La guerra di occupazione di Israele da un altro punto di vista
La grancassa mediatica nei paesi imperialisti USA e UE ha puntato tutta la sua attenzione sugli attacchi terroristici di Hamas e la guerra in Israele. Questa guerra è descritta come una guerra tra due popoli, tra due religioni e tra due concezioni della vita civile. Inutile aggiungere che la stragrande maggioranza dei mass media in modo esplicito o indiretto parteggia per il popolo di Israele, la sua religione e la sua civiltà.
I diritti del popolo palestinese al massimo vengono a rimorchio. Ma siamo sicuri che tutti i motivi del conflitto si riducano a questi?
Israele è un media potenza industriale. Il suo PIL nel 2002 è stato di oltre 500 miliardi di dollari, circa un quarto di quello italiano, uno dei paesi imperialisti d’Europa, mentre il PIL pro capite è di oltre il 55% maggiore di quello italiano. Non è un paese imperialista, ma un ricco paese capitalista con un’alleanza di ferro con l’imperialismo USA.
In confronto il territorio amministrato dall’Autorità nazionale Palestinese, la Cisgiordania o West Bank, ha un’economia poverissima, che la banca mondiale ha definito “insostenibile” nel 2022. Gaza unisce all’estrema povertà, con tassi di disoccupazione giovanile oltre il 70%, un sistema totalitario di controllo sociale da parte delle autorità israeliane che la rende una prigione a cielo aperto. Questo divario tra l’economia di Israele e i territori palestinesi non è un caso. Non è dovuto alla buona volontà e all'industriosità dei cittadini di Israele, ma è uno dei fattori della floridità economica israeliana.
Con la Tonak (Bibbia ebraica) e la Torah in mano i coloni israeliani non mirano soltanto a riconquistare la terra promessa. Piuttosto aprono la strada allo sfruttamento capitalistico dei territori occupati sia da parte delle compagnie israeliane che quelle multinazionali.
Nel 2010 l’economia dei Kibbutz, alcuni dei quali risiedono nei territori occupati da Israele dopo il 1947, con le loro fabbriche e le loro aziende agricole arrivavano a costituire il 9% del prodotto industriale e il 40% di quello agricolo.
Negli insediamenti illegali di Israele in Cisgiordania dell’ultimo mezzo secolo, sono state demolite migliaia di abitazioni palestinesi allo scopo di costruire nuove abitazioni e sono state dirottate, ossia letteralmente rapinate, le risorse naturali palestinesi come le terre più fertili e soprattutto l’acqua.
Da cosa nasce cosa, cosicché questi insediamenti sono diventati una risorsa sempre più lucrosa da sfruttare.
Oltre allo sfruttamento agricolo è diventato profittevole l’investimento nella industria del turismo.
Come denuncia Amnesty International nel suo rapporto “destination: occupation", del 2019, 4 grandi agenzie turistiche internazionali offono numerosissime destinazioni site nei territori occupati:
Airbnb, con sede negli USA, ha 300 proprietà negli insediamenti dei Territori palestinesi occupati; TripAdvisor, anch’essa con sede negli USA, Usa, oltre 70 tra attrazioni, tour, ristoranti, bar, alberghi e appartamenti in affitto; Booking.com, con sede in Olanda, 45 alberghi e affitti; Expedia, nove destinazioni di soggiorno, tra cui quattro grandi alberghi.
Così siti archeologici e naturalistici illegittimamente occupati dallo stato israeliano diventano meta del turismo di massa e fonte di profitto per le aziende internazionali e israeliane, oltre a creare un indotto economico da cui ovviamente la popolazione palestinese è esclusa.
Ma i meccanismi di sfruttamento coloniale coinvolgono anche altri e più grandi attori dei più svariati settori produttivi e di fornitura dei servizi.
Alcuni di questi sono elencati nel database fornito dall’ONU che enumera oltre alle numerosissime compagnie israeliane, anche gradi gruppi USA ed europei tra cui Egis Rail, grande compagnia di trasporti francese appartenente ad un gruppo di 1,5 miliari di euro di capitale; la C Bamford Excavators Limited, più conosciuta come JCB, multinazionale inglese che produce attrezzature per la costruzione edilizia, la demolizione e l'agricoltura (è inoltre il terzo più grande produttore di macchine agricole del mondo con un fatturato di circa 4 miliardi di sterline); la Tahal group International BV, multinazionale ingegneristica con sede ad Amsterdam; la francese Alstom che opera nel settore delle costruzioni ferroviarie con un reddito netto di 275 milioni di euro nel 2022; Altice Europe N.V. multinazionale olandese che si occupa di telecomunicazioni e mezzi di comunicazione di massa con un fatturato di 3 miliardi di euro nel 2013; eDreams con sede in Lussemburgo, una delle più grandi compagnie di viaggio on line; la General Milss, multinazionale americana del settore alimentare con un fatturato di oltre 17 miliardi di dollari nel 2020; Motorola solutions fornitore statunitense di apparecchiature di comunicazione e telecomunicazione le cui azioni in Borsa valgono attualmente circa 290 dollari.
Tuttavia queste compagnie non sono che una goccia nel mare.
