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ELEZIONI REGIONALI DELL’EMILIA ROMAGNA: LE NOSTRE INDICAZIONI DI VOTO

  Domenica 17 e lunedì 18 novembre si terranno le elezioni regionali dell’Emilia-Romagna. Il nostro Partito non potrà essere presente a qu...

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ELEZIONI REGIONALI DELL’EMILIA ROMAGNA: LE NOSTRE INDICAZIONI DI VOTO

 


Domenica 17 e lunedì 18 novembre si terranno le elezioni regionali dell’Emilia-Romagna.

Il nostro Partito non potrà essere presente a questa competizione a causa delle leggi elettorali antidemocratiche e che impongono un numero esorbitante di sottoscrittori per poter presentare la lista. In questo modo verrà a mancare sulla scheda elettorale la sola forza politica che si è sempre e solo schierata a fianco delle lavoratrici e dei lavoratori e non si è mai compromessa con accordi di governo sia a livello locale che nazionale contro i loro interessi.

Il significato politico di queste elezioni va oltre l’ambito regionale e assume un significato nazionale.

Anche se è molto probabile una riconferma del centro-sinistra alla guida della regione, essa come le altre che si stanno svolgendo, dalla Liguria all’Umbria, entra nel confronto tra il governo e l’opposizione in un quadro di rafforzamento del carattere bipolare del quadro politico

Dalla parte del governo si cercano di rafforzare le basi di consenso ad una linea politica che, al di la della becera propaganda post-fascista, raccorda una politica economica molto attenta alla contabilità degli interessi del grande capitale imperialista e di Confindustria, oltre che compatibile con i dettami europei, all’insegna dell’equilibrio dei conti pubblici, con un percorso di torsione autoritaria nei confronti del più ampio spettro delle mobilitazioni sociali e che colpisce in prima battuta lavoratori, sindacalisti, migranti, studenti,  attivisti per la Palestina e per l’ambiente (DDL 1660).

Questa torsione autoritaria rappresenta oggi un pericolo immediato per le ragioni di tutti i settori oppressi della società ed è per questo che il Partito Comunista del Lavoratori è impegnato nella costruzione unitaria, con altre forze politiche e sindacali, di ogni possibile mobilitazione per combatterla.

Dal lato dell’opposizione liberale dietro lanci propagandistici di misure quali ad esempio, il salario minimo o gli investimenti nella sanità, misure che questa parte politica si è ben guardata dal varare quando era al governo, e una postura di opposizione democratica nei confronti della gestione dei flussi migratori (caso Albania) e contro i decreti sicurezza del Governo, laddove su entrambi i  fronti PD e M5S non possono certo dire di avere la coscienza a posto, i risultati elettorali eventualmente favorevoli sono posti sul piatto di un accreditamento presso quello stesso grande capitale imperialista come compagine più credibile e seria di governo rispetto alla destra post-fascista.

Insomma, in gran parte il confronto tra governo e opposizione si riduce ad un teatro degli equivoci, ad una lotta tra concorrenti a rappresentare i medesimi interessi della classe capitalista e dove perciò nessuna delle due parti porta avanti i bisogni di milioni di salariati che rimangono ancora privi di una propria rappresentanza politica.

A livello locale le differenze tra le posizioni dei due poli si fanno ancora più sottili.

A ruoli invertiti qui in Emilia-Romagna è il centro-sinistra a rappresentare ed assicurare la continuità di governo mentre il centro-destra punta soprattutto ad una vittoria dell’alto valore simbolico e, come abbiamo detto, da spendere nei rapporti di forza tra governo e opposizione a livello nazionale.

Proprio l’Emilia-Romagna rappresenta un modello di governo compatibile e fruttuoso per gli interessi capitalistici.

Una Regione, quella emiliano-romagnola, governata da sempre dal Pd e dai suoi alleati e che si avvicina il più possibile ad una gestione dell’amministrazione pubblica funzionale al grande capitale e alla piccola e media industria, in altri termini all’interesse medio e trasversale del capitalismo emiliano.

La risultante di questa conduzione politica sono stati negli anni la speculazione edilizia, la cementificazione e il consumo di suolo responsabili insieme mancato intervento contro il dissesto idrogeologico dei grandi disastri dovuti alle recenti alluvioni.

Ma la cornucopia per il capitale non è finita qui: grandi opere inquinanti, privatizzazioni soprattutto in tema di sanità, precarizzazione del lavoro sono altrettanti capitoli dell’autentica rapina subita dalle classi popolari italiane a tutto vantaggio di padronato e finanza in un territorio per altro colpito da numerose crisi industriali e da un vertiginoso rincaro dei prezzi.

Persino sul terreno dell’edificazione della rapina sociale futura l’Emilia-Romagna si è distinta. Il suo governatore, Bonaccini, è stato infatti tra i primi promotori dell’autonomia regionale differenziata, ossia la secessione dei ricchi, seppur in salsa emiliana. Oggi il passaggio al contrasto dell’attuale legge varata dal governo, contrasto che però si limita ad una volontà di emendamento e non di abrogazione come invece vogliono i sottoscrittori del referendum, non cancella le responsabilità di un’amministrazione che persino su questa base si è posta in posizione ancillare nei confronti dei grandi interessi capitalistici.

L’Emilia-Romagna, perciò, viene esibita dal PD e dai suoi alleati come esempio di “buon governo”, di fruttuosa amministrazione e gestione dei conti pubblici anche in funzione di un accreditamento per il governo nazionale. Bisogna pero vedere a quale altare si portano i propri doni. In questo caso è chiaro: il capitale e le banche.

Il centrodestra, che parte svantaggiato, non ha sostanzialmente un programma di governo diverso. Dal punto di vista degli interessi che tutela la linea di fondo dell’attuale amministrazione può essere completamente riciclata. Il significato politico sarebbe porre l’eventuale affermazione, come abbiamo detto, sul piatto dei rapporti di forza tra governo e opposizione nazionali in funzione di un ulteriore rafforzamento del governo Meloni.

In definitiva scegliere tra De Pascale, centro-sinistra, e Ugolini, centro-destra, è come scegliere tra il gatto e la volpe. Le lavoratrici e i lavoratori emiliano-romagnoli non hanno nulla da guadagnare, e purtroppo tutto da perdere, dalla vittoria di uno dei due.

Se spostiamo lo sguardo a sinistra troviamo la lista Emilia-Romagna per la Pace, l’Ambiente e il Lavoro, che candida Federico Serra e che è sostenuta da Potere al Popolo, PCI e Rifondazione Comunista.

Questa lista, in contrapposizione sia al centro-destra che al centrosinistra, si presenta con un programma pieno di buoni propositi. Però rileviamo come, per essere un programma anticapitalista e non meramente riformista, manchi il protagonismo della classe lavoratrice e delle organizzazioni che vi fanno riferimento, la nazionalizzazione sotto controllo operaio delle aziende che licenziano, inquinano e ledono l’incolumità dei lavoratori, il controllo operaio delle condizioni di sicurezza sul lavoro e sugli uffici di collocamento. Insomma, mancano le fondamentali parole d’ordine di classe nella direzione di una piattaforma rivendicativa unificante al servizio della costruzione del più ampio fronte unico della classe lavoratrice.

