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Legge di bilancio. Bilancio della legge

 


Una cartina al tornasole della società capitalista, e della natura di chi la governa. Del governo Meloni e non solo

23 Dicembre 2025

Depositata la polvere delle tormentate schermaglie parlamentari, la legge di bilancio del governo Meloni appare per quello che è: un regalo a Confindustria e al capitale finanziario pagato dai lavoratori e dalle lavoratrici.

Come già avevamo osservato al piede di partenza della legge, la sua ossatura è dettata dalla volontà di uscire dalla procedura di infrazione europea. Rientrare sotto il tetto del 3% di deficit è stato l'imperativo categorico del governo.
La ragione immediata di questo imperativo è stata candidamente dichiarata dallo stesso governo: uscire dalla procedura d'inflazione è la condizione prevista per poter attingere al prestito europeo SAFE ai fini del grande riarmo. Per l'Italia un ricorso obbligato. Perché a differenza dell'imperialismo tedesco, l'Italia non dispone dei margini di bilancio necessari per finanziare autonomamente il proprio riarmo. Ha bisogno di credito agevolato. Tutto il complesso militar-industriale tricolore, da Leonardo a Fincantieri, in piena espansione di affari e di utili, ha esercitato in questo senso una pressione decisiva. E Fratelli d'Italia, Crosetto in primis, ha costruito con questo mondo, e non da oggi, una relazione politica privilegiata.

Ma non è questa la sola ragione dell'impostazione “austera” della manovra di bilancio.

Il debito pubblico italiano continua a crescere. La produzione industriale è in ritirata. I 190 miliardi di PNRR non hanno garantito il rilancio economico ma solo evitato la recessione, e per di più si esauriscono nel 2026, mentre la BCE ha ridotto in termini strutturali l'acquisto dei debiti pubblici nazionali, debito italiano incluso.
Devo collocare ogni anno 400 miliardi di titoli sul mercato finanziario, e i tassi d'interesse previsti non sono più a zero o sotto zero come qualche anno fa” ha dichiarato Giorgetti nel suo discorso di replica in Parlamento. È vero. Per pagare ogni anno circa 100 miliardi di interessi sul debito a banche, assicurazioni, fondi finanziari – grandi acquirenti dei titoli di Stato – bisogna rendere i titoli appetibili. E per renderli appetibili occorre offrire garanzie ai creditori, cioè “i conti in ordine”. Per questo il giudizio positivo delle agenzie di rating sul rigore finanziario della manovra è la medaglia che Giorgetti e Meloni si appuntano al petto.

La nostra prudenza di oggi servirà anche ai governi futuri, a chi eventualmente verrà dopo di noi” dichiara il ministro dell'Economia con ammiccamento bipartisan. E i partiti borghesi di opposizione, critici su altri aspetti, non hanno minimamente contestato il rigore sui conti, al contrario. Non è un caso, essendo stati negli anni e decenni i principali garanti dell'austerità.
Peraltro il governo ha ringraziato pubblicamente il “senso di responsabilità delle opposizioni” in Commissione Bilancio per aver evitato ogni forma di ostruzionismo e il relativo ricorso all'esercizio provvisorio. Tra gentiluomini del capitale tutto torna, al di là delle parti in commedia.

Tuttavia, la quadratura del cerchio per il governo Meloni è stata più difficile che in altre occasioni. Con la seconda amministrazione Trump, e il potente rilancio del protezionismo, la competizione capitalistica sul mercato globale si è inasprita pesantemente a ogni latitudine. In particolare per l'Europa, stretta sempre più nella morsa tra dazi USA e “invasione” cinese. E ancor più per l'Italia, massicciamente esposta sul versante delle esportazioni (essendo ormai il quarto esportatore mondiale). Da qui le pressioni incalzanti di Confindustria sul governo Meloni per incassare aiuti “vitali”: in fatto di ulteriori agevolazioni fiscali, cancellazione di vincoli (in particolare ambientali), altre liberalizzazioni di mercato, riduzione dei costi dell'energia, apertura di nuovi mercati (Mercosur).
Una pressione peraltro presente in tutti i paesi su tutti i governi da parte dei capitalisti di ogni bandiera.

Il governo Meloni ha raccolto il grido di dolore delle imprese in cambio del loro sostegno politico. La legge di bilancio parla chiaro: Confindustria ha incassato un iper-ammortamento triennale per l'acquisto di macchinari, compensazioni per il caro materiali in edilizia, l'estensione dei vantaggi fiscali della ZES (Zona Economica Speciale) all'intero territorio nazionale, l'impegno italiano in sede europea per ridurre ulteriormente i vincoli della cosiddetta transizione ambientale (già peraltro in piena ritirata continentale). In tutto altri tre miliardi e cinquecento milioni versati nelle tasche dei padroni, dopo anni di profitti sontuosi e arricchimenti di Borsa. Non a caso il nuovo Presidente confindustriale Orsini ha dichiarato pubblicamente la propria soddisfazione, confermando l'appoggio politico al governo.

Il conto lo hanno pagato i lavoratori e le lavoratrici, con l'ulteriore aumento di fatto dell'età pensionabile, i colpi assestati ai lavoratori precoci e usuranti, la cancellazione anche formale di Opzione donna, e persino l'abolizione della possibilità di uscire dal lavoro cumulando contributi INPS e previdenza complementare. Oltre ai tagli di 7 miliardi ai ministeri in tre anni, con ricadute a pioggia su enti locali e servizi, e all'aumento di numerose imposte indirette. Una rapina. Tanto più clamorosa se compiuta da coloro che dovevano “abolire la Fornero” e “cancellare le accise”.

