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Sciopero generale!

 


Contro lo sblocco dei licenziamenti la necessità del più ampio fronte di lotta

30 Maggio 2021

Liberalizzazione del subappalto e sblocco dei licenziamenti. Siamo giunti a un passaggio cruciale dello scontro di classe. È necessaria una risposta uguale e contraria. Può e deve essere lo sciopero generale, unitario e di massa, con una piattaforma di lotta generale

Liberalizzazione del subappalto e sblocco dei licenziamenti. Siamo giunti a un passaggio cruciale dello scontro di classe. È necessaria una risposta uguale e contraria. Può e deve essere lo sciopero generale, unitario e di massa.

La liberalizzazione del subappalto è criminogena verso i lavoratori. Hanno eliminato il massimo ribasso su pressione di quei padroni che non vogliono la concorrenza della criminalità peggiore. Ma al tempo stesso liberalizzano una pratica gravida di per sé di supersfruttamento, come sa bene chi conosce l'organizzazione del lavoro in un cantiere navale o nell'edilizia o nei magazzini. Un supersfruttamento che si esercita in primo luogo verso la manodopera immigrata, più facilmente ricattabile, ma non solo. Mentre il cosiddetto appalto integrato, in cui progettazione, esecuzione, controllo fanno capo alla stessa azienda, è destinato a moltiplicare i casi Morandi o funivie, dove il profitto uccide alla cieca.
Le rassicurazioni sulla protezione del lavoro o la promessa di attenzione alla sicurezza valgono meno di zero, come l'esperienza insegna. Ciò che conta è la realtà. E la realtà ci dice che la “semplificazione” come eliminazione dei controlli, quando già non si controlla nulla, e la liberalizzazione dei subappalti quando già di subappalti si muore, sono solo nuove morti annunciate e nuovi crimini, innanzitutto contro i lavoratori.
L'argomento per cui “è l'Unione Europea che ce lo chiede come condizione per darci i soldi” peggiora il quadro. I soldi li intascano le imprese per ristrutturare, cioè per sopprimere lavoro più che per crearlo. Per questo Confindustria e Confedilizia chiedono subappalto libero e taglio dei controlli: un doppio affare sulla pelle dei lavoratori. Sfruttare meglio e di più col portafoglio più gonfio. Altro che “interesse generale”!
Il fatto che la burocrazia CGIL presenti tutto questo come un importante risultato dell'azione sindacale dimostra solo che non c'è limite né alla vergogna né all'ipocrisia.

Le cose vanno peggio in fatto di sblocco dei licenziamenti. Come avevamo previsto e denunciato per tempo, siamo di fronte a una valanga annunciata, a un'onda d'urto contro la classe operaia. Già l'anno della pandemia è stato un anno di licenziamenti per quasi un milione di lavoratori precari, in particolare di giovani e di donne, a partire da turismo, ristorazione, commercio, trasporti. Peraltro nella stessa industria dall'agosto scorso il blocco dei licenziamenti era ridotto ormai a un colabrodo per via delle numerose eccezioni previste, a partire dalla cessazione dell'attività. Ma ora lo sblocco per la grande industria e per l'edilizia dal primo luglio, e a seguire in autunno per le PMI, significa un salto netto e drammatico dell'offensiva padronale. Tanto più odioso se si pensa che la grande industria è stata colpita dalla crisi assai meno che nel 2009, e oggi vanta una rapida ripresa.
La libertà di licenziare accordata ai padroni significa solo libertà di ristrutturare per aziende che già macinano profitti, ma che li vogliono accrescere tagliando i costi. Magari per delocalizzare, magari per fondersi con altre aziende, magari per pagare i debiti alle banche, magari per investire nella speculazione finanziaria e di Borsa. Magari, come spesso avviene, per ricomprare in Borsa le proprie stesse azioni (buy-back) e accrescere così il loro valore e i relativi dividendi. Licenziare gli operai per ingrassare parassiti, questo è lo sblocco annunciato.

I licenziamenti saranno quasi seicentomila, secondo le stime insospettabili di Banca Italia, che naturalmente sostiene lo sblocco. Oltre un milione secondo altre stime. In ogni caso una ecatombe.
L'onda partirà dalla grande industria, dal cuore del proletariato italiano. Colpirà gli stessi lavoratori e lavoratrici che nell'anno terribile della pandemia sono stati costretti a lavorare e produrre senza protezioni o con protezioni fasulle mentre l'Italia era ferma. Lavoratori e lavoratrici che hanno retto sulle proprie spalle l'intera impalcatura della vita economica e sociale senza mai potersi fermare. Lavoratori e lavoratrici che hanno pagato un prezzo alto al contagio in termini di vite, ma anche in fatto di condizioni di lavoro e sfruttamento.
Nel momento della “ripresa”, della decantata riapertura, dell'annunciato “ritorno alla normalità”, a loro si dice “andate a casa”. Cioè in mezzo a una strada. Poi siccome il governo è buono e illuminato offre ai padroni anche un'altra scelta possibile: ricorrere alla continuità per un po' della cassa Covid senza scucire un euro, e dunque a spese dello stato, anche qui per garantire i profitti. Sta ai padroni la scelta al buffet. È quella che la grande stampa borghese presenta come concessione al sindacato: i padroni possono fare come vogliono, ci affidiamo alla loro umanità. Agli operai toccano le conseguenze. Nel momento stesso in cui Confindustria si è fatta in quattro per pretendere lo sblocco, la scelta spesso sarà il licenziamento.

