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La teppaglia reazionaria e il sacro tempio liberale

 


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Il giorno dopo la cosiddetta insurrezione di Washington, la Borsa di Wall Street ha registrato un record di rialzi sui listini azionari. Il capitale finanziario USA non si è fatto impressionare dalla carnevalata della teppaglia reazionaria a spasso per le sale del Congresso; ha preferito festeggiare ciò che più gli interessa: il ritorno al governo dei democratici, per di più con la maggioranza dei seggi al Senato, ciò che sembra offrire maggiore stabilità ai vertici dell'imperialismo USA, ed anche agli stimoli fiscali anti-Covid promessi da Biden agli azionisti delle corporations.

Agli occhi di Wall Street Donald Trump ha rappresentato un outsider imprevisto. Ovviamente il grande capitale siede al banchetto di qualsiasi amministrazione, e Trump ha offerto alla borghesia americana sicuri vantaggi economici. Ma la linea di destabilizzazione delle relazioni e strutture del multilateralismo – dall'ONU alle Conferenze sul clima, sino alle intese sugli armamenti – non è risultata gradita alla grande borghesia americana, ai gangli profondi della sua diplomazia e dei suoi vertici militari. Né lo è stata la sua gestione pirotecnica, personalista e familista, affidata al ristretto manipolo dei fiduciari del Presidente e del suo giro d'affari. Tanto meno la sua pretesa grottesca di invalidare le elezioni presidenziali prendendo in ostaggio le istituzioni borghesi dello Stato, e chiamando per di più a supporto la folla colorita della sua base popolare, comprese le milizie incontrollabili dell'estrema destra.

Il ritorno al governo del Partito Democratico offre a Wall Street un riferimento più affidabile, sperimentato, equilibrato. E il fatto che Trump abbia perso parecchie piume nella vicenda del 6 gennaio, oltre che non pochi sostegni del suo stesso staff, ha richiamato un ulteriore sospiro di sollievo. La Borsa ha festeggiato a suo modo anche questo.

Significa dunque che il 6 gennaio non è accaduto nulla di rilevante a Washington? No.
Certo è accaduto ben poco di ciò che è stato rappresentato dal commentario mondiale della borghesia liberale e delle sinistre riformiste al suo guinzaglio. “Golpe in America”, “insurrezione a Washington”, “dissacrata la democrazia più antica del pianeta”... le parole si sono sprecate, nella rincorsa del vocabolario. In realtà non vi è stato alcun golpe o insurrezione di sorta, se si vuol dare un significato vero alla parole. Un migliaio di attivisti parafascisti, suprematisti, omofobi, più o meno equipaggiati alla bisogna, ha invaso le sale del Congresso americano, grazie alla latitanza e connivenza dei corpi locali di polizia. Naturalmente non c'è nulla di peggio di questa teppaglia reazionaria, blandita e corteggiata da quello stesso Trump che non ne può garantire il controllo.

Ma non siamo di fronte alla minaccia fascista negli USA. E in ogni caso l'atto compiuto da questa teppaglia non trasforma affatto il Congresso USA nel tempio profanato della “democrazia”. La celebrata “democrazia” americana è solo la forma della dittatura dei capitalisti, di uno Stato che si regge sullo sfruttamento dei salariati di casa propria, sulle mille forme di oppressione e discriminazione degli afroamericani e degli ispanici, sull'arbitrio impunito della violenza poliziesca, sul saccheggio secolare di altri popoli e nazioni, su una politica di aggressioni militari, intimidazioni e ricatti verso ogni popolo oppresso che voglia ribellarsi al suo dominio. La teppa fascistoide del 6 gennaio si nutre, in fondo, dei detriti peggiori della democrazia borghese americana.

Tuttavia, spogliati della veste immaginifica che è stata loro fornita, i fatti del 6 gennaio sono tutt'altro che irrilevanti. Sarebbero stati impensabili anche solo pochi anni fa. Acquistano invece il loro significato, seppur in forma estrema, all'interno della polarizzazione politica e sociale che attraversa la società americana (e non solo) sullo sfondo della grande crisi. Impoverimento dei salari, declassamento di ampi settori della classe media, disuguaglianze sociali abissali in fatto di redditi e patrimoni, che percorrono e aggravano i divari etnici e territoriali, tra grandi città e province, tra metropoli e campagne.
La lunga ripresa economica USA, formalmente la più prolungata del dopoguerra, non solo non ha minimamente scalfito questa dinamica profonda ma l'ha approfondita su ogni versante. La crisi dell'amministrazione Obama, la clamorosa sconfitta di Hillary Clinton, la vittoria di Donald Trump nel 2016 sono stati il portato indiretto di questi processi.

