Il nuovo governo Draghi è la risultante di diversi fattori combinati. Se guardiamo la superficie della vicenda politica, è facile individuare in Matteo Renzi il fattore di innesco determinante. La finalità della sua operazione di messa in crisi del governo Conte non è stata affatto dettata dalla fame di poltrone, come voleva una lettura molto approssimativa della crisi, ma dalla volontà di spezzare l'asse tra M5S e PD, e costringere quest'ultimo nella camicia di forza di un'unità nazionale che ne accentuasse le contraddizioni interne a beneficio di Italia Viva. In questo senso il governo Draghi è indubbiamente una risulta dell'operazione di Renzi, al di là dei vantaggi politici che Italia Viva ne può trarre.
Tuttavia abbiamo visto all'opera fattori ben più profondi.
I FATTORI DI FONDO DELLA SOLUZIONE DRAGHI
In primo luogo la pressione del grande capitale e delle organizzazioni padronali, a partire da Confindustria e dalle sue associazioni del Nord.
La borghesia italiana ha conosciuto nell'ultimo decennio una disarticolazione dei suoi assetti interni e riferimenti politici. Ma la precipitazione della più grande crisi del dopoguerra ha fatto emergere la comune volontà di massimizzare in fretta la svolta (obbligata) delle politiche di bilancio della UE. Agli occhi della borghesia il Recovery Fund è l'occasione insperata e irripetibile di provare a rilanciare il capitalismo italiano su scala europea e internazionale, liberandolo dal fardello delle sue zavorre: scarsa concentrazione dei capitali, arretratezza tecnologica, carattere pletorico dell'amministrazione pubblica, lentezze della giustizia civile, peso esorbitante della spesa pensionistica, e persino, incredibile a dirsi, “eccesso di rigidità contrattuali”. È il quotidiano cahier de doléance di tutta la stampa padronale.
Da qui la critica confindustriale al governo Conte e alla sua maggioranza risicata, impegnata in una interminabile negoziazione interna di ogni passaggio decisionale. Da qui, soprattutto, la domanda di un governo dalle spalle larghe, più autorevole su scala mondiale, più permeabile alle pressioni dirette del padronato, e al tempo stesso più capace di imporre alla società italiana il programma di modernizzazione capitalista. Questa domanda di svolta, incluso il nome di Draghi, circolava almeno da un anno, sia pure sottotraccia, in tutti i circoli dominanti. La crisi politica determinata da Renzi le ha aperto il varco.
In secondo luogo, e in connessione col primo fattore, ha operato una pressione delle cancellerie europee. Una precipitazione elettorale della crisi avrebbe messo a rischio l'intelaiatura del Recovery Fund, imperniato sul salvataggio del capitalismo italiano, esponendo l'intera UE ad un pericoloso effetto di rimbalzo. Tanto più nella sgradita previsione di una possibile, se non probabile, affermazione del fronte sovranista, con il conseguente controllo della destra sulla maggioranza assoluta del Parlamento e sulla stessa elezione del nuovo Presidente della Repubblica nel 2022.
La soluzione di unità nazionale era, nelle condizioni date, l'unica via per evitare questo approdo. La presenza del PD ai massimi vertici della UE, nella Commissione Europea (Gentiloni) e nel Parlamento Europeo (Sassoli), ha di certo favorito questa soluzione. Ma essa corrisponde pienamente all'interesse del capitale finanziario continentale. Merkel e Macron hanno tifato, nel proprio interesse, per la soluzione Draghi.
In terzo luogo, la pressione congiunta di padronato del Nord e cancellerie europee ha prodotto un effetto politico decisivo sulla Lega.