Inoltre, il passaggio sul sostegno alla causa palestinese non è chiaro: infatti non compare la rivendicazione della liberazione del territorio palestinese dal fiume Giordano al mare e un appoggio chiaro alla resistenza sia in Palestina che nel Libano. Ciò accade a causa dell’attardarsi di forze come Rifondazione Comunista e del PCI sulla rivendicazione dei due stati per due popoli, rivendicazione oggi evidentemente fuori dalla storia, invisa alla resistenza palestinese e invece significativamente sostenuta tanto dal PD che dalla destra filosionista. Non certo una bella compagnia.

Ciò che vogliamo porre in discussione però non riguarda la caratura più o meno di sinistra del programma che in realtà rischia di rimanere lettera morta. Un programma per quanto radicale procede zoppicando sulle gambe di organizzazioni politiche su cui non si possa fare affidamento.

Il punto è che bisogna mettere alla prova questi partiti facendo un bilancio della loro condotta precedente, della coerenza o meno del loro posizionamento politico.

In questo bilancio, che questi partiti non fanno, ma che noi abbiamo il dovere di chiarire agli elettori di sinistra, deve essere posta la partecipazione a governi nazionali e locali in coalizione con partiti borghesi e nella fattispecie con il PD.

 Avviene ancora oggi che il PRC sia presente in coalizioni che comprendono il PD in molte giunte locali del territorio Emiliano Romagnolo (es. Forlimpopoli e Bertinoro).

L’attitudine alla ricerca di un compromesso con quelle stesse forze che in queste elezioni in termini del tutto propagandistici si dice di voler combattere è tanto più dimostrata dal tenore della discussione congressuale che sta lacerando Rifondazione Comunista e che è imperniata intorno alla possibile alleanza con il PD.

I riferimenti internazionali di queste forze politiche rafforzano, se possibile, l’impressione di ambiguità della loro collocazione politica.

L’infatuazione per il governo Tsipras e Syriza che tradi il movimento di massa che aveva detto un grande no al referendum sulle misure della Troika UE, l’ammirazione pe il governo PSOE-Podemos che ha aumentato a dismisura la precarietà lavorativa, proseguito le politiche persecutorie nei confronti dei migranti dei governi precedenti e ha aumentato le spese militari. Governi di “sinistra” che hanno finito per tradire le ragioni sociali della loro esistenza

Ma forse ciò che attrae di più l’ammirazione nei confronti di queste sinistre è proprio il loro essere di governo, ossia esemplificare perciò l’esito sperato della propria condotta politica, la possibilità di conseguire un risultato elettorale utile alla negoziazione di un accordo con il centro-sinistra con un successivo sperabile sbarco al governo.

Per tutti questi motivi vogliamo parlare chiaro ai compagni, elettori, iscritti e militanti di queste formazioni politiche e chiedere loro se al di là dei proclami che valgono lo spazio di una campagna elettorale, si possa riporre fiducia in dirigenti che proseguono la china già contrassegnata da innumerevoli disastri: quello della ricerca di un accordo con il centro-sinistra per strappare magari uno strapuntino nel cosiddetto “campo largo”. Se non sia giunto il momento di rifiutarsi di farsi prendere per il bavero ed invece incalzare i propri dirigenti per indurli ad una virata di 180° verso la lotta di classe e la prospettiva del governo delle lavoratrici e dei lavoratori, terreno sul quale troveranno il Partito Comunista dei Lavoratori sempre disponibile alla massima unità d’azione.

Ai compagni che ci obbiettano che un voto a sinistra sarebbe un segnale politico in quella direzione, rispondiamo che nessuna lista rappresenta coerentemente gli interessi della classe lavoratrice e dei settori oppressi e svantaggiati della società emiliana

Il centrodestra e il centrosinistra sono due cavalli per uno stesso scudiero: il grande capitale.

La lista di sinistra vuole conseguire un risultato, che, al di là dei buoni propositi, se positivo, finisca nel paniere da spendere al tavolo del campo largo ossia quel campo a guida PD autentico architrave della governabilità borghese.

Pertanto, diamo indicazione astensione al voto ed al contempo invitiamo le compagne e i compagni, le lavoratrici e i lavoratori, e tutte le organizzazioni che vi fanno riferimento a costruire il più ampio fronte unico della classe lavoratrice, l’unico che basandosi su una piattaforma rivendicativa anticapitalista, possa rovesciare lo svantaggio nei rapporti di forza con la classe capitalista e aprire una stagione nuova.

Una stagione nuova le cui conquiste possano essere portate avanti e garantite non da un governo di quel o quell’altro colore, ma da un governo di tipo nuovo: il governo delle lavoratrici e dei lavoratori.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

EMILIA ROMAGNA

USA. Dopo le elezioni

 


14 Novembre 2024

English translation

Le operazioni di voto delle dolorose e dispendiose elezioni americane 2024 sono terminate il 5 di novembre. La conta dei voti sta andando avanti mentre sto scrivendo, 10 novembre, ma i risultati generali sono chiari.

Donald Trump ha vinto il suo secondo mandato presidenziale. I repubblicani hanno la maggioranza al Senato e sembrano avviati verso una sottile maggioranza alla Camera dei Rappresentanti. L'equilibrio nei governatorati statali è invariato. Sette dei dieci referendum statali sull'aborto sono stati vinti dalla parte pro choice. In Florida, un'iniziativa a favore dell'aborto ha ottenuto il 57% dei voti, ma non ha superato la soglia del 60% per l'approvazione.

In questo articolo, che fa seguito al mio precedente, affronterò quattro domande: 1) Cosa è successo nelle elezioni statunitensi del 2024? 2) Perché è successo? 3) Cosa succederà dopo? 4) Cosa si deve fare?


CHE COSA È SUCCESSO NELLE ELEZIONI 2024?

Si stima che siano stati 154,8 milioni di persone ad aver votato alle elezioni statunitensi del 2024, su 244,7 milioni di aventi diritto al voto.
Un tasso di partecipazione del 63,3%. Questo dato è in calo rispetto al tasso di partecipazione del 2020, pari al 66,4%, ma è ancora piuttosto elevato per gli standard statunitensi.

Trump ha attualmente 74,7 milioni di voti, il 50,5% del conteggio. Kamala Harris ha 71,0 milioni di voti, il 48,0% del conteggio. Questi numeri cambieranno man mano che verranno conteggiati altri voti. Molto probabilmente Harris ridurrà il divario tra il suo totale e quello di Trump, dal momento che la maggior parte dei voti non conteggiati si trova in aree democratiche, ma il divario è troppo grande perché possa recuperare. Trump ha attualmente un vantaggio di 312 a 226 nel Collegio Elettorale, un dato che difficilmente cambierà.

I repubblicani hanno guadagnato tre seggi al Senato e probabilmente ne guadagneranno un altro, ottenendo così una maggioranza di 53 a 47. Finora i repubblicani hanno conquistato 213 seggi alla Camera, i democratici 205 seggi, in 17 competizioni sono testa a testa. Quando queste saranno decise, è probabile che i repubblicani avranno mantenuto la loro risicata maggioranza.

A livello statale, come già detto, nessun governatore è passato di mano, e le battaglie per il diritto dell'aborto hanno vinto in sette referendum, hanno ottenuto la maggioranza in otto e hanno perso solo in due.

L'attuale risultato di Trump, pari a 74,7 milioni di voti, è in leggero aumento rispetto a quello del 2020, pari a 74,2 milioni. L'attuale risultato di Harris, pari a 71,0 milioni, è in netto calo rispetto al conteggio di Biden per il 2020, pari a 81,3 milioni. Il divario potrebbe ridursi man mano che vengono conteggiati altri voti, ma il dato principale sembra chiaro: milioni di persone che hanno votato per Biden nel 2020 non hanno votato per Harris.