Occorre alzare un argine. Subito. E dev'essere un argine vero.
Industriali, banchieri, governo, e tutti i partiti borghesi, dal PD alla Meloni, si sono uniti attorno allo sblocco del licenziamenti. Occorre unire sul fronte opposto i lavoratori e le lavoratrici, le loro organizzazioni sindacali, i partiti che parlano in loro nome. È l'ora del fronte unico. Non di questa o quella sua simulazione in miniatura, ma di un vero fronte di massa. Non sappiamo se vi sono le condizioni e le disponibilità necessarie a crearlo. Sappiamo che questa è un'esigenza oggettiva a fronte del salto dell'offensiva padronale.

Per questo è necessario che ogni organizzazione del movimento operaio, grande o piccola, sindacale e politica, si assuma le proprie responsabilità.
In primo luogo la CGIL. Il suo apparato dirigente è complice determinante della deriva del movimento operaio negli ultimi quarant'anni. Tutto il peggio delle politiche padronali – precarizzazione, privatizzazioni, tagli sociali, legge Fornero, distruzione dell'articolo 18 – è passato o col suo sostegno o col suo lasciapassare. In ogni caso con la sua complicità. Lo stesso governo Draghi è nato col consenso attivo della burocrazia CGIL, che si è subito iscritta all'unità nazionale. E ora? Lo sblocco dei licenziamenti mette la CGIL con le spalle al muro. O la capitolazione o la lotta. Non esiste una terza possibilità. L'idea di rimettersi fiduciosi al dibattito parlamentare, sperando in qualche emendamento sottobanco, è semplicemente ridicola. Quale sarebbe oggi il partito borghese disponibile a contrastare il diktat vincente di Confindustria per tutelare gli operai? L'idea di compensare lo sblocco con gli ammortizzatori sociali non è meno penosa. Non solo perché gli ammortizzatori sono declinati al futuro eventuale mentre lo sblocco dei licenziamenti è imminente, ma per la natura stessa degli espedienti annunciati: o puri incentivi ai padroni a danno degli operai (scivoli pensionistici con decurtazione della pensione), o pannicelli caldi per i futuri licenziati (piccolo allungamento della Naspi e riduzione del suo décalage). Ragionare oggi in questi termini significherebbe accettare i licenziamenti. Esattamente ciò che non può essere accettato.

Maurizio Landini dichiara che la CGIL non può subire lo sblocco licenziamenti? Prendiamo atto. Noi non abbiamo un grammo di fiducia nel segretario della CGIL. Ma diciamo che la CGIL ha un solo modo per far seguire i fatti alle parole: quello di organizzare da subito lo sciopero generale. Uno sciopero generale vero, capace di bloccare il paese. Uno sciopero che rivendichi il ritiro dello sblocco, senza alcun mercanteggiamento di sorta. Ogni altra soluzione (manifestazioni pro forma, presidi simbolici a Montecitorio, chiacchiere su carta stampata e talk show) può essere forse utile per le telecamere, non per gli operai. Gli operai hanno bisogno di una lotta seria. Se Landini non è in grado neppure di promuovere uno sciopero generale per opporsi a un milione di licenziamenti, allora se ne vada. Una richiesta formale di sue dimissioni che l'opposizione interna alla CGIL avrebbe in quel caso il dovere di avanzare, senza timidezze e balbettii.

Se, come tutto lascia credere, la CGIL non attiverà lo sciopero, la responsabilità di indirlo e prepararlo dovrà assumerselo l'insieme del sindacalismo di classe, unitariamente e da subito. Non servono a nulla, tanto più di fronte alla valanga annunciata, puri scioperi di sigla di questa o quella organizzazione autocentrata. Serve il più ampio fronte unitario di lotta di tutta l'avanguardia di classe. Solo così lo sciopero può diventare attrattivo per quei settori di classe non organizzati nel sindacalismo di base, oggi privi di una indicazione alternativa. Sono i settori di classe dell'industria che nel marzo del 2020 attivarono scioperi di massa in molte imprese per chiedere sicurezza sanitaria, costringendo governo padroni e burocrati a inventarsi protocolli farsa pur di bloccare la lotta. Sono settori di classe essenziali cui è necessario rivolgersi e parlare.

È necessario che lo sciopero generale contro lo sblocco dei licenziamenti si coniughi a una piattaforma di lotta generale, a partire dalla riduzione generalizzata dell'orario di lavoro (32 ore pagate 40) e una patrimoniale straordinaria del 10% sul 10% più ricco.
È necessario che lo sciopero si leghi all'indicazione dell'occupazione delle aziende che licenziano e della loro nazionalizzazione senza indennizzo sotto controllo operaio.
È necessario infine che nei settori oggi investiti dallo squadrismo padronale, come la logistica, dove i padroni ricorrono a mazzieri prezzolati per spezzare i picchetti (come alla FedEx e altrove), quei mazzieri trovino una risposta organizzata degli operai sullo stesso terreno che hanno scelto: con la formazione di squadre di autodifesa munite di bastoni, che agiscano come servizio d'ordine dei picchetti. Alla forza si risponde con la forza, uguale e contraria, come nella storia migliore del movimento operaio.