Come avevamo segnalato all'inizio della crisi di governo, l'immagine di una Lega salviniana irreversibilmente antieuropea e sovranista non rispecchiava la realtà di quel partito, ben più composita. Una parte decisiva della costituzione materiale della Lega affonda le proprie radici nelle amministrazioni di tutte le principali regioni del Nord, e in una piccola e media borghesia industriale legata alla filiera del mercato europeo, in particolare tedesco. Questa Lega ha incassato i vantaggi dello sfondamento populista del salvinismo, ma non si è mai identificata con questo. Il precipitare della crisi capitalista, combinata con le nuove disponibilità finanziarie della UE, ha spinto in avanti questo settore. Zaia e Giorgetti se ne sono fatti portavoce. La loro domanda governista non è solamente quella di controllare l'uso dei nuovi fondi, ma anche di legittimare la Lega come partito europeista in un quadro internazionale nuovo, segnato dal crollo del trumpismo, dalla svolta della UE, dall'impatto della pandemia sull'immaginario di ampi settori sociali. La svolta del “Capitano” si è posta in sintonia con questo nuovo scenario, per non rischiare di venirne travolto.
IL RUOLO CHIAVE DELLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
Il Quirinale è stato il dominus del governo Draghi.
Come in altri passaggi della vicenda italiana, la presidenza della Repubblica supplisce alla crisi dei partiti borghesi: è stato così con le presidenze Scalfaro e Ciampi nel passaggio tormentato degli anni '90 tra prima e seconda Repubblica, è stato così con la presidenza Napolitano nella crisi del 2011-2013. Oggi in forme diverse si è ripetuto lo stesso copione. Di fronte allo sfaldamento degli equilibri di alternanza, alla cronica instabilità della legislatura, ai rischi di disfacimento della principale forza parlamentare (M5S), solo l'iniziativa del Quirinale poteva predisporre una via d'uscita.
Sergio Mattarella ha deciso direttamente l'investitura di Draghi, ne ha definito il mandato, ha posto sotto la propria regia la stessa composizione ministeriale. Ciò che tradizionalmente passava attraverso un negoziato interpartitico è stato avocato a sé dalla presidenza della Repubblica. Alcuni costituzionalisti liberali hanno visto in questo l'applicazione salutare e rigorosa della Costituzione. In realtà la crisi politica ha fatto emergere i tratti presidenzialisti, solitamente in ombra, della Costituzione italiana. Era accaduto con Napolitano, si è ripetuto con Matterella.
La presidenza Draghi nasce per volontà della presidenza della Repubblica e col pieno appoggio del capitale finanziario. È davvero il governo dei due Presidenti. La sua forza non sta nella vastissima base parlamentare che lo sorregge; semmai questa, con le sue contraddizioni interne, rappresenta paradossalmente il lato debole dell'esecutivo. Sta invece nell'azione centripeta del grande capitale e della UE, il vero magnete peraltro dell'unità nazionale. Il Presidente Draghi personifica questo nuovo equilibrio, si eleva al di sopra delle contraddizioni politiche della sua maggioranza con l'intento di dominarle. La sua investitura è di fatto presidenziale, e solo di riflesso parlamentare. È, in nuce, una simulazione di bonapartismo.
DRAGHI E MONTI. ANALOGIA E DIFFERENZE
Le analogie con il governo Monti del 2011-2013 sono diverse: oggi come allora, abbiamo un governo di salute pubblica, di nomina presidenziale, espressione del capitale finanziario, con ampia base parlamentare. E tuttavia molte sono le differenze.
Innanzitutto, a differenza che nel governo Monti, i partiti borghesi sono direttamente coinvolti nell'esecutivo, per volontà di Draghi e Mattarella, convinti in tal modo di fortificarlo. Il gruppo dei ministri cosiddetti tecnici, provenienti dall'alta burocrazia di Stato (Daniele Franco) e/o dalla grande impresa (Colao), presidia il core business del nuovo esecutivo, a partire dal controllo dei fondi europei. I partiti borghesi, attentamente calibrati, amministrano invece l'ordinario. Una soluzione più simile a quella di Ciampi del 1993 che a quella di Monti, seppur in un quadro di unità nazionale di cui Ciampi non disponeva.