I tre candidati presidenti di sinistra hanno ottenuto quasi 900,000 voti: 699,151 per Jill Stein del Green Party, 124,635 per Claudia De la Cruz del Party of Socialism and Liberation (PSL), e 67,867 per Cornel West, un indipendente nero radicale.


PERCHÉ È SUCCESSO?

La sconfitta di Harris è in parte espressione del razzismo e del sessismo endemici nella politica statunitense e fomentati dalla demagogia di Trump. La candidatura di Barack Obama riuscì nel 2008 a superare la barriera razziale. La candidatura di Hillary Clinton non riuscì a superare la barriera di genere nel 2016. La candidatura di Harris non è riuscita a sfondare la doppia barriera nel 2024.

La sconfitta di Harris è anche un'espressione del funzionamento del sistema politico statunitense, già descritto in Capitalismo, democrazia ed elezioni americane del 2024. La separazione dei poteri, il sistema di pesi e contrappesi, il collegio elettorale, il Senato, l'ostruzionismo, la nomina a vita dei giudici della Corte Suprema, i diritti degli Stati, l'influenza corruttrice del denaro in politica, la porta girevole tra governo e imprese, i media istituzionali e tutti gli altri aspetti antidemocratici del sistema politico statunitense fanno sì che il governo possa fare solo ciò che la classe dirigente vuole.

Il risultato a livello federale è un'alternanza di governo tra i due partiti capitalisti, generalmente ogni otto anni. Un partito fa promesse, mobilita la sua base, viene eletto, non riesce a mantenere le sue promesse, scoraggia la sua base, non viene votato, dando all'altro partito il suo turno. L'alternanza tra democratici e repubblicani intrappola i lavoratori nella ricerca infinita del male minore.

Nel 2008, Barack Obama ha promesso un «change we can believe in» (cambiamento in cui credere), non è riuscito a mantenerlo e ha deluso la base democratica. Nel 2016, Hillary Clinton, Segretario di Stato di Obama, si è candidata come continuatrice dell'amministrazione Obama. Un numero sufficiente di elettori l'ha abbandonata e ha perso, consegnando la presidenza a Trump.

Nel 2020, Joe Biden è stato eletto grazie alla repulsione popolare nei confronti di Trump, ma questo ha interrotto, piuttosto che annullato, lo schema. L'amministrazione Biden ha prodotto pochi cambiamenti nella politica del governo, anche in materia di immigrazione, dove la retorica di Biden e Trump era molto diversa. Nel luglio 2024, l'amministrazione Biden è tornata alla politica di Trump di respingimento di tutti i richiedenti asilo al confine meridionale rimandandoli in Messico.

Nel 2024, Trump ha conquistato la maggioranza degli elettori bianchi della classe lavoratrice grazie a due temi principali: l'economia e l'immigrazione. L'amministrazione Biden si è vantata di quanto l'economia stesse andando bene: un “atterraggio morbido” dalla crisi del Covid. Ma per la maggior parte dei lavoratori, questo “atterraggio morbido” è stato un ritorno al punto in cui si trovavano sotto Trump prima del Covid, con la differenza che i tassi di interesse e i costi di cibo, energia e abitazioni erano adesso molto più alti. Per quanto riguarda l'immigrazione, l'amministrazione democratica è sembrata aver adottato la politica di Trump.

I democratici non hanno dato una risposta adeguata né sull'economia né sull'immigrazione. Non hanno potuto sostenere misure per redistribuire il reddito dai capitalisti ai lavoratori, perché sono nelle mani dei capitalisti. Non sono abbastanza coraggiosi da dire che gli Stati Uniti hanno bisogno di più immigrati per compensare l'invecchiamento della popolazione, e che gli immigrati hanno bisogno di pari diritti.

Harris e i democratici hanno fatto campagna elettorale principalmente sul tema della democrazia e sul diritto all'aborto. La democrazia era un argomento forte per i progressisti relativamente benestanti, ma aveva poca risonanza con la maggior parte degli elettori. I democratici erano troppo corresponsabili della deportazione degli immigrati, dello smantellamento degli accampamenti dei senzatetto, della militarizzazione della polizia e della repressione delle azioni di solidarietà con la Palestina per essere credibili. I loro tentativi di perseguire penalmente Trump hanno avuto l'apparenza di un utilizzo delle loro cariche per punire i loro nemici.

Il diritto all'aborto è stato il tema più sentito dai democratici. Trump ha dichiarato di essere stato contrario a un divieto di aborto a livello nazionale. e che porrebbe il veto se arrivasse sulla sua scrivania. Ma ci si può aspettare che sosterrà misure per impedire alle donne, negli Stati che vietano l'aborto, di ottenere aborti terapeutici o fuori dallo Stato. L'argomento aborto era forte, ma non era sufficiente.


COSA CI ASPETTA?

Se i repubblicani conquistano la Camera dei Rappresentanti avranno realizato una tripletta – la presidenza ed entrambe le camere del Congresso – e una maggioranza dia sei a tre alla Corte Suprema. Il secondo governo Trump si muoverà sicuramente per estendere i tagli fiscali per i ricchi varati dal primo governo Trump e destinati a scadere l'anno prossimo.

Cercherà di ridurre i regolamenti governativi sui limiti alle emissioni, alle trivellazioni e al fracking per il petrolio e il gas, e a quelli per promuovere i veicoli elettrici. I tagli saranno dannosi, ma il governo Biden non stava facendo neanche minimamente abbastanza. E l'amministrazione ha i suoi conflitti interni: il più grande sostenitore di Trump è Elon Musk, che guadagna miliardi vendendo veicoli elettrici.

L'amministrazione Trump renderà più duro il controllo delle frontiere, ma l'amministrazione Biden era già tornata alla politica trumpiana di respingimento dei richiedenti asilo. Trump parla di radunare e deportare gli immigrati privi di documenti, ma l'economia statunitense ha bisogno di loro, in particolare nell'agricoltura, nell'edilizia, nella lavorazione della carne, nei ristoranti e negli alberghi. Lo stesso Trump guadagna milioni di euro grazie a lavoratori senza documenti nei suoi hotel, casinò e campi da golf. Questo limiterà ciò che potrà fare, a parte sbraitare.

La Corte Suprema ha stabilito che gli Stati possono fissare le condizioni del diritto all'aborto. La maggioranza degli Stati ora protegge questo diritto, compresi i sette che hanno votato in tal senso quest'anno. Sarebbe molto difficile per i governi degli Stati anti-choice (anti-aborto) impedire alle donne di recarsi in altri Stati per abortire o di ottenere mifepristone e misoprostolo per aborti terapeutici.

Il Dipartimento di Giustizia di Trump tornerà probabilmente alla posizione del 2017, secondo cui il Titolo VII della Legge sui diritti civili del 1964, che vieta la discriminazione basata sul sesso, non si applica all'identità di genere. Negli Stati più progressisti, le persone transessuali saranno ancora protette dalla legge statale, ma i loro diritti saranno costantemente attaccati.

Nel complesso, Trump aspira a fare più danni di quanti ne possa fare. La sua amministrazione sarà crudele e odiosa, ma anche inetta. Probabilmente presiederà alla prossima recessione, che potrebbe condannare il prossimo candidato repubblicano.


CHE FARE?