Crediamo che i circuiti unitari della sinistra di classe che si sono costituiti, a partire dal Patto d'azione anticapitalista per il fronte unico di classe e dall'Assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi, abbiano le carte in regola per sviluppare immediatamente una proposta di azione unitaria rivolta all'insieme del sindacalismo di classe, fuori da ogni logica di primogenitura e pregiudiziali.
La lotta della FedEx, straordinaria per molti aspetti, è stata giustamente valorizzata da tutti noi per il suo esemplare carattere classista, la sua natura radicale e prolungata. Proprio per questo è importante metterla al servizio di un allargamento del fronte di classe, con una proposta pubblica di unità d'azione che metta ogni soggetto di fronte alle proprie responsabilità, privandolo di ogni alibi o pretesto.

Partito Comunista dei Lavoratori

La funivia del capitale

 


I costi sociali del profitto. Il capitalismo e la vita

28 Maggio 2021

La strage della Funivia di Stresa, nel suo piccolo, è una carta d'identità della società borghese. Anche della sua ipocrisia.
In due giorni, i maggiori intellettuali di riferimento della borghesia liberale hanno offerto un estratto chimicamente puro della propria ipocrisia o della propria meschinità.
Sul fronte della meschinità, Paolo Mieli ha sbaragliato ogni possibile concorrenza: ha denunciato “la pista terrorista”. Siccome nella strage sono morte persone israeliane “può essere stato un attentato palestinese, bisogna indagare”. Per l'occasione ha presentato come “capo della sicurezza israeliana” il responsabile per la sicurezza nella scuola di sua figlia a Milano. In questo caso il fanatismo sionista è il principale responsabile di una colossale idiozia, di cui però per spirito di reverenza nessuno gli ha chiesto conto, neppure sulla stampa concorrente.
Nel fronte dell'ipocrisia ha primeggiato invece Ezio Mauro, con un editoriale su Repubblica intitolato «La sicurezza e il capitale», dove il nostro lancia un lirico appello a «ricreare uno spirito di autentica comunità. Naturalmente puntando sull'energia di chi vuole ripartire, sull'interesse del capitale e sull'impegno della forza lavoro: ma dentro un disegno comune, perché il lavoro è libertà solo se produce insieme cittadinanza, benessere, progresso e sicurezza.». Applausi scroscianti. In realtà è l'ennesimo appello a un capitalismo immaginario, per non guardare il capitalismo reale. Quello in cui l'”interesse del capitale”, nel mentre sfrutta il lavoro, fa strage di vite.

I fatti di Stresa sono impietosi. L'azienda chiamata Ferrovie del Mottarone aveva gestito la funivia di Stresa per trent'anni, dal 1970 al 1997. Poi aveva perso la concessione a causa del grave degrado dell'impianto rilevato dalla magistratura. Ma nel 2001 la stessa società responsabile del precedente degrado ritorna in pista vincendo la gara d'appalto, grazie al massimo ribasso. Dal 2014 nessuna altra azienda si candida in gara, perché nessuno può offrire prezzi più bassi.

Luigi Nerini, attuale proprietario delle Ferrovie del Mottarone (la società che gestisce la funivia in questione) aveva acquistato quattro anni fa l'80% della funivia dal gruppo altoatesino Leitner, dandogli in pegno il capitale della sua società. Il gruppo Leitner dal 2016 fornisce la manutenzione ordinaria e straordinaria della funivia, percependo un canone annuale di 150000 euro. Gestore e controllore erano dunque stretti da una relazione d'affari. Le Ferrovie del Mottarone, che controlla la funivia, fa un utile pari a oltre il 20% del fatturato annuo. Luigi Nerini prende un compenso di 96000 euro dalla sua società, e ha in concessione la funivia dal comune di Stresa sino al 2028. Il comune versa 130000 euro annui alla società di Nerini per la gestione dell'impianto.
Dunque: Nerini ha il margine economico sufficiente per continuare a praticare la riduzione dei costi, sbaragliando ogni concorrenza e facendo lauti profitti; la Leitner, che dovrebbe controllare l'impianto, ha interesse alla massima reddittività delle Ferrovie di Mottarone perché partecipa del suo capitale. Quale incentivo può avere alla severità dei controlli e ai relativi costi? Nessuno.

Quanto al cosiddetto controllo pubblico del Ministero dei trasporti, peggio che andar di notte. L'ultimo controllo dell'USTIF, organo periferico del ministero, risale al 2018. Per tre anni un impianto che ha in mano ogni giorno la vita di centinaia di persone è stato “controllato” dai privati. Da chi lo gestisce (Ferrovie di Mottarone) e da chi è in affari con chi lo gestisce (Gruppo Leitner).
Il blocco dei freni di emergenza per massimizzare gli incassi è il frutto di questo. Non del caso o della «banalità del male» (Mentana). Ma della legge del profitto su cui si fonda l'intero ordine della società attuale.

L'abbiamo visto col Ponte Morandi quanto è grande il cinismo degli azionisti. Salvo il fatto che i Benetton non solo non finiscono in galera ma incasseranno fior di miliardi dalla cessione di Autostrade. I pesci più piccoli delle Ferrovie di Motterone subiranno (forse), ce lo auguriamo, pene severe. Ma nessuna pena riporta in vita le vittime di un omicidio. Né soprattutto evita la moltiplicazione annunciata di altri omicidi. Tanto più oggi.

Infatti il governo Draghi annuncia la liberalizzazione dei subappalti al massimo ribasso, l'appalto integrato (dove progettazione e controllo sono unificati), l'abbattimento dei controlli (quali?) sugli investimenti pubblici, oltre alla libertà di licenziamento. Ovunque l'imperativo del post-pandemia è “correre, correre, correre”. Ma verso dove, e a quale prezzo?

