26 Ottobre 2020
I fatti di Napoli di venerdì 23 ottobre sono al centro di un vasto commentario politico.
Non ci interessano in questa sede le grida scandalizzate dei tutori padronali dell’ordine pubblico: sono gli stessi partiti di governo di ieri e di oggi che hanno tagliato 37 miliardi alla sanità pubblica mentre ingrassavano i profitti delle banche e dell’industria militare. Il loro “ordine” criminale è il primo responsabile dell’emergenza attuale. Men che meno ci interessano le posture teatrali del governatore De Luca che ha spolpato la sanità campana anche per finanziare le proprie clientele elettorali, combinando il sottobosco democristiano con il bonapartismo populista, sempre sondaggi alla mano.
Ci interessa invece il confronto apertosi sulla vicenda all’interno della sinistra, anche di quella classista e antagonista. Due sono le letture specularmente opposte dei fatti di Napoli che si alimentano reciprocamente sui social.
La prima vede i fatti di Napoli come una rivolta “guidata dai fascisti” e dominata da posizioni negazioniste. Una lettura variamente appoggiata dagli ambienti borghesi liberali per motivare il riflesso d’ordine e l’appello al pugno di ferro. E anche alimentata per interesse proprio dagli stessi ambienti dell’estrema destra, che provano a intestarsi la ribellione sui media non potendosela intestare sulla piazza. Il tentativo di Forza Nuova di mimare il giorno dopo a Roma la rivolta di Napoli, attraverso un po’ di fuochi artificiali e qualche sparuta decina di fascisti, ha misurato il patetico fallimento dell’operazione.
La seconda è quella che rappresenta i cortei di venerdì notte come una rivolta sociale progressista, espressione del proletariato napoletano o di suoi settori colpiti dalla crisi e minacciati dal lockdown. Una lettura sostenuta o corteggiata da alcuni circuiti di estrema sinistra che tendono a vedere in ogni dinamica di piazza in quanto tale un antagonismo salutare e progressivo. È il caso ad esempio dei CARC, che passano con disinvoltura dalla partecipazione alle peggiori manifestazioni nazionaliste, reazionarie, negazioniste ("Liberiamo l'Italia", Roma 10 ottobre) all'esaltazione dei fatti di Napoli come «resistenza spontanea delle masse popolari».
Ciò che accomuna le due opposte letture è l’assenza di un’analisi di classe, rimpiazzata da schemi ideologici che confondono la realtà con l’immaginario.
UNA PIAZZA COMPOSITA
Va intanto premesso che la piazza di Napoli ha avuto dimensioni obiettivamente contenute, nell’ordine di uno o due migliaia di partecipanti, secondo le stime più ottimistiche fornite dagli stessi promotori. Chi confonde queste dimensioni con quelle di una sollevazione popolare non sa cosa cos’è quest’ultima, forse perché non gli interessa. È in effetti più facile salutare ovunque una rivoluzione immaginaria che lavorare per una rivoluzione reale.
Lo spaccato sociale delle manifestazioni di venerdì rivela al tempo stesso un quadro composito.
Un ruolo centrale l’ha avuto la piccola borghesia della città, a sua volta impasto di ingredienti diversi. Ne fanno parte innanzitutto i piccoli padroni evasori del fisco che tengono in nero i lavoratori che sfruttano, nei retrobottega, nelle cucine, ai banchi dei bar, nei servizi di pulizia, negli studi professionali. Le loro associazioni cittadine (commercio, alberghiero, ristorazione) sono state in prima fila nella convocazione della piazza, e ora fanno leva sulla minaccia dell’ordine pubblico per battere cassa presso lo Stato e la giunta regionale. Il loro obiettivo è la salvaguardia di un privilegio sociale oggi minacciato dalla crisi.
Al loro fianco sono scesi in piazza lavoratori autonomi realmente proletarizzati, piccole partite IVA che non sfruttano lavoro salariato, che hanno già chiuso o che stanno per chiudere, che cercano la tutela sociale da un declassamento già di fatto operante. Sono i percettori annunciati prima dei 600 euro, poi dei 1000, spesso oltretutto arrivati – quando sono arrivati – a rovina già consumata.
Alla piccola borghesia si è aggiunto un settore di lavoro dipendente direttamente coinvolto dalla crisi degli esercizi presso cui lavora, per lo più in nero o con contratti usa e getta. Salariati minacciati dalla disoccupazione, che spesso non potrebbero accedere per via dei mille paletti neppure alla miseria del reddito di cittadinanza o di emergenza, e che dunque vedono nella salvezza dei propri padroni la difesa di qualche forma di reddito.
In entrambi i cortei si è fatto vivo un pezzo del mondo calcistico delle curve, che soffre oggi la privazione dello stadio e riproduce nello scontro con la polizia il proprio codice paramilitare.
Un settore di sottoproletariato, prevalentemente disoccupato, componente stabile del tessuto sociale napoletano, che ha visto oggi ulteriormente immiserita la propria condizione e allargate le proprie dimensioni.