L'elezione di Trump è un duro colpo, ma non è la fine della democrazia statunitense o della lotta di classe. La democrazia è ancora il miglior involucro possibile per il capitalismo, e il sistema bipartitico serve ancora molto bene i capitalisti. La lotta deve continuare nei picchetti e nelle strade.

I compiti dei rivoluzionari rimangono fondamentalmente quelli di prima: costruire sindacati e altre organizzazioni di massa, promuovere la democrazia e la militanza, guidare le lotte, smascherare il capitalismo, l'imperialismo e il sistema bipartitico, resistere al militarismo e alla guerra, creare solidarietà con la Palestina e impegnarsi in tutte le altre lotte contro l'oppressione, costruire partiti dei lavoratori, partiti rivoluzionari e un'Internazionale rivoluzionaria.


(traduzione di Antonio Banchetti)

Peter Solenberger

L'attività politica di Lenin (terza serata)

 


Martedì, 19 Novembre 2024 alle ore 20:45 - Circolo ARCI Fenulli via Fenulli 7/a-7/b Reggio Emilia

L'attività politica di Lenin (terza serata)


Periodo considerato:

AGOSTO 1914 - APRILE 1917
L'INIZIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
LA LOTTA CONTRO L'OPPORTUNISMO NELLA SECONDA INTERNAZIONALE
IL RITORNO IN RUSSIA DOPO LA RIVOLUZIONE DI FEBBRAIO

Dopo la relazione introduttiva ci sarà il dibattito.

Saranno utilizzati i seguenti scritti di Lenin:

- La guerra e la socialdemocrazia russa (1914)
- L'opportunismo e il crollo della Seconda Internazionale (1916)
- Il programma militare della rivoluzione proletaria (1916)
- L' imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916)
- Le "lettere da lontano" (1917)
- Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale (Tesi di aprile) (1917)

Sindacati inermi ai piedi del governo. A quando la 'rivolta sociale'?

 


Se si valutasse sulla base delle rispettive retoriche, si potrebbe dire che il lungo incontro governo-sindacati sulla Legge di bilancio 2025 sia finito con un uno a zero a favore del governo.


A pochi giorni dal grido di battaglia della rivolta sociale da parte di Maurizio Landini, si può dire che l'incontro di Palazzo Chigi sia stato un trampolino ben poco utile allo scatenamento delle piazze, se mai lo si sia inteso utilizzare in tal senso. Da un lato, CGIL e UIL non possono ovviamente che riconoscere l'inamovibilità e l'impermeabilità del governo, intenzionato a non arretrare davanti a una finanziaria perfettamente in linea con i desiderata dell'imperialismo italiano e della UE (tagli e prudenza di bilancio, con contorno di tasse non dichiarate). Dall'altro, il governo non può che avere gioco facile nel presentarsi come continuatore delle politiche di bilancio degli anni passati. «Abbiamo deciso di confermare e potenziare le principali misure introdotte negli anni precedenti [...] rendendone alcune strutturali, come peraltro veniva richiesto soprattutto dalle organizzazioni sindacali», annuncia Meloni. Il riferimento al taglio al cuneo fiscale reso strutturale è funzionale a dare un colpo anche ai sindacati, che ne hanno fatto per anni uno dei punti centrali della propria propaganda.

Quindi da una parte il governo che non solo rivendica continuità con le manovre precedenti (sottinteso rivolto ai sindacati: "dov'era la vostra rivolta ai tempi di Draghi e Conte?") ma che getta fumo negli occhi presentandosi come il governo che non tocca Ape sociale, Opzione donna e Quota 103; il governo che tassa banche e assicurazioni; il governo dei "sacrifici sì ma per tutti" (Giorgetti). Dall'altra i sindacati che arrivano all'appuntamento con tutte le proprie (poche e malandate) armi a disposizione spuntate. E spuntate non solo davanti alla retorica governativa, ma davanti ai fatti.

I margini sono quelli, gli spazi di modifica sono limitati, recita il ritornello, anche in salsa sovranista-meloniana. «Se si condivide l'impianto bisogna stare dentro quella logica», lamenta Landini al termine dell'incontro. «Quando uno ti dice "sì, sono disponibile al confronto, purché qualsiasi modifica alla legge [finanziaria] stia nell'ambito della legge che abbiamo deciso e dentro i margini economici che abbiamo definito", di che cosa stiamo discutendo? Che cosa ci avete chiamato a fare? Per cambiare che cosa?».

Già. La domanda potrebbe essere proficuamente rivolta allo stesso Landini e alle dirigenze sindacali. Cambiare che cosa? Al di là delle proposte nel vertice con il governo, dall'esito scontato, la piattaforma dell'annunciato sciopero generale del 29 novembre è illustrativa a riguardo. Imporre la questione salariale? La piattaforma non la nomina, confinando la questione ai soli aspetti, pur importanti, dei rinnovi contrattuali e della perdita del potere d'acquisto. Lotta all'inflazione? Landini giustamente critica l'aumento del 6% dell'accordo separato a fronte dell'inflazione al 17%, ma nel corso della stessa dichiarazione (!) loda l'accordo dei tessili appena firmato in cui l'aumento è fra... il 12 e il 13% (arrivando a vantare che «se c'è un aumento dei salari in questo anno è grazie al rinnovo dei contratti che il sindacato ha fatto con i datori di lavoro privati»). Mandare a monte la legge Fornero? CGIL e UIL, che pure riconoscono che si applicherà al 99,9% dei lavoratori, parlano di... «superamento» (rinunciando perfino, incredibilmente, a un minimo accenno ai propositi anti-Fornero del Salvini di qualche anno fa, ora al governo). Imporre misure per la sicurezza sul lavoro, magari con l'introduzione del reato di omicidio sul lavoro? CGIL e UIL si accontentano di chiedere genericamente di «cambiare la legislazione». Blocco dei licenziamenti? Sì, ma non si capisce come e in che prospettiva, visto che la rivendicazione, laddove si parla di non meglio precisati «investimenti per difendere l'occupazione», finisce per essere relegata in un inciso, quasi fosse una questione secondaria o subordinata. Cancellazione delle leggi di precarizzazione del lavoro? Figuriamoci, nella piattaforma per il 29 non c'è neanche un timido accenno al Jobs act o alle ultime misure. Campagna contro l'aumento vertiginoso delle spese militari? Nella piattaforma per il 29 non ce n'è traccia.

La «logica» del governo l'abbiamo capita, ed è la logica della gestione della crisi capitalista in epoca di declino, tensioni e guerre. La «logica» di Landini e Bombardieri, invece, continua a essere, nella migliore delle ipotesi, quella di un keynesismo fuori contesto e fuori tempo, cioè la speranza che l'aumento della spesa pubblica e una generica politica industriale (in mano a chi? Decisa da chi? In base a cosa? Per produrre cosa?) siano la panacea del disastro in corso.

È con morigerati appelli all'aumento della spesa pubblica che CGIL e UIL intendono combattere la logica del governo (e della UE, come Landini stesso ammette di sfuggita) che pure a parole contestano? È con la solita lista della spesa, sacrosanta ma priva di ogni baricentro, di ogni potere e di ogni leva di mobilitazione, che CGIL e UIL intendono sfidare questa logica?