Abbiamo fatto pagare ben 11 miliardi alle banche e alle assicurazioni!” rispondono Salvini e Meloni. Nulla di più falso. La verità è opposta. Metà di quella cifra è solo un anticipo di liquidità che sarà recuperato dopo il 2029, o una ritenuta anticipata (0,5% nel 2028, 1% dal 2009) per i pagamenti tra imprese. Il resto è un aumento irrisorio dell'IRAP del 2% spalmato su tre anni, a fronte di profitti netti di oltre 50 miliardi realizzati dalle banche in un solo anno. Una carezza. In cambio, le assicurazioni incassano l'obbligo della polizza per eventi catastrofali, il trasferimento del TFR ai fondi pensionistici privati attraverso il meccanismo truffa del silenzio-assenso, la liberalizzazione degli investimenti dei fondi pensionistici privati in tutti i settori, dalle infrastrutture alla sanità. Ma soprattutto incassano la certezza del pagamento del debito pubblico, di cui assieme alle banche sono i principali acquirenti.

Del resto, la grande corsa alla riduzione delle tasse sui profitti, praticata in tutto il mondo per attrarre gli investimenti – in una spietata concorrenza tra gli Stati capitalisti (all'interno della stessa UE) – è la base strutturale del crescente ricorso all'indebitamento pubblico degli Stati borghesi con le banche, a vantaggio del capitale finanziario.

L'oro di Banca Italia è del popolo” esclamano Meloni e Salvini per ingannare gli sciocchi. La verità è che l'”oro del popolo” è quello rubato quotidianamente a chi produce la ricchezza e versato nel portafoglio dei capitalisti, banche incluse. La legge di bilancio lo documenta una volta di più. In questo senso è una cartina al tornasole della società capitalista e del governo che la presiede (come di ogni governo) quale suo comitato d'affari.

La conclusione è semplice, se guardiamo le cose dal versante del movimento operaio. Non si tratta di rivendicare “un'altra politica economica”, come ripetono instancabilmente le sinistre riformiste di tutte le salse quando stanno all'opposizione (salvo poi una volta al governo realizzare inevitabilmente le stesse politiche). Si tratta di battersi per un'altra struttura dell'economia, che liberi la società dalla dittatura dei capitalisti, e la consegni a un governo dei lavoratori e delle lavoratrici. L'unica vera alternativa possibile. L'unica che possa riorganizzare la società dalle fondamenta in base ai bisogni della maggioranza. L'unica vera democrazia.

Partito Comunista dei Lavoratori

La pace delle bombe, la violenza delle bombolette

 


Lo sgombero di Askatasuna tra FdI, PD e AVS

20 Dicembre 2025

Più chiara di com’è, la situazione non può essere. Il governo Meloni ha atteso l’assottigliarsi del grande movimento per la Palestina, quello che negli scioperi generali di settembre e ottobre raggiungeva intorno alle 500.000 persone. La «polpetta avvelenata» del piano di finta pace Trump-Blair-Netanyahu è stata preparata come arma politica finalizzata al riflusso internazionale e, a cominciare dall’approvazione di Hamas, ha agito subito come tale.

Ma questa è solo una parte della spiegazione del fenomeno della momentanea recessione del movimento. L’altra parte è la solita piaga, cioè la "crisi" della direzione politica. Tra i tanti solidali democratici, contrari alle politiche israeliane e alla complicità del governo italiano, in pochi possono esser stati convinti della «pace dei cimiteri», specie a fronte dei bombardamenti che, nella perfetta tradizione sionista, ricominciavano poche ore dopo il "cessate il fuoco". Migliaia di persone possono anche rimanere profondamente perplesse e avvertire un distinto sentore di truffa di fronte a simili operazioni diplomatiche. Ma quando queste migliaia di persone si ritrovano a dover lottare contro il nemico manifesto e contemporaneamente contro i propri condottieri (le burocrazie sindacali, i leader di associazioni palestinesi che inneggiano alla "pace" come «vittoria storica», certe frange del movimento che, con sconsiderate "fughe in avanti", boicottano oggettivamente l’unità), finisce per prevalere il disorientamento che si traduce in immobilità.

Ai primi segnali di riflusso, il governo colpiva a Milano, con un secondo foglio di via al presidente dell’Associazione Palestinesi in Italia, Mohammad Hannoun; colpiva a Napoli, arrestando i compagni del SI Cobas in un presidio di protesta contro Teva, l’azienda farmaceutica israeliana; colpiva a Torino caricando a freddo il corteo contro Tajani. Nel frattempo, presentava un DDL Gasparri che identifica antisemitismo e antisionismo e recludeva l’imam Mohamed Shahin, colpevole di aver definito un atto di resistenza anticoloniale le azioni militari di Hamas nel 7 ottobre 2023.

Particolarmente su questo episodio, pur senza ritrovare i volumi di massa dei mesi precedenti, il movimento si riaggrega. Si ripristina un coordinamento nazionale, le manifestazioni a Torino si rifanno quotidiane e sono tenaci anche davanti al CPR di Caltanissetta dove l’uomo è sospeso tra la vita e la morte (il rimpatrio in Egitto, in quanto dichiarato oppositore politico di al-Sisi, avrebbe significato la sua fine) e una parte di opinione pubblica nonché l’intellighenzia non solo italiana si riattiva e sostenutamente denuncia l’abuso di potere del governo. La situazione è tesa e Torino per Gaza, il coordinamento cittadino forse "ammiraglio" per il resto del Paese, si impegna perché l’attenzione non cali. La pressione sociale, il risalto mediatico, la reazione di una parte di voci istituzionali sortiscono il loro effetto: l’imam viene rilasciato, non sussistono gli estremi per l’espulsione.

