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No al piano coloniale Trump-Netanyahu

  Per la continuità della mobilitazione unitaria contro il sionismo e l'imperialismo 15 Ottobre 2025 L'universo politico mediatico a...

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Il semaforo verde di Russia e Cina al piano coloniale di Trump

 


Il popolo palestinese non ha amici in alto ma solo in basso

19 Novembre 2025

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L'astensione di Russia e Cina nel Consiglio Generale dell'ONU sul piano Trump per la Palestina è densa di significato politico. L'astensione è la rinuncia a ogni potere di veto. La rinuncia al potere di veto significa che il piano coloniale americano avrà la copertura delle Nazioni Unite.

Un imperialismo USA che per due anni ha fatto scudo alla barbarie sionista anche col ricorso al proprio potere di veto in sede ONU ha ottenuto dagli imperialismi rivali non solo un sospirato lasciapassare ma la più alta copertura diplomatica. È ciò che Trump chiedeva. È ciò che Trump ha ottenuto.

La soluzione maschera un mercimonio negoziale tra interessi diversi.

La Cina non solo è un grande partner commerciale di Israele ma è impegnata nel negoziato globale con gli USA: sul piano commerciale, lungo la partita di scambio fra terre rare e dazi, e sul più ampio scenario degli equilibri mondiali, a partire dai mari dell'Asia. Il via libera di Pechino a Trump sarà messo sul piatto di questa bilancia negoziale.

La Russia, dal canto suo, non solo è il secondo partner politico dello Stato sionista dopo gli USA, ma punta a incassare le aperture di Trump nella partita ucraina e sul Mare Artico. Il semaforo verde al bonaparte di Washington chiede dunque contropartite su altri terreni.

Peraltro, sia l'imperialismo russo che l'imperialismo cinese sono interessati a buone relazioni con i regimi arabi, in particolare con le grandi monarchie del Golfo. E i regimi arabi avevano e hanno bisogno della copertura diplomatica ONU per imbarcarsi in una “forza internazionale di stabilizzazione” in Palestina a guida USA, con tutte le incognite e i rischi del caso, anche nel rapporto con le proprie opinioni pubbliche. Mosca e Pechino hanno garantito la copertura richiesta.

Ogni ipocrisia diplomatica si nutre naturalmente di tortuosità. Due giorni prima del clamoroso lasciapassare, la Russia aveva avanzato una propria proposta nel Consiglio di sicurezza che citava l'eterna bufala dei “due Stati per due popoli”. Lo scopo era quello di poter vantare l'inserimento successivo nella risoluzione ONU di un vaghissimo riferimento alla questione palestinese quale frutto della propria pressione. La verità è che le finzioni retoriche stanno a zero. Servono ai regimi arabi per mascherare la propria subordinazione all'imperialismo USA e al sionismo, così come servono a Russia e Cina per esibire benemerenze presso i regimi arabi. Ciò che conta materialmente è altro.

Il piano Trump può procedere con le spalle coperte, da una posizione più avanzata. Mentre lo Stato sionista prosegue la propria macelleria: a Gaza, ulteriormente smembrata dalle forze israeliane, dove continuano distruzione di case, deportazioni, fame; in Cisgiordania, dove prosegue l'azione terrorista di esercito e coloni contro i palestinesi.

Il genocidio, in altre forme, perdura. Il disarmo e la distruzione della resistenza palestinese restano l'obiettivo comune di Trump, dello Stato sionista, delle borghesie arabe, degli imperialismi europei. Quanto alla ANP , già da decenni sul libro paga di Israele, chiede solo di essere caricata a bordo dell'operazione con qualche patacca di riconoscimento formale, fosse pure a futura memoria.

Certo, non mancano le contraddizioni. Israele non vuole la presenza turca nella forza internazionale a guida americana che entrerà nella Striscia. I regimi arabi, Egitto e Giordania in testa, sono disponibili a fornire truppe di occupazione, ma vorrebbero prima che altri facessero il lavoro sporco di disarmare Hamas. I governi europei sono in prima fila per il business della ricostruzione ma non vorrebbero arrischiare truppe, offrendo in cambio l'addestramento all'estero di una futura polizia palestinese, magari attraverso i Carabinieri. Persino Trump, che pur si candida a presiedere il protettorato coloniale da lui stesso insediato, non vuole un coinvolgimento diretto di truppe statunitensi a Gaza, perché teme contraccolpi elettorali in caso di bare americane.

Insomma, tutte le forze dominanti vogliono incassare la propria parte del bottino finale del genocidio ma senza pagarne il prezzo. La pentola non trova il coperchio. Il copione è ancora in cerca di firma.

Ma in ogni caso emerge, tanto più oggi, una verità incontestabile: il popolo palestinese e la sua resistenza non hanno amici tra le potenze imperialiste vecchie e nuove, nella diplomazia truffaldina dell'ONU, presso i governi arabi, nelle cosiddette democrazie europee. I suoi possibili alleati stanno in basso, fra i popoli oppressi, nella classe lavoratrice, e innanzitutto in quella nuova generazione che in tutto il mondo si è mobilitata con la Palestina nel cuore.