Infine era certamente presente un settore criminale di basso profilo, colpito in primis dal coprifuoco notturno, che rende più complicate alcune attività criminali (spaccio), e poi dalle maggiori difficoltà di raccogliere il pizzo da attività colpite dal lockdown parziale. Anche se altri settori della malavita si sono ingrassati col lockdown grazie alla pratica dell’usura e dell’acquisto a prezzi stracciati.
Questo magma sociale contraddittorio si è espresso in due cortei diversamente convocati: uno organizzato da giorni dalle corporazioni cittadine delle classi medie, un altro improvvisato venerdì stesso da ambienti antagonisti e partito dal piazzale antistante l'Università Orientale. L’annuncio perentorio di De Luca di un immediato lockdown regionale – senza alcuna copertura economica per nessuno degli interessi colpiti – ha irrobustito entrambi i cortei, popolandoli di altre centinaia di persone, che hanno espresso per questa via la propria protesta.
La composizione dei cortei, entrambi diretti verso i palazzi della Regione, ha così travalicato la diversità delle piattaforme iniziali. Durante la prima ondata della pandemia, che solo marginalmente ha toccato la Campania, De Luca aveva potuto finanziare il proprio blocco clientelare con sussidi varia natura, ottenendo anche per questa via la rielezione. Ora che la seconda ondata travolge Napoli, il Presidente eletto entra in rotta di collisione con gli interessi che aveva foraggiato. Le manifestazioni di venerdì sono anche la crisi di una parte del suo blocco sociale di riferimento.
LA CRISI CONGIUNTA DELLA BORGHESIA E DEL MOVIMENTO OPERAIO
Più in generale, i fatti di Napoli sono il riflesso – in ultima analisi e al di là delle loro modeste dimensioni – della crisi congiunta della borghesia e del movimento operaio. La profondità della crisi capitalista erode l’egemonia borghese su ampi settori di classe media, mentre la crisi del movimento operaio porta tra le braccia della classe media settori di salariati e disoccupati. La risultante d’insieme è un blocco sociale spurio e instabile.
Nell’ultimo decennio abbiamo visto diverse espressioni di questo fenomeno. Ne è stata un'espressione il fenomeno dei "forconi" nel 2010-2011, con un marcato profilo reazionario. Ne è stata un'espressione in Francia il fenomeno dei gilet gialli, con un profilo molto più indefinito e poliedrico. A Napoli non è nato un movimento, si è trattato ad oggi di una manifestazione. Ma nella manifestazione si sono espressi a livello embrionale gli ingredienti potenziali della stessa miscela.
Questa miscela non è stata diretta o ispirata dai fascisti e/o dalla camorra, come vorrebbero quegli ambienti liberali che invocano il pugno di ferro della polizia, ma certo non è diretta né può esserlo, per la sua stessa natura, dalla classe lavoratrice e dalle sue ragioni sociali.
Il tema strategico per la sinistra di classe non è allora l’impossibile egemonia su questo blocco, ma la sua rottura e scomposizione lungo una linea di classe. Una linea che punti a sottrarre salariati, precari, disoccupati all’egemonia piccolo-borghese per ricomporli attorno a una piattaforma di classe unificante e a una mobilitazione generale.
Le misure di emergenza sanitaria le paghino i padroni, non i proletari e nemmeno la piccola borghesia!
- 100% di copertura salariale per tutti i cassaintegrati.
- Blocco generale dei licenziamenti, contro ogni minaccia di sblocco
- Nazionalizzazione delle aziende che licenziano, senza indennizzo e sotto controllo operaio, a partire oggi da Whirlpool.
- Regolarizzazione dei precari: a pari lavoro, pari diritti. Nella sanità, nella scuola, nelle fabbriche, nel terziario, nei campi. Ovunque.
- Abolizione delle leggi di precarizzazione del lavoro, e la giungla delle cooperative e degli appalti.
- Salario dignitoso ai disoccupati.
- Copertura delle perdite di esercizi commerciali ed artigiani, sulla base del reddito (dichiarato) del 2019.
- Un grande piano di nuovo lavoro nel trasporto pubblico, nella bonifica da amianto, nel risanamento del territorio, nella messa in sicurezza delle abitazioni.
- Riduzione generale dell’orario di lavoro a parità di paga, 30 ore pagate 40. Il lavoro che c’è sia ripartito fra tutti.
- Raddoppio dell’investimento nella sanità pubblica e requisizione di quella privata, con l’assunzione a tempo indeterminato di 100000 medici e infermieri e la riapertura dei duecento ospedali soppressi.
- Patrimoniale straordinaria di almeno il 10% sul 10% più ricco e abbattimento delle spese militari. Paghi chi non ha mai pagato.
Sono rivendicazioni che non si limitano a difendere l’immediato interesse della nostra classe, ma puntano alla ricomposizione attorno ad essa di un più vasto blocco sociale anticapitalista.
Solo un'irruzione sul campo della nostra classe, attorno a un proprio programma unificante, può consentirle di polarizzare l’enorme malcontento sociale che monta anche tra le fila dei settori declassati della piccola borghesia, incorporandoli alle ragioni del proletariato e a una prospettiva di governo dei lavoratori.
Il rischio altrimenti è muoversi a rimorchio di altre classi, fosse pure nel nome dell’antagonismo o, addirittura, della rivoluzione.