Decine di manifestazioni hanno ricordato oggi Giulio Regeni a due anni dal suo barbaro assassinio. “Verità per Regeni”, chiedono giustamente da due anni innumerevoli manifestazioni, iniziative, pronunciamenti, appelli. Ma la sacrosanta richiesta di individuare e punire gli assassini di Giulio non deve rimuovere l'evidenza: la verità sul caso Regeni è sin dall'inizio sotto gli occhi di tutti.
La prima verità riguarda le responsabilità del regime egiziano di al-Sisi. Sono responsabilità talmente evidenti da essere state dichiarate dai fatti. Cosa rappresentano i mille depistaggi egiziani sul caso se non una confessione in piena regola? Prima la messinscena allusiva a un delitto sessuale. Poi l'accusa rivolta contro una banda di criminali comuni, immediatamente sterminata per assicurarsi il silenzio, con il “ritrovamento” in casa loro - guarda caso - dei documenti personali di Giulio. Infine le accuse reciproche tra servizi segreti e apparati militari egiziani, con tanto di veline taroccate, segnali in codice, imbarazzate smentite. Tutto ciò ha un solo significato possibile: Giulio Regeni è stato ammazzato, in ogni caso, dagli sgherri di al-Sisi. È stato ammazzato su delazione di un informatore (Mohamed Abdallah), a seguito delle sue ricerche e attività solidali con i sindacati operai indipendenti, il vero spauracchio del regime. Il fatto che le carte inviate alla magistratura italiana siano state “ripulite” dell'interrogatorio-confessione di Abdallah è un'ulteriore firma di regime sull'omicidio.
Ma c'è una seconda verità che emerge dal caso. Forse meno evidente, ma indubbiamente più scomoda. Quella che attiene all'infinita ipocrisia della diplomazia borghese, e in primo luogo del governo italiano.
Il governo italiano, come tutti, conosce perfettamente le responsabilità del regime, ma ha scelto di coprirlo su tutta la linea. Le promesse solenni sul fatto che “saranno individuati i responsabili della morte di Giulio Regeni”, che “l'Egitto deve dirci come stanno le cose”, stanno semplicemente a zero. L'Italia borghese non solo non può e non vuole rompere col regime di al-Sisi, ma ha bisogno di stringere un rapporto più stretto con l'Egitto. Lo richiedono gli interessi dell'ENI che proprio in Egitto ha scoperto nuovi preziosi giacimenti petroliferi. Lo richiede l'interesse italiano a contendere alla Francia l'egemonia in Libia e Nord Africa. Lo richiede l'esigenza di una collaborazione poliziesca dell'Egitto nel blocco delle partenze dei migranti, e nella loro segregazione criminale. Per questo è stata riaperta l'ambasciata italiana al Cairo, con tanto di onorificenze e di fanfare. Per questo Matteo Renzi ha a lungo ostentato pubbliche lodi ad al-Sisi, presentato testualmente come amico dell'Italia. Del resto, cosa può valere il corpo torturato di un giovane ricercatore di fronte al volume dei profitti ENI, prima azienda dell'Africa?
E c'è di più. Sotto campagna elettorale stiamo assistendo al tentativo di un nuovo squallido depistaggio, questa volta di marca (anche) italiana: quello che allude alle non meglio precisate responsabilità di un'insegnante universitaria inglese con cui Regeni collaborava. Idiozie, ovviamente. Ma cosa c'è di più utile per archiviare le vere responsabilità criminali degli apparati egiziani e coprire la continuità della propria collaborazione con un regime assassino?
Il caso Regeni ci parla dunque della politica borghese. Della sua miseria morale, del suo cinismo sconfinato. La dittatura del profitto produce crimini e copre i criminali. Non solo nei regimi militari, ma anche nelle cosiddette democrazie imperialiste, che peraltro coi regimi militari fanno affari lucrosi a tutte le latitudini del mondo. Le anime belle delle sinistre riformiste di casa nostra che rivendicano una nuova politica estera dell'Italia (capitalista) vendono fumo e chiacchiere vuote. La politica estera dell'imperialismo italiano è un riflesso inevitabile della sua natura. Solo un governo dei lavoratori può segnare una svolta. Il caso Regeni dimostra una volta di più che la verità è rivoluzionaria, o non è.