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La crisi del secondo governo Conte

 


I giochi politico-istituzionali nel campo della borghesia italiana

La crisi in corso del secondo governo Conte richiama due ordini di considerazioni. Il primo contingente, il secondo di carattere più generale.

Perché Renzi ha aperto la crisi del governo che lui stesso aveva fatto nascere?
Consentendo la nascita del secondo governo Conte nel settembre 2019 Renzi aveva fatto un suo calcolo politico. Non solo quello di intestarsi l’emarginazione (e umiliazione) di Salvini. Ma anche quello di capitalizzare a proprio vantaggio una “inevitabile” crisi del PD stretto nell’abbraccio coi Cinque Stelle. La scissione del PD e la nascita di Italia Viva – ad appena un mese dalla nascita del governo – avrebbero dovuto calamitare questa decomposizione del PD. Il punto è che l’operazione è clamorosamente fallita, come mostrano le ultime elezioni regionali. Dove neppure in Toscana Italia Viva riesce a schiodarsi dal 4%. I sondaggi successivi sono peraltro ben più impietosi, con IV sotto la soglia del 3% con tanto di sorpasso della formazione di Calenda (Azione).


LA PARTITA DI POKER DI UN PARVENU

Mettiamoci allora nei panni di Renzi. Un parvenu che ha fatto la folgorante scalata del PD, che da suo segretario ha toccato la vetta del 41%, che dall’alto di quella vetta ha provato l’ebbrezza di un progetto istituzionale bonapartista ritagliato a propria immagine e somiglianza, si trova nella polvere pochi anni dopo sotto la soglia del 2%, dopo esser passato di sconfitta in sconfitta. Mentre il PD che avrebbe dovuto distruggere (“gli faremo fare la fine che Macron ha riservato al Partito Socialista francese” aveva detto Renzi) non solo ha retto la prova della scissione ma ha tenutole proprie percentuali. Un disastro, insomma, su tutta la linea.

Matteo Renzi è oggi nella condizione di chi non ha più nulla da perdere perché sostanzialmente ha già perso tutto. Ciò che gli resta è solo un drappello di parlamentari trasformisti, rotti a ogni uso, senza futuro, se non quello di sbarcare il lunario della legislatura. Il leader usa allora al tavolo da poker della politica borghese l’ultima carta che gli rimane. L’ultima occasione della vita per provare a riabilitare le proprie fortune, a porsi al centro dell'’attenzione pubblica, a scuotere l’albero politico istituzionale per vedere se qualche frutto cadrà mai nel suo cesto.

Qual è esattamente l’obiettivo che Renzi si pone provocando la crisi? Ve ne sono molti e tra loro intrecciati. Sgombrare il campo dalla figura di un premier percepito come abusivo perché (indubbiamente) più fortunato di lui; provare a sparigliare in casa PD e M5S mettendo entrambi sotto pressione; puntare a costruire una relazione privilegiata con i nuovi vertici di Confindustria attraverso il rilancio su MES, investimenti infrastrutturali, nuovi soldi alle imprese; riabilitare la propria immagine agli occhi del mondo della scuola, attraverso la rivendicazione della riapertura, ma anche del settore turistico alberghiero (“allarghiamo i ristori”); rinegoziare un equilibrio di governo in cui accrescere il proprio peso specifico e il proprio controllo sui flussi di spesa. E forse soprattutto negoziare una nuova legge elettorale al posto di quella concordata a suo tempo con PD e M5S: perché un proporzionale con soglia di sbarramento al 5% (ma anche al 4%) sarebbe oggi una sentenza di morte per IV, mentre un maggioritario gli darebbe potere negoziale nei collegi.


UN CALCOLO RISCHIOSO

Ma Renzi non ha paura che la crisi porti alle elezioni anticipate provocando così la sua rovina? No. È convinto che lo spazio di elezioni politiche non vi sia, non solo e non tanto per la pandemia, ma perché Mattarella non porterebbe al voto con la legge elettorale vigente. La quale, combinata col taglio referendario dei parlamentari, darebbe probabilmente al centrodestra una maggioranza assoluta nei due rami del Parlamento, assicurandogli in un colpo solo la guida del governo, la nuova Presidenza della Repubblica (gennaio 2022), la gestione dei 209 miliardi di provenienza UE. Del resto – calcola Renzi – o si vota subito, ed è difficile per la pandemia, oppure da agosto si entra nel semestre bianco e il Parlamento non può più essere sciolto sino all’inizio dell’anno successivo. Ecco perché Renzi spariglia da autentico acrobata. È convinto di avere una rete istituzionale protettiva.

È un rischio azzardato? Indubbiamente.
Lo spazio negoziale nella maggioranza uscente poggia su un filo sottilissimo. Renzi non può uscirne vincente se Conte resta al suo posto, ma PD e M5S hanno in Conte il proprio punto di equilibrio. “Morto un Conte se ne fa un altro” si potrebbe dire, come del resto accadde nel settembre del 2019. Ma la terza volta il gioco trasformista è più difficile perché il filo è molto più logoro. E le intemperanze del Presidente del Consiglio, stretto tra la prudenza di Mattarella e le proprie ambizioni di sfida, non aiutano oltretutto la ricomposizione attorno a lui. Vedremo. La possibilità che il gioco sfugga di mano resta tutta.