Solo una rivoluzione può cambiare le cose.

Partito Comunista dei Lavoratori

Sulle elezioni amministrative 2021

 


Un’occasione per opporsi al governo unito del capitale con un programma di rivoluzione

27 Maggio 2021

Le elezioni amministrative, che vedranno in ottobre le “cittadine e i cittadini” esprimersi per il rinnovo dei consigli comunali di numerosi comuni, tra cui molte città capoluogo, da Roma a Milano, Napoli, Torino, Bologna, etc., cadono a ridosso della combinazione della più grave crisi sanitaria e la più grande crisi economica del dopoguerra.

La crisi sanitaria si è trasformata in una tragedia dettagliata dall’elevatissimo numero di morti e persone debilitate in permanenza, provocato sicuramente dall’aggressività del Coronavirus, ma altrettanto indubbiamente dallo sfacelo del sistema sanitario nazionale debilitato da decenni di tagli e privatizzazioni. Un sistema sanitario che già prima dell’epidemia contava decine centinai di ospedali in meno e la carenza di decine di migliaia tra medici, infermieri e personale sanitario.

Semplicemente il sistema sanitario non ha retto l’impatto del contagio e la risultante è stata la conta dei morti.

A ciò si sono aggiunte le incompetenze del governo e la sua acquiescenza alle criminali interessi dei capitalisti che, finché hanno potuto, si sono opposti al lockdown in molti territori, continuando a fare lavorare i propri dipendenti spesso in assenza dei presidi sanitari essenziali.

Nonostante le resistenze, il governo ha dovuto prendere misure di restrizione sanitaria drastiche che hanno bloccato interi settori industriali (il settore del turismo, il settore dell’auto, il settore dei servizi, etc.) determinando una crisi che ha colpito tutti, anche se, come sempre, alcuni settori capitalistici si sono ingrassati proprio grazie ad essa (industria farmaceutica, le grandi piattaforme per il commercio on-line come Amazon, la logistica, le banche che speculano sul debito pubblico in crescita esponenziale).

La crisi economica è divenuta così l’ombra di quella pandemica.

Large fasce di piccola borghesia (piccoli commercianti, del settore turistico, dei servizi alla persona, etc.) sono stati rovinati, e dovendo garantire il grande capitale (garanzie pubbliche sul credito ed ulteriori defiscalizzazioni) il governo ha concesso loro risorse insufficienti (ristori) per di più caricandoli sulla fiscalità generale (anche con condoni e minori controlli sull’evasione fiscale), ossia sulle spalle del lavoro dipendente che vi contribuisce all’80%.

La crisi, dunque, è come un cerino acceso che dal grande capitale viene passato alla piccola borghesia per finire immancabilmente per scottare le mani alle lavoratrici e ai lavoratori, in definitiva la solita vittima sacrificale.

Le misure prese dalle grandi centrali imperialistiche, la UE e gli Usa, sono straordinarie. Nell’ambito del Recovery Plan all’Italia spettano 248 miliardi di euro in 6 anni, oltre alla possibilità dello scostamento del rapporto debito-PIL permesso dalla sospensione del patto di stabilità.

La misura per dimensioni appare una sorta di riedizione del piano Marshall. Si connota sostanzialmente per una parte di un vero e proprio prestito “agevolato” (a basso interesse) e per un’altra di un esborso a fondo perduto, caricato sulla socializzazione del debito a livello europeo. Ciò significa che da una parte il prestito contratto si dovrà restituire, con gli interessi, direttamente, andando a gravare sulle disponibilità finanziarie per il futuro; dall’altra occorrerà metter mano a “riforme” che sostanzialmente taglieranno ulteriormente lo stato sociale, dalle pensioni ai servizi (scuola, sanità).

Insomma, questi finanziamenti sono carburante per far ripartire l’economia capitalista e la proiezioni imperialista italiana (Libia, Medioriente), unitamente ad una loro ristrutturazione (Industria 4.0) a scapito delle condizioni di vita e dei diritti della classe lavoratrice e del complesso del mondo del lavoro.

La macelleria sociale conseguente è già in corso e non potrà che aggravarsi con lo sblocco dei licenziamenti, necessario a questa ristrutturazione, secondo l’ineluttabile logica del capitale.

La borghesia italiana e i suoi partiti si sono attrezzati a questo durissimo passaggio di fase. Il varo del governo Draghi, un governo di unità nazionale sostenuto dalla grande maggioranza dei partiti dell’arco parlamentare, rappresenta esattamente il varo di un autentico comitato di gestione delle misure abnormi per il rilancio e la ristrutturazione del capitalismo italiano.

Da tempo il PCL è impegnato in diversi percorsi e iniziative di unità d’azione d’avanguardia, sempre con l’obbiettivo e nella prospettiva della costruzione del più ampio fronte unitario di classe che avanzi un la vertenza generale sulla base delle rivendicazioni del programma transitorio, quale principio tattico per creare un ponte tra i bisogni immediati della classe lavoratrice e la prospettiva della rivoluzione socialista. L’unità dei capitalisti e dei partiti borghesi dietro il vessillo del governo Draghi rende ancora più urgente la risposta della classe operaia con la forza della sua mobilitazione unitaria, ciò che implica l’ulteriore attivazione delle forze del Partito.

