Ovvero disincrostare i residui idealisti, antistorici e piccolo-borghesi dalle organizzazioni rivoluzionarie
18 Dicembre 2024
Questo contributo non vuole passare in rassegna le teorie linguistiche che si contendono la supremazia a livello accademico (che comunque trovate brevemente tratteggiate nella nota in fondo al testo) ma si limita a una visione materialista dialettica del linguaggio. Perché noi non siamo studios* della lingua, bensì marxist*. Sappiamo benissimo – per parafrasare Marx – che il linguaggio dominante è il linguaggio della classe dominante
NB: il nostro sito non supporta la schwa, il testo che fa fede è pertanto quello in pdf da scaricare in basso, in fondo a questa pagina. Qui le schwa sono state sostituite con la @.
1. ANALISI MARXISTA DELLA REALTÀ O LINGUISTICA?
Il metodo dei marxisti rivoluzionari è il materialismo dialettico. Essere materialisti dialettici significa, in estrema sintesi, rapportarsi con la realtà in cui dobbiamo intervenire senza alcun idealismo o scivolamento metafisico, considerando i fenomeni del mondo inseriti in quell’antagonismo di classe che dobbiamo far pendere a nostro favore. La realtà è la materia grezza della nostra analisi, e se questo approccio viene meno, il nostro posizionamento risulterà errato.
K. Marx e F. Engels ne L’Ideologia tedesca (1846) enunciano il metodo del materialismo storico-dialettico:
«Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma sono gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza.» [1]
Il materialismo dialettico è scientifico, nel senso più immediato e volgare: dalla realtà non si scappa. Se a qualcun* il pi greco non piace, perché è una fila di numeri senza senso, tocca tenerselo comunque così. La lente materialista dialettica indaga tutto e tutto contestualizza, persino la scienza (che nei secoli si è evoluta passando dal misticismo al metodo scientifico, appunto).
Questo metodo va applicato a qualsiasi fenomeno umano, storico, sociale. Va applicato, dunque, anche al linguaggio, e anche al linguaggio inclusivo che è un fenomeno sociale, esiste, ed è uno (e non l’unico né il preponderante) dei fenomeni che si incontrano quando si fa intervento nei movimenti di massa e in vari contesti e raggruppamenti sul terreno della lotta all’oppressione di genere.
Il nostro partito lo ha adottato in varie forme da diversi anni, quasi una decina, come simbolo di inclusione e senza particolari patemi, perché ci preme il contenuto, non la forma, purché il nostro messaggio sia comprensibile e diretto a tutta la nostra classe di riferimento. Come noi lo hanno adottato sindacati combattivi, collettivi e varie organizzazioni di stampo classista.
Non ci sentiremmo in dovere di parlarne se la questione del linguaggio inclusivo non fosse diventata il cardine delle battaglie (fanaticamente pro o contro) di chi non si limita al piano linguistico. Questa polarizzazione vede da una parte schieramenti politici che usano la questione come cavallo di Troia per propagandare idee liquidazioniste o addirittura negazioniste dell’oppressione di genere, economiciste e/o reazionarie, fuori e dentro alle organizzazioni marxiste. Sul versante opposto, la borghesia lo usa come comoda foglia di fico per mostrare un’inclusione che nei fatti non esiste (e non può esistere, se non sul piano formale).
2. LINGUAGGIO E REALTÀ: UN RAPPORTO DIALETTICO E BIDIREZIONALE
Per noi non esiste alcun linguaggio “oggettivo” o immutabile. Questo era chiaro già a Marx, a Gramsci, a Trotsky, e ai linguisti sovietici pre e postrivoluzionari.
Il linguaggio è lo specchio della realtà, serve a definire i fenomeni, a descriverli e parlarne, a restituirli in forma scritta oppure orale.
