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Contratto dei metalmeccanici: la conclusione di una parabola della FIOM


Ripartire dal dissenso per organizzare la resistenza

 

 

 Con grande trionfalismo FIM, FIOM e UILM hanno dichiarato che l’ipotesi di accordo firmata il 26 novembre è stata approvata dai lavoratori e dalle lavoratrici del settore metalmeccanico con una percentuale dell’80%. Questo dato, che a una prima lettura sembra quasi un plebiscito nei confronti dell’accordo ed un successo dei sindacati firmatari, deve esser guardato con attenzione. L’approvazione dell’accordo, infatti, non è mai stata in discussione, come invece lo è stato in altre recenti consultazioni di questa stagione contrattuale (vedi, ad esempio, il rinnovo dell’igiene ambientale, bocciato secondo i dati ufficiali dal 43% delle aziende pubbliche del settore, nella realtà in quasi tutti i grandi stabilimenti – Genova, Roma, Milano, Bari, ecc. – ed in tantissimi di quelli piccoli, probabilmente dalla maggioranza di lavoratori e lavoratrici coinvolti.)

In primo luogo i metalmeccanici implicati dal contratto erano oltre un milione e mezzo. Non solo la classe operaia centrale, quella organizzata delle grandi e delle medie fabbriche, ma anche quella dispersa nel disperso tessuto produttivo italiano di piccole e piccolissime aziende. Non solo quella delle fabbriche più combattive, in cui sono influenti i delegati e le delegate della sinistra FIOM o (in qualche caso) dei sindacati di base, ma anche quella che segue le indicazioni della FIM, della UILM o che non è neppure sindacalizzata.
Certo, questo era un pessimo contratto. Non solo perché distribuisce pochi soldi in quattro anni (forse una cinquantina di euro, a fronte degli 80-100 degli altri contratti). Era molto di più. È un rinnovo che sfibra l’intero sistema contrattuale, indebolendo significativamente i rapporti di forza complessivi della classe lavoratrice: registra semplicemente l’inflazione reale (ex post), non prevedendo nessuna distribuzione della ricchezza o anche solo della produttività nel CCNL; indirizza pesantemente la contrattazione aziendale su parametri variabili (aumentando così la flessibilità salariale); introduce assicurazioni sociali e buoni carrello (tagliando il salario complessivo e contribuendo a smantellare il welfare universale); conferma le flessibilità organizzative previste nel CCNL 2012 (a partire dagli straordinari obbligatori).

Però questo contratto, per esser bocciato dalla maggioranza degli operai, avrebbe avuto bisogno di un clima diverso, nella classe e nel Paese. Sarebbe stato necessario costruire questa vertenza in un quadro di mobilitazione e partecipazione, coinvolgendo nella discussione e nella lotta in difesa del contratto nazionale l’insieme della classe. Sarebbe stata cioè necessaria una comprensione di massa della battaglia in corso, dell’attacco del padronato e delle prospettive di resistenza. Quasi nessuno ha invece lavorato nei mesi scorsi per creare questo clima. Non la FIOM, che sin dall’inizio dell’anno si apprestava a firmare un contratto purchessia, spinta dalla ricerca di un nuovo patto di gestione con Camusso e di un nuovo ruolo per Landini, nella segreteria confederale CGIL. Per questo non ha puntato su scioperi e mobilitazioni, per questo non ha quasi mai riunito l’assemblea dei cinquecento, per questo ha abbandonato la propria piattaforma senza colpo ferire. Non è solo responsabilità della FIOM, però. Anche l’insieme della sinistra politica e sociale del nostro paese non ha contribuito a sostenere la partecipazione su questo rinnovo. Partiti, comitati, associazioni, giornali, radio, siti e social: quasi nessuno ha seguito un contratto che rischia di segnare condizioni e prospettive di milioni e milioni di lavoratori e lavoratrici del nostro paese.
È nel contempo tragico e buffo: da anni tutti declamano che per ricostruire una sinistra di massa bisogna partire dal programma, dal lavoro, dalla realtà; però poi negli ultimi mesi si parla soprattutto di rapporto con il PD, di alchimie elettorali, di Brexit e di Trump. Di Monfalcone e della Lega, della FIOM e del CCNL metalmeccanico quasi mai.
I metalmeccanici sono quindi stati lasciati soli: per non disturbare Landini o per non sporcarsi le mani con il conflitto di classe. Non si sono viste dichiarazioni, interviste, post, dibattiti, assemblee, o volantinaggi sulla vicenda. I rapporti di forza alla partenza, allora, erano molto chiari: da una parte i gruppi dirigenti e gli apparati sindacali, nel silenzio della stampa, delle piazze e di larga parte della sinistra; dall’altra un No sostenuto soprattutto dal basso, da delegati e delegate, dall'opposizione CGIL, dai sindacati di base. Seppur, per questi ultimi, talvolta con le solite tentazioni autocentrate: ad esempio USB, nelle prime fasi della campagna, ha rivendicato il boicottaggio del referendum e la costruzione della propria organizzazione come unica possibile soluzione, senza preoccuparsi di costruire fronti di lotta o convergenze neppure con le altre organizzazioni di base (anche se molti delegati e delegate, e poi il profilo dell’assemblea nazionale di Bologna, hanno spinto per il No alla consultazione, seppur giustamente denunciandone tutti i limiti democratici).