Tuttavia, il programma di rivoluzione del Partito non si limita solo alle misure rivendicative che il fronte unico di classe dovrebbe portare avanti per aprirsi la strada verso un’inversione degli attuali rapporti di forza tra le classi, ma indica l’unica soluzione politica che possa assicurare l’alternativa di società: il governo delle lavoratrici e dei lavoratori, basato sulla loro forza organizzata.

Le elezioni amministrative rappresentano l’occasione per presentare questo programma di rivoluzione all’attenzione della più vasta platea di lavoratrici e di lavoratori e delle classi popolari. Di fronte alla portata della crisi l’appuntamento elettorale assume un significato nazionale e non può essere ridotto ad un fatto locale. Lo stesso commentario mass-mediatico lo afferma quotidianamente. Dappertutto bisogna far crescere l’opposizione al governo Draghi. Ciò è assolutamente necessario.

Ma non basta: senza un programma di rivoluzione che non tragga conforto dal bilancio politico del disastro compiuto negli ultimi decenni dalle sinistre riformiste, con il loro appoggio nei più diversi paesi dell’Europa a governi borghesi e alle loro politiche di sacrifici ai danni della classe lavoratrice, si è condannati a ripetere gli stessi errori e ad indebolire le possibilità del risveglio della mobilitazione operaia.

Per questo, sul terreno elettorale non è possibile l’unità con i riformisti, destinata immancabilmente ad un mercato di programmi e di parole d’ordine sul terreno del minimo comune denominatore. Un minimo comune denominatore di cui oggi misuriamo la drammatica sproporzione e inadeguatezza di fronte alla catastrofe sociale.

La sirena unitaria per liste genericamente di sinistra può esercitare un’attrattiva anche nei confronti di tante compagne e compagni del tutto in buona fede, ma ciò che vien sempre rimosso al piede di partenza della composizione di tali liste è appunto il bilancio politico del riformismo. Alcune compagne e compagni possono credere, con tutta onestà, che la candidatura in liste unitarie possa facilitare la visibilità del Partito laddove non avesse le forze per la presentazione elettorale autonoma. Tuttavia, il prezzo da pagare è troppo salato: proprio le ragioni del Partito verrebbero messe da parte, a partire dal suo impegno per l’unità d’azione delle avanguardie per il fronte unico di classe e lo sbocco politico che dovrebbe avere per garantire le sue rivendicazioni: il governo delle lavoratrici e dei lavoratori.

Il vantaggio sarebbe solo delle organizzazioni riformiste, che, come un’agenzia interna al movimento operaio, lavorano incessantemente, ora con frasi scarlatte, ora con argomenti “ragionevoli” e concreti, a consegnarlo mani e piedi nelle mani della politica borghese e degli interessi capitalistici.

Le militanti e i militanti del PCL, senza smentire per un attimo, anzi proprio per rilanciare il loro impegno unitario riferito a tutte le organizzazioni che fanno riferimento alla classe lavoratrice, rifiutano il metodo delle liste unitarie con i riformisti, riaffermano la tattica elettorale leninista, che vuole utilizzare le elezioni come una tribuna rivoluzionaria, e lavorano controcorrente per la presentazione elettorale autonoma delle liste del Partito Comunista dei Lavoratori alle prossime elezioni amministrative.

Partito Comunista dei Lavoratori

Subappalti e licenziamenti, la stretta si avvicina

 


Unire le forze, prepararsi allo scontro

Liberalizzazione del subappalto al massimo ribasso significa moltiplicazione dello sfruttamento e degli omicidi bianchi. Sblocco dei licenziamenti a fine giugno significa centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici buttati su una strada. Prolungamento sino a fine anno dello smart working con decisione unilaterale dell'azienda significa stralciare l'organizzazione del lavoro dalla contrattazione. Ritorno a pieno regime della Legge Fornero con la fine dell'elemosina di quota 100 significa aumento dell'età pensionabile per milioni di lavoratori e lavoratrici.

Il governo Draghi è, come si vede, un cantiere aperto. Dietro la cortina fumogena del Recovery Plan e delle sue meraviglie, celebrate con magna pompa dalla grande stampa, emerge sempre di più il suo contenuto di classe.

Da un lato un gigantesco travaso di miliardi nelle tasche di imprese e banche attraverso un'operazione a debito presso il capitale finanziario che sarà scaricata sui lavoratori senza che i padroni paghino un solo euro. Persino l'idea miserabile di Enrico Letta di un obolo simbolico sopra i cinque milioni di patrimonio è stato considerato irricevibile da Draghi, perché «è il momento di dare e non di togliere», cioè di continuare a dare ai padroni togliendo soldi e diritti agli operai.
Dall'altro lato un semaforo verde alla ristrutturazione delle aziende attraverso la mano libera su operai e impiegati: l'eterno rilancio del processo di accumulazione sulla pelle degli sfruttati.
Tutto questo, si badi bene, nel momento stesso in cui imprese e banche annunciano la forte ripresa dei dividendi da distribuire agli azionisti: dopo la manna dei 21 miliardi del 2019, e la discesa a “soli” 13 miliardi nell'anno della pandemia, si torna ora alla previsione di 18 miliardi di dividendi con l'annunciata ripresa. Piazza Affari fa festa.