Viceversa, anche i fenomeni della realtà influenzano il linguaggio. Anche prese di posizione politiche, sociali, culturali sono confluite nel linguaggio, a volte in modo più fluido e naturale, a volte addirittura per imposizione dittatoriale (il tramezzino di mussoliniana memoria al posto del sandwich della perfida Albione).
Nel famoso dibattito Manzoni-Ascoli sull’unificazione della lingua in Italia, Gramsci prende le parti di Ascoli, contro la rigida posizione manzoniana di diffusione del fiorentino.
«Per Manzoni il parlante 'usava e diffondeva' una lingua, non la 'produceva': da qui l'inevitabile presa di distanza di Gramsci che pensa la lingua in un rapporto di interscambio con la visione del mondo, cioè con una cultura.» [2]
Dal dizionario gramsciano, cercando le voci lingua e linguaggio:
«Il rapporto tra lingua e concezione del mondo è di effetto reciproco, dal momento che l'approfondimento della conoscenza attraverso nuove sfumature di significato implica l'«approfondimento della concezione del mondo»» (Q 5, 131, 664) [3]
Gramsci formulò un concetto estremamente avanzato, che oggi può essere utilizzato per spiegare l’ingresso nella lingua di alcuni termini [4]. Un esempio.
Nei giornali, quando si parla di femminicidi, ci tocca leggere ancora espressioni connotate dalla mentalità dominante, come “raptus” o “amore malato”. Se non avessimo la parola “femminicidio” non riusciremmo a descrivere efficacemente (in linguistica diremmo in modo “economico”) il fenomeno delle donne uccise da un uomo che se ne considera proprietario. Senza la parola per descrivere un fenomeno, si fa fatica a parlare di quel fenomeno, quindi la comunità di parlanti -prima o poi- trova/inventa una parola/una soluzione per parlarne in modo rapido. Nonostante l’uso ne abbia imposto il suo ingresso nella lingua, ci sono ancora resistenze nell’utilizzo di questo termine, che viene screditato o depotenziato dai negazionisti dell’oppressione di genere di ogni provenienza politica, col pretesto che si potrebbe parlare semplicemente di “omicidi”.
Quel neologismo è servito a definire un fenomeno, ma si è affermato di pari passo a una maggiore presa di coscienza di quel fenomeno. Difficilmente questa parola avrebbe potuto fare il suo ingresso nell’italiano degli anni Cinquanta. Eppure, i femminicidi c’erano, eccome. Ci sono tanti altri esempi: un altro, semplice, è la parola-prestito “apartheid”.
La bidirezionalità del linguaggio è oltretutto un assunto senza il quale non si spiega la crescita psichica e sociale dell’individuo. Lev Semënovich Vygotskij, intellettuale sovietico disprezzato dal regime stalinista poiché si confrontava con la comunità scientifica internazionale, ha letteralmente rivoluzionato il modo di comprendere lo sviluppo cognitivo e di conseguenza la pedagogia. Ancora oggi per quanto sia stato rimaneggiato dal pensiero borghese di marca occidentale, rimane un punto di riferimento solido. Il linguaggio, dunque, come funzione psichica fondamentale. Da sempre l’essere umano a contatto con gli altri apprende e dà un nome alle cose, ai fenomeni ecc e utilizza a sua volta la lingua per lo sviluppo del pensiero interno, in un costante rapporto dialettico.
3. UNA DIGRESSIONE SUL RAPPORTO FRA LINGUA E MARXISMO
L'italiano corrente è dunque il prodotto dell'egemonia culturale della borghesia italiana. Qualcun* potrebbe puntualizzare a questo punto che anche i proletari parlano italiano. Anche i proletari parlano italiano, certo, ma è l’italiano modellato, usato e plasmato dall’egemonia culturale, economica e sociale della classe dominante e che si apprende in famiglia, ma soprattutto a scuola. Non esistono due lingue italiane a seconda della classe di appartenenza, è la classe dominante che ci ha imposto il suo modo di parlare, con termini, locuzioni, caratteristiche morfologiche e grammaticali che sono tutte invariabilmente espressione della sua supremazia di classe (e di genere).