Nessuno allora può stupirsi di questo risultato. E nessuno può stupirsene proprio per le modalità di svolgimento del referendum stesso. Le regole che si sono date FIM FIOM e UILM per questa consultazione non prevedevano nessuna possibilità per le ragioni del No di essere espresse nelle assemblee. Landini si è sempre presentato come un campione della democrazia e del pluralismo. Per sé, per la FIOM, ha sempre rivendicato la pari dignità in CGIL, chiedendo nel 2014 che sul Testo Unico fosse presente in ogni assemblea sia il punto di vista del Sì (quello della Camusso), sia quello del No (il suo, tra gli altri). Ma quello che chiede per sé, non lo ha mai concesso alle sue minoranze. Così nelle assemblee hanno potuto parlare solo i funzionari per il Sì. Chi sosteneva il No (delegati e dirigenti FIOM), si è dovuto limitare a intervenire nei propri posti di lavoro. Non solo. La FIOM ha poi cercato di ammonire tutte le strutture (come i direttivi di Trieste e Genova), i dirigenti e funzionari, fino ai delegati che si sono schierati contro questo pessimo accordo. Lo stesso referendum è stato svolto in un periodo caratterizzato da fabbriche mezze vuote per via della crisi (sia per la cassa integrazione e accordi di solidarietà, sia per ragioni di chiusure aziendali per ferie anticipate), con un controllo ferreo da parte della burocrazia sullo svolgimento delle assemblee. Sono state coinvolte solo 5.986 aziende, per un totale di 678.328 dipendenti. Di questi hanno votato in 350.749, quindi in definitiva poco meno di un quarto del milione e seicentomila metalmeccanici a cui viene applicato il CCNL.

Il dissenso comunque non è stato taciuto. Nonostante questa corsa falsata, nonostante le burocrazie compattamente schierate e nonostante una FIOM impegnata contro il dissenso, il No ha raggiunto il 20%: 68.695 mila lavoratori e lavoratrici hanno bocciato questo rinnovo. Prima di guardare ad alcuni profili di questo voto, una parentesi storica per apprezzarne il risultato complessivo. Nel 2008 ci fu l’ultimo rinnovo unitario FIM-FIOM-UILM, prima della lunga stagione dei contratti separati. Su quel contratto i sindacati di base, come anche l’allora sinistra della FIOM (Rete 28 aprile), si espressero contro, per la contrarietà su alcuni punti qualificanti dell’accordo (in particolare su flessibilità e straordinari obbligatori, inquadramento unico, aumenti salariali ridotti). Furono coinvolte nel voto quasi diecimila aziende, cinquecentotrentamila i lavoratori e lavoratrici votanti: il No fu al 25% (centoventinovemila lavoratori e lavoratrici). A sostenere quel voto, però, allora c’era un pezzo significativo della FIOM: un componente della segreteria nazionale, 3-4 funzionari del centro nazionale, segretari regionali e provinciali, molti funzionari nei territori: una presenza oggi infinitamente più ridotta, dopo otto anni di Landini e una sua costante e aggressiva pulizia di ogni dissenso interno. Non solo. Nel 2008 c’era una classe non ancora stremata dalla crisi, un tessuto di delegati e delegate attivo, reduce dalle battaglie di Melfi e sull’articolo 18, impegnato a difendere quel percorso e quella conflittualità. C’era una sinistra politica e sociale, che nonostante una sua incipiente deriva, accompagnò quel rinnovo con un’attenzione infinitamente maggiore a quella di oggi (basti guardare gli articoli, le interviste e le polemiche di allora su diversi giornali e siti).

