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L'Italia scavalca la Francia. In Tunisia

 


La caccia di manodopera a basso costo dei capitalisti italiani

La competizione internazionale tra poli imperialisti coinvolge le rotte internazionali degli investimenti. La cosiddetta deglobalizzazione segna l'accorciamento delle catene del valore, cioè la ricerca da parte di ogni imperialismo di fonti di approvvigionamento più vicine geograficamente, e soprattutto il più possibile sottratte alle incognite di misure sanzionatorie e protezionistiche degli imperialismi rivali.
In questo senso si rafforza in particolare sia la tendenza al reshoring, cioè al reimpatrio delle produzioni industriali (soprattutto da Cina e dall'Asia), sia parallelamente la ricerca di un proprio cortile di prossimità in cui concentrare gli investimenti esteri.

È il caso dell'imperialismo italiano in Tunisia. Già ci siamo occupati recentemente del rischio di default di questo paese, per via dei gravami del debito estero connesso al salto dei tassi di interesse sospinto dalle banche centrali. Un rischio tuttora presente dettato dalla pratica usuraia del capitale finanziario. Ma le politiche di rapina in Tunisia riguardano anche, più direttamente, le pratiche d'impresa, innanzitutto italiane.

In Tunisia il costo del lavoro è un sesto di quello italiano. «La Tunisia ha soprattutto il grande vantaggio di avere tanti lavoratori disponibili, per di più in una zona agricola come questa dalla disoccupazione elevata» dichiara candidamente il padrone dell'azienda di Cornedo Vicentino che ha scelto la Tunisia come seconda patria. Un'azienda di materiale elettronico che investe anche in Romania e Cina ma che ora fa rotta sulla Tunisia. Duecento dipendenti, prossimamente trecento, in località Mornaguia. Prevalentemente giovani e donne. È una delle 911 aziende italiane presenti nel paese, con quasi 80000 posti di lavoro complessivi, prevalentemente nella meccanica e nel tessile abbigliamento, con 135 progetti nuovi nel prossimo anno. Sono aziende che hanno sostituito per lo più le produzioni in Oriente dopo la vicenda Covid e poi con la guerra in Ucraina.

L'Italia fa la parte del leone in Tunisia, sbalzando la Francia al primo posto come partner commerciale, con un incremento delle esportazioni del 39,1% rispetto al 2021 per un totale di 4 miliardi di euro. Il titolare della Sparco, azienda di Torino con 1200 dipendenti, conferma le ragioni della scelta tunisina: «A causa della disoccupazione persone più qualificate accettano di fare lavori al livello più basso». È la stessa ragione che spinge in Tunisia il gruppo Calzedonia con quattro fabbriche, e il gruppo Zoppas.

Il default non è un problema che preoccupa gli investitori italiani. Al contrario: «Un eventuale default potrebbe provocare un indebolimento del dinaro e addirittura una ulteriore riduzione dei costi» dichiara Albino Bellazzi, amministratore delegato di Sparco. In altri termini, più la Tunisia va in rovina, più cresce la disoccupazione, più i giovani e le donne tunisine saranno disponibili a subire un ribasso dei loro già miserabili salari pur di lavorare e sopravvivere. A tutto vantaggio dei nostri capitalisti. Il che spiega oltretutto l'avversione di quest'ultimi all'immigrazione tunisina verso l'Italia e l'Europa. Troppi emigrati riducono la riserva di manodopera disoccupata e dunque il potere di ricatto salariale dei padroni italiani.

Quando Giorgia Meloni gira l'Africa, dalla Tunisia all'Etiopia, con tanto di foto coloniali di scolaresche locali festanti che sventolano il tricolore per renderle omaggio, si occupa solo dell'interesse dei capitalisti italiani. Che non a caso seguono la premier con proprie delegazioni d'affari. La bandiera della Nazione e della Patria, purtroppo oggi rivalutate a sinistra, serve solo ad offrire un paravento di nobiltà all'imperialismo italiano e alla sua ricerca di manodopera a basso costo nelle periferie del mondo. È una ragione in più per una politica internazionalista contro l'imperialismo di casa nostra e contro ogni tossina di sovranismo.

Partito Comunista dei Lavoratori