Il governo capisce che, nonostante il generale spopolamento del movimento, la brace è ancora calda ed è sempreviva minaccia di nuovi divampamenti. In più, negli ultimi giorni sono emersi ulteriori seri grattacapi per il Palazzo: le proteste a Genova degli operai dell’ex Ilva, con fotografie che sembrano strappate al Sessantotto, l’incubo puntualmente esorcizzato da Meloni, Valditara, Sangiuliano, La Russa, Roccella, ecc. Nella narrazione meloniana, la più sfacciata controrivoluzione mondiale assegna al Sessantotto il posto che in quella putiniana assegna al bolscevismo.
In cotanto marasma, è in dirittura di voto la manovra finanziaria 2026, che regala miliardi di sgravi e incentivi fiscali ai ricchi e per gli altri minaccia l'innalzamento dell'età pensionabile a 70 anni. Se non ora, quando? È il momento di colpire. Non farlo adesso significa non poter farlo quando di nuovo il movimento ingranerà. Nei giorni di massima tensione, quando la classe operaia era la protagonista se non altro formale delle mobilitazioni, persino i terribili Decreti sicurezza sono rimasti inattivi.

Il ministro degli Interni ordina lo sgombero del centro sociale occupato e autogestito dal 1996, Askatasuna, tra le componenti di Torino per Gaza e dell’Intifada Studentesca. «Like I see through the water/ that runs down my drain», Piantedosi è in effetti limpidissimo: il motivo per cui bisogna colpire Askatasuna è politico. Questi ragazzi avrebbero forzato l’ingresso della Leonardo S.p.A. vandalizzando dove capitava, avrebbero lanciato uova contro le OGR, avrebbero fatto irruzione negli uffici de La Stampa, bombolettando sui muri e spargendo simbolico letame. È un attacco politico a un soggetto politico per ragioni politiche e a fini politici.

Sennonché Torino è governata da un consiglio comunale a schiacciante maggioranza PD. E, posto che un sindaco non comanda la polizia, Stefano Lo Russo avrebbe potuto fronteggiare politicamente la disposizione di Piantedosi, opponendo ragioni di sicurezza pubblica o la necessità di soluzioni profondamente diverse. Avrebbe potuto chiedere rinvii, opzioni alternative, sollevare criticità operative, sanitarie e sociali alla conquista, se non altro, di una dilazione.

Nessuna persona raziocinante può pretendere che un membro di spicco del partito che più ha armato Israele nelle sue stagioni di governo dichiarasse: «La Leonardo è la fabbrica di morte, la produzione materiale del genocidio in Palestina, l’indignazione – al netto di bravate che colpiscono le utilitarie degli operai invece di colpire i padroni – è del tutto comprensibile, moralmente e politicamente». Oppure: «Il quotidiano di Agnelli ha consegnato come un terrorista il buon Shahin al governo, divertendosi a esporlo a rischio di morte». Sarebbe bastato l’argomento borghese del rifiuto di precipitare la città in una barricata permanente, consapevole del legame che il centro sociale vanta presso gli studenti, il quartiere, il movimento nazionale, a determinare l’opposizione almeno politica del primo cittadino.

Stefano Lo Russo invece si nasconde dietro la contestazione dell’inagibilità. Il patto di cogestione dell’immobile, sottoscritto con gli attivisti di Askatasuna ad aprile, cesserebbe perché tradita la promessa della non assegnazione dei pericolanti piani alti dell’edificio a uso abitativo. La polizia avrebbe invece trovato sei persone e due gatti.

Ora, volendo assecondare le turlupinature istituzionali, la questione che si pone al sindaco è semplicemente la seguente: ammesso che questi «autonomi» abbiano così dolorosamente tradito la tua fiducia e che pertanto urgesse veramente un intervento previa rescissione del patto, l’intervento doveva essere questo?

Non è nostro compito, ma vogliamo prenderci la pena di consigliare noi come avrebbe potuto agire un sindaco di centrosinistra davvero in apprensione per chi dorme sotto tetti pericolanti:

1) Invii i controlli;
2) Individuate irregolarità, dai il tempo che gli abitanti raccolgano gli effetti personali ed escano, destinati ad altre, dignitose soluzioni abitative;
3) Convochi a un incontro i responsabili delle irregolarità;
4) Contesti loro l’irresponsabilità per l’incolumità delle persone;
5) Raccomandi che il fatto non si ripeta oppure, propendendo per la decisione più dura, limiti i sigilli ai piani inutilizzabili, decaduta la fiducia che vengano interdetti secondo coscienza dei gestori.

Ma anche a voler lasciare tutta la libertà al sindaco di agire per lo sgombero, si domanda se è politicamente opportuno approvare l’operazione nell’identico momento in cui è comandata dall’"avversario" Piantedosi. Se davvero, indipendentemente e per le diverse ragioni accampate, Lo Russo fosse arrivato alla stessa decisione di Piantedosi, sgomberare Askatasuna, onde evitare di dar lustro al nemico, sarebbe stato raccomandabile procedere in un’altra fase, riservandosi – sia pure! – gli stessi mezzi! Trattandosi del partito dei lager in Libia, delle manganellate alla FIOM di Terni (29 ottobre 2014), delle botte a ogni fiaccolata i 24 aprile ecc. ecc., chi ne sarebbe stupito?