Solo una rivoluzione cambia le cose. Vale per tutti. Vale a maggior ragione per il popolo palestinese e per le masse oppresse di tutto il Medio Oriente.

Partito Comunista dei Lavoratori

Sanchez esternalizza i migranti in Mauritania

 


Il modello Meloni fa scuola in Spagna

Il governo Sanchez gode di buona fama in Italia. Elly Schlein indica nel governo spagnolo un riferimento esemplare. Il Partito della Rifondazione Comunista e Potere al Popolo (Rifondazione soprattutto) presentano il governo Sanchez come prova del fatto che il coinvolgimento nel governo della sinistra cosiddetta radicale può produrre effetti benefici. La presenza in Italia di un governo Meloni offre spazio a questa rappresentazione per un naturale effetto di rimbalzo.

Se non che poi ci sono i fatti. Che hanno la testa dura.

Il governo spagnolo ha assunto la linea Meloni in fatto di politiche sull'immigrazione. In realtà non da oggi. Ma oggi in forma clamorosa. L'apertura di due centri di detenzione dei migranti in Mauritania riproduce esattamente il modello Meloni in Albania. La Spagna e la UE hanno pagato al governo del generale Mohamed Ould El Ghazouani i costi dell'operazione. Un'agenzia di cooperazione che fa capo al ministero degli Esteri madrileno ha gestito in prima persona l'intera faccenda. Si tratta della classica operazione di “trattenimento” dei migranti, di esternalizzazione delle frontiere.

Per tutto il 2025, con l'attiva partecipazione di 80 agenti spagnoli, la polizia della Mauritania ha moltiplicato le retate contro i migranti. Le associazioni dei diritti umani raccontano della loro detenzione inumana, del sequestro di tutti i loro beni, e persino in qualche caso del loro abbandono in una zona desertica ai confini del Mali. L'inchiesta della Fundación porCausa, pubblicata dal quotidiano El Salto, non lascia spazio a dubbi. I dati riportati non sono stati smentiti, e sono impietosi.

In realtà la Spagna già disponeva di centri di detenzione di migranti opportunamente delocalizzati, come quelli realizzati alle Canarie. Ma i due centri aperti ora in Mauritania sono peggio: possono ospitare anche minori, persino neonati. Ciò che formalmente è vietato dalla legge spagnola.

In Spagna la vicenda ha fatto scandalo. La sinistra spagnola cosiddetta radicale, coinvolta in varie forme nel governo Sanchez, ha denunciato “l'attuazione del modello Meloni” con tanto di interrogazione parlamentare e richiesta di chiusura dei due centri. Ma non risulta abbia tratto conseguenze politiche dall'accaduto. E nessuna interrogazione cancella in quanto tale un'oggettiva corresponsabilità politica di governo.

Attendiamo di conoscere il punto di vista della sinistra cosiddetta radicale in Italia. È vero che nei governi Prodi Rifondazione accettò di peggio, anche in fatto di immigrazione (dai centri di detenzione Turco-Napolitano all'affondamento nel 1997 di una nave di migranti albanesi nel Mare di Otranto, con cento morti in fondo al mare). Ma non è una buona ragione per tacere. Tanto più se si intende tornare nell'ovile del centrosinistra.

Partito Comunista dei Lavoratori

Contro il foglio di via ad Hannoun e contro gli arresti di Mimì, Dario e Bocconcino!

 


Giù le mani dalla solidarietà con la Palestina!

La giornata di ieri è stata contrassegnata da una serie di attacchi al movimento di solidarietà con il popolo palestinese.
Il presidente dell’Associazione Palestinesi in Italia, Mohammad Hannoun, è stato colpito dal foglio di via per un anno dalla città di Milano. Un chiaro tentativo di colpire il movimento in una città dove, sin dai giorni successivi al 7 ottobre 2023, non c’è stata una settimana senza almeno un corteo o un presidio in solidarietà con la Palestina.
A Napoli, invece, fuori dalla Mostra d’Oltremare, mentre si teneva un presidio di protesta contro un evento della Teva, azienda farmaceutica israeliana, le forze dell’ordine hanno caricato le compagne e i compagni presenti arrestando Mimì, Dario e Bocconcino, militanti del SICobas e del Movimento disoccupati 7 novembre.

Le misure repressive di ieri si pongono in totale continuità con il DL Sicurezza, con il DDL Gasparri, che vuole colpire il movimento nelle scuole e nelle università, ma soprattutto con l’ingiusta detenzione con l’accusa di terrorismo di Anan Yaeesh, che si protrae da inizio 2024 e che gli sta facendo vivere un’odissea giudiziaria insieme ad altri due palestinesi, Ali Irar e Mansour Doghmosh da quasi due anni.

Alle compagne e compagni, e ai palestinesi colpiti da misure repressive, tributo dell’imperialismo tricolore all’entità sionista, la nostra incondizionata solidarietà.

No al DL Sicurezza e al DDL Gasparri!
No al protettorato neo coloniale previsto dal Piano Trump-Blair-Netanyahu!
Per la piana autodeterminazione del popolo palestinese!
Per il diritto del ritorno dei palestinesi nella propria terra!
Per una Palestina unita dal fiume al mare, libera dal sionismo, dall'imperialismo, da ogni forma di
colonialismo!
Per una Palestina laica e socialista, in un Medio Oriente socialista!