Che ne è della "rivolta sociale", quando un momento dopo averla tirata fuori dal cassetto, Landini corre in TV a precisare che per lui la "rivolta" significa semplicemente che i lavoratori debbano «utilizzare tutti gli strumenti democratici che uno ha a disposizione per cambiare questa situazione»? Gli strumenti democratici a disposizione dei lavoratori sono ormai ben pochi, ovunque li si voglia andare a cercare, nelle piazze e sui luoghi di lavoro. Il governo a guida post-fascista si sta adoperando per far sì che siano ancora meno. Se «gli strumenti democratici» sono quindi alla base della "rivolta sociale" così come la intende e la immagina Landini, non sarebbe forse il caso di farne uno degli assi centrali della battaglia, invece di dimenticarsi del ddl 1660 all'ultimo punto della piattaforma?

La giornata del 29 novembre potrebbe e dovrebbe essere un momento in cui la rivolta sociale – quella vera e non quella al cloroformio vagheggiata da Landini – passi dalle parole ai fatti.

Partito Comunista dei Lavoratori

Dai fascisti in piazza alla canea governativa contro i 'rossi'

 


Sabato 9 novembre un corteo antifascista di circa mille compagne e compagni ha ritenuto doveroso contestare la presenza del corteo “patriota” dei fascisti di Casapound. Oltre all’elementare igiene antifascista, lo scendere in piazza era reso necessario dalla tradizione della città medaglia d’oro della Resistenza e teatro dell’orrenda strage fascista del 2 agosto 1980.


La presenza fascista è stata autorizzata dal questore, dipendente del Ministero degli Interni, ed era logico che anche il governo fosse coinvolto nella contestazione, così come le forze di polizia, massicciamente schierate a difesa del piccolo corteo fascista.
È in questo contesto che si sono verificati gli scontri, quantunque limitati, con la polizia in assetto antisommossa, dotata di grate ed idranti.

La responsabilità ricade interamente su chi ha voluto la manifestazione fascista, e a poche centinaia di metri dalla stazione di Bologna, dove è ancora visibile lo squarcio provocato dalla bomba del 2 agosto 1980.
Nondimeno la vicenda è stata presa a pretesto, nelle ore subito successive ai fatti, perché dai banchi del governo si scatenasse una rumorosa canea contro gli antifascisti, i centri sociali e in generale le “zecche rosse” che vi risiedono, colpevoli di aver dato la “caccia” al poliziotto.

Perché tanta veemenza? Crediamo che il livore governativo percorra la linea di condotta verso una stretta autoritaria della gestione dell’ordine pubblico e della libertà di manifestare. Su questo percorso troviamo infatti la proibizione della grande manifestazione a sostegno della causa palestinese del 5 ottobre, l’interrogazione parlamentare contro gli scioperi nella logistica e il SI Cobas, il DDL 1660 con il suo chiaro impianto repressivo e persecutorio, e oggi l’anatema contro i centri sociali, i comunisti e le “zecche”.

Non solo: è chiaro l’intento da parte del governo Meloni di associarsi alle forze di polizie proponendosi come il governo in cui possono riporre la loro fiducia, anche quando fosse necessaria assicurarsi l’impunità, come ad esempio quando accada che in piazza prendano ordini dai fascisti, cosa successa sabato, come ha testimoniato il video del SIULP.
Insomma, un governo che non si limita ad essere di polizia ma anche della polizia.

L’errore più grande in questi casi sarebbe indietreggiare. Le minacce del governo devono servire al contrario a ritrovarci sempre più numerosi nei prossimi appuntamenti di lotta, che sono numerosi e ravvicinati.
Sconfiggere la torsione autoritaria del governo è possibile, tentare è doveroso.
Il Partito Comunista dei Lavoratori assicura fin da subito la propria presenza determinata a tali appuntamenti

Partito Comunista dei Lavoratori

La rivolta sociale di Landini e la nostra

 


La differenza tra gli obbiettivi transitori e gli scioperi senza altro obbiettivo che la testimonianza

«È arrivato il momento di una vera rivolta sociale, avanti così non si può più andare». Così si è espresso Landini in vista dello sciopero rituale del 29 novembre di CGIL-UIL contro la manovra del governo.

Tuona, tra il comico e il patetico, la politica benpensante borghese: come si permette, il principale capo degli schiavi salariati d’Italia, a parlare di rivolta sociale? Lo stato dei padroni ha tutto il diritto di spremerli fino all’osso, togliendogli salario, sanità e pensioni, ma gli schiavi salariati devono stare buoni e subire in silenzio.

Sullo sfondo di tale scontro ci sta la preoccupazione del governo per lo sciopero nei trasporti. Nonostante le leggi antisciopero firmate da CGIL-CISL-UIL, con quello generale si rischia lo stesso di infastidire il Paese del profitto e dello sfruttamento. Richiamare Landini all’ordine capitalistico diventa quindi missione prioritaria per padroni, governo e i loro stupidissimi giornali.

La rivolta sociale è il numero della bestia proletaria per la borghesia. Solo evocarla, per gli alti papaveri neofascisti a libro paga del capitale, è indice di «irresponsabilità», si configura come «reato», è degna dei «dei cattivi maestri degli anni ‘70» (parole, tra le tante, di emerite cime quali Salvatore Sallemi, Tommaso Foti e Maurizio Lupi...), quelli che il popolo delle scimmie fasciste non han mai seguito, preferendo di gran lunga le scuole per vermi dello zoo di Predappio.

Pensate: lo stato italiano borghese, la dittatura spietata del capitale, dal 1861 trasuda ininterrottamente sangue di piazze, di guerre imperialiste e colonialiste, di rastrellamenti, di olocausti, di stragi e di strategie della tensione, ma appena qualcuno, due o tre gradini più in basso del sangue, lascia intravedere uno spiraglio di violenza, diventa uno stato di educande e di figli dei fiori.

Tajani è preoccupato e, quando si preoccupano, i borghesi si trasformano nei sindacalisti più temibili: «Sono rimasto molto dispiaciuto e molto, molto perplesso di un atteggiamento fondamentalista di alcuni sindacati», perché il sindacato «deve fare la sua parte e non ostacolare la tutela dei lavoratori». Naturalmente, a parer suo di zerbino del capitale, i sindacati che tutelano i lavoratori sono CISL, autonomi e UGL, insomma i sindacati dei padroni e dei fascisti: Tajani è il rappresentante perfetto delle loro vecchie corporazioni!

Come fai Landini, si domanda invece Salvini «a invitare alla rivolta sociale e allo sciopero generale quando aumentano gli stipendi dei tuoi rappresentati?». Aumentano così tanto che aumentano solo apparentemente tagliando le tasse ai padroni sul costo indiretto della forza-lavoro, cioè facendo aumentare i profitti, altrimenti il 29 in piazza scendeva Confindustria.

Completa il circo destrorso il numero della Premier che piange perché, non avendo il diritto alla mutua, è costretta a continuare a fare la spola tra Roma e Budapest cantando la solita solfa: «avanti fascisti de Buda, avanti fascisti de Pest, io sono fascista de Roma, chi c’è più fascista de me?». Non avendo mai mosso un dito in vita sua, crumira per vocazione naturale, non sa che i diritti si conquistano scioperando, non certo vantandosi di essere la miglior e improbabile discendente di Stachanov. Verrebbe da dirle, se non si scendesse nel ridicolo, che anche fosse può sempre scioperare con la CGIL per conquistarlo, oppure semplicemente può darselo da sola con una legge visto che è al governo. Non doveva, infatti, anche lei rivoluzionare l’Italia?

