuntivo di 4-5 miliardi. Chi pagherà i costi del debito accresciuto? I proletari e la popolazione povera. Gli stessi che hanno pagato nell'ultimo decennio. Gli stessi ai quali il nuovo governo promette la felicità e l'abolizione della povertà.

In che forma pagheranno i proletari? Intanto caricandosi sulla schiena l'80% del carico fiscale, e poi attraverso il taglio inevitabile di prestazioni sociali e di servizi. Il Def maschera il dato, ma non può rimuoverlo. Ventisette miliardi saranno presi in deficit, dietro il pagamento degli interessi. Tredici miliardi sono conteggiati come “minori spese”. In termini meno aulici si chiamano tagli. E siccome i tagli che possano assicurare una simile cifra non sono certo l'abolizione dei vitalizi o il taglio del numero dei parlamentari (che servono solo a ingannare i gonzi), ma solo misure antipopolari di ampia gittata, è su queste che prima o poi, in una forma o in un'altra, calerà la scure: sanità, scuola, agevolazioni fiscali per famiglie di lavoratori e classe media. Di certo non pagherà la Difesa, che anzi rinnova missioni militari vecchie (Afghanistan) e nuove (Niger), a tutela dell'interesse dell'imperialismo tricolore e delle sue alleanze internazionali, come quella con Trump. Pagherà la classe operaia.


LE BANDIERE ELETTORALI SCOLORISCONO 

Non a caso le stesse bandiere elettorali, che pur sono rivendicate, stemperano col passare dei giorni i propri colori.

Il reddito di cittadinanza viene limitato alla sola fascia di povertà assoluta e ai soli italiani. I 17 miliardi annunciati si riducono a 10 miliardi, promessi a sei milioni e mezzo di persone, fanno mediamente 128 euro a testa, 4 euro al giorno. Sarebbe questa l'abolizione della povertà? Peraltro sempre più si chiarisce la natura stessa di questo reddito quale strumento di pressione per l'accettazione di lavoro precario, nella logica dei mini jobs tedeschi. Sarebbe questa la svolta promessa alla giovane generazione?

L'abolizione della legge Fornero si è già da tempo trasformata nella “quota cento”. Ma ora la stessa quota 100 sembra scolorire in una nuova formula che prevede il vincolo inaggirabile di 38 anni di contributi. Sicché nei fatti centinaia di migliaia di beneficiari potenziali dovranno attendere quota 101, 102, 103... Per non parlare delle penalizzazioni economiche in termini di riduzione dell'assegno, e del mantenimento del meccanismo di aumento delle aspettative di vita (con l'eccezione dello scatto del 2019). È quello che sta nella camicia di forza dei 7 miliardi previsti. Sarebbe questo il passaporto della “felicità”, come dice Salvini?

Resterà la valvola di sfogo della campagna contro gli immigrati, che non solo pagheranno col taglio delle spese per l'accoglienza, e con l'amputazione dei diritti, ma resteranno più che mai il bersaglio delle campagne Legge e Ordine verso cui dirottare la frustrazione sociale della massa. Del resto cosa c'è di meglio di una campagna a costo zero che assicura consenso a chi la promuove?

Un governo reazionario per elemosine sociali. Così abbiamo caratterizzato da subito il nuovo governo Salvini-Di Maio. A differenza dei tanti a sinistra che l'hanno abbellito o addirittura abbracciato, non dobbiamo cambiare la nostra caratterizzazione. Il “popolo” interclassista oggi plaude al governo. Liberare i proletari dall'influenza piccolo borghese, restituire loro una coscienza indipendente, è il cuore tanto più oggi di una politica rivoluzionaria.
Partito Comunista dei Lavoratori