Partito Comunista dei Lavoratori

L'accusa di antisemitismo: una clava contro il movimento

 


No al ddl Gasparri!

La lotta del popolo palestinese, che oggi non deve arretrare ma resistere al piano coloniale di Trump, una battaglia fondamentale l’ha già vinta: la battaglia per la conquista del cuore delle masse.
Movimenti enormi di solidarietà con la lotta di liberazione palestinese hanno attraversato i cinque continenti, dagli USA all’Europa, dall’Asia al Sud America, dall’Africa all’Australia.

In Italia, dopo due anni di mobilitazioni forse di tenore inferiore a quelle di altri paesi europei, si è avuta un’autentica esplosione della partecipazione di massa nelle giornate dal 22 settembre al 4 ottobre, quando milioni di persone sono scese in piazza per mostrare la propria vicinanza al popolo palestinese e la propria solidarietà all’impresa della Global Sumud Flotilla.
Un’immensa partecipazione caratterizzata soprattutto dalla presenza di giovani e giovanissim3, studenti medi e universitari, e da ultimo anche da una crescente componente di classe lavoratrice.

Si è trattato di un autentico salto di qualità nella mobilitazione, un movimento che fa paura al governo e che incontra i favori dei sondaggi. Un movimento politico oltre che umanitario che denuncia la complicità del governo italiano nel genocidio di Gaza, che condanna la ferocia disumana e il razzismo dell’ideologia sionista, e che canta nelle strade la liberazione della Palestina dal fiume al mare.

Mai come oggi l’immagine di Israele è gettata nella polvere, la sua propaganda non creduta e derisa, i suoi atti criminosi denunciati con forza ad ogni livello della società, dai lavoratori, dagli studenti, dagli intellettuali e dagli artisti.
L’entità sionista è costretta a reagire come un animale ferito, e allora lancia ad ogni latitudine geografica, politica e culturale, come un disco rotto, la litania dell’accusa infamante: antisemita.

L’accusa è infame perché rivolta non contro i depositari storici dell’antisemitismo, quell’estrema destra i cui eredi oggi in grande maggioranza in Europa appoggiano il sionismo, ma contro il grande movimento di solidarietà con il popolo palestinese, proprio quando questo denuncia il più grave genocidio del XXI secolo.
Accusare di antisemitismo chi si oppone allo sterminio è ridicolo e volgare. Nondimeno però è un’arma in mano a governi complici che tentano di reprimere la mobilitazione di massa, come Germania, Francia, Inghilterra e ovviamente… l’Italia.

Alcuni esponenti del governo italiano sono intenti ad usare l’accusa di antisemitismo come una clava per colpire la mobilitazione crescente. Nelle università, nelle scuole, negli enti culturali è in corso una lotta accanita per denunciare ogni forma di collaborazione con lo stato genocidario di Israele. Gli esponenti filosionisti sono travolti, e non sanno più quali argomentazioni utilizzare per giustificare la propria collaborazione. Allora per questo viene utile la vecchia e sempre verde accusa di antisemitismo.

Vogliamo precisare che non è possibile sottovalutare il rigurgito di sentimenti antisemiti, ma essi sono in massima parte da imputare agli atti criminali commessi da Israele, la più grande fonte di antisemitismo.
Per propalare questa grande menzogna, dunque, non bastano più la grande stampa ossequiosa con il governo e con i sionisti, non è più sufficiente la propaganda e la repressione ordinaria da parte delle forze di polizia. Per questo è necessario approntare uno strumento nuovo, più adeguato alla bisogna. In altre parole, uno strumento legale con cui armare la repressione.

Il ddl (disegno di legge) Gasparri si incarica di dare soddisfazione a questa necessità. Non è l’unico ad essere in discussione al Senato, ma è quello più avanzato in tal senso.
Tale ddl così riporta nelle premesse; «…i focolai di antisemitismo già presenti in tutta Europa (documentati per l'Italia dal CDEC e dall'Eurispes) si sono estesi e propagati sotto la veste di antisionismo, dell'odio contro lo Stato ebraico e del suo diritto a esistere e difendersi».

L’antisemitismo è connesso all’antisionismo, tanto che:

«Il comma 2 prevede l'istituzione, presso le scuole di ogni ordine e grado, di corsi annuali di formazione per studenti sull'antisemitismo e sull'antisionismo».

Il che comporta l’indottrinamento studentesco nei confronti dell’adesione al regime israeliano e alla giustificazione dei suoi crimini.
Art.2 comma 2: «…Il Ministro dell'istruzione e del merito istituisce, presso le scuole di ogni ordine e grado, corsi annuali di formazione rivolti agli studenti, al fine di favorire il dialogo tra generazioni, culture e religioni diverse, e di contrastare le manifestazioni di antisemitismo, incluso l'antisionismo» (sottolineature nostre).