Attenzione: entrano in scena ora gli acrobati cosiddetti di sinistra. Schlein sta al fianco dei lavoratori, ma non proprio tutti, solo quei «tre milioni e mezzo di lavoratori e lavoratrici che non ce la fanno più e non arrivano a fine mese» perché non hanno quel «salario minimo» che Meloni nega ma che il PD non ha mai elargito quando era al governo, quindi praticamente quasi sempre. Poveri sì, sembra dire Schlein, purché non miserabili, altrimenti il suo cuore ricolmo di pietà borghese potrebbe soffrirne.

Fratoianni è apparentemente più serio: «La destra attacca i sindacati, ma non ascolta i lavoratori. Un capolavoro firmato Salvini e Meloni: oggi lavoratrici, lavoratori e sindacati del trasporto pubblico sono ancora una volta in sciopero. È la decima volta dall’inizio dell’anno. Da mesi tentano disperatamente di farsi ascoltare dal governo sul tema dei salari e dell’insicurezza. Non danno risposte, sviliscono ogni richiesta dei cittadini, attaccano tutte le forme di protesta e poi si sorprendono se cresce la rabbia». Se la destra non dà risposte, si potrebbe però domandare quale precisa rivendicazione dei lavoratori appoggi una maschera come Fratoianni, ma soprattutto perché la demandi al governo, visto che con le privatizzazioni selvagge della sinistra, andrebbero comunque richieste ai padroni. In ogni caso, siccome Fratoianni non lo dice, diciamo noi per lui che la sua unica preoccupazione è che ai lavoratori scorticati, sia dato almeno il diritto di protesta. Il programma della sinistra del capitale è tutto qua: salario minimo e diritto alla protesta! Dovremmo proprio essere dei lavoratori felici e cretini per marciare il 29 novembre al fianco di questa sedicente sinistra.

Di fronte a tali attacchi e a simili improbabili difese, come ha reagito Landini? «Non ho proprio nulla da rettificare, anzi voglio rilanciare con forza. Loro (il governo, nda) cosa stanno facendo? Stanno aumentando i soldi per comprare le armi, stanno aumentando la precarietà, stanno tagliando e stanno favorendo quelli che evadono il fisco. E questo sarebbe possibile mentre non è possibile dire che c’è bisogno di una rivolta sociale? Aggiungo che ci siamo rotti le scatole, perché non è più accettabile che quelli che tengono in piedi questo Paese siano quelli che non sono ascoltati e che non vengono rappresentati»Se non del tutto giusto, direbbe la ben nota canzone di rivolta, quasi niente sbagliato. Non si dimentichi però che mancano ancora due settimane allo sciopero generale. Già l’anno scorso, di fronte al Garante dello sfruttamento, CGIL e UIL avevano ridotto lo sciopero nei trasporti, quindi non v’inganni la voce grossa del Segretario CGIL, tra quindici giorni sarà come minimo più bassa di due o tre toni.

Infatti accanto a questa presa di posizione apparentemente perentoria, stanno altre ben più significative esternazioni che illustrano meglio il contenuto reale della rivolta sociale alla Landini. Ospite a Radio 1, a chi gli domandava se la sua rivolta sociale fosse violenta, Landini ha risposto: «violento è il governo che sta investendo nelle armi. Quando mai i sindacati non hanno operato in modo pacifico?». La rivolta sociale di Landini, insomma, è qualcosa a metà strada tra la rivolta programmata a tavolino e la protesta vagamente gandhiana, non violenta per il semplice fatto che Gandhi non era un emulo di Gesù Cristo ma dei borghesi inglesi, terrorizzato come tutti i borghesi che i lavoratori scavalcassero le sue rivendicazioni nient’affatto proletarie. E siccome Landini non è Gesù Cristo e nemmeno quel finto non violento di Gandhi, la sua rivolta sociale è solo un’esternazione da riformista che, come tutte le cose dei riformisti, non ha niente di reale.

Questo aspetto lo si vede ancora meglio nella sua concezione dello sciopero. Secondo Landini gli scioperi si potrebbero evitare: «Per impedire gli scioperi bisogna dare le risposte ai lavoratori, ai cittadini. Se il governo vuole evitarli, deve rinnovare i contratti, mettere le risorse necessarie e accettare il confronto con i sindacati, cosa che non sta facendo». Un po’ come dire: date una crocchetta ai cagnolini e i cagnolini smetteranno di abbaiare.

Sarebbe ingeneroso e assolutamente falso dire che Landini pensi i suoi tesserati come cani, ma è indubbio che pensi allo sciopero come qualcosa di avulso dalla dinamica viva della lotta di classe. La nostra concezione, quella marxista, perfettamente aderente alla lotta di classe così com’è, è l’esatto opposto: una rivendicazione conquistata, a noi serve da leva per accelerare la conquista della rivendicazione successiva. È il metodo degli obbiettivi transitori, concetto che non è semplicemente un’idea di Trotsky, ma la trascrizione su carta marxista della reale lotta di classe rivoluzionaria che è tale anche quando apparentemente sembra assopita. Nel riformista Landini, lo sciopero è chiamato, nella migliore delle ipotesi, in vista di stopparla, non per accompagnarla e tirarla. È in questo freno a monte che i Landini di tutti i tempi e le latitudini, non avendo altro orizzonte al di là di un capitalismo ideale, finiscono per transitarci, di manifestazione all’acqua di rose in manifestazione all’acqua di rose, nell’unico capitalismo reale che conosciamo: quello che peggiora le nostre condizioni di anno in anno anche grazie alle loro mobilitazioni testimoniali, a ricordo dell’ennesima sconfitta che stanno preparando.



Nota – Non vorremmo essere fraintesi - perché c'è sempre qualcuno che non vede l'ora di fraintedere! - nel 1956 ungherese noi sì che stavamo coi ragazzi ungheresi, non come i Pingitore che stavano comunque contro.

Lorenzo Mortara

Crisi di governo in Germania: la SPD stacca la spina

 


Articolo originariamente pubblicato da ArbeiterInnenmacht.



Mercoledì, ore 21:25: Scholz si presenta nella Cancelleria davanti alle telecamere. Con il suo consueto tono asciutto, spiega la notizia che pochi minuti prima era apparsa sui media: in qualità di cancelliere ha sollevato dall'incarico il ministro delle finanze Christian Lindner. Questo passo – dice – è necessario per evitare danni alla Germania e per non lasciarla sprofondare nel caos. La riluttanza di Lindner al compromesso non serve al Paese, ma a salvare il proprio partito. Parole pesanti, che arrivano inaspettatamente dalla SPD. Significano infatti la fine del governo semaforo [SPD-verdi-liberali]. Ma cosa è successo, e quali avvenimenti si nascondono dietro la crisi di governo?


COSA È SUCCESSO?

Si possono ricordare malignamente le parole di Lindner: «È meglio non governare che governare male». Perché da mesi c'era la crisi, e ci sono state molte sportellate da parte dell'opposizione, come ad esempio da parte di Markus Söder [leader dei cristiano-sociali bavaresi della CSU]. Anche Merz [leader della CDU] ha fatto del suo meglio per spingere avanti il governo. La cronologia delle controversie è lunga: legge sul riscaldamento, fondi di investimento, assistenza infantile di base, sussidi sociali e infine la questione del bilancio. I partiti di governo si sono ripetutamente bloccati a vicenda e hanno cercato di far valere le loro posizioni attraverso dichiarazioni pubbliche. Da settembre le crepe sono diventate ancora più evidenti. Lindner, bypassando i suoi colleghi, ha pubblicato un documento di 18 pagine per una politica economica completamente diversa da quella prevista nell'accordo di coalizione.

