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Il fango è una livella


 Il fango è una livella. È sempre uguale a se stesso. Stesso colore, stessa consistenza ovunque, in un’intera città. In due città. Tra la campagna e la città. In tutte le province. Il fango non è campanilista. Il fango copre tutto con il suo manto democratico. Non si capisce più se una casa è di un ricco o di un povero. Sono sporche uguali. Copre anche le persone allo stesso modo. Uscito dagli argini del fiume ha sfondato le case, le finestre, le vite. E adesso le strade hanno tutte lo stesso colore, l’asfalto non si vede, accatastate ci sono le barricate di una guerra, per chilometri. A qualche giorno dall’alluvione, grazie alle braccia di centinaia di persone, le case hanno vomitato quello che avevano in pancia. Sembra impossibile che contenessero tutto senza scoppiare. Materassi, lavatrici, giocattoli, vestiti, libri e una quantità di forme grottesche che non si sa neppure cosa siano state nella vita di prima. Ora non è strano trovare un mappamondo del Cinquecento accanto a un flipper. Una sorpresina dell’uovo Kinder su un campanello. Qualche pianta di pomodoro spunta da uno spiazzo, tra l’orto e la strada non c’è differenza. Le macchine sono parcheggiate in modo creativo, anche in verticale. In mezzo alle strade girano un sacco di persone che stanno andando da qualche parte, e indossano tutti gli stessi vestiti, color fango. Si sorridono, sono gentili. Qualcuno scherza, qualcuno canta, qualcuno si chiama. L’atmosfera è così piacevole forse per contrastare l’orrore monocromatico tutto intorno.


Per ogni casa ci sono decine di persone che fanno qualcosa. La frase che si sente ripetere più spesso è: “Avete bisogno?”. Spesso la risposta è: “No siamo già in troppi”. Altre è “Sì, laggiù”. Anche il confine tra il privato e il pubblico è stato spazzato via. Tutti i ricordi e gli oggetti di una vita sono per strada, la gente non si ferma all’ingresso, non chiede permesso, va e viene dalle cantine, dai salotti, dalle camere da letto. Non si sa neanche a che civico si sta spalando. A malapena la via.

In ogni casa però c’è un elemento architettonico comune: la riga. “È arrivata lì”. La si indica quasi con orgoglio, quasi come un figlio troppo cresciuto che non riesce più a essere misurato sullo stipite della porta. Anche perché la porta spesso è stata strappata via dai cardini.

Si collabora e ci si organizza spontaneamente in un enorme esperimento sociale di massa in cui quell* con l’idea più buona la dice e gli altri fanno. E in qualche modo funziona. Senza alcuna regia, senza alcuna autorità, senza chi comanda. Si condividono pale, asce, piedi di porco. Si spala, si raccoglie, si pulisce. Si decide in casa d’altri cosa si può salvare e cosa no. Si spaccano mobili, si fanno a pezzettini e si passano dalle finestre dei seminterrati. Chi per oggi ha finito a casa sua non sta fermo, va in giro e aiuta. Nel giro di tre giorni, il grosso del fango più ostinato è stato portato via, accompagnato gentilmente ai tombini, o portato in lunghissime catene umane di nuovo nell’alveo da cui è venuto. Ogni tanto qualcuno – pulito- passa a fare la domanda che ogni romagnol* si sente rivolgere più spesso: “Hai mangiato?”. E giù pollo, torte, caffè, acqua, frutta.

L’aria che si respira è bella, e viene da rammaricarsi perché si sa che non può durare. Tutta questa bontà, tutta questa gentilezza, questa solidarietà priva di barriere di provenienza, sesso, età, ecc.

A chi non è venuto da dire: “Ma non potrebbe essere sempre così?”. Forse qualche ragazzino lo pensa possibile. Noi siamo vecchi e sappiamo che insieme al fango monocromatico se ne andrà anche questa ritrovata umanità. Per ora la assaporiamo con la segreta speranza che un giorno si diffonda a livello mondiale e sia il collante che tiene unito il proletariato contro la classe sfruttatrice. Quella che ci ha messo in questa situazione.

MG