Non manca l’invito alla delazione, soprattutto di insegnanti e professori universitari. Ma ciò che è più importante è che la pena stabilita dal codice penale si deve applicare come recita l’art. 4 comma:

«La stessa pena si applica qualora la propaganda, l'istigazione o l'incitamento si fondano, in tutto o in parte, sull'ostilità, sull'avversione, sulla denigrazione, sulla discriminazione, sulla lotta o sulla violenza contro gli ebrei, i loro beni e pertinenze, anche di carattere religioso o culturale, nonché sulla negazione della Shoah o del diritto all'esistenza dello Stato di Israele o sulla sua distruzione» (sottolineature nostre).

È evidente che questo dispositivo normativo ha l’obiettivo di abbattersi come una scure contro le masse soprattutto giovanili che hanno alimentato le grandiose mobilitazioni delle settimane scorse. In quelle manifestazioni, fra gli slogan più recitati vi erano proprio quelli che dimostravano l’ostilità al sionismo, un’ideologia politica suprematista e razzista, che ha giustificato negli ultimi 77 anni l’occupazione coloniale delle terre e delle città dei palestinesi, con il corredo di massacri e pulizia etnica. Un’ideologia che ha interessato solo parte dei popoli ebraici, e sostanzialmente la parte più reazionaria e violenta. La parte più progressista e socialista, maggioritaria negli anni ’20 e ‘30 in Polonia, era rappresentata dal partito più grande di matrice ebraica, il Bund (Unione di Lotta dei Lavoratori Ebrei), e avversava il sionismo, definito come “un movimento reazionario capitalista e colonialista al servizio dell’imperialismo”.

La maggioranza dei combattenti dell’insurrezione del ghetto di Varsavia apparteneva in effetti al Bund, compreso il suo eroico comandante militare Marek Edelman, che si rifiutò sempre di andare in Israele e che nel 2002 espresse la sua solidarietà alle organizzazioni combattenti palestinesi.

È assolutamente risibile che, se fosse stata in vigore una legge analoga a quella voluta da Gasparri, il Bund, la maggioranza yiddish del popolo ebraico europeo e il comandante dell’insurrezione del ghetto di Varsavia sarebbero stati perseguibili a norma di legge!

Anche in ossequio a questa grande tradizione dei popoli ebraici, che ha fornito al movimento rivoluzionario comunista degli anni ’20 alcune tra le menti più luminose, non si può che riaffermare la lotta irriducibile al sionismo e la necessità, per i popoli del Medio Oriente e dell’umanità intera, della sua sconfitta definitiva.

Un altro grande slogan ha connotato le mobilitazioni in Italia e nel mondo tanto da essere gridato da moltitudini di persone di ogni età: “Palestina libera dal fiume al mare”.
Questo slogan ha un significato molto preciso, vuole intendere la liberazione della Palestina storica, ciò che implica la distruzione dello stato di Israele.

Questa rivendicazione elementare, ma potentemente espressa da centinaia di migliaia di cittadini, che vuole sostenere il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, è frutto del diritto a esprimere il proprio pensiero, ma secondo Gasparri dovrebbe essere semplicemente sottoposta a censura pena la possibilità di finire in carcere.

È il caso di dire che il lupo perde il pelo ma non il vizio parafascista di istituire reati d’opinione del tutto antidemocratici.

In conclusione, il Partito Comunista dei Lavoratori, erede dell’unica tradizione politica che si è sempre opposta all’esistenza di Israele, difende il diritto del movimento per la Palestina ad esprimere il proprio pensiero e a scendere in piazza per manifestarlo, rifiuta ogni forma di intimidazione nella sua lotta contro il sionismo e invita a proseguire con più forza la mobilitazione contro il piano coloniale di Trump; l’unica mobilitazione che è in grado di rendere inapplicabile e far crollare questo disposto normativo.

Quali che siano le leggi della borghesia filosionista, il Partito Comunista dei Lavoratori ribadisce:

Lo Stato sionista dell’apartheid coloniale non può essere riformato, ma va distrutto.

Per una Palestina unita, laica e socialista (con il ritorno incondizionato dei profughi palestinesi e con i diritti di minoranza nazionale per gli ebrei, ad eccezione dei coloni fascisti e nazisti da espellere).

Per una Repubblica araba socialista unita.

Per una Federazione socialista del Medio Oriente e del Nord Africa, con il diritto di autodeterminazione di tutti i popoli oppressi della regione (curdi, berberi, etc.)

Partito Comunista dei Lavoratori

Palestina, Sudan, Congo, Yemen e benaltrismo

 


Reazionari più o meno dichiarati, liberali eternamente a caccia di una mitologica posizione super partes, socialdemocratici terrorizzati all’idea di essere scambiati per “estremisti”, qualunquisti dalla lingua lunga e cialtroni d’ogni specie: da anni ci propinano castronerie tanto abominevoli che non ci siamo fatti mancare pressoché nulla in fatto di chiacchiere revisioniste, giustificazioniste e negazioniste.


Una delle forme più deleterie e insidiose assunte da queste assurdità rivolte contro il movimento per la liberazione della Palestina è il benaltrismo - spesso annunciato da una solerte alzata di mani e dal fatidico annuncio “io sono d’accordo con l’obiettivo della protesta, ma”, che prelude inevitabilmente futili argomentazioni il cui scopo è normalizzare la strage di massa e il colonialismo criminale in Palestina. Perché se si è d’accordo nel condannare un genocidio, non si dovrebbe percepire la necessità di citarne un altro paio con la manifesta intenzione di portare la discussione fuori strada.