LE CONTRADDIZIONI NEL CAMPO DELLA DESTRA

Tuttavia, il gioco di Renzi, per quanto azzardato, non è privo di basi d’appoggio.
Il centrodestra chiede formalmente le elezioni anticipate. Di fronte alla crisi della maggioranza è un passo obbligato. Ma in realtà è anch’esso attraversato da mille crepe.

Forza Italia vuole da tempo sganciarsi dalla tutela sovranista nel nome del proprio rapporto col PPE. Non può farlo in un quadro di polarizzazione frontale, ma cerca un proprio spazio di manovra e di emancipazione. In ogni caso è contraria ad elezioni che oggi ne falcerebbero la rappresentanza. La stessa Lega è assai cauta. I suoi governatori del Nord, a partire da Zaia, sono contrari a elezioni perché vogliono stabilità (“Le elezioni oggi con la pandemia sarebbero una follia” dichiara il governatore Veneto). La sua base sociale concentrata nella piccola e media impresa vuole certezza immediata dei ristori e delle risorse europee promesse, e guarda con diffidenza ai trambusti politici.

Un pezzo importante della Lega, che gravita attorno a Giorgetti, e che ha relazioni familiari con Bruxelles, predica da tempo una ricollocazione moderata della Lega, fuori dal campo del lepenismo europeo, capace di riabilitarne l’immagine agli occhi del capitale finanziario e dei suoi circoli dominanti.
Questa parte della Lega sa che se si andasse al voto in uno scontro frontale col centrosinistra, Salvini e Meloni vincerebbero. Ma poi dovrebbero governare. Senza relazioni con le capitali europee, in una crisi economica drammatica, nella necessità di predisporre i piani di rientro da un debito pubblico sempre più fuori controllo (altro che “quota 100”). Il rischio di rompersi l’osso del collo sarebbe altissimo.

Un governo istituzionale retto dai principali partiti e col coinvolgimento della Lega (a garanzia dei suoi interessi politici) sarebbe agli occhi di Forza Italia e di questa parte della Lega una soluzione assai preferibile. Sminerebbe il terreno sobbarcandosi equamente la corresponsabilità del governo, favorirebbe una riabilitazione della Lega sul terreno europeo, preparerebbe condizioni favorevoli per una prospettiva di vittoria più duratura nella prossima legislatura. Matteo Salvini, a modo suo, capisce questo messaggio che gli proviene da parte del suo mondo. È prigioniero in parte del proprio personaggio, ma è assai più flessibile di come appare (come peraltro questa legislatura ha dimostrato). A volere le elezioni resta la Meloni con Fratelli d’Italia, l’unica che ne verrebbe realmente beneficiata. Il suo condizionamento degli spazi di manovra di Salvini è indubbio. Ma né Salvini né tanto meno Berlusconi vogliono assecondarne il disegno.


LA CRISI POLTICA ITALIANA

Vedremo le mosse dei diversi attori politici e istituzionali in questo ginepraio di contraddizioni. Ogni scenario è possibile.
Ma s’impone una considerazione di fondo. La borghesia italiana è oggi vincente sul piano sociale, ma fatica a darsi un quadro politico e istituzionale stabile.

Manca un baricentro politico in Italia. Sia in termini di una forza borghese di massa maggioritaria capace di fare da pivot del sistema politico. Sia in termini di equilibri politico istituzionali. Il vecchio pendolarismo fra centrosinistra e centrodestra che ha incardinato per oltre 20 anni la vita della Seconda Repubblica, gestendo in alternanza le medesime politiche antioperaie, è da tempo crollato sotto la pressione materiale della grande crisi capitalistica del 2008/2012 e dei suoi effetti sociali dirompenti in particolare in Italia. Ma al posto della vecchia alternanza non è subentrato un equilibrio nuovo. Già le elezioni politiche del 2018, con lo sfondamento del M5S, certificarono un quadro di instabilità. Il corso della legislatura l’ha confermato e aggravato. Due governi con maggioranze opposte, equilibri parlamentari che non corrispondono più alla forza politica dei partiti (crollo del M5S, ascesa e discesa della Lega, avanzata di FdI). Lo spazio di manovra del Presidente del Consiglio, con le sue acrobazie trasformiste, è cresciuto in misura proporzionale alla instabilità politica. Ma oltre una certa soglia rischia di esserne ora travolto.

Qual è dunque la base materiale su cui si regge nonostante tutto il dominio politico della borghesia e la continuità delle sue politiche di rapina, nonostante l’instabilità politica dei suoi assetti? La debolezza del movimento operaio, il profondo riflusso dei suoi livelli di mobilitazione, di organizzazione, di coscienza, per responsabilità preminente delle sue direzioni, ed oggi innanzitutto della burocrazia CGIL. Rilanciare la prospettiva di un fronte unico di classe attorno ad una piattaforma indipendente dei lavoratori e delle lavoratrici non ha solo una valenza sindacale, ma politica. È l’unica via per sgomberare il campo dalla politica borghese e da tutte le sue miserie, e aprire dal basso uno scenario nuovo.

Partito Comunista dei Lavoratori