Il rapporto Don’t Buy into Occupation (DBIO), composto da 25 ONG palestinesi ed europee, è risalito ai rapporti finanziari che queste società hanno a loro volta con circa 700 gruppi europei. Si tratta per lo più di istituzioni finanziarie, banche, compagnie di assicurazione, fondi pensionistici, che hanno fornito loro 114 miliardi di dollari nel 2020 e ben 141 in azioni e obbligazioni nel 2021.
50 grandi compagnie sono coinvolte nello sfruttamento dei territori occupati. I loro finanziamenti dipendono da 10 gruppi individuati bancari e finanziari che hanno fornito loro, da soli, attraverso prestiti e sottoscrizioni, 77,81 miliardi di dollari alle imprese che sono attivamente coinvolte negli insediamenti israeliani: BNP Paribas (Francia, 17,30 miliardi), Deutsche Bank (Germania, 12,03 miliardi), HSBC (Gran Bretagna, 8,72 miliardi), Barclays (Gran Bretagna, 8,69 miliardi), Société Générale (Francia, 8,20 miliardi), Crédit Agricole (Francia, 5,55 miliardi), Santander (Spagna, 4,75 iliardi), ING Group (Olanda, 4,60 miliardi), Commerzbank (Germania, 4,37 miliardi). L’ultima della top ten, l’italiana UniCredit, ha fornito 3,58 bilioni di dollari.
Due considerazioni emergono immediatamente.
La prima è che sono “miliardi” i motivi per cui i governi dei paesi imperialisti europei si sono posti incondizionatamente al fianco di Israele. Semplicemente difendono i propri listini.
Il governo Meloni ovviamente non si distingue e fa, della sua morale a corrente alternata, carta igienica per l’affarismo criminale e putrescente dei patrii interessi. Come scrive Altreconomia:
«La multinazionale tedesca HeidelbergCement - una delle principali multinazionali del cemento sul mercato mondiale, proprietaria dell’italiana Italcementi - è complice della violazione dei diritti della popolazione palestinese che vive nei Territori palestinesi occupati (OPT). A sostenerlo sono Al-Haq, organizzazione impegnata in attività di denuncia degli abusi commessi da Israele, e Somo, centro di ricerca sulle multinazionali con sede ad Amsterdam».
«Le operazioni estrattive, effettuate attraverso la controllata Hanson Israel, “hanno avuto luogo in un contesto caratterizzato da deliberate politiche istituzionali che mirano alla confisca e allo sfruttamento delle terre e risorse palestinesi da parte di Israele. Inoltre queste attività hanno consentito di mettere a disposizione materiali poi utilizzati per espandere le colonie israeliane”, scrivono Al-Haq e Somo in un comunicato indirizzato all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani nel 2020»
Seconda considerazione. Il PIL israeliano è rappresentato in buona parte dallo sfruttamento illegale dei territori occupati ed è lecito pensare che anche il territorio di Gaza sia nel mirino di questi appetiti finanziari.
L’economia predatoria delle terre colonizzate supporta tanto i grandi capitalisti israeliani quanto i capitalisti dei paesi imperialisti, USA ed europei, che per questo hanno tutto l’interesse a rafforzare la forza armata sionista che rappresenta la vera ossatura e la ragione d’essere dello Stato di Israele. Il volume d’affari anche nella compravendita degli armamenti tra Israele e paesi imperialisti, in questo caso compresa la Russia, ne è un necessario corollario.
L’assalto ai territori palestinesi ci ricorda la “conquista del west” da parte dei coloni statunitensi che provocò lo sterminio genocida dei popoli nativi, i cui pochi rimasti vennero rinchiusi nelle riserve. Il futuro dei palestinesi, se Israele non viene fermata, sarà segnato da una nuova Nakba.
Come allora negli Usa, nonostante tutta l’epopea cinematografica di Hollywood, non si tratta di portare la civiltà.
Quale civiltà ci chiediamo: quella che organizza spedizioni squadristiche contro i cittadini palestinesi o che, tramite il proprio esercito, massacra scuole e ospedali di Gaza?
Più prosaicamente, dietro la cortina fumogena del conflitto tra religioni e culture, ci stanno gli ottimi affari e l’inserimento di Israele nel mercato capitalista e finanziario mondiale.
La rapina di acqua, terre, risorse minerarie e archeologiche a danno dei palestinesi con tutte le sue specificità, non costituisce altro che un episodio, della rapina che il capitalismo, nella sua fase imperialista, commette ai danni dei popoli sfruttati del mondo e ai danni del proletariato internazionale.
Questo, come d’altra parta su scala mondiale lo scontro tra le grandi aree geopolitiche (ad esempio USA e UE contro l’alleanza tra gli imperialismi russo e cinese), è il vero motore del conflitto israelo-palestinese.
La rapina israeliana e imperialista costituisce un elemento fondamentale della natura di tale conflitto.
La necessita di fermare questa rapina, con la distruzione rivoluzionaria dello Stato d'Israele, è una condizione obbiettiva della necessità della liberazione della Palestina, che possa consentire ai palestinesi il diritto al ritorno nella propria terra.
Solo la piena e libera autodeterminazione del popolo palestinese potrà permettere una pacifica convivenza con la minoranza ebraica.
Per questo la liberazione del popolo palestinese non è concepibile se non riconducendola ad una prospettiva socialista, in Palestina e in tutto il Medio oriente.