Il fatto che la lingua usata dai parlanti sia la lingua della classe dominante è valido per tutte le lingue del mondo. All’influenza patriarcale forse sfuggono poche lingue di comunità isolate o tradizionali non patriarcali (come quella dei nativi americani, che ha una pluralità di generi), ossia lingue e culture residuali, destinate a essere spazzate via dal capitale o assimilate dall’imperialismo.
Per lungo tempo (fino all’altro giorno in verità) l’italiano è stato la lingua di preti, padroni e borghesi e il dialetto quella della classe lavoratrice. Il fiorentino è diventato lingua “nazionale” perché ha soppiantato tutti gli altri “dialetti” che animavano la penisola italica, e ciò è successo per ragioni storiche, politiche e sociali (spoiler: la differenza tra lingue e dialetti è solo ed esclusivamente di origine storico-sociale, nessun linguista sa distinguerli fuori da un contesto storico/geografico, infatti per i linguisti i dialetti sono lingue). Il siciliano o il sardo sono lontani dall’italiano quanto e forse più dello spagnolo. Ma uno è lingua nazionale gli altri no, a confermare che la lingua sta in rapporto storico-materialista con la dinamica di classe. L’italiano è stato anche strumento dolorosamente oppressivo, come si ricordano gli istriani. Non a caso la lingua è una delle caratteristiche di una “nazione” ed è propedeutica alla costruzione del suo “nazionalismo”.
Resta da capire come mai noi marxist*, internazionalist* per giunta, dovremmo difendere la purezza della lingua italiana come aspetto della cultura dominante e soprattutto contro chi.
La nostra lingua non aleggia nel vuoto cosmico delle idee, è espressione dell’egemonia di classe e del potere eterocispatriarcale. Non esiste una variante di italiano che sfugga a questo dato di fatto.
È sempre la posizione gramsciana, dal dizionario gramsciano:
La lingua non è mai un'entità né omogenea né tanto meno statica. Essa viene innovata in diversi modi, dalla conquista di una nazione da parte di un'altra (innovazione di massa), dalla scuola, dai mezzi di informazione, anche dalle riunioni pubbliche (comprese quelle religiose), nonché dai termini introdotti nel corso delle conversazioni «tra i vari strati della popolazione» (Q 29, 3, 2345).
In tal modo la lingua viene forgiata e plasmata, ma anche in base ai suoi studi universitari G. distingue nell'innovazione di una lingua tra un effetto “molecolare” e un altro “di massa”. In un paragrafo chiave per la sua impostazione della questione G. constata che i linguaggi «dei mestieri», cioè «delle società particolari», innovano «molecolarmente», mentre «una nuova classe che diventa dirigente innova come “massa”» (Q 6, 71, 739).
È sempre il rapporto tra classi e strati diversi della popolazione che entra nel discorso di G. sulla lingua: egli è un sociolinguista ante litteram, che anticipa di gran lunga gli interessi che cominciavano ad affermarsi solo negli anni Sessanta del Novecento. Ha una visione realista della lingua, esente da qualsiasi forma di populismo, dal momento che, analogamente a ciò che è stato notato sopra, il linguaggio di ogni persona contiene in sé gli «elementi di una concezione del mondo e di una cultura» da cui «si può giudicare la maggiore o minore complessità della sua concezione del mondo» (Q 11, 12, 1377).
Vogliamo fare una prova del nove un po’ rozza? Tra i “marxisti” c’è anche chi sosteneva l’opposto della posizione di Gramsci, affermando quanto segue:
«Per quanto riguarda il successivo sviluppo dalle lingue dei clan alle lingue tribali, dalle lingue tribali alle lingue delle nazionalità e dalle lingue delle nazionalità alle lingue nazionali, ovunque e in tutti gli stadi dello sviluppo, la lingua, come mezzo di comunicazione tra le persone di una società, era la lingua comune e unica di quella società, che serviva i suoi membri allo stesso modo, indipendentemente dal loro status sociale.»