I quasi sessantanovemila No di oggi sono quindi un numero consistente, in un quadro politico e sociale completamente diverso rispetto a quello di otto anni fa. La cosa più significativa di questo voto, inoltre, è la sua qualità. Il No si è espresso nella maggior parte nelle grosse industrie, nei settori più importati per la concentrazione della classe operaia organizzata e storicamente conflittuale. Dove la stessa FIOM ha ampio consenso o spesso un controllo totale o quasi totale. Ma non solo dove è presente, o influente, l’opposizione CGIL. L’accordo infatti è stato bocciato alla Dalmine di Bergamo, alla Fincantieri di Marghera e di Ancona, nei cantieri liguri, in tutti gli stabilimenti della Electrolux, alla Marcegaglia di Forlì, alla Same, alla Piaggio, alla GKN, all’Ilva di Genova, alla STM di Agrate e di Catania, all’Ansaldo, alle acciaierie AST di Terni e in molte altre fabbriche importanti. Dove le ragioni del No sono state presenti e dove i lavoratori hanno potuto farsi una opinione il dissenso ha raggiunto numeri importanti.

Con questo rinnovo si chiude comunque una fase politica sindacale, che ha visto bene o male la FIOM rappresentare una resistenza contro la gestione padronale della crisi, il tentativo di recuperare margini di profitto attraverso una compressione drastica del salario globale (diretto, indiretto e sociale) ed un aumento dello sfruttamento (durata e intensità del lavoro). Nei contratti separati, nella lotta contro Marchionne, nelle mobilitazioni nazionali del 2010 e del 2012, nello scontro con Camusso, la FIOM ha rappresentato non solo per i metalmeccanici, ma per tutto il mondo del lavoro, un punto di tenuta: il simbolo di un interesse generale, quello di classe. Sappiamo, ed abbiamo sempre denunciato, che da tempo la FIOM aveva abbandonato questa battaglia nella sua azione concreta: con la capitolazione a Grugliasco sul modello Marchionne, con la rinuncia a condurre le lotte in FCA, con la repressione interna delle minoranze, con l’abbandono di ogni mobilitazione di massa e la sua semplice rappresentazione mediatica (la "coalizione sociale"). La firma di questo contratto, però, segna la chiusura anche simbolica di una parabola: il gruppo dirigente storico della FIOM abdica per primo alla difesa del contratto nazionale, normalizza la propria azione nel quadro del Testo Unico del 10 gennaio (che due anni fa contestò) e si approssima ad entrare stabilmente nella maggioranza della CGIL.

Il risultato del referendum, come in altri settori le contestazioni a questa nuova stagione contrattuale, dicono però che alcuni settori sono disponibili ad una resistenza. Una resistenza che non è limitata ad avanguardie politiche marginali, ma che trova consenso in settori centrali della classe, in una disponibilità alla lotta in fabbriche e stabilimenti importanti.
Il Partito Comunista dei Lavoratori sarà a fianco - come lo è stato in maniera attiva attraverso i propri militanti durante la campagna per il No - di questa classe operaia che non si è voluta piegare ai diktat di Confindustria e delle burocrazie sindacali, compresa quella che fa a capo Landini. Questi sessantanovemila No, per il peso che portano in dote, devono diventare un esempio da estendere negli altri settori industriali. Da questi settori operai conflittuali bisogna ripartire per costruire una opposizione a questo accordo di restituzione, alle politiche padronali e a quelle di governo.

Partito Comunista dei Lavoratori