15 Ottobre 2025
L'universo politico mediatico a 360 gradi sta celebrando il piano Trump per la Palestina con la retorica più grottesca. Anche i commentatori più sobri si sperticano in lodi commosse per la ritrovata “pace” in Medio Oriente, attribuendo a Donald Trump il ruolo storico di pacificatore.
Ma di quale pace stiamo parlando?
Cessazione dei bombardamenti, scambio dei prigionieri, ingresso degli aiuti alimentari: se l'accordo si limitasse a questo sarebbe ovviamente del tutto legittimo e positivo. Ma non è questo il contenuto di fondo dell'accordo. Al contrario. Questo è solo il bordo inzuccherato di un bicchiere velenoso. Velenoso per il popolo palestinese, per la sua resistenza, per la sua liberazione. Chi non vede questo ignora semplicemente la realtà. E danneggia pesantemente la stessa mobilitazione antisionista.
Guardiamo in faccia la realtà dell'accordo. Di ciò che dice e di ciò che tace.
LA REALTÀ DELL'ACCORDO DI “PACE”
La Cisgiordania, di cui il piano non parla, è abbandonata di fatto alla furia dei coloni e delle forze di occupazione. Il fatto che a Ramallah persino i festeggiamenti per i prigionieri liberati siano stati proibiti dalle autorità israeliane, e che le case dei loro familiari siano state saccheggiate preventivamente dai militari occupanti a fini di intimidazione, ci parla dell'immutata quotidianità del terrore sionista. Non meno della prostrazione fisica dei prigionieri palestinesi liberati dopo anni o decenni di torture e angherie.
Per Gaza è prevista un'occupazione militare multinazionale a guida americana sotto la supervisione diretta del Presidente USA. Mentre le forze di occupazione sioniste che ancora controllano oltre il 50% della Striscia manterranno in ogni caso una propria presenza militare. Si tratta di un protettorato mandatario di classica tradizione coloniale. Un'occupazione per procura. Due milioni di gazawi, dopo due anni di genocidio, non avranno neppure il diritto formale a eleggere una propria rappresentanza, ridotti a oggetto passivo di un piano concordato tra imperialismo USA, Stato sionista e borghesie arabe.
Lo Stato sionista, che ha distrutto Gaza, non verserà un solo euro per la sua ricostruzione. Il punto 10 del piano Trump affida la ricostruzione al libero mercato di capitali privati, con l'obiettivo dichiarato di edificare “città medio-orientali”: investimenti immobiliari di lusso garantiti dalle monarchie del Golfo in concerto con le grandi compagnie americane ed occidentali.
I palestinesi poveri di Gaza, con le proprie case distrutte dai bombardamenti, non potranno certo comprare i nuovi immobili di lusso. Saranno destinati alla vita di paria in accampamenti di fortuna, in uno stato permanente di umiliazione e ricatto.
In compenso, è già partito lo sgomitamento tra le grandi aziende e i rispettivi governi per la spartizione del bottino. Il cosiddetto Consiglio di pace sarà solo il comitato d'affari di questo business. Ignoti tecnocrati palestinesi, scelti dalle potenze straniere, daranno copertura all'operazione. L'Italia manderà i carabinieri a supporto delle proprie ragioni contrattuali.
Per le organizzazioni della resistenza palestinese non c'è futuro in questo piano imperialista se non quello della propria subordinazione e/o della propria resa.
La cosiddetta Autorità Nazionale Palestinese, che già svolge da tempo un ruolo di polizia sussidiaria delle forze di occupazione in Cisgiordania, ha prontamente offerto la propria collaborazione al piano Trump alla ricerca di uno strapuntino a Gaza. Ma dovrà guadagnarsi il lasciapassare dello Stato sionista, per il momento non disponibile.
Per Hamas e le forze della resistenza, che in questi due anni hanno combattuto valorosamente, il piano Trump-Netanyahu prevede il disarmo e l'esilio. Al più, nell'attesa della subentrante “forza multinazionale di stabilizzazione” (e dunque nel suo proprio interesse), Trump consente ad Hamas un ruolo provvisorio di polizia locale per mantenere l'ordine. Non più di questo. Lo Stato sionista lo accetta in cambio dell'impegno di Hamas al disarmo.
In sostanza: Trump ha garantito a Israele l'impegno al disarmo di Hamas, ed ha garantito ad Hamas che Israele non riprenderà la guerra dopo la liberazione degli ostaggi. Di certo il negoziato diretto fra gli uomini di Trump e la direzione di Hamas è stato determinante mercoledì scorso per sbloccare l'accordo “di pace”. Ma presentare questo accordo come una vittoria della resistenza sarebbe davvero un macabro scherzo. L'intero piano di “pacificazione” imperialista del Medio Oriente richiede la distruzione della resistenza palestinese.
UN ACCORDO “FIGLIO DELLA MOBILITAZIONE”?
Chi presenta l'accordo “di pace” come un sottoprodotto positivo della grande mobilitazione in Occidente contro il genocidio sionista confonde la propria fantasia con la realtà.
L'accordo non è figlio della mobilitazione antisionista ma dello sfondamento militare di Israele in Medio Oriente.