Era la posizione di Stalin [5].
Insomma, chi ha un approccio dialettico alla lingua e chi no è abbastanza evidente. Ed è abbastanza evidente che da queste due visioni discendono due posizioni ben diverse anche sulla concezione politica del mondo. O forse sono proprio le due concezioni politiche del mondo, tra loro così diverse, a dare forma a due posizioni sulla lingua radicalmente opposte.
Le posizioni di Stalin sulla linguistica ricordano tanto quelle di qualche avversatore del linguaggio inclusivo e qualche sostenitore dell’italiano di matrice mussoliniana, un altro punto tra tanti in cui Stalin e Mussolini si sovrappongono.
È interessante citare qui velocemente la polemica di Stalin e Nikolaj Marr, un linguista e glottologo piuttosto sui generis e padre di teorie abbastanza bislacche (sulle lingue giafetiche con fonemi comuni come armeno, basco, etrusco). Tuttavia, Marr, prima della Rivoluzione bolscevica postula l’idea che i fenomeni linguistici siano legati al modo di produzione della società, insomma che la lingua sia un fenomeno sovrastrutturale. Studioso di lingue vive e dialetti non scritti nell’URSS, Marr auspica addirittura la creazione nel tempo di una lingua internazionalista universale. Sarà forse anche per questo che, con il testo citato sopra, Stalin lo liquida a favore di una purezza della lingua, tutta funzionale al suo nazionalismo panslavo.
Ancora una volta vediamo che la negazione del carattere sovrastrutturale e storico-dialettico della lingua serve a una precisa agenda politica.
Anche Lenin si scaglia contro il nazionalismo linguistico, con una posizione perfettamente materialista e marxista: promuoveva e avallava la tutela di ogni lingua minoritaria, pur accompagnata da una lingua russa che consentisse alla gente di spostarsi agevolmente nel vasto Stato dei Soviet. Tuttavia, era perfettamente consapevole che da ogni lingua bisognasse cogliere gli elementi progressivi, nell’ottica di un’unione internazionalista del proletariato.
«In ogni cultura nazionale vi sono, benché non sviluppati, gli elementi di una cultura democratica e socialista […] Nel formulare la parola d’ordine della «cultura internazionale della democrazia e del movimento operaio mondiale» noi prendiamo da ogni cultura nazionale soltanto i suoi elementi democratici e socialisti, e li prendiamo soltanto e assolutamente in antitesi alla cultura borghese, al nazionalismo borghese di ogni nazione […].» [6]
L’internazionalismo di Lenin, e dunque il nostro, rigetta ogni difesa di una lingua nazionale in funzione borghese, anzi ne auspica il superamento in un’unione internazionale: «Non ‘cultura nazionale’, è scritto sulla nostra bandiera, ma cultura internazionale, che fonde tutte le nazioni in una unità socialista superiore [...]» [7]
4. DI SCHWA, ASTERISCHI, CHIOCCIOLE E SIMILI: UN RIEPILOGO DELL'ATTUALITÀ (INTERNAZIONALE)
Veniamo alla tanto temuta schwa che deturpa la nostra bella lingua italica (del padrone e della nazione). Da oltre vent’anni tutte le lingue europee si pongono il problema della rappresentanza femminile/non binaria nella morfologia.
Per prima si è imposta l’esigenza di includere nel discorso tutte le donne sistematicamente escluse dai contesti di massa (avvocata, architetta, medica), poi la spinta per l’inclusione (linguistica – di quella parliamo, non di quella effettiva) si è allargata alle soggettività non binarie. La richiesta dell’uso di un linguaggio inclusivo, in Italia e in altri paesi, proviene dai movimenti per i diritti civili genericamente "progressisti" e “riformisti”.