Dietro la cantilena «dissentiamo dalle scelte e dalla impostazione culturale di questo governo», la verità è che Lo Russo ha assecondato Piantedosi. È per questo che, prima Lo Russo parla delle irregolarità abitative, presentandole come l'autentico ed esclusivo motivo dello sgombero, poi inanella tutte le considerazioni politiche del caso (Leonardo, OGR e Stampa). Di rilievi politici Lo Russo non dovrebbe farne mezzo. Se esistono denunce a carico di qualcuno e se davvero, come dice, Lo Russo ritiene che debbano rispondere gli individui per gli addebiti individuali, perché chiudere la struttura?

Forse, tra i responsabili degli episodi incriminati, si annovera solo qualcuno dell’Askatasuna. Forse costoro non hanno nemmeno agito in rappresentanza di Askatasuna (d’altra parte non risultano rivendicazioni politiche). Forse tra le file di Askatasuna i posizionamenti sono stati diversificati. Questi, beninteso, sono scrupoli che dovrebbe porsi un sindaco, tanto più se si pretende alternativo alla «impostazione culturale» della criminalizzazione generalizzata, manettara, non tatticamente critica ma politicamente nemica usuale al governo centrale.

Va da sé che, quando viene a scatenarsi una rappresaglia di chiaro segno politico, i compagni difendono i compagni senza se e senza ma, e su chi scaricare la responsabilità individuale è argomento che non si discute nemmeno.

Politicamente e personalmente, Lo Russo avrebbe potuto opporsi allo sgombero di Corso Regina Margherita 47. Avrebbe potuto essere in prima fila, insieme alla sua «parte politica» e collaboratori, se davvero tali li avesse ritenuti, a prendersi l’acqua degli idranti e sventolare la bandiera dal suo partito, riservandosi sistemazioni future.

Il punto è capire perché non può succedere. E non può succedere perché il movimento per la Palestina, con l'ampliarsi del campo gravitazionale della lotta di classe che rischia di potenziarlo enormemente, preoccupa il centrosinistra esattamente come le destre populiste. Il movimento per la Palestina mette i bastoni tra i cingoli dell’imperialismo tricolore, i cui interessi il PD ha curato da tempi più lunghi e con più sperimentata scienza dei biscazzieri postfascisti. Al governo del paese, il PD avrebbe in Torino per Gaza, nelle Intifade studentesche, nei sindacati di base, nel malcontento sociale sempre crescente la stessa sfida che si trova di fronte il governo Meloni.

Ecco spiegata la complicità! Finché Askatasuna non ha contribuito ad alimentare una dinamica di tensione di massa, si sono cercate intese utili altresì a consolidare quella parte di elettorato legata a vario titolo, persino più sentimentalmente che operativamente, al presidio autonomo. Ma arriva il tempo di soppesare costi e benefici. Lo Russo sa che, con l'approvazione dello sgombero, rischia la revoca del suo deposito elettorale relativamente sicuro. Ma sa anche che se il popolo di centrosinistra ti vota disgiuntamente e contrariamente alla borghesia che conta, quelli non sono voti che portano al governo. Viceversa, se è la borghesia che conta a votarti disgiuntamente e contrariamente al popolo di centrosinistra, qualche speranza rimane. All’occorrenza, bisogna scaricare gli ornamenti accessori, le fortune incidentali. E per il PD gli ornamenti accessori e le fortune incidentali sono le simpatie, convinte o costrette, di un elettorato socialmoderatissimo. Il cuore da preservare sono i padroni, vero soggetto di riferimento della nuova DC.

Un’ultima nota per gli esponenti di Alleanza Verdi Sinistra, loro sì, al contrario di Lo Russo, fisicamente a fianco dei manifestanti in queste ore. Che mentre con un piede marciano nei cortei, prestano l’altro piede a Lo Russo perché non crolli sulla sua stessa giravolta. «Il sindaco è stato intimidito dal ministero, minacciato dal governo», Marco Grimaldi si appresta a difendere l’amico che non lo ha proprio chiesto e che insiste sicuro col suo spartito: rivendico la scelta, una scelta giusta: c’erano gli Aristogatti a suonare il jazz!

E visto che consigliare ai borghesi come salvarsi da se stessi è esercizio utile almeno a evidenziare lo stato di totale decadenza in cui la borghesia versa attualmente, di nuovo indichiamo ad AVS cosa avrebbe dovuto fare qualora rappresentasse una reale alternativa al PD – ciò che, d’altro canto, dovrebbe costituire l’unico motivo della sua esistenza.

Appurato, membri di AVS, che il PD cede alle pressioni del rivale per l’ennesima volta, ebbene non è questa l'opportunità per affermare distintamente la correttezza di una scelta, l'inaugurazione di una parabola alla sinistra di PD che si conferma irreparabilmente corruttibile, capitolardo, traditore? Con questa mossa, il PD ha fatto il più grande regalo ad AVS. Quale più emblematica risposta a chi lamenta la divisione delle sinistre, di cui AVS è sovente indicata come corresponsabile?

Ma anche AVS bilancia i costi e i benefici. E il beneficio maggiore, per chi si fosse distratto durante le parate per l’Europa del 15 marzo e necessitasse di conferme, è mantenere il cordone ombelicale col PD. Che è a sua volta il comitato d'affari di banche e Confindustria. Che sono esattamente gli speculatori che trasognano i «resort» a Gaza. Che dunque continuano a distruggere la Palestina in società con Netanyahu. Queste, cari Marco Grimaldi, Alice Ravinali ecc., non sono contraddizioni politiche che può coprire una kefiah.

Crisi di sovrapproduzione e attriti prebellici portano il mondo a uno snodo storico. L’alternativa o è anticapitalista o non è. Per realizzare una società anticapitalista occorre la rivoluzione. La rivoluzione ha bisogno del suo partito. Il movimento antimperialista per la Palestina deve trovare la sua evoluzione nella costituzione di un nuovo soggetto politico, coerentemente anticapitalista, coerentemente antimperialista. I padroni vincono coi loro partiti, apparentemente diversi, in realtà partito unico dell'amministrazione del capitale.