Inoltre il governo gode di un margine di manovra dal punto di vista finanziario molto più ampio che nel 2011-2012, grazie alla sospensione dei vecchi vincoli di bilancio imposta dalla profondità della crisi, e accettata dallo stesso governo tedesco. Ciò accresce a dismisura il debito pubblico, che sarà scaricato sui proletari, ma nell'immediato aiuta il nuovo esecutivo: gli offre un margine di grasso con cui oliare le relazioni sociali, o almeno provarci.
Infine il governo, anche in ragione di questo margine di manovra, sembra voler perseguire a differenza di Monti una politica di concertazione con le burocrazie sindacali e le organizzazioni padronali. Il ripiegamento del nuovo gruppo dirigente di Confindustria su una politica di “buone relazioni” con la CGIL, dopo le smargiassate iniziali (vedi il nuovo contratto dei metalmeccanici), sembra per ora offrire una sponda a questo corso governativo. Preoccupato di garantire la pace sociale, il governo Draghi farà il possibile per schivare le mine.
Ma chi prevede per il nuovo governo un cammino in discesa, o anche solo in pianura, ha una visione molto semplificata della situazione. Confonde il pallottoliere parlamentare con la vita reale, il profumo d'incenso della retorica con la cruda materialità dei problemi.
PANDEMIA, LICENZIAMENTI, PENSIONI: LE MINE VAGANTI SUL CAMMINO DI DRAGHI
Un primo terreno impervio riguarda la crisi sanitaria e la crisi sociale tra loro intrecciate.
L'evoluzione imprevedibile della pandemia, sotto la minaccia delle mutazioni del virus, si combina con le difficoltà strutturali (continentali ma tanto più nazionali) della vaccinazione di massa, la gestione delle chiusure, i contenziosi con le amministrazioni regionali, il nodo dei DPCM... Un Presidente gesuitico di poche parole dovrà sperimentarsi nella comunicazione pubblica, scendendo dall'eremo della sua santità. Non sarà facile.
A questo si sovrappone il passaggio cruciale dello sblocco dei licenziamenti. Confindustria chiede lo sblocco per le aziende non coperte da cassa Covid che hanno bisogno di ristrutturazioni. Le burocrazie sindacali, in particolare la CGIL, propongono un nuovo rinvio. Ma il padronato, che già teneva sotto pressione il governo Conte, vuole incassare il dividendo del nuovo governo Draghi, e non mollerà facilmente la presa. Bankitalia calcola ad oggi oltre mezzo milione di licenziamenti sospesi pronti a scattare, una valanga sociale di grande ampiezza. E non parliamo solo di piccole imprese, parliamo virtualmente anche del gruppo Stellantis, di AcelorMittal, di Alitalia, di una miriade di aziende di medie dimensioni interessate a riorganizzare produzione e servizi. Draghi cerca di allontanare da sé il calice amaro di questa stretta sociale. Ma sarà arduo evitarla.
La questione delle pensioni non è meno rilevante, seppure su tempi maggiormente diluiti. Quota 100 va a scadenza; non può essere rinnovata a fronte del gigantesco indebitamento pubblico e delle pressioni della UE che condiziona lo stesso Recovey Fund al controllo dei conti pubblici. Non a caso il governo spagnolo (PSOE-Podemos) è già impegnato sull'innalzamento dell'età pensionabile. L'esecutivo Draghi dovrà dunque mettere le mani sul sistema pensionistico nella prossima legge di stabilità, che inizia il suo corso in tarda primavera.
L'incrocio tra sblocco dei licenziamenti e riforma pensionistica può esporre il governo a un rischio di conflitto. La concertazione mira a disinnescarlo, ma al tempo stesso confessa la paura.