È ovvio a tutt* che un cambiamento linguistico non si traduce in un effettivo cambiamento sociale, altrimenti Mussolini ci avrebbe reso tutt* fascisti a forza di aviorimesse, torpedoni, sciampagna, alcole e bevande arlecchine. Il punto non è se sia sbagliato o meno tentare di alterare la lingua per soddisfare un’esigenza sociale. Il punto è: da chi parte questa esigenza? Dalla classe degli oppressori o dalla classe oppressa? Ha un generico portato progressista o reazionario? Queste sono le domande che dovrebbe farsi un* marxist*.
La lingua anzi le lingue hanno tentato di rispondere a una pressione sociale per l’inclusività che arrivava da una parte della comunità de* parlanti. Lo hanno fatto da espressione delle società borghesi quali sono, ovviamente, cionondimeno la richiesta proveniva da settori della società storicamente oppressi (donne, persone LGBTQIAP+).
Anche qui, senza cadere nella didattica, per alcune lingue è morfologicamente più semplice trovare soluzioni inclusive perché il genere è decaduto da secoli in alcune espressioni morfologiche o non c’è mai stato (si veda il pronome personale inglese che non è marcato al plurale e da tempo viene usato anche al singolare in senso inclusivo, They= esse/essi, They = lui/lei/*). È quello che fanno i compagni e le compagne anglofoni dell’OTI, Opposizione Trotskista Internazionale.
In spagnolo, si è trovata la soluzione della “e” (todes, al posto di todos e todas) oppure si usa una “x”. La LIS, Lega internazionale socialista, usa entrambe le forme di linguaggio inclusivo contemporaneamente nei suoi testi.
In altre lingue si sono trovate soluzioni diverse che includono caratteri speciali o segni di punteggiatura; in tedesco per il plurale sovraesteso si usa l’asterisco (Kamarad*innen), che comprende maschile+femminile+non binario, oppure -orrore!- i due punti in mezzo alla parola, es. Kamarad:innen (come fanno alla sezione germanofona della Lega per la Quinta internazionale).
Interessante notare, en passant, come il tedesco abbia anche il neutro come genere (per un totale di tre: M, F, N), ma non si sia pensato di usarlo per definire le persone non binarie, nonostante sarebbe grammaticalmente comodo. Qualche strutturalista potrebbe pensare: “Bingo! I non binari possono declinarsi al neutro, la grammatica è già pronta”. Invece no, perché il neutro grammaticale non rappresenta una soluzione all’istanza politica di riconoscimento delle persone non binarie. Non è una questione di grammatica o morfologia, ma di visibilità e rappresentanza politica.
In Italia il dibattito sul linguaggio inclusivo è arrivato con notevole ritardo, come tutto il resto del dibattito sui diritti civili. Non è stato calato dall’alto, dal “potere”, è accaduto l’esatto opposto. Anzi, il potere sta cercando di usare il linguaggio inclusivo, appropriandosene come foglia di fico per nascondere la sua natura oppressiva, riducendo le istanze di una parte della società al puro livello formale, insomma facendo pinkwashing/queerwashing o come vogliate chiamare la sua ipocrisia. Non è una novità, lo fa da sempre e sta facendo la stessa cosa con la questione ambientale.
Essendo quello inclusivo un uso della lingua agito da una “minoranza” tendenzialmente oppressa (è abbastanza ovvio che la comunità LGBTQIAP+ sia composta in maggioranza dalla classe lavoratrice, che è più numerosa della borghesia) contro una maggioranza oppressiva (il potere capitalista e patriarcale), le proposte sono state tante, slegate tra loro, e confuse.
In circoli, collettivi, movimenti di varia estrazione e natura per un periodo si è usata la chiocciola (@), poi la “u” (ciao a tuttu), poi l’asterisco (ciao a tutt*), di difficile articolazione fonetica, per approdare di recente alla schwa, ossia a un segno fonetico che si pronuncia più o meno a metà tra una “a” e una “e”.