E il sindacato? Maurizio Landini ha dichiarato che la liberalizzazione del subappalto e del massimo ribasso è «indecente» e che «se dovesse restare», lui sarebbe pronto «persino» allo sciopero generale. Tutte ipotetiche di terzo tipo che servono solo a chiedere al governo una qualche foglia di fico dietro cui ripararsi. Come dire: “Sto accettando di tutto. Sto accettando lo sblocco dei licenziamenti in cambio di qualche ammortizzatore. Sto firmando contratti capestro. Ho assicurato la pace sociale nelle aziende sul fronte della pandemia, con protocolli farsa. Ho celebrato le virtù del nuovo governo offrendo collaborazione su tutti i tavoli, dalla Whirlpool, all'Alitalia, all'Ilva, alla logistica, pur sapendo che si avvicina un bagno di sangue. Almeno preoccupatevi di salvarmi la faccia agli occhi degli operai evitando di prendermi pubblicamente a schiaffi, come sul subappalto, senza neanche avvisarmi. Non costringetemi a proclamare controvoglia uno sciopero che potrebbe danneggiare l'unità nazionale cui per primo mi sono iscritto, e a cui tanto tengo”.
Non costringetemi, insomma, a fingere di fare sindacato.

Così ragiona Maurizio Landini, tutto chiacchiere e distintivo. Uno, nessuno, centomila, avrebbe detto Pirandello. Si offre ai padroni come controllore degli operai, e agli operai come mezzo di tutela dai padroni. Per piacere agli operai minaccia lo sciopero, per piacere ai padroni assicura che lo vuole evitare. Ma questo gioco dura fino a quando esiste uno spazio materiale di manovra. Quando la crisi capitalista morde, quando le leggi della competizione mondiale impongono scelte cruciali, la commedia della burocrazia perde il suo palco e il suo pubblico. Deve dire sì o no al programma dei padroni e del loro governo. E regolarmente pronuncia il suo sì, infarcendolo di preoccupazioni e di lacrime ipocrite. Come è accaduto lungo l'intero arco della grande crisi, dal 2008 ad oggi.

Di certo la nuova stretta che si annuncia, assieme ai balbettii della burocrazia CGIL, pongono a tutte le sinistre di classe, politiche e sindacali, una responsabilità precisa: quella di unire nell'azione le proprie forze in funzione di un fronte unitario di classe e di massa. Unità di classe contro unità nazionale. Piattaforma di classe contro piattaforma del governo e dei padroni. Forza contro forza.
I prossimi mesi saranno per tutti un banco di prova. O di qua o di là, in mezzo al guado non si può stare. Il Partito Comunista dei Lavoratori si batterà come sempre, in ogni sede, per la più larga unità di lotta e per la massima radicalità d'azione.

Partito Comunista dei Lavoratori

Solidarietà contro la repressione

 


Il Partito Comunista dei Lavoratori esprime la propria solidarietà al SICobas e ai lavoratori aggrediti dalla polizia nei pressi di Palazzo Chigi venerdì mattina.


La stampa e i media hanno costruito sui fatti una rappresentazione di comodo che vorrebbe i lavoratori nella veste di aggressori e le forze dell'ordine nel ruolo di vittima. Ma la verità è esattamente opposta. Una delegazione di lavoratori di FedEx, dei disoccupati di Napoli, dei lavoratori portuali di Napoli, era giunta a Roma per incontrare il ministro Giorgetti sui temi delle rispettive vertenze. Il ministro si è negato, la polizia invece no. Il corteo, indirizzato verso il MISE, è stato caricato con manganellate alla testa e diversi lavoratori feriti. Lavoratori che si sono semplicemente difesi e che ora vengono accusati di resistenza a pubblico ufficiale in base a quei decreti Salvini che nessuno ha abrogato e nessuno chiede di abrogare, tanto più nel momento dell'unità nazionale attorno a Draghi.

Si conferma dunque una linea di gestione dell'”ordine pubblico” affidata alla repressione mirata contro le lotte di classe più radicali, quelle che non abbassano il capo, quelle capaci di resistenza a oltranza a difesa del lavoro, quelle che non sono disponibili ad accettare soluzioni-truffa. Una repressione che i lavoratori di FedEx hanno subito in prima persona durante tutto il corso della loro grande lotta. Una repressione che costituisce una minaccia pesante in vista dello scontro che si annuncia con la liberalizzazione dei subappalti e lo sblocco dei licenziamenti.

Anche per questo crediamo sia necessario che tutte le sinistre di classe, politiche e sindacali, prendano posizione con chiarezza sui fatti di Roma, in solidarietà coi lavoratori colpiti e col loro sindacato. “Se toccano uno toccano tutti” deve diventare una pratica condivisa fra tutte le organizzazioni dell'avanguardia di classe, e un riferimento per l'insieme del movimento operaio, al di là di ogni divisione di appartenenza sindacale e politica.

Partito Comunista dei Lavoratori

VIDEO: L'INTERVENTO DI MARCO FERRANDO ALLA MANIFESTAZIONE DEL 22 MAGGIO CONTRO IL G 20

 


Contro il G20 e i Draghi del capitale! - Marco Ferrando (Roma, 22 maggio 2021)


Intervento di Marco Ferrando, portavoce nazionale del Partito Comunista dei Lavoratori, alla manifestazione nazionale di sabato 22 maggio 2021 contro i Draghi del capitale e in solidarietà al popolo palestinese.

Costruiamo il fronte unico di massa e di classe, lottiamo per l'alternativa anticapitalista e rivoluzionaria!

L'unica soluzione alla crisi e alla barbarie del capitalismo è la rivoluzione socialista!