PROPORZIONALE O MAGGIORITARIO? LE INCOGNITE DEL SISTEMA POLITICO
Un secondo ordine di problemi è di natura più strettamente politica. La nuova unità nazionale è per definizione una situazione d'eccezione che prelude ad una riorganizzazione del sistema politico. I governi tecnici (Monti) o politico-tecnici (Draghi) sono normalmente incubatori di nuovi soggetti e/o di nuovi equilibri. Oggi è molto difficile prevedere lo sbocco politico dell'esperienza Draghi. L'unità nazionale prelude ad un ritorno a un sistema proporzionale, con la classica composizione di un'area di centro borghese quale punto di gravitazione, o prepara invece un ritorno al bipolarismo con schieramenti ristrutturati ma alternativi? Difficile rispondere ad oggi. Certo nel Parlamento attuale sembra difficile trovare una maggioranza di voto per la legge elettorale proporzionale, perché Forza Italia, PD e M5S non hanno la maggioranza dei seggi al Senato. Se resterà l'impianto maggioritario, comunque articolato, le crepe interne alla maggioranza di governo non tarderanno a manifestarsi, da un lato nel polo PD-M5S, dall'altro nel polo di centrodestra.
I tempi, del resto, non sono neutri. Sul finire della primavera vi sarà un'ampia competizione sul terreno amministrativo a carattere maggioritario che coinvolge le principali città italiane. L'effetto di polarizzazione sarà inevitabile e può riverberarsi a livello politico parlamentare. Inoltre incombe il passaggio tra meno di un anno delle elezioni del Presidente della Repubblica. Draghi appare ad oggi come il candidato naturale alla successione di Mattarella, con un sostegno amplissimo. Ma questo significherebbe elezioni politiche anticipate, una scadenza che se prendesse forma trascinerebbe inevitabilmente lungo l'arco dell'intero anno la competizione interna alla maggioranza Draghi.
Il rapporto del governo con l'opinione pubblica è un'ulteriore variabile dipendente del quadro generale. Al piede di partenza Mario Draghi sembra godere di un affidamento vasto e fiducioso. Un credito iniziale, secondo i sondaggi, di oltre il 70% dei consensi ha pochi precedenti in tempi recenti. È il riflesso naturale della sofferenza per la pandemia, della crisi sociale, dell'enorme disorientamento politico, del ripiegamento dei livelli mobilitazione e di coscienza di ampi strati proletari, ciò che alimenta la ricerca del salvatore della patria, in questo caso tecnocrate competente. Tuttavia proprio l'altezza delle aspettative può favorire rapidi disincanti e cambi di clima. Accadde con Monti, può accadere con Draghi. Proprio la memoria dell'esperienza Monti convive sottotraccia con la speranza in Draghi, e alimenta una diffidenza inquieta. È un equilibrio contraddittorio e instabile, esposto a possibili svolte.
La svolta dell'unità nazionale produce sofferenza in blocchi sociali ed elettorali diversi. Le grandi narrazioni populiste che hanno coinvolto negli ultimi dieci anni ampi settori di piccola borghesia e la maggioranza dei salariati hanno subito un tracollo della propria credibilità. Le campagne sovraniste sono scosse alle fondamenta non solo dal cambio delle politiche di bilancio in Europa ma soprattutto dall'ingresso entusiasta della Lega nel governo Draghi. Parallelamente, la lunga narrazione anticasta del M5S, già svuotata nel corso della legislatura dalle diverse alleanze di governo, è oggi annientata dall'ingresso del M5S nel governo Draghi a fianco di Berlusconi e di Renzi. È un fatto politico enorme nella parabola di questo movimento politico, che ne istituzionalizza definitivamente l'approdo, ma che perciò stesso innesca frantumazioni parlamentari, scissioni tra i suoi attivisti, dispersione nella sua base sociale.
Complessivamente, l'immaginario di ampi settori di massa subisce una scossa traumatica. Non è possibile prevedere la ricaduta prevalente di questo processo sul versante sociale. Ma se il populismo reazionario, grillino o leghista, si è saldato per quasi un decennio con la dinamica di riflusso del movimento operaio, dirottando su uno sfogatoio passivo una gran mole di tensioni sociali, il venir meno di questo sfogatoio potrà avere effetti sulle prospettive della lotta di classe.