Eppure la fine è arrivata piuttosto all’improvviso. Mentre Habeck [vicecancelliere, Verdi] e Scholz hanno cercato di fingere unità dopo l'elezione di Trump e hanno dichiarato che ora la Germania deve dimostrare la sua capacità di agire, la sera stessa di quel giorno non è rimasto molto di quelle dichiarazioni. Se si crede alle parole di Lindner, anche lui è sembrato del tutto sorpreso dal fatto che dopo mesi di insistenze da parte dei liberali e di umiliazione pubblica da parte degli ex "partner", il governo di coalizione non sia finito con l'annuncio congiunto e "composto" di nuove elezioni, ma con il suo licenziamento da ministro. Che questo sia una messinscena o meno, non ha importanza. È chiaro che questo esito ha qualcosa di positivo, almeno per SPD e FDP: ora hanno la possibilità di incolparsi a vicenda per la fine del governo. Per una volta Scholz ha ricevuto una standing ovation nel gruppo parlamentare SPD per la rottura con la FDP. A sua volta, la FPD ha dato manforte al suo leader, almeno esternamente. I Verdi invece sembrano i meno preparati, perché sono loro stessi alla ricerca di nuovi leader. Per loro la prevedibile e prematura rottura della coalizione arriva in un momento inopportuno, e si è visto.


IL NOCCIOLO DELLO SCONTRO

Non sorprende quindi che Scholz abbia utilizzato il suo discorso come lancio della campagna elettorale per la SPD. Ha delineato il suo piano salva-paese in quattro punti: 1) limitare gli oneri di rete per le “nostre” aziende; 2) garantire posti di lavoro nell'industria automobilistica e nell'indotto; 3) bonus per investimenti e opzioni di defiscalizzazione per le aziende; 4) sostenere l’Ucraina indipendentemente dagli Stati Uniti.

Se si confrontano gli interventi di ieri sera di SPD, Verdi e FDP, si capisce subito dove risiedono le differenze: qual è la loro posizione sul freno all’indebitamento? Deve essere messo da parte per poter garantire i mezzi per un maggiore sviluppo economico, ulteriori forniture e spese per armamenti e allo stesso tempo per finanziare ammortizzatori sociali e massiccie ristrutturazioni aziendali.

La fine prematura della coalizione semaforo evidenzia la crisi nel panorama dei partiti borghesi in considerazione della difficile situazione economica in Germania. La questione centrale è chi dovrebbe pagare i costi (e perché il debito dovrebbe essere contratto). Per quanto riguarda il percorso di riarmo e di militarizzazione, la FDP in realtà non ha alcuna differenza con la SPD, anzi è ancora più guerrafondaia, ma sostiene che il riarmo non dovrebbe essere pagato con nuovo debito, bensì attraverso rigorosi tagli sociali che riguardano redditi, fondi per i rifugiati, età pensionabile e rapporti di lavoro “troppo regolamentati”.

La FDP ha le idee chiare a riguardo, che Lindner presenta anche nel suo documento “trapelato”. Attacchi programmati al diritto di sciopero, attuazione gelida del freno all’indebitamento, ulteriori tagli nel settore sociale. La classe operaia e gli oppressi dovrebbero pagare – e con la massima intensità, non in modo misurato, come hanno in mente la SPD e i Verdi. In nessun caso dovrebbero esserci aumenti delle tasse per le aziende. La SPD e i Verdi, invece, sostengono un percorso in classico stile keynesiano: meglio contrarre più debito e, come ha detto Scholz, non contrapporre la “sicurezza interna ed esterna”. Perseguire quindi gli interessi dell’imperialismo tedesco usando la gommapiuma.

Dato che la FDP è scesa a meno del 5% durante il periodo di permanenza al governo, e ha avuto uno spettacolare tracollo in tutte le elezioni statali (länder), questo dibattito è per loro anche una questione di sopravvivenza. Il partito non solo ha subito negli ultimi mesi uno spostamento a destra, in cui anche la leadership di Lindner è stata messa in discussione, ad esempio attraverso iniziative come “Weckruf Freiheit” [Sveglia Libertà], ma non si arrenderà a nessuna concessione sul tema del freno all'indebitamento, arrivando fino alla possibilità di sciogliere la coalizione, se necessario. In ciò i liberali mostrano un attaccamento nei confronti del proprio elettorato, cosa che alla SPD e alla Linke manca da anni.

Allo stesso modo, ci sono sempre state differenze nell’orientamento tra socialdemocratici e liberali. Il fatto che ciò porti questa volta a una crisi di governo ha cause più profonde della perdita di voti del FDP.


LA CRISI DELLA REDISTRIBUZIONE COME OSTACOLO AGLI INVESTIMENTI

Quando si formò la coalizione “progressista”, non c’era nessuna guerra in Ucraina o a Gaza. Vista in questo senso, la coalizione al governo è vittima anche della svolta annunciata allora dallo stesso Scholz. Perché nel mezzo della guerra, dell’inflazione e della recessione, non è facile essere condiscendenti. Perlomeno non se ci si limita alla realpolitik parlamentare e se si tengono ben presenti gli interessi della classe dirigente, che vengono glorificati come “la nostra economia”.
La crisi della redistribuzione ha come sfondo lo sviluppo economico successivo alla crollo finanziario del 2007/2008. Anche se questa crisi potesse essere rallentata attraverso misure anticicliche e l’espansione del credito e del debito, ciò avverrebbe solo al prezzo di perpetuarne le cause: calo dei tassi di profitto e sovraccumulazione di capitale. Con la recessione globale simultanea dovuta alla pandemia del coronavirus e alla guerra in Ucraina, la situazione per l’imperialismo tedesco, che fino ad allora era riuscito a resistere abbastanza bene, è peggiorata. L’aumento dei prezzi dell’energia ha causato enormi problemi a una nazione esportatrice. A ciò si aggiunge la pressione della competizione e la necessità di innovare in uno dei settori chiave dell’industria tedesca, l’industria automobilistica. Abbiamo esaminato più in dettaglio la situazione attuale nell'articolo “Düstere Wolken“ (1).

Il risultato, tuttavia, è che l’attuale recessione, combinata con lo sviluppo economico degli ultimi anni, ha ridotto enormemente il margine di manovra del Sozialpartnerschaft [modello di "collaborazione sociale" formale fra governo, sindacati e imprese] così com'è finora esistito in Germania, mettendo così in discussione anche i rapporti politici ed economici tra le classi.


DIVISIONI DELLA BORGHESIA TEDESCA

Un altro effetto di questo scenario è lo spostamento internazionale verso destra. Nel corso della crisi è aumentata la concorrenza tra le diverse frazioni del capitale, e la situazione della piccola borghesia e delle classi medie salariate è diventata più insicura e instabile, cosa che si è espressa, ad esempio, in Germania con la fondazione dell’AfD. Allo stesso tempo, durante l’era Merkel, l’imperialismo tedesco ha cercato di manovrare nella politica internazionale tra gli Stati Uniti da un lato e Russia e Cina dall’altro, cosa che a sua volta rifletteva le differenze all’interno della classe dominante sulla direzione strategica della Gemania e dell'UE. Con l’aumento degli scontri interimperialisti e la formazione di blocchi di potenze, ciò è diventato più difficile. La guerra in Ucraina rappresenta qui un punto di svolta, perché un’alleanza strategica con la Russia, come avevano cercato di fare Kohl e Schröder, ma anche in parte i governi Merkel, è ormai molto lontana. Ma le cose non sono rimaste ferme a questo punto, perché la vittoria di Trump alle elezioni americane ha messo naturalmente in discussione anche l'orientamento transatlantico della Repubblica Federale Tedesca e dell'UE. Il problema è chiaramente evidente nella politica ucraina. Da un lato, il sostegno all’Ucraina è garantito come un mantra, e la CDU/CSU ne chiede l’aumento. Dall'altra parte, la Germania stessa non può ovviamente sostituire gli Stati Uniti, e una guerra permanente in Europa rappresenta in realtà più un peso che un vantaggio strategico (come pensano apertamente AfD e BSW [il partito di Sahra Wagenknecht] e, velatamente, settori della SPD e della CDU).