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PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

l PCL in corteo - Contro il G20 e i Draghi del capitale! (Roma, 22 maggio 2021)






Il 21 e 22 maggio contro il G20 e il Vertice Mondiale sulla Salute

 


Il 21 maggio a Roma si riunisce il Forum del G20 sul tema della crisi sanitaria e dei vaccini. Ovviamente, al di là della facciata propagandistica, la vera preoccupazione degli stati capitalisti e delle potenze imperialiste è come rilanciare l'economia capitalistica internazionale nel tempo della pandemia e come utilizzare lo strumento dei vaccini in funzione della spartizione delle zone d'influenza e degli equilibri globali. L'incontro sull'Africa a Parigi, cui ha partecipato lo stesso governo italiano, ha confermato la vera natura del negoziato, che non è come vaccinare tempestivamente la popolazione del continente, ad oggi scandalosamente esclusa dalla vaccinazione, ma come usare quest'ultima al fine di riprodurre l'indebitamento dell'Africa col FMI e coi diversi Stati imperialisti (Cina in primis).


Il Recovery Plan dell'Unione Europea si muove in questo quadro. Per la sanità pochi spiccioli, infinitamente meno di quel che si è tagliato in 15 anni, e per di più dirottati verso la sanità privata, che in Borsa fa ovunque affari d'oro. Per il resto, una pioggia straordinaria di miliardi nel portafoglio dei capitalisti e delle banche, in funzione del rilancio del capitalismo europeo su scala mondiale. Per di più finanziata con una gigantesca operazione a debito che sarà scaricato sui salariati e la giovane generazione. Il governo di unità nazionale attorno a Draghi è parte integrante e influente di questa partita.

In contrapposizione alle politiche dominanti e al G20 che le simboleggia, si terranno a Roma due importanti iniziative. Venerdì 21 alle ore 15 è convocata in Via San Pancrazio (Largo 3 giugno 1849) una manifestazione promossa dalle organizzazioni del Patto d'azione anticapitalista, innanzitutto Fronte della Gioventù Comunista e SI Cobas. Sabato 22 è prevista la manifestazione nazionale promossa dalle organizzazioni della sinistra politica di classe e da USB. Il PCL ha proposto all'insieme delle organizzazioni promotrici delle due manifestazioni una gestione unitaria e condivisa delle due giornate. Per questa ragione aderisce e partecipa ad entrambe con la proposta caratterizzante del nostro partito, quella che riconduce la lotta per il diritto alla salute alla lotta di classe anticapitalistica e alla prospettiva rivoluzionaria e socialista.

Partito Comunista dei Lavoratori

Diretta Facebook. Capitalismo, crisi ambientale e transizione ecologica

 


Domenica 16 maggio, ore 10:30

Il video dell'evento:




Lo sviluppo e la crisi del capitalismo ha portato alla devastazione del nostro pianeta come mai prima d'ora.

L'azione dell'uomo negli ultimi due secoli ha influito drasticamente sull'equilibrio degli ecosistemi. L'uomo però non produce in modo individuale su questo pianeta, ma opera all'interno della società e del modo di produzione del proprio periodo: questo sistema si chiama capitalismo e la borghesia è la classe dominante.

È per questo che la borghesia ed i suoi governi sono i principali responsabili dell'inquinamento e supersfruttamento della terra. È per questo che il superamento di questa società è il primo passo verso la salvaguardia del globo e della vita dell'umanità.

Ne parliamo con:

Diego Ardissono, Segreteria PCL

Gioele Costantini, Commissione ambiente PCL

Ruggero Rognoni, Commissione ambiente PCL

Luca Gagliano, Commissione ambiente PCL

Stefano Falai, Commissione ambiente PCL


Non mancare!

Partito Comunista dei Lavoratori

L'anticomunismo di Marco Rizzo

 


Anche sul ddl Zan, Rizzo non si smentisce e sa da che parte stare: ancora una volta, come sempre, con la destra e i reazionari di tutti i tipi, con le loro idee e i loro argomenti

Il 10 maggio Marco Rizzo ha ottenuto una pagina intera sulla Verità di Maurizio Belpietro per esporre le proprie idee a proposito del ddl Zan e più in generale sui diritti civili.
L'ospitalità non è casuale: le posizioni di Rizzo sui diritti civili sono le stesse posizioni della destra più reazionaria, col vantaggio di essere espresse “da sinistra”. Un boccone ghiotto per la stampa misogina e bigotta.

L'intervistatore chiede: «come mai, con una pandemia in corso, il PD insiste così tanto sul ddl Zan?» Domanda scontata. Non la risposta. «Se vogliamo dirla tutta, la mutazione genetica della sinistra italiana inizia negli anni settanta, con l’avvento del femminismo e dell’ecologismo da salotto. Nel nome dei diritti civili hanno buttato a mare i diritti sociali: il lavoro, la casa, la salute, la scuola.»