LA POLITICA DEI RIVOLUZIONARI NEL NUOVO SCENARIO
Il nuovo scenario politico richiede un rilancio della politica di fronte unico. Se la borghesia ha radunato attorno a sé i suoi partiti, il movimento operaio deve stringere le proprie file contro la borghesia e il suo governo. Contrapporre all'unità nazionale il fronte unico di classe è il primo tassello della nostra proposta e linea di intervento.
È tanto più importante oggi ragionare in una prospettiva di massa. Davanti ad uno schieramento politico così vasto, a un governo che gode di nuova forza per il sostegno unanime del padronato, è necessario lavorare a costruire una forza di massa uguale e contraria, l'unica capace di alzare un argine e strappare risultati.
Nello stesso bacino dell'avanguardia occorre prendere le misure del nuovo scenario. Tanto più oggi logiche di autocentratura ed autosufficienza sono prive di fondamento. Le esperienze controcorrente che si sono prodotte nell'ultimo anno (Coordinamento delle sinistre di opposizione e Patto d'azione anticapitalista - per un fronte unico di classe) assumono un valore ancora maggiore e al tempo stesso misurano il proprio limite. Occorre lavorare alla ricomposizione di queste esperienze in un unico fronte dell'avanguardia di classe, politica e sindacale, per agire insieme in una logica di massa. La proposta di stati generali delle sinistre di opposizione e di classe emersa dal Coordinamento delle sinistre di opposizione intende muoversi in questa direzione, così come le proposte unitarie che emergono nel dibattito del Patto d'azione e dell'Assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi.
La preparazione comune di una manifestazione nazionale contro il governo Draghi di tutte le sinistre di classe, ovunque collocate, darebbe impulso a questo processo, a partire dal presidio unitario contro il governo giovedì prossimo a Montecitorio, in occasione dell'insediamento del governo alle Camere, un presidio unitario senza steccati che il PCL, con altri, ha fortemente voluto.
Parallelamente, dentro il percorso di fronte unico dell'avanguardia occorre porre l'esigenza di una proposta d'azione che sia all'altezza del livello di scontro che si prepara. Se lo sblocco dei licenziamenti sarà il primo banco di prova del conflitto sociale, occorre preparare il movimento operaio sul terreno delle indicazioni di lotta, delle forme di organizzazione, delle stesse rivendicazioni. Se nuove centinaia di casi Whirlpool si moltiplicheranno in tutta Italia, va data l'indicazione dell'occupazione delle aziende che licenziano, di un coordinamento nazionale delle occupazioni, dello sviluppo delle casse di resistenza. La rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori delle aziende che licenziano può unificare il fronte di lotta evitando quella drammatica via crucis delle sconfitte in ordine sparso che la classe operaia ha vissuto nell'ultimo decennio per responsabilità delle sue direzioni.
Certo, sono oggi proposte controcorrente a livello di massa. Ma proprio per questo è importante che le avanguardie le assumano unitariamente, e unitariamente ne facciano strumento di azione per preparare il terreno. Con la propaganda e ovunque possibile con l'agitazione. Sono proposte che il Coordinamento delle sinistre di opposizione ha già assunto e che il PCL ha portato e porta nella discussione interna al Patto d'azione, combinando unità e radicalità.
Il rilancio di una prospettiva anticapitalista di governo dei lavoratori e delle lavoratrici è più che mai un asse centrale della propaganda rivoluzionaria. A un governo espressione del capitale finanziario, nella sua stessa composizione, va contrapposta la prospettiva di un governo del lavoro. La crisi verticale di tutte le mitologie populiste e interclassiste (no euro contro euro, sovranità nazionale contro UE, italiani contro migranti, popolo contro casta...), che purtroppo hanno attecchito in ampi di settori di salariati, può liberare spazio per l'unica alternativa vera: quella tra capitale e lavoro. La parola d'ordine del governo dei lavoratori ne è la naturale proiezione. È l'unica vera soluzione contro il mare di fandonie e di truffe che sono state seminate nella coscienza di massa. È la ragione stessa del PCL e della sua costruzione.