Il proletariato può vincere solo con un grande partito del lavoro.
Il Partito Comunista dei Lavoratori propone la costruzione di questo nuovo partito, anche se il processo di raggruppamento rivoluzionario su un programma anticapitalista determinasse il superamento di se stesso nelle forme attualmente date.
Nessun altro soggetto avanza questa proposta. È la proposta dei veri rivoluzionari.

Salvo Lo Galbo

Giù le mani da Askatasuna!


 All'alba di questa mattina polizia e carabinieri, su mandato del ministero degli Interni, hanno sgomberato e murato il centro sociale Askatasuna a Torino. La giunta comunale di centrosinistra ha prontamente scaricato il centro sociale, revocando il cosiddetto patto siglato in primavera per la “rigenerazione” dell'immobile: nei fatti e formalmente, un via libera alla polizia e al governo Meloni, come era facile prevedere.


Sono ora in corso perquisizioni a catena nelle case degli attivisti del centro sociale. A decine di attivisti è stato contestato il reato di danneggiamento, imbrattamento, invasione di edifici, resistenza a pubblico ufficiale. È la vendetta dello Stato contro una realtà di movimento da tempo impegnata nelle azioni di protesta e di opposizione, in particolare nel movimento pro Palestina.

“In Italia non c'è spazio per la violenza!” esclama gongolante il ministro Piantedosi. In realtà c'è uno spazio smisurato per la violenza istituzionale del potere: quella che ha armato e arma la mano genocida di Israele, che ingrassa i profitti dell'industria militare, che annuncia scenari di guerra, che respinge o deporta i migranti, che protegge i torturatori libici e i loro lager, che manganella gli operai in lotta per il proprio posto di lavoro. Il vero “reato” di Askatasuna è opporsi a questa violenza.

“Grazie al lavoro della questura e della prefettura lo Stato ha colpito” dichiara trionfante la vicecapogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Augusta Montaruli. “Momento storico per la città di Torino” annuncia la Lega. “Il regalo di Natale più bello che Piantedosi potesse fare ai torinesi”.
Le grida di esultanza del governo a guida postfascista trasudano uno spirito di vendetta. Non potevano colpire Askatasuna nel momento della grande mobilitazione di massa di fine settembre e inizio ottobre, quando milioni di persone in tutta Italia si sono mobilitate per la Palestina al fianco della Flotilla; quando la forza di massa ha messo il governo sulla difensiva, costretto a subire l'occupazione simbolica di piazze, stazioni, aeroporti, a dispetto delle leggi forcaiole di Salvini. Pensano invece di poter colpire ora, in un momento di ripiegamento del movimento, nel nome del ritorno a “legge e ordine”. Legge e ordine della borghesia.

Come Partito Comunista dei Lavoratori, da sempre impegnato a Torino e in tutta Italia, in ogni movimento di opposizione alla classe dominante e ai suoi governi, diamo una solidarietà piena, attiva, incondizionata, al centro sociale Askatasuna. Non è questo il momento di discutere sull'opportunità o meno di singole scelte compiute, o dei limiti di un antagonismo senza progetto di rivoluzione. Ci sarà tempo e luogo per discutere di questo, tra compagni, all'interno del movimento di lotta. Ora è il momento della solidarietà incondizionata contro la repressione dello Stato ai compagni colpiti dalla repressione e alla loro organizzazione.

Giù le mani da Askatasuna!

Per una ripresa della mobilitazione di massa che rovesci i rapporti di forza!
Per un ingresso sulla scena della classe operaia al fianco di ogni soggetto colpito dal potere, nel segno del più ampio fronte unico di classe!
Per un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, unica vera alternativa!

Partito Comunista dei Lavoratori

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In questo numero:


Editoriale. Dare prospettiva a un movimento nuovo - Marco Ferrando

Urne vuote, piazze piene - Federico Bacchiocchi

Flotta continua - Alessio Ecoretti

I leninisti e il 7 ottobre - Salvo Lo Galbo

Contro guerra e capitale. Il blocco di Amazon Brandizzo - Mauro Penoncelli

Lo sciopero generale del 28 novembre - Lorenzo Mortara

Il pestaggio degli operai de L'Alba a Montemurlo: una violenza di importanza capitale - Diego Pace

Ibrahim Traoré: rivoluzione o illusione bonapartista? - Lega Internazionale Socialista

Nepal, il riformismo fallisce ancora - Rahul J.P. e Imran Kamyana

Ottobre 1965, il massacro dei comunisti in Indonesia - Vincenzo Cimmino

...e poi il settimo congresso del Partito Comunista dei Lavoratori, notizie dalle sezioni e altro ancora.

Nessuno sconto a questa finanziaria di lacrime e sangue

 


Testo del volantino distribuito in occasione dello sciopero generale del 12 dicembre

La Finanziaria 2026 è la fotografia più chiara della direzione presa da chi governa: un Paese dove chi lavora deve pagare tutto, mentre chi comanda continua a vivere al riparo da ogni sacrificio: l’ennesimo assalto ai diritti, ai salari e alla dignità della classe lavoratrice.

Aumentano le imposte indirette, diminuiscono le detrazioni, si riduce ciò che resta in busta paga. Ancora una volta, l’inflazione la pagano gli operai, i turnisti, i precari, chi vive davvero del proprio sudore. Chi sta al governo, invece, continua a recitare la farsa dei “redditi da tutelare”, mentre svuota le tasche proprio di quelli che lavorano per tenere in piedi ospedali, scuole, fabbriche, trasporti.

Un altro colpo arriva sul fronte del welfare. Invece di rafforzare le tutele in un paese dove milioni di persone sono intrappolate nella precarietà, la manovra taglia ancora. Meno fondi per la formazione, meno risorse per chi perde il lavoro, meno strumenti per affrontare transizioni industriali sempre più brutali.

E poi c’è la questione delle pensioni. Con la Finanziaria 2026 diventa ancora più difficile andare in pensione in tempi umani. Nuovi requisiti, nuove restrizioni, nuovi ostacoli. Come se chi ha passato una vita nei reparti, nelle officine, sui turni di notte o nei lavori usuranti potesse continuare eternamente.

Il tratto più rivelatore di questa manovra, però, è la totale assenza di un piano per alzare i salari, per creare occupazione stabile, per ridurre gli orari, per investire nei settori strategici. Zero. Solo tagli a difesa di un sistema che continua a imporre sacrifici a chi lavora mentre garantisce margini e rendite a chi vive di profitti.

La Finanziaria 2026 non è un incidente né un errore tecnico: è un documento politico che racconta chiaramente da che parte sta il potere. E non è certo dalla parte dei lavoratori. È dalla parte di chi considera la forza-lavoro un costo da ridurre. Dalla parte di chi preferisce alleggerire i conti dei privilegiati anziché riconoscere il valore della fatica quotidiana di milioni di lavoratrici e lavoratori. Nel 2026, a quanto pare, chi lavora deve ancora pagare per tutti. È questa la linea: colpire chi crea la ricchezza per continuare a favorire
chi la accumula.

Nonostante le potenzialità che tutti abbiamo visto il 3-4 ottobre, la CGIL ed i sindacati di base non hanno trovato una data unitaria per dare vita ad una vertenza generale unificante in grado di contrapporsi a questa aggressione che il governo Meloni porta ai diritti della classe lavoratrice.

È ora di una piattaforma di rivendicazioni vere:

aumenti molto più consistenti per tutti che recuperino la reale inflazione, grosso modo il doppio di
quella segnata dall’indice IPCA, quindi 400- 500 euro;

ripristino della scala mobile e riduzione dell’orario a 30-32 ore settimanali a parità di salario;

abolizione di tutte le leggi sul precariato dal Jobs Act fino al pacchetto Treu; abolizione della Legge Fornero e di tutti i suoi predecessori: in pensione con 35 anni di contributi, 60 di età e con minima almeno a 1500 euro, quindi abolizione di tutti i fondi pensione e salute che smantellano i diritti pubblici;

abolizione dell’autonomia differenziata, che riduce salari e diritti, in maniera indifferenziata, dal nord al sud;

abolizione di tutte le leggi antisciopero e del Decreto legge sicurezza che criminalizza le lotte;

nemmeno un euro per il riarmo! In Italia si passerà da 45 miliardi nel 2025 a oltre 146 miliardi annui nel 2035 (più dell’importo della spesa per la sanità pubblica), arrivando in un decennio a circa 964 miliardi per il riarmo.

Queste rivendicazioni possono essere portate avanti da un'assemblea di delegati e delegate eletti nei luoghi di lavoro, che guidi la lotta da Stellantis alla GKN, dalla ex Ilva a tutte le altre mille vertenze sparse per il paese, e che istituisca casse di resistenza adeguate allo scopo.

Partito Comunista dei Lavoratori

Metalmeccanici, un contratto da bocciare

 


FIM, FIOM E UILM erano partiti chiedendo 280 euro di aumento in tre anni e una riduzione d’orario a 35 ore a parità di salario; hanno firmato invece per 205 euro in quattro anni (2025-2028), allungando pure di sedici ore la flessibilità (l’orario plurisettimanale, cioè i sabati mezzo gratuiti, non pagati come straordinario, i quali passano da 80 ore a 96). Per la stragrande maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici l’aumento si aggira tra i 185 e i 192 euro lordi.


Un risultato disastroso che si commenta da solo, e a tutto vantaggio della controparte. Per due anni, fino al giugno del 2026, i metalmeccanici non andranno più in là dei 27 euro lordi erogati a giugno 2025 per l’ultrattività del vecchio contratto scaduto. Per recuperare il costo delle 40 ore di sciopero fatte per ottenere questa misera cifra dovranno aspettare grosso modo la prima busta paga dell’anno 2027.

I vertici sindacali sbandierano come vittoria il mantenimento della clausola di salvaguardia, cioè la salvaguardia dell’indice IPCA, un indice che è al di sotto dell’“inflazione programmata” degli anni ‘90 con cui i padroni smantellarono la scala mobile.

La partita non si giocava sulla “clausola di salvaguardia” ma sull’“assorbibilità” che nello scorso contratto in buona parte delle fabbriche si è mangiata l’aumento. E questa resta tale e quale a prima. Dal 2017, infatti, i vertici sindacali hanno accettato che i minimi aumentino solo nel caso lavoratrici e lavoratori non abbiano superminimi o altri emolumenti aggiuntivi. In quel caso sono sotto ricatto delle aziende.

Si arretra anche sui PAR, due in meno a disposizione individuale e due in più per le chiusure collettive. Il resto è poca cosa: la stabilizzazione (dal 2027) del 20% dei precari, prima di poter assumere altri precari con causali, si perde in un dedalo di precisazioni che la controparte facilmente aggirerà; lo staff leasing limitato a 48 mesi significa che dopo 48 mesi un’azienda assumerà un altro staff leasing lasciando a casa il primo.

Era ampiamente prevedibile una capitolazione del genere, a fronte di scioperi telefonati e fatti per fare il meno male possibile, dividendo territorialmente il fronte. A ciò si aggiunga che gli scioperi hanno messo in discussione solo la piattaforma di Federmeccanica, ma non l’impianto generale del contratto, incardinato su quel Patto della Fabbrica, firmato da CGIL, CISL e UIL nel 2018, che vincola al ribasso gli aumenti, sposta tutto sul welfare (50 euro in più rispetto ai 200 dello scorso contratto, e naturalmente confermati Metasalute e Fondo Cometa per la distruzione di pensioni e sanità pubbliche) ed è fatto su misura per i padroni.

Bisogna riprendere la lotta per un aumento serio e che parta subito, non tra un anno. Un aumento almeno doppio e vincolato all’unico vero indice che tenga dietro all’inflazione: la scala mobile. E per un aumento doppio ci vanno scioperi veri e prolungati, senza preavviso di un mese ma con casse di resistenza che lo supportino. Solo così si possono ottenere riduzione serie di orario e mettere fine ai contratti precari di qualunque tipo.

I metalmeccanici inoltre non devono viaggiare da soli, tanto più che il loro bastione più importante, quel che resta di FIAT-Stellantis, per la miopia dei vertici, è ormai lasciato al suo destino a combattere da solo. Invece per noi va riaccorpato al resto della truppa e unificato a tutte le altre categorie per un unico rinnovo generale che pieghi finalmente il padronato.

L’attuale lotta all’Ilva può essere il punto di partenza per portare a casa finalmente una vittoria e non rassegnarsi a questi aumenti da clochard. Nel referendum che viene, i vertici sindacali punteranno proprio su questo, sulla rassegnazione per far ingoiare ai metalmeccanici l’ennesimo rospo. Bisogna farlo ingoiare a loro. Sarà come farlo ingoiare a Federmeccanica, l’unica a far guadagni principeschi con questo contratto bidone.

Partito Comunista dei Lavoratori

La scuola tra rinnovo del CCNL e Manovra 2026. Dove andremo a finire?

 


Due fatti intrecciati si sono abbattuti sul settore della conoscenza nel mese di novembre 2025: la discussione sulla legge finanziaria e la firma del CCNL 2024-2026.


La nuova legge di bilancio porterà ad un peggioramento progressivo nella vita dei lavoratori e delle lavoratrici. Mentre si investono miliardi nel riarmo per uscire dall’impasse della recessione, il settore pubblico, tra cui la scuola, subisce un'ulteriore batosta: non sono previsti investimenti per i rinnovi contrattuali a contrasto degli effetti inflazionistici; non è previsto un piano di assunzioni e di stabilizzazione dei docenti; il personale ATA subirà un taglio di circa 2000 posti entro il 2026-2027.
Inoltre, la trasformazione di oltre 42000 incarichi di collaboratore scolastico in incarichi di operatore scolastico andrà ulteriormente a dividere, stratificare e penalizzare la categoria.

Mentre ovviamente si continuano a stanziare finanziamenti e agevolazioni per le scuole paritarie, come il bonus di 1500 euro.
A completare l’opera saranno i futuri passi nell’ambito della riforma dei professionali e dell’esame di Stato.


IL PIANTO DEL COCCODRILLO

La levata di scudi contro il governo da parte dell’opposizione e dei sindacati concertativi è fasulla ed è una partita giocata nello scontro tra apparati ideologici nella contesa della gestione del capitale e dei suoi effetti. Anche nella scuola: Valditara sancisce come obbligatorio ciò che era già previsto dalla “Buona scuola” renziana (comma 85), cioè il fatto di utilizzare “l’organico dell’autonomia” per coprire le supplenze brevi fino a dieci giorni.
Questo risparmio sarà recuperato con il 10% dell’aumento del FMOF, calcolato sul fondo dell’anno precedente. Un cane che si morde la coda.

In tutti questi anni le supplenze brevi sono state coperte, e lo sono tutt’ora, utilizzando i docenti di potenziamento. Come se fosse una novità! In tante scuole, invece, le cattedre di potenziamento, a cui si aggiungono i soldi del FIS (Fondo dell'Istituzione Scolastica), sono spesso utilizzate per i distacchi dei membri dello staff, collaboratori fidati del Dirigente Scolastico, i quali incarnano il famoso middle management della scuola-azienda.
Dunque, in seconda istanza, si ricorre agli ITP (insegnante tecnico-pratico) e agli insegnanti di sostegno, danneggiando il loro lavoro e ancor più gli studenti, e trasformando l’emergenza una tantum in problema strutturale. Questi “tappabuchi” fanno tanto comodo anche ai presidi “di sinistra”.
Laddove i tappabuchi non sono a disposizione si passa, come terza soluzione, all’accorpamento delle classi fuori da ogni logica di sicurezza.

Questa è l’autonomia scolastica, che piace alla destra e al campo largo dell’opposizione.

Si apriranno delle contraddizioni ma non dobbiamo patteggiare né per chi vuole risparmiare sulla pelle dei lavoratori e degli studenti né per chi vuole spartirsi la torta e utilizzarla per ingrassare il proprio anello magico. Dobbiamo lottare per riaffermare la dignità dei lavoratori, fuori da logiche aziendalistiche e di stratificazione del corpo docenti.
Dobbiamo chiedere a gran voce l’abolizione dell’autonomia scolastica e di tutto ciò che ne consegue. Se tagliano più di 5000 cattedre dell’organico dell’autonomia, dobbiamo pretendere la conversione di queste cattedre in organico di diritto su posto comune e su sostegno, in maniera definitiva.


ASSUMERE E STABILIZZARE I PRECARI, ALZARE I SALARI

Le stime per coprire l’anno scolastico 2024/2025 erano di circa 250 mila insegnanti. Una cifra enorme. A questi ogni anno si aggiungono i pensionamenti: 20 mila nel 2024 e circa 28 mila nel 2025. I Percorsi del PNRR copriranno solo il 20% delle reali necessità.

Sul versante degli ATA, su un fabbisogno di circa 32 mila posti vacanti complessivi delle varie mansioni, le assunzioni coprono circa 9500 posti di lavoro. Circa il 30%. Anche qui ogni anno si aggiungono pensionamenti di circa 10mila unità.
La carenza strutturale di lavoratori fa aumentare sempre di più il precariato, a danno della continuità salariale e didattica.

Sul versante dei salari, in generale anche per i docenti stabili la situazione non è rosea. La perdita del 30% in trent’anni del potere d’acquisto non vede ripresa all’orizzonte; nemmeno per il recupero degli ultimi tre anni. La compressione salariale del settore produttivo ha quindi i suoi effetti anche sul salario indiretto. Invece di aumenti in busta paga, il governo ci rifila sgravi sul salario accessorio e riduzione dell’IRPEF per i redditi medio-alti che riguarderanno (ovviamente) Dirigenti Scolastici e DSGA. Mentre la fiscalità sarà scaricata sulle spalle della classe operaia.

Siamo però ben lontani dall’indignazione dei docenti, poiché c’è sempre un modo per arrotondare il salario: le figure dei docenti tutor e orientatori, per i quali sono stati stanziati nel 2024 ben 267 milioni di euro, a cui si aggiungono ulteriori 100 milioni approvati nel febbraio 2025, spalmati su due annate (50+50). I progetti finanziati col PNRR, a cui hanno aderito migliaia di docenti, hanno svolto una funzione di “ammortizzatore sociale” divisivo e parziale. Insomma, la scuola dei progetti va a gonfie vele ed è ben remunerata, la scuola ordinaria cade a pezzi e con essa i lavoratori.


I SINDACATI AL TRAINO DEL GOVERNO

Il 5 novembre la maggior parte dei sindacati concertativi ha apposto la propria firma sul rinnovo del contratto, ad eccezione della CGIL che afferma: “Non sussistono le condizioni per la sottoscrizione” poiché “gli incrementi stipendiali previsti e per oltre il 60% già erogati in busta paga sotto forma di indennità di vacanza contrattuale coprono neanche un terzo dell’inflazione del triennio di riferimento e sanciscono la riduzione programmata dei salari del comparto”. L’aumento medio lordo previsto da questo rinnovo del CCNL sarebbe di soli 62 euro lordi! Una vera e propria miseria, ma ancor di più un’umiliazione per i docenti italiani che percepiscono i salari di categoria tra i più bassi d’Europa!

Finalmente una presa di posizione netta, alla quale in teoria avrebbe dovuto far seguito un’azione radicale cha aprisse finalmente il conflitto con il governo.
L’occasione sarebbe stata lo sciopero del 28 novembre: scendere in piazza con i sindacati di base, contro la finanziaria del riarmo e inserire in una vertenza generale la lotta dei lavoratori e delle lavoratrici della scuola.

La CGIL ha preferito scioperare in solitaria, a babbo morto, il 12 dicembre. Una scelta incomprensibile che rompe con il movimento del 3 ottobre e indebolisce i lavoratori. Indebolisce soprattutto coloro che nella breve onda di indignazione per il genocidio in Palestina di fine settembre e inizio ottobre sono stati i protagonisti: studenti in primis e insegnanti.

Attendiamo ora le consultazioni della base CGIL: rientrare con una firma tecnica o tenere duro sul contratto? Noi speriamo la seconda, ma non escludiamo la prima. Di sicuro può essere un’occasione per smascherare gli opportunisti che siedono ai tavoli delle contrattazioni d’Istituto e chiedere che nello statuto della CGIL venga sancita l’incompatibilità tra l’essere parte della RSU e coprire incarichi di staff o figure strumentali.


CAMBIARE LA ROTTA? NON BASTA! È NECESSARIO INVERTIRLA!

Non basta una virata un po’ più a sinistra per cambiare la situazione attuale. La rotta non va cambiata, va invertita.

• Abolire tutte le controriforme della scuola e la legge Bassanini che sancisce l‘autonomia scolastica e tutto ciò che ne consegue, comprese le recenti “Nuove indicazioni nazionali per il curricolo”.
• Fermare l’accorpamento degli istituti e investire nell’edilizia scolastica per la ristrutturazione e il potenziamento delle scuole esistenti.
• Per un piano di assunzione e stabilizzazione di tutti i docenti e ATA precari; per garantire il salario e la continuità didattica.
• Contro l’allungamento dell’orario cattedra: dire no ai ricatti degli uffici scolastici e rispettare i mandati dei collegi docenti. L’orario cattedra non può superare le 18 ore (se non per residui orari);
• Riduzione degli alunni per classe, basta con le classi pollaio;
• Internalizzazione degli educatori e delle educatrici;
• Aumenti salariali da CCNL di circa 400 euro netti.
• Per un patrimoniale del 10% sul 10% più ricco della popolazione per dare respiro il settore pubblico nella prospettiva di una fiscalità fortemente progressiva.

Se vogliamo risollevare la scuola pubblica è necessario scendere in piazza insieme ai lavoratori dei settori privati e insieme agli studenti.
Solo rovesciando i governi del capitale si può difendere la scuola e pensare di avere una scuola pubblica degna di questo aggettivo.
Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici potrà garantire tutto questo.

Lavoratrici e lavoratori della scuola del Partito Comunista dei Lavoratori