Attribuire al '68 e all'«avvento del femminismo» i colpi subiti dal lavoro è un distillato della vecchia cultura dominante e dei luoghi comuni più reazionari. Ma volendo essere seri, perché contrapporre i diritti sociali ai diritti civili? Proprio l'esperienza degli anni '70 dimostra l'opposto. Furono anni di grande avanzata del movimento operaio e delle sue conquiste sociali su tutti i terreni indicati: nel campo del lavoro (Statuto dei lavoratori), della casa (equo canone), della salute (riforma sanitaria del 1978), della scuola (scolarizzazione di massa). E proprio per questo, guarda caso, furono gli anni della conquista del divorzio, del diritto all'aborto, più in generale dei diritti delle donne. Cosa dimostra questo se non che l'avanzata del movimento operaio porta con sé l'avanzata di tutti i diritti democratici più elementari?
La controprova è stata l'esperienza dei decenni successivi, quando l'arretramento del movimento operaio, per responsabilità delle direzioni politiche e sindacali della sinistra, ha finito col trascinare nel baratro o sotto processo i diritti democratici conquistati negli anni '70, spianando la strada alla rivincita delle destre peggiori. Quelle che contrappongono i diritti sociali ai diritti civili. Quelle che vogliono abolire la legge 194 e i diritti degli omosessuali. Quelle che celebrano la vecchia cara famiglia patriarcale contro i guasti della modernità. Quelle benedette dalla Conferenza Episcopale e dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (già conosciuta come Santa Inquisizione). È la compagnia che oggi Rizzo si sceglie e che gli dà spazio.

Il problema è che “il comunista” Rizzo fa propri esattamente gli argomenti della reazione. Non è che li contrasta insufficientemente, è che li assume in proprio.

«L’ho detto e lo ripeto: la battaglia per i diritti civili è un’arma di distrazione di massa per coprire le nefandezze compiute sui diritti sociali. [...] La definizione del sesso. Mi sveglio una mattina e decido che sono una donna, e posso usufruire delle quote rosa? [...] Io sono contro ogni discriminazione: ma non voglio nemmeno essere “indirizzato” a darmi lo smalto sulle unghie».

Ora, non sappiamo se la riduzione dell'identità di genere al capriccioso risveglio di un mattino sia più prodotto dell'ignoranza o del cinismo o di entrambe le cose. Sappiamo invece che gli argomenti di Rizzo sono gli stessi con cui il governo reazionario polacco o il regime di Orban in Ungheria si oppongono ai diritti degli omosessuali e dei transessuali. Anche Orban rappresenta i diritti delle minoranze come insidia all'identità sessuale dell'uomo e della donna, quindi alla “famiglia naturale”. Non sono dunque le unghie di Rizzo ad essere insidiate dallo smalto, è Rizzo ad essere ormai intriso di cultura misogina ed omofoba.

«Sta contestando la cosiddetta “ideologia gender”?» chiede l'intervistatore.
«È un'ideologia piegata al consumo. Ci sono dati statistici oggettivi: due single presi separati consumano più di una coppia sotto lo stesso tetto».

Dunque, stando alla logica proposta, una coppia convivente di omosessuali o di lesbiche, o a maggior ragione un matrimonio tra persone dello stesso sesso, sarebbe un colpo al mercato capitalistico? È vano cercare una logica razionale in queste farneticazioni.
In una società capitalista il profitto cerca ovunque uno spazio di mercato, nella vita dei single come delle coppie conviventi come della famiglia tradizionale. Semmai ciò che oggi inquieta il mercato è la riduzione del tasso di natalità, connesso anche alla crisi capitalistica e alla crisi della famiglia. Le campagne per gli assegni familiari o i bonus bebè sono nel segno della celebrazione della famiglia, non dei single, e non solo in Italia. Del resto una società che scarica sul privato di casa la riproduzione della forza lavoro scarica sulla famiglia, cioè sulla donna, il peso della schiavitù domestica, in cambio di qualche obolo.
La ragione vera per cui si negano i diritti degli omosessuali, delle lesbiche, dei transessuali, sta nel fatto che non rientrano nel modello della famiglia patriarcale, quella prediletta dal capitale, dalla Chiesa e da Marco Rizzo. Che in realtà scopiazza Diego Fusaro.

«Sta dicendo che le battaglie contro la discriminazione sessuale rispondono a una strategia di marketing?» chiede l'intervistatore sempre più incoraggiato dalle parole dell'intervistato.
Rizzo risponde sicuro: «Anche e soprattutto. Vogliamo dirla tutta? Io da giovane usavo una crema cosmetica per tutto il corpo, adesso ho amici che hanno quella per le rughe, il copriocchiaie, quella per le mani e quella per i piedi e via di seguito. La confusione sessuale di oggi risponde a una precisa logica di mercato, prima ancora che ideologica».

Ora, noi non vogliamo occuparci delle creme di Rizzo o dei suoi amici. Ma a prescindere da ogni altra considerazione, per quale ragione riconoscere i diritti di sesso e di genere contro le discriminazioni moltiplicherebbe... la tipologie delle creme? Non c'è alcun nesso logico, come chiunque può capire. La verità è che Rizzo sente insidiata la natura del vero maschio, possibilmente alfa, quello che come lui tirava di boxe e si vanta di essere uno sciupafemmine. Insidiata da cosa? Dalla «confusione sessuale», lo spettro che agita il sonno di tutti i bigotti in ogni tempo.

L'intervista si conclude con la denuncia della «gabbia euroatlantica» che lede «la sovranità dell'Italia» impedendole di acquistare il vaccino Sputnik di Putin e di debellare il Covid. Del resto chi più di Putin può meglio incarnare la difesa dei valori della famiglia cristiana contro la «confusione sessuale» dell'Occidente?

In conclusione. Nella tradizione leninista la classe operaia deve porsi alla testa delle ragioni di tutti gli oppressi, come mostrò la Rivoluzione d'ottobre che riconobbe i diritti degli omosessuali e dei transessuali, poi tramutati in crimini da Stalin nel 1933, con tanto di condanne ai gulag e ai lavori forzati. In Rizzo l'eredità