Ed ecco che stanno prendendo piede i lamentevoli “ma due scioperi per la Palestina in dieci giorni sono troppi”, come se l’atroce attacco alla dignità umana che sta avvenendo in Palestina valesse meno di un paio di giornate di mobilitazione generale. Solitamente viene in coppia con l’immancabile “perché non si sciopera per il prezzo degli alimenti, per i costi dell’energia, per i diritti dei lavoratori, per la sanità?” e via discorrendo.

Al di là della povertà logica intrinseca di queste assunzioni - basti ricordare che la maggior parte degli scioperi locali e nazionali degli ultimi vent’anni riguardavano proprio il lavoro, la sanità e i diritti sociali - va chiarito che queste rivendicazioni non sono e non devono essere affatto alternative alla lotta per la Palestina, ma sono complementari. Proprio sfruttando la forza e lo slancio delle ampie mobilitazioni per l’autodeterminazione dei palestinesi e contro i crimini del colonialismo sionista si può sviluppare un discorso più vasto, capace di includere anche la liberazione del proletariato di questo e altri Paesi.

Unire la lotta per la Palestina a quella contro i governi borghesi complici del sionismo – come il governo Meloni, giustamente nel mirino delle manifestazioni delle ultime settimane – valorizzerebbe tutte le battaglie progressiste del momento. La caduta di un governo reazionario come quello italiano potrebbe rappresentare una grande opportunità storica: spezzare l’asse di sostegno europeo a Israele e creare nuove opportunità e spazi per rilanciare altre cause e mobilitazioni.

Ma lo slogan più infame, più ipocrita, che cerca di colpire direttamente la coscienza sociale di chi scende in piazza, è quello che prende in causa il Congo, il Sudan e lo Yemen. Un profluvio di “E allora il Congo? Da lì vengono i vostri telefonini!”.

La prima domanda che sorge spontanea è: cosa diavolo hanno mai fatto questi individui per il Congo, lo Yemen e il Sudan? Niente. E per gli altri conflitti nel mondo? Hanno forse levato la loro voce quando il Nagorno-Karabakh è stato invaso dal regime cripto-fascista dell’Azerbaigian? Hanno denunciato il massacro del popolo del Tigray? Si sono preoccupati delle lotte dei nativi delle Americhe, dell’Australia o della Nuova Zelanda? Hanno mai espresso solidarietà al Kashmir martoriato? Le probabilità che se ne siano occupati sono prossime allo zero: chiacchiere, senza nemmeno il distintivo.

Chi scrive ha visto, non a caso, per la prima volta sventolare i vessilli del Congo, del Sudan, dello Yemen e di altri popoli proprio nelle recenti manifestazioni. Ed è naturale, perché il movimento per la Palestina - almeno nella sua parte più cosciente - è sinceramente internazionalista e ricettivo alle istanze di autodeterminazione dei popoli del mondo. Quindi, anziché lagnarsi che non ci si occupa abbastanza di queste cause, sarebbe il caso di portarle nel movimento internazionale per la Palestina (come già alcune realtà fanno), per contribuire a cementificare il suo spirito anticolonialista ed estendere la lotta internazionale allo sfruttamento capitalista. Ma ovviamente è più comodo usarle come paravento per schermare la propria inerzia, per squalificare ignobilmente un popolo in lotta contro il suo annientamento e per autoassolversi. Ma ciò che conta ancora di più è la connessione che queste lotte hanno con quella palestinese. Perché i crimini del sionismo si estendono si limitano al Medio Oriente. Il Sudan, per esempio, è uno dei Paesi arabi (in realtà, almeno il 30% della popolazione appartiene a diverse nazionalità minorizzate presenti in regioni come il Darfur) che, con la mediazione degli Stati Uniti, ha normalizzato i propri rapporti con Israele nel 2020, ottenendo in cambio di essere depennato dalla lista statunitense dei Paesi che “sponsorizzano il terrorismo” (ci sono comunque dei discutibili precedenti: dal 2005 afferma la legittimità dell’occupazione marocchina del Sahara Occidentale).

Le forze paramilitari arabe e reazionarie sudanesi (le Rapid Support Forces, composte perlopiù dai fanatici criminali Janjawid) sono responsabili della strage sistematica di appartenenti a minoranze come i Masalit, gli Zaghawa e i Fur, di crimini contro i migranti ammassati sulla frontiera con la Libia e dell’assassinio degli oppositori politici sono le stesse che hanno appoggiato buona parte dei governi militari susseguitisi in patria e le forze filo-saudite in Yemen (combattendo, di conseguenza, quelle antisioniste come gli Houthi e affiancandosi ai fascisti russi della Wagner). Ora sono tra i protagonisti della guerra civile e in aperto conflitto con lo Stato centrale, perché fanno parte di uno dei gruppi di potere in lotta per governare il Paese (lo scontro è principalmente tra fazioni rivali di militari e sotto l’influenza delle potenze imperialiste).