Il trumpismo ha costruito attorno a sé un ampio blocco sociale particolarmente concentrato nella provincia profonda americana. Trump è uscito indiscutibilmente sconfitto nelle elezioni presidenziali appena concluse, ma il suo blocco sociale ha tenuto. Ha perso la presidenza, non il suo popolo. Ed anzi i 74 milioni di voti riportati dal Presidente sconfitto sono significativamente superiori a quelli guadagnati nel 2016, quando riportò la vittoria. Soprattutto è e resta impressionante il successo del trumpismo presso l'elettorato bianco della provincia profonda, una roccaforte inespugnata. La folla accorsa al comizio di Trump del 6 gennaio è uno spaccato sociale fedele di questa provincia, segnato dal peso della tradizione religiosa, estraneo e diffidente verso i costumi della città, alieno a ogni forma di modernità, sensibile alle fiabe sui complotti occulti di poteri misteriosi. La tragedia della pandemia ha moltiplicato gli effetti di questo senso comune. Trump ha costruito con questo blocco sociale un rapporto di fidelizzazione autentica. Agli occhi di questa massa egli resta il Presidente della nazione, per questo estraneo e osteggiato da “quelli di Washington”.

Le milizie armate dei Proud Boys, dei Boogaloo Boys, di QAnon, pascolano in questo ambiente e si candidano a sua guardia del corpo, con le strizzate d'occhio alla (e della) polizia. Sono la componente estrema di una società patriarcale, legge ed ordine, profondamente misogina, col ruolo volontario di squadristi e mazzieri quando si tratta di aggredire e malmenare i Black Lives Matter e l'estrema sinistra. Trump li usa, ma non sono alle sue dipendenze. E la loro azione del 6 gennaio, lungi dall'essere commissionata da Trump, ha indebolito il Presidente in carica a tutto vantaggio dei democratici. Si può non vederlo?

Non è ancora chiaro cosa Trump voglia fare del blocco sociale che ha consolidato attorno a sé. Provare a dominare il Partito Repubblicano? Facile in veste di Presidente, assai più complesso con quattro anni di opposizione e un gruppo parlamentare assottigliato dalla sconfitta. Scindere il Grand Old Party e costruire un proprio partito? Possibile, e alcune pose dell'ultima fase sembrerebbero alludere quanto meno a questa tentazione. Ma il sistema elettorale e istituzionale americano di certo non favorisce tale soluzione, che rischia di consegnare al Partito Democratico una rendita di posizione. Vedremo. Di certo la polarizzazione politica americana ha scosso alle fondamenta il Partito Repubblicano, ben oltre le soglie del vecchio Tea Party, e pone incognite serie sulla sua tenuta e configurazione.

Ma anche la nuova amministrazione democratica di Joe Biden sarà chiamata a un banco di prova particolare. Dovrà ridefinire la politica estera dell'imperialismo USA, tenendo ferma sicuramente la contrapposizione strategica al neoimperialismo cinese, ma rivedendo i rapporti con gli imperialismi europei, che salutano tutti la vittoria di Biden come una sorta di liberazione ma sanno e sentono che non tutto tornerà come prima, e non a caso si dividono. Tra un imperialismo francese che punta a una sorta di autonomia strategica europea, naturalmente sotto l'egemonia di Parigi, e un imperialismo tedesco che cerca in Biden una sponda rassicurante su cui far leva (anche) per contenere le ambizioni francesi. Ma soprattutto Joe Biden dovrà trovare un punto di equilibrio e tenuta nella società americana. Non sarà facile.

La polarizzazione americana non si è sviluppata solamente a destra, ma anche a sinistra. Lo straordinario movimento di massa che ha attraversato le città americane nel 2020 ha sicuramente gonfiato le vele di Biden nelle recenti elezioni. Il successo plebiscitario dei democratici nelle città ne è una prova inequivocabile. Ma le vecchie illusioni mal riposte nel Partito Democratico convivono con una diffidenza aperta verso la sua politica. Il risultato elettorale dei candidati e delle candidate dei Socialisti Democratici d'America riflette a modo suo una domanda di cambiamento. Ma Biden, com'era prevedibile, l'ha già frustrata in partenza, componendo una squadra di governo tutta imperniata sul vecchio personale politico gradito a Wall Street, quello che i tredici milioni di elettori di Sanders nelle primarie democratiche avevano sonoramente contestato. Ed è solo l'inizio.

La costruzione di un partito indipendente della classe operaia americana, fuori e contro il vecchio bipolarismo USA, resta un nodo strategico inaggirabile. In questi anni di grande crisi si è fatta largo tra milioni di lavoratori e di giovani USA una diffusa ripulsa del capitalismo e una confusa domanda di “socialismo”. Questa parola, maledetta nella cultura dominante degli USA, ha fatto il suo ingresso nel vocabolario pubblico, quale che sia la sua reale traduzione politica. Il movimento sviluppatosi attorno ai Socialisti Democratici d'America è un portato di questo sentimento nuovo. I dirigenti e parlamentari riformisti legati a quel partito lo usano come arma di pressione e di scambio con il personale politico del Partito Democratico. Ma l'aspettativa di un proprio riconoscimento e ruolo nel nuovo governo, com'era da attendersi, non ha trovato spazio. E tutta la politica del nuovo governo di Wall Street sarà ogni giorno una doccia gelida per le vecchie illusioni nel Partito Democratico. I marxisti rivoluzionari degli Stati Uniti, nemici di Trump ma non per questo elettori di Biden, lavoreranno per dare al proletariato USA il proprio partito, e proporranno come suo programma l'unica vera prospettiva alternativa: quella di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici. La sola autentica rivoluzione americana.




Leggi qui la traduzione in inglese.

Partito Comunista dei Lavoratori