Checché se ne dica, non l’ha inventata Vera Gheno. Il primo uso attestato è del 2015, da parte di Luca Boschetto, che non è un@ linguista, ma un@ semplice attivista (sì, si autodefinisce con la schwa, e noi l@ rispettiamo, si veda il PDF), che l’ha utilizzata in diversi contesti e circoli LGBTQIAP+. Probabilmente sarebbe rimasta abbastanza di nicchia se non l’avesse usata Mattia Feltri, nell’articolo “Allarmi siam fascist@”. Da lì, anche solo per reazione alla reazione, la schwa ha preso piede su altre forme di linguaggio inclusivo, ma non è l’unica.
Dunque, si tratta di esperimenti linguistici, più o meno diffusi, fatti da una minoranza di parlanti per definire se stess*. Si tratta di fenomeni in divenire, non siamo a bocce ferme (con qualsiasi lingua non lo si è mai… con nulla lo si è mai, in verità, e noi marxist* dovremmo saperlo).
L’uso della lingua, che è ciò che le dà forma, è politico. La decisione su come parliamo è politica. Sempre dal dizionario gramsciano:
La grammatica normativa scritta è quindi sempre una «scelta», un indirizzo culturale, è cioè sempre un atto di politica culturale-nazionale. Potrà discutersi sul modo migliore di presentare la «scelta» e l’«indirizzo» per farli accettare volentieri, cioè potrà discutersi dei mezzi piú opportuni per ottenere il fine; non può esserci dubbio che ci sia un fine da raggiungere che ha bisogno di mezzi idonei e conformi, cioè che si tratti di un atto politico. [8]
Un uso uguale e contrario della lingua, dagli oppressi in direzione degli oppressori, è un atto altrettanto politico. È espressione dell’esigenza di definire linguisticamente persone che possono avere sessi e generi diversi e persone non incasellate nel binarismo di genere, sia al singolare che al plurale.
La schwa è semplicemente uno tra i segni che al momento una parte delle persone LGBTQIAP+ usa per definire la propria identità. Ci piace, non ci piace? È ininfluente. Che venga attualmente utilizzato è un dato di fatto.
Su un piano prettamente morfologico è molto difficile capire se si affermerà la schwa o una soluzione particolare tra quelle in circolazione, o se ne verranno trovate altre, probabilmente in futuro vedremo delle evoluzioni. Tutto è possibile. Al momento ci sono alcune case editrici e alcune amministrazioni comunali che l’hanno adottata. Altre case editrici hanno adottato l’asterisco. Ma una cosa è certa: il successo o meno di una particolare soluzione linguistica inclusiva sarà dato dalla sua frequenza d’uso e dal fatto che servirà più o meno bene a esprimere l’esigenza che l’ha fatta nascere. È l’economia della lingua – che è dialettica – a funzionare così.
Sempre il dizionario gramsciano, alla voce Linguaggio:
Malgrado la sua natura spesso tecnica, il linguaggio cambia col tempo e i termini usati possono acquisire nuovi significati metaforici, differenti dal significato originario di una concezione che viene superata: il linguaggio perciò è un fenomeno vivo ma al tempo stesso un «museo di fossili della vita e delle civiltà passate» (Q 11, 28, 1438).
Il non riconoscimento di tale storicità del linguaggio induce nell'errore di provare a costruire un «esperanto o volapük della filosofia e della scienza», nel cui linguaggio una filosofia, ma per estensione anche le forme del pensiero, acriticamente considerano se stesse le uniche ad aver ragione e tutte le altre «un delirio» (Q 11, 45, 1466-7).
Per alcun* effettivamente le varie forme di linguaggio inclusivo sono un delirio, perché vogliono scientemente disconoscere il portato politico della scelta di includere le persone non binarie, che non devono “esistere” o essere visibili, nemmeno grammaticalmente. Negare a qualcuno l’uso del linguaggio inclusivo, così come adottarlo, è un atto politico, non grammaticale.