È vero: mai l'odio contro Israele è stato tanto grande nel mondo, e questo è sicuramente causa ed effetto della grande mobilitazione internazionale contro il genocidio. Ma al contempo mai la forza militare di Israele è stata tanto grande nella regione mediorientale.
In due anni, grazie al sostegno militare delle grandi potenze imperialiste, in primo luogo dell'imperialismo USA, la guerra di Israele ha progressivamente piegato a proprio vantaggio i rapporti di forza nella regione. Ha ridimensionato l'Iran, ha annientato la direzione di Hezbollah, ha capitalizzato il crollo del regime siriano. Tutto ciò ha incentivato alla lunga il rilancio degli Accordi di Abramo, cioè la gravitazione dei regimi arabi attorno all'attuale vincitore militare della partita. Trump è stato l'attivo mediatore di questa ricomposizione. Ha portato in dote ad Israele l'apertura, una dopo l'altra, delle borghesie arabe. Ed ha offerto in cambio ai regimi arabi (Qatar in primis) le proprie garanzie da possibili attacchi israeliani
L'accordo, naturalmente, non è privo di contraddizioni ed incognite. I regimi arabi vorrebbero qualche promessa, fosse pure retorica, sulla questione palestinese a beneficio delle proprie opinioni pubbliche. La Turchia neoottomana di Erdogan si candida a contrappeso regionale dello Stato sionista. Gli imperialismi europei cercano spazi affaristici e diplomatici in queste contraddizioni in funzione della loro più generale relazione negoziale con gli USA. Ma, al di là di contraddizioni e incognite, resta il dato di fatto: l'accordo “di pace” è un indubbio successo dell'imperialismo USA e dell'amministrazione Trump. Che ha bisogno di una normalizzazione del Medio Oriente per potersi concentrare sulla sfida del Pacifico verso la Cina.
Peraltro, la normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi ed Israele, ed il coinvolgimento in questa dell'India, libera un canale di transito commerciale alternativo (India, penisola arabica, Tel Aviv) alla Via della Seta cinese. Anche questo è parte del piano Trump.
Un altro fattore nella dinamica degli avvenimenti è stato il relativo isolamento della resistenza palestinese in Medio Oriente. Grande è la sproporzione tra la grande mobilitazione pro Palestina in Occidente e il livello di mobilitazione delle masse arabe.
Subito dopo il 7 ottobre, diversi paesi arabi (Giordania, Iraq, Tunisia...) videro imponenti mobilitazioni di solidarietà coi palestinesi, in aperta polemica coi propri governi. Ma in seguito il movimento arabo ha conosciuto un progressivo riflusso. L'eccezione del Marocco, dove il movimento pro Palestina resta importante, non cambia il quadro d'insieme. Di certo questo riflusso ha favorito lo spazio di manovra dei governi arabi verso Israele e l'imperialismo USA, consentendo loro di massimizzare le pressioni sulla direzione di Hamas per indurla ad accettare il piano Trump.
Tutto ciò ripropone un nodo strategico centrale per la resistenza palestinese. Solo l'incontro fra resistenza palestinese e rivoluzione araba può spezzare la dominazione sionista e imperialista sulla regione, e liberare la via per la stessa liberazione della Palestina. In altri termini, una Palestina unita dal fiume al mare, libera laica e socialista, è indissolubile da un movimento rivoluzionario di liberazione dell'intera nazione araba e della regione mediorientale. Ciò che richiede a un tempo un cambio di direzione e prospettiva della stessa resistenza palestinese e lo sviluppo del marxismo rivoluzionario tra le masse arabe, a partire dalla loro avanguardia.
CONTINUARE LA MOBILITAZIONE ANTISIONISTA. PER LA ROTTURA DI OGNI RELAZIONE CON ISRAELE
Il colpo subito dal popolo palestinese e dalla sua resistenza non deve significare in alcun modo un arretramento della mobilitazione antisionista in casa nostra. Al contrario. La mobilitazione internazionale a sostegno della Palestina è, se possibile, più importante di prima.
Le diplomazie imperialiste sono ovunque al lavoro per ripulire l'immagine di Israele e cancellare la memoria del genocidio. Gli stessi governi che hanno finanziato e armato per due anni la barbarie sionista contro il popolo di Gaza e Cisgiordania cercano non solo di abbellire il cosiddetto accordo “di pace” ma di intestarsene il merito. Governo Meloni in primis. Questa operazione va denunciata e contrastata ovunque: nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro. Nessuno deve sfuggire alle proprie responsabilità. Nessun crimine, nessuna complicità, devono essere rimossi o perdonati.
La battaglia per la rottura di ogni relazione con lo Stato sionista deve continuare, a partite dal blocco a oltranza di ogni traffico con Israele nei porti e negli aeroporti. Il fronte unico di lotta che si è realizzato, dopo la spinta del 22 settembre, nelle grandi giornate dello sciopero generale del 3 ottobre, e nella gigantesca manifestazione del 4 ottobre, dev'essere salvaguardato e rilanciato contro ogni logica di defilamento o di ripiegamento autocentrato. Il Partito Comunista dei Lavoratori sarà impegnato ovunque in questa direzione.