Anche se gli attuali partiti della coalizione e la CDU evitassero di ridefinire una politica nazionale prima di nuove elezioni, è difficile immaginare che l’UE possa attuare una politica alternativa alla pacificazione con Putin sotto la guida di Trump. Le dichiarazioni di sostegno all’Ucraina hanno quindi un carattere contraddittorio. I partiti cercano di farsi un nome come potenza protettrice “umanitaria” e allo stesso tempo, negli ultimi anni, hanno annunciato di prendersi in carico l'economia del paese e la ricostruzione dell'Ucraina occidentale con capitale tedesco e statunitense. In ogni caso, vogliono anche il riarmo ucraino in prima linea con la Russia (che poi attraverserebbe effettivamente il loro attuale territorio). D’altro canto, non è possibile permettersi una guerra permanente dal punto di vista economico, politico e militare senza il sostegno degli Stati Uniti.

Indipendentemente dalla situazione in Ucraina, ciò porterà a una imponente accelerazione del riarmamo europeo (compreso un possibile dibattito sull’“indipendenza nucleare della Repubblica Federale Tedesca”), a un nuovo tentativo di rendere l’industria degli armamenti dell’UE più competitiva e quindi, a lungo termine, un rafforzamento dell’Europa, cioè il dominio tedesco nell’UE. Tuttavia, il problema della borghesia tedesca è che non ha una reale idea strategica comune su come questa politica possa essere attuata. Questa divisione, alla fine, ha permeato anche il governo SPD-verdi-liberali, anch'esso caduto a causa di queste contraddizioni.


QUAL È IL PROSSIMO PASSO?

Il capogruppo parlamentare del Partito Liberale Christian Dürr ha annunciato mercoledì sera che tutti i ministri del suo partito avrebbero presentato le loro dimissioni al Presidente della Repubblica. Così accade. Tranne il ministro dei Trasporti Wissing (ora indipendente), si dimettono tutti. Per alcuni, come il ministro dell’Istruzione Stark-Watzinger, questo potrebbe anche essere utile ad evitare ulteriori scandali. Scholz vuole fissare il voto di fiducia la prima settimana della sessione del Bundestag del nuovo anno, cioè il 15 gennaio 2025. Ciò dovrebbe poi consentire nuove elezioni alla fine di marzo. La SPD vuole presentare i progetti di legge più importanti entro Natale. Da parte loro, si vorrebbe un governo di minoranza rosso-verde (SPD-Verdi), anche per poter utilizzare il Bundestag come arena della campagna elettorale.

Se ciò sia fattibile o meno dipende molto dalla benevolenza della CDU. Merz preferirebbe nuove elezioni subito, poiché è una delle forze che ne trarrebbero maggior beneficio, e non vedrebbe l’ora di corteggiare Trump da futuro membro del governo (preferibilmente come Cancelliere), e facendo questo, proteggere in qualche modo anche gli interessi tedeschi, ad esempio attreverso la sua proposta di pace in Ucraina. Resta da vedere se il piano Scholz funzionerà.


CHANCES DI VITTORIA PER GLI ALTRI

In passato Merz è stato molto capace di promuovere se stesso e a condizionare il governo. Secondo il quotidiano Bild, già da due settimane la CDU/CSU si sta preparando alle elezioni anticipate. E le principali associazioni imprenditoriali, come l'associazione del commercio estero (BGA) e l'associazione dell'industria chimica, si sono subito dette d'accordo con l'appello di Merz per nuove elezioni in tempi brevi.

Naturalmente, anche Sahra Wagenknecht sarà in campo: dopo tutto, già ora in Brandeburgo e in Sassonia per loro si pone la questione del governo, e i negoziati per una coalizione possono essere condotti molto meglio se la forza è rappresentata più fortemente nel Bundestag. E prima i negoziati avranno luogo, prima Sahra Wagenknecht potrà smettere di pensare al tipo di coerenza che le sarà necessaria per racimolare più voti possibili.

Alternative für Deutschland trarrà il massimo di beneficio dalle elezioni. Non solo perché continuerà a insistere sull'idea che vede le coalizioni semaforo come una porcheria, ma anche sulla questione della pace. Perché mentre la SPD e i Verdi, ma anche la CDU/CSU e la FDP continueranno a suonare il corno di guerra, AfD e BSW agiranno come partiti pacifisti per quanto riguarda l'Ucraina, e allo stesso tempo continueranno ad assicurare a Israele la sua solidarietà.

La Linke avrà vita più dura. Non solo la visita di Jan van Aken [nuovo co-leader della Linke] in Ucraina ha creato più interrogativi che chiarezza su come si intende effettivamente raggiungere la pace. Ma è soprattutto il partito il cui stato organizzativo è attualmente nelle condizioni peggiori. La Linke si sarebbe potuta rialzarse se le elezioni federali si fossero tenute a settembre, ma le elezioni anticipate rendono più probabile una sua fine prematura.


CHE FARE?

Le prossime elezioni e la formazione del governo decideranno il prossimo corso della Germania. Una cosa è chiara: ci saranno attacchi sociali, con o senza una politica di ammortizzazione da parte della SPD e dei Verdi. Per questo motivo è necessario non aspettare passivamente che si svolgano le elezioni e si consolidi un nuovo governo. Ora dobbiamo piuttosto dire chiaramente: non pagheremo le vostre guerre e le vostre crisi! Stop alla collaborazione sociale, ai licenziamenti di massa e al freno all’indebitamento!

Le autorità statali e locali stanno già operando tagli imponenti, soprattutto nelle spese sociali. La riforma sanitaria porterà anche tagli ai posti di lavoro e licenziamenti, che avverranno non solo nel settore automobilistico. Per respingere con successo questi attacchi è necessaria una rottura con la politica di collaborazione di classe, specialmente quella dei sindacati, e una conferenza d’azione contro la crisi, nella quale la sinistra tedesca discuta su quali rivendicazioni utilizzare per indicare una via d’uscita dall’attuale miseria: attraverso vertenze di contrattazione collettiva e azioni indipendenti. Abbiamo bisogno di una discussione su quale tipo di partito, quale programma, quale politica sono necessari per combattere la crisi. Il crollo della coalizione semaforo, il declino dell'SPD e della Linke rendono chiaro che non dobbiamo semplicemente costruire una resistenza di massa organizzata, ma allo stesso tempo, dobbiamo lottare per un'alternativa rivoluzionaria al riformismo, per la costruzione di un partito rivoluzionario dei lavoratori.


(1) https://arbeiterinnenmacht.de/2024/10/29/brd-wirtschaft-duestere-wolken/

Jaqueline Katherina Singh