Sulle stesse posizioni di Gramsci, ancora più precise in termini linguistici moderni, è Vološinov:
«Nessun segno culturale, qualora sia compreso e dotato di senso, rimane isolato, ma rientra nell’unità della coscienza verbalmente formata. La coscienza è capace di trovarvi un qualche approccio verbale. Pertanto, intorno a ogni segno ideologico si formano come delle onde di echi e risonanze verbali che si propagano. Ogni rifrazione ideologica dell’essere in formazione, in qualsiasi materiale significante, è accompagnata dalla rifrazione ideologica nella parola come fenomeno concomitante obbligatorio. La parola è presente in ogni atto di comprensione e in ogni atto di intepretazione» [9].
Se verrà usato, un dato segno si affermerà; in caso contrario no. Questo è l’unico piano linguistico per considerare la questione. La “bellezza della lingua italica” e le citazioni dall’accademia della Crusca le lasciamo a linguisti e glottologi (di qualsiasi sponda “politica”).
Anche a “sinistra”, infatti, ci tocca leggere di posizioni abbastanza astoriche e soprattutto antimaterialiste con cui si afferma che la lingua non risentirebbe degli stereotipi di genere. Una posizione smentita dalla stessa etimologia delle nostre parole, come padre, padrone, padreterno, patrimonio... Insomma, per qualcun* la lingua sarebbe – non si capisce bene perché – l’unico fenomeno umano, sociale e culturale che sfugge alla dinamica dello scontro tra classi e all’egemonia della classe dominante.
Per qualcuno, qualcosa di così intimo e personale come l’identità di genere non esisterebbe, sarebbe un’adesione agli stereotipi borghesi, mentre la lingua – fenomeno collettivo – come per incanto non risentirebbe di tali stereotipi. “Tutto è stereotipo borghese, anche la vostra identità di genere!”, tuonano i riduzionisti. La lingua, invece, che attraversa la storia, gli strati sociali ed è un fenomeno sovrastrutturale magicamente risulterebbe indenne dall’egemonia di classe e sarebbe addirittura “neutrale”. Un vero paradosso e un’insanabile contraddizione per un* marxista.
In realtà, tali posizionamenti antimaterialisti sulla lingua non si scagliano solo contro l’uso di marcatori inclusivi come la schwa e l’asterisco, ma spesso attaccano anche l’introduzione dei nomi femminili delle professioni, medica o avvocata ad esempio.
Insomma, l’inclusione non va bene nemmeno quando si rispetta la morfologia e la grammatica. Perché? Perché il fine non è la difesa della grammatica o della lingua, ma come vedremo l’invisibilizzazione e la liquidazione delle donne e delle soggettività oppresse e della loro specifica oppressione di genere.
[1] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, capitolo I: Feuerbach. Antitesi fra concezione materialistica e concezione idealistica.
[2] Orlandi, Costanza. “LA RIFLESSIONE LINGUISTICA NEI ‘QUADERNI DEL CARCERE.’” Lares, vol. 73, no. 1, 2007, pp. 55–87. Si veda anche Piperno.
[3] http://dizionario.gramsciproject.org/index.html
[4] Si potrebbero annoverare tra gli esempi molti casi di allotropia. Si pensi alla parola “servigio”, allotropo dotto e arcaico, soppiantato da servizio, variante popolare che si è imposta grazie all’uso.
[5] Marxism and Problems of Linguistics, https://www.marxists.org/reference/archive/stalin/works/1950/jun/20.htm
[6] Lenin, V.I. (1955-1970), Opere Complete (45 voll.), Roma, Edizioni Rinascita-Editori Riuniti. (Vol.20, 16)
[7] Ibid. Vol.19, 510-511.
[8] Cfr. Gramsci, Quaderni dal carcere, Q. 29.
[9] M. Bachtin e V. N. Vološinov, Marxismo e filosofia del linguaggio, a cura di A. Ponzio, Piero Manni editore, Lecce, 1999, p. 128
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