Israele, dall’aprile del 2023, è impegnato tramite i suoi agenti nell’opera di mediazione tra le due principali fazioni militari, ma non certo per amore della “pace”: al Mossad e agli ufficiali israeliani non importa nulla delle masse sudanesi oppresse e quello che vogliono tutelare è la completa normalizzazione dei rapporti tra Stato sionista e Sudan, considerato uno Stato da sfruttare per espandere gli interessi sionisti in Africa.

Ma passiamo allo Yemen. È stato bombardato da Israele utilizzando a pretesto i missili lanciati dagli Houthi in sostegno alla resistenza palestinese. Lo scopo reale è quello di scoraggiare e scardinare qualsiasi tentativo di mettere in discussione la supremazia israeliana nella regione.

I dispotici governi yemeniti susseguitisi dopo la riunificazione post-guerra fredda si sono caratterizzati per il loro allineamento agli interessi imperialisti (e di conseguenza anche di Israele), che sono intervenuti nella guerra civile con una coalizione guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, composta anche da Kuwait, Qatar, Marocco, Bahrein, Giordania, Egitto e vari gruppi di mercenari e con il decisivo supporto di Regno Unito, Stati Uniti e Francia. Anche in questo caso la responsabilità dell’orrenda catastrofe umanitaria è degli alleati imperialisti del sionismo e di alcuni degli Stati arabi più propensi a normalizzare i rapporti con Israele (non manca neppure il beneplacito di potenze come la Cina).

In Congo è in corso un’orribile guerra civile, che ha visto la partecipazione anche del Ruanda (ha invaso il paese nel 1996 e nel 1998) e dell’Uganda. Israele ha una parte attiva nella rovina del Paese: ha appoggiato il regime reazionario di Mobutu Sese Seko, fornendo anche addestramento ed equipaggiamento militare alle truppe scelte del despota, e anche oggi intrattiene rapporti stretti con le élite congolesi, che ricambiano l’interesse appoggiando diplomaticamente Tel Aviv e Trump.

Sono diversi i miliardari israeliani impegnati nell’appropriazione indebita delle risorse congolesi: parte del ricavato viene investito in nuove colonie in Palestina e nelle forze armate israeliane. Lo Stato sionista è tra i primi esportatori di diamanti nel mondo (oltre il 12% delle sue esportazioni sono “gemme e metalli preziosi”), pur non possedendo giacimenti da cui attingere sul suo territorio, e formalmente, gli israeliani non possiedono giacimenti minerari nemmeno in Congo. Eppure, grazie alla corruzione, all’appropriazione indebita, alle facilitazioni fiscali e al traffico di armi, sono in grado di appropriarsi di ingenti introiti proprio grazie allo sfruttamento di queste terre.

Tra i “danarosi” protagonisti del traffico troviamo Lev Leviev, un israelo-russo arricchitosi dopo aver acquistato alcune industrie diamantifere nell’ormai collassata Unione Sovietica, ex militare dell’IDF e proprietario della compagnia internazionale Africa Israel Investments. Vicino a Putin e Trump, è stato accusato di aver smerciato diamanti sporchi di sangue in Israele e di aver utilizzato i ricavati per finanziare gli insediamenti sionisti in Cisgiordania tramite l’Israel Land Fund. Un altro è Benny Steinmetz, franco-israeliano: arrestato nel 2023 a Cipro, è tra le altre cose sotto accusa per corruzione e traffici illegali nel settore minerario in Africa e, infatti, la sua compagnia (BSG Resources) è impegnata nell’espropriazione delle risorse naturali congolesi.

Dan Gertler, invece, ha stipulato diversi contratti con il governo congolese: i suoi rapporti con l’allora presidente del Congo Kabila (conosciuto per la repressione violenta delle contestazioni di piazza, la corruzione e la violazione sistematica dei diritti umani; Gertler e la sua compagnia sono accusati di essere suoi complici) gli hanno permesso di dedicarsi all’estrazione dei diamanti tramite la sua International Diamond Industries (secondo questi contratti, che stabiliscono un truffaldino partenariato tra settore privato e statale, il 70% dei profitti derivanti dall’estrazione vanno al Gertler Group, mentre soltanto il 30% finisce delle mani del governo congolese).

Israele fornisce, inoltre, anche le sue avanzate tecnologie di spionaggio al Ruanda, il principale responsabile della catastrofe umanitaria in Congo, che le utilizza per spiare oppositori e attivisti congolesi. Non a caso, Uganda e Ruanda sono partner molto stretti del regime sionista e sono conosciuti anche per il traffico illecito di diamanti congolesi: Israele è uno dei principali beneficiari di questa pratica.

Ma facciamo un passo indietro. Tra chi è stato accusato di ignorare la maggioranza dei conflitti nel mondo ci sono anche i partecipanti alla Global Sumud Flotilla. Ma è assurdo, e il caso di Greta Thunberg è emblematico: negli ultimi anni ha incontrato e solidarizzato con i rifugiati dell'Artsakh (Nagorno-Karabakh), ha contestato il baraccone e il greenwashing promosso dalla COP 29 a Baku e ha visitato e sostenuto i rifugiati saharawi. Il valore internazionalista e solidale di queste azioni è innegabile. E ciò, a grandi linee, vale anche per gli altri partecipanti alla Global Sumud Flotilla: attivisti, medici, volontari, militanti politici che da anni e anni sono protagonisti delle più disparate lotte e si sono spesso occupati dei conflitti più remoti.

Ergo, no, il supporto alla Palestina non è una battaglia “glamour”: è un nodo fondamentale nel tessuto dei crimini imperialisti. Un nodo che se sciolto può contribuire al rilancio di un’idea di mondo, di società e di rapporti internazionali completamente diversa.

È una "moda"? Al di là dei ragionevoli dubbi sulla credibilità di questa accusa e sulla sua razionalità, cosa si può rispondere? Magari. Magari tutto il proletariato si unisse scosso dalla tragedia palestinese. Magari la gioventù e tutti i popoli oppressi del mondo invadessero le strade delle città al grido di “Palestina libera”. Magari divenisse un fenomeno in voga il desiderio di rivalsa contro il sistema banditesco responsabile del sionismo, dello sfruttamento e della discriminazione in tutte le sue forme. Diventassero di moda il marxismo e l'anticapitalismo conseguente, dovremmo forse lamentarcene?

Alessio Ecoretti

È uscito il nuovo numero di Unità di Classe

 


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20 Ottobre 2025

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In questo numero:


Editoriale. Per un autunno di vera svolta - Marco Ferrando

Espropriare gli espropriatori. Convertire la conversione - Mauro Penoncelli

Il movimento No Ponte sullo Stretto non si ferma - Daniele Gravotta

Flotilla: per una virata a sinistra - Alessandra Giorgi

Quarantacinque anni fa, i 35 giorni della FIAT - Diego Pace

GKN e Le Radici del sindacato - Lorenzo Mortara

A cinquant'anni dalla presa di Saigon. Cosa fu e cosa resta della lotta antimperialista del popolo vietnamita (seconda parte) - Natale Azzaretto

La resa ingloriosa del PKK - Mario Georgiano

...e poi Palestina, il vertice di Anchorage, la rivoluzione portoghese del 1975, Venezuela e altro ancora

Per una Palestina libera dal fiume al mare. No all'ingannevole accordo di Trump e Israele

 


Dichiarazione internazionale

21 Ottobre 2025

English version

La massiccia e crescente mobilitazione e lo spostamento della maggioranza dell’opinione pubblica mondiale a favore del popolo palestinese e contro il genocidio dello Stato sionista di Israele hanno accelerato gli sforzi dell’imperialismo per ottenere una nuova e precaria tregua, il cui obiettivo è smantellare tale mobilitazione internazionale e fornire al sionismo nuovi mezzi; tregua basata su un patto controrivoluzionario con la leadership palestinese.

Comprendiamo e condividiamo il conforto della popolazione di Gaza per la cessazione dei bombardamenti quotidiani durati per due anni e per la possibile fine dell’assedio criminale, che l’ha sottoposta a una inesorabile crisi umanitaria. Ma dobbiamo essere onesti: questo non significa una vittoria della resistenza palestinese, come affermano erroneamente varie organizzazioni. La realtà è molto più complessa.

Questa tregua è in parte il risultato della straordinaria mobilitazione globale, così come del pericolo che la situazione di Gaza diventasse imprevedibile. Ma l’accordo parallelo che Hamas e Israele hanno firmato è stato negoziato alle condizioni imposte dagli Stati Uniti. I suoi 20 punti, se si concretizzassero, rappresenterebbero un arretramento per la lotta per l’emancipazione della Palestina. Questo accordo, in sostanza, propone alla Palestina di accettare di sottomettersi all’imperialismo e di legittimare l’occupazione sionista.

Per raggiungere questo accordo, le potenze imperialiste hanno contato sulla collaborazione diretta del Qatar, dell’Egitto e della Turchia, e sulla celebrazione complice dell’intera borghesia occidentale, delle autocrazie arabe e persino della Russia e della Cina.

L’accordo, se l’imperialismo riuscisse a impedirne il fallimento prima che si raggiunga la sua seconda fase, oltre al rilascio degli ostaggi israeliani e dei prigionieri palestinesi, che è già in via di definizione, propone la trasformazione di Gaza in un protettorato statunitense sotto la tutela di un governo fantoccio guidato da Donald Trump e Tony Blair.

Non richiede che Israele ritiri completamente le sue truppe da Gaza né che ponga fine alla sua avanzata coloniale in Cisgiordania. Richiede però che Hamas si disarmi e non ostacoli né la formazione di un nuovo governo di tecnocrati palestinesi “apolitici” e di “esperti internazionali” né l’istituzione di una forza militare straniera che assumerebbe il controllo della Striscia.

La risposta genocida del sionismo alle azioni di Hamas del 7 ottobre ha scatenato una mobilitazione internazionale a favore della Palestina ben oltre qualsiasi mobilitazione precedente. Il processo si è esteso ben oltre il suo epicentro storico nei settori di sinistra, esplodendo nei principali paesi imperialisti del mondo. È stato massiccio negli Stati Uniti, con accampamenti in varie università e in significativi settori della comunità ebraica che si sono dissociati dal sionismo. Centinaia di migliaia e milioni hanno marciato in Australia e in Europa, nonostante il fatto che i maggiori sindacati e i partiti socialdemocratici nei paesi imperialisti si siano tenuti al margine di questo movimento o abbiano effettivamente continuato a sostenere Israele, e i regimi mediorientali (a eccezione degli houthi) abbiano impedito alla cosiddetta piazza araba di mobilitarsi per forzare il blocco di Gaza, contro i sionisti e gli stati occidentali che sostenevano il genocidio. In numerosi paesi imperialisti diverse organizzazioni palestinesi sono state vietate e migliaia di manifestanti sono stati criminalizzati o addirittura accusati di terrorismo. Ma nonostante tutto ciò, il movimento è cresciuto e lo sciopero generale recente e i blocchi portuali in Italia, in solidarietà con la Global Sumud Flottilla, hanno scosso il mondo e cominciato a servire da esempio.

È un dato di fatto che gli Stati Uniti e Israele, nonostante il complice sostegno dell’intera sovrastruttura capitalista, hanno perso la battaglia contro l’opinione pubblica mondiale. Questo è il risultato più significativo che la causa palestinese ha ottenuto. Israele non era mai stato prima nella storia così isolato a livello internazionale, né così soggetto a condanne e critiche.

Tuttavia, a due anni dal perpetrarsi del genocidio, il popolo palestinese non è in condizioni migliori rispetto a prima del 7 ottobre 2023. Gaza è stata distrutta e militarmente occupata dall’esercito sionista; sono state perse almeno 67.000 vite palestinesi, probabilmente molte di più, comprese quelle di 20.000 bambine e bambini; decine di migliaia sono rimasti feriti e mutilati. La Cisgiordania continua a perdere territorio a favore dei coloni sionisti e la vita a Gerusalemme Est è sempre più difficile.

L’azione di Hamas del 7 ottobre ha raggiunto il suo obiettivo immediato, ossia di interrompere il processo di “normalizzazione” delle relazioni tra Israele e i paesi arabi, note come Accordi di Abramo. Ma l’aspettativa di Hamas che il colpo inferto a Israele esercitasse sufficiente pressione per costringerlo a negoziare un accordo non si è concretizzata. Né si è verificata l’ipotesi che l’Iran avrebbe risposto con forza a una reazione smisurata di Israele. È divenuto chiaro che il regime dei mullah difende solo i propri interessi capitalisti e di casta. Anche i regimi arabi hanno fallito nel sostenere la Palestina, e stanno appoggiando l’accordo in corso, che cerca la resa della resistenza per tornare al percorso della “normalizzazione” delle relazioni con Israele e con l’imperialismo.

La scommessa sbagliata di Hamas ha portato al genocidio, alla distruzione e all’occupazione di Gaza, e ora a un patto pieno di concessioni, che ricorda quello firmato da Arafat a Oslo più di trent'anni fa. Non è un caso che, sotto la pressione delle mobilitazioni, diversi paesi, come Spagna e Regno Unito, abbiano riesumato il sogno dei due stati, che nell'accordo non è nemmeno menzionato come obiettivo.

Nessuno Stato palestinese è possibile fintanto che esisterà, sulle sue terre storiche, uno Stato coloniale, espansionista e genocida. È stato dimostrato che Israele non permetterà mai questo. Al contrario, il suo progetto strategico è la completa pulizia etnica del popolo palestinese e la costruzione di un “Grande Israele”, conquistando sempre più territori.

Per ottenere la pace, e perché essa sia duratura e giusta per il popolo palestinese e per tutti i popoli della regione, dobbiamo prima sconfiggere il mostro sionista e la sua continua espansione coloniale. Finché lo Stato terrorista di Israele, costruito col sangue e col fuoco dagli imperialisti, continuerà a esistere, l’unica “pace eterna” possibile sarà quella pronunciata nelle litanie funebri.

Solo la costruzione di una Palestina unita, libera, laica e socialista, dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, potrà permettere ai popoli della regione di vivere nuovamente in pace. Ma questa soluzione non verrà dalle mani del capitalismo arabo, né dai mullah iraniani, né attraverso patti con alcuna potenza imperialista. Potrà venire solo dalle masse lavoratrici arabe, qualora guidino una rivoluzione che rovesci i governi capitalistici del Medio Oriente, che sconfigga il mostro sionista e istituisca una federazione di repubbliche socialiste in tutta la regione.

Nel 1948, i nostri predecessori politici della Quarta Internazionale, l’unica organizzazione del movimento operaio mondiale che si oppose alla creazione dello Stato sionista, dichiararono:

«Grazie alla direzione borghese e feudale dei paesi arabi – agenti dell’imperialismo – siamo stati sconfitti in una fase della lotta contro l’imperialismo. Dobbiamo prepararci alla vittoria nella fase successiva, cioè all’unificazione della Palestina e di tutto il Medio Oriente, creando l’unica forza che può raggiungere questi obiettivi: il partito proletario rivoluzionario unificato del Medio Oriente».

Oggi come allora, questa è la strategia su cui scommettono coloro che hanno sottoscritto questa dichiarazione. Pertanto, ci impegniamo a promuovere, aiutare e costruire partiti rivoluzionari nella regione, ricompattando senza alcun settarismo i militanti combattivi che condividono questi obiettivi.

Lega Internazionale Socialista (LIS), Lega per la Quinta Internazionale (L5I)