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Una lettura marxista rivoluzionaria dei fatti di Birmania

 


Il colpo di Stato militare in Birmania, la sollevazione popolare contro il golpe, la repressione sanguinosa del regime hanno riproposto all'attenzione del mondo la vicenda politica del Myanmar. Sarebbe il caso se ne occupasse anche la sinistra di classe di casa nostra, normalmente distratta sul versante asiatico, se non spesso per esaltare la Cina.


La dittatura militare non è un'esperienza inedita in Birmania. Raggiunta l'indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1948, il paese conobbe nel 1962 un primo golpe militare che instaurò un regime dittatoriale di lungo corso, protrattosi in forme diverse sino al 2010. Nel 2010 il regime attuò una cauta apertura “democratica”, per quanto controllata, che spianò la strada a elezioni parlamentari. Prima nel 2012, poi più ampiamente nel 2015, le elezioni videro l'affermazione della Lega Nazionale per la Democrazia (LND), un partito borghese liberale guidato da Aung San Suu Kyi, leader femminile di grande prestigio popolare perché più volte incarcerata durante la dittatura. Il suo governo ha guidato la Birmania dal 2015 sino al novembre 2020, quando nuove elezioni politiche, sancendo il largo primato della LND, hanno confermato il governo uscente. L'attuale colpo di Stato militare ha rovesciato il governo di Aung San Suu Kyi con l'accusa di brogli elettorali ripristinando il potere dell'esercito.


LA SOLLEVAZIONE POPOLARE CONTRO IL GOLPE

Il fattore che ostacola la stabilizzazione militare è l'imponente sollevazione popolare che si è prodotta contro il golpe.

La mobilitazione democratica contro il regime militare ha una sua storia in Birmania. Nel 1988 un enorme movimento prevalentemente studentesco scosse la dittatura, seppur al prezzo di una repressione brutale che fece oltre tremila morti. Nel 2007 una seconda mobilitazione di massa, fortemente influenzata nella stessa iconografia dal clero buddhista, mise a dura prova la tenuta del regime, spingendolo all'apertura liberale del 2010. Come dire che persino i precari spazi di democrazia borghese in Birmania sono stati un sottoprodotto della mobilitazione popolare.

Tuttavia la sollevazione di massa che si è oggi prodotta contro il nuovo golpe va ben al di là delle mobilitazioni precedenti, non solo per l'ampiezza del coinvolgimento di massa ma per la composizione sociale della rivolta.

L'estensione della protesta è enorme. Coinvolge la capitale Rangoun, baricentro economico del paese, ma anche Mandalay , la più grande città del Nord, e decine di centri minori della provincia birmana (Pegu, Lashio, Dawei, Myeik, Myawaddy...). La giovane generazione, maschile e femminile, è ovunque la protagonista delle piazze; i social sono stati, come nella vicina Thailandia, uno dei veicoli della ribellione e della sua rapida propagazione. Inoltre, a differenza del passato, tutte le sette principali etnie che compongono la popolazione birmana sostengono la mobilitazione in corso e ne sono partecipi. A queste si aggiunge la martoriata minoranza musulmana dei Rohingya, perseguitata e massacrata non solo dal regime ma anche dal governo della Lega Nazionale per la Democrazia, negli anni del suo compromesso con i militari. Non a caso il tentativo dei militari di cavalcare l'odio antimusulmano attribuendo le proteste al “complotto Rohinga” è ad oggi clamorosamente fallito.


LA CLASSE OPERAIA BIRMANA SULLA SCENA

Ma soprattutto, ciò che distingue la rivolta in atto dalle mobilitazioni del 1988 e del 2007 è l'irruzione della classe operaia.

La Birmania, assieme ad altri paesi del Sud-est asiatico, ha conosciuto una forte industrializzazione nell'ultimo decennio, anche per effetto della delocalizzazione degli investimenti imperialisti, in primo luogo cinesi, ma anche giapponesi, statunitensi ed europei. Lo Stato e l'apparato militare ha il diretto controllo dell'industria pesante, in compartecipazione azionaria con gli investitori stranieri, mentre la presenza privata domina l'industria leggera. La produzione tessile è il cuore della presenza industriale in Birmania, assieme alla lavorazione del legno e all'economia mineraria, in particolare del ferro. Proprio la classe operaia tessile e i lavoratori delle miniere sono oggi una spina dorsale del movimento, attraverso ampi e prolungati scioperi di massa. A questi si sono aggiunti i salariati dei trasporti, della scuola, della sanità. Lo sciopero dei lavoratori e delle lavoratrici di settanta ospedali in trenta città birmane misura l'ampiezza dell'agitazione.

Il regime appare socialmente isolato, non riuscendo a mobilitare una propria piazza. Due sono i suoi strumenti. Il primo è l'organizzazione delle squadracce di banditi (thugs), composte da sottoproletari armati di bastoni, pietre, coltelli, che a più riprese hanno aggredito le manifestazioni per intimidirle e disperderle. Il secondo sono le pallottole. L'ultima drammatica domenica di sangue, e la repressione di ieri, con 40 morti sotto il fuoco della truppa, dimostrano la determinazione omicida dell'apparato militare, ma anche la difficoltà a costruire consenso e dividere i manifestanti.


IL GIOCO DEGLI IMPERIALISMI, CINA INCLUSA

È importante osservare che la rivolta birmana si è prodotta sul terreno direttamente politico. Non nasce da rivendicazioni economiche e sociali immediate, ma dal rifiuto della dittatura e dalla rivendicazione delle libertà politiche e sindacali.

La Lega Nazionale per la Democrazia e la sua leader sono ad oggi il principale riferimento della mobilitazione. Lo scopo della LND è far leva sulla sollevazione per ottenere il proprio ritorno al governo della Birmania. A questo fine hanno un ruolo centrale le sue relazioni internazionali con gli ambienti dell'imperialismo statunitense, europeo, giapponese.
La sovranissima ENI dal 2014 ha quattro investimenti in Birmania nell'estrazione del gas. La Total francese ha una presenza ancora maggiore. In questi ambienti il golpe militare birmano non è affatto gradito. Sia perché produce instabilità sociale dagli sbocchi incerti – come i fatti dimostrano – che è l'esatto opposto di ciò che aveva promesso. Sia perché la casta militare birmana ambisce a tenere sotto il proprio controllo ampi settori dell'economia, che il capitale straniero vorrebbe liberamente spartirsi senza dover mediare coi militari.
Ma c'è una terza ragione per cui i governi imperialisti dell'Occidente e del Giappone mostrano ostilità all'esercito birmano: i suoi rapporti con l'imperialismo cinese. La Birmania è da tempo nell'orbita dell'influenza cinese, a dispetto in particolare delle ambizioni giapponesi. Non a caso la Cina è e resta oggi la principale sponda del regime militare birmano, l'unico tra i grandi paesi imperialisti che non ha deplorato il golpe e non ha minacciato sanzioni. Un episodio di cronaca illumina questa realtà. L'ambasciatore birmano presso l'ONU, Kyaw Moe Tun, si è pubblicamente dissociato dal golpe militare, tra gli applausi scroscianti di tutti i suoi colleghi tranne uno: l'ambasciatore cinese. Cinesi sono le tecnologie che armano la repressione del regime.

Lo scontro drammatico in Birmania dal punto di vista degli imperialismi è parte del contenzioso per l'egemonia in Asia.


DUE PROSPETTIVE OPPOSTE

Ma dal punto di vista del movimento operaio la sollevazione popolare in Birmania ha un contenuto progressivo inequivoco, come ogni mobilitazione democratica di massa. Non si tratta di determinarsi in base alle sue insufficienze o all'arretratezza della sua coscienza, si tratta di portare in quella lotta e nella mobilitazione internazionale a suo sostegno una coscienza anticapitalista e socialista.

Una sollevazione popolare è sempre terreno di scontro e manovra politica tra opposti interessi di classe. La Birmania non fa eccezione.

Sorpresa dalla ampiezza e dalla radicalità della rivolta la Lega Nazionale per la Democrazia cerca a suo modo di indirizzarla per subordinarla ai propri interessi. Un folto gruppo di deputati dell'ex Parlamento bicamerale (Senato e Assemblea nazionale) ha composto un Comitato, denominato nel suo acronimo inglese CRPH (Committee Representing Pyidaungsu Hluttaw). Il Comitato ha fatto appello alla popolazione perché perseveri nella disobbedienza pacifica ai militari e formi nei quartieri proprie amministrazioni popolari (Le Monde, 2 marzo). Nei fatti, potenzialmente, una sorta di doppio potere. Che sia un partito liberale a evocare questo scenario misura la frattura del blocco dominante, sotto la pressione della ribellione sociale.

Parallelamente nello stesso giorno si produce per la prima volta una defezione importante nell'apparato repressivo. Il capo della polizia di Rangoun, Tin Min Tun, si dimette dalle sue funzioni e si schiera con i manifestanti («Non voglio lavorare per il regime del colpo di stato»), mentre gli operai in sciopero delle miniere del ferro manifestano nella capitale. Una rottura interna al campo militare avrebbe ricadute decisive sullo sviluppo degli avvenimenti.

In questa dinamica imprevedibile c'è tutto lo spazio di una politica proletaria indipendente, in alternativa al liberalismo borghese. Una politica che ponga il tema del doppio potere in termini di autorganizzazione democratica di classe e di massa; che affronti la necessità dell'autodifesa delle manifestazioni dalle squadracce e dei militari, a dispetto del pacifismo buddhista; che intervenga sulle contraddizioni interne all'apparato militare, per favorirne l'approfondimento; che introduca nella ribellione democratica la rivendicazione dell'esproprio delle enormi proprietà economiche delle gerarchie militari, nel settore dell'industria, dell'estrazione mineraria, dell'agricoltura, e del capitale finanziario ad esse collegato. È la prospettiva di un governo operaio e contadino di aperta rottura con il capitalismo e con l'imperialismo.

Come ogni esperienza internazionale della classe lavoratrice, anche la rivolta birmana è una scuola di formazione per i militanti rivoluzionari. Costruire ovunque la più larga campagna di solidarietà con le masse birmane contro la giunta militare assassina è la prima necessità. Portare in questa campagna un punto di vista classista e internazionalista contro i diversi imperialismi in gioco è il compito delle avanguardie rivoluzionarie.

Partito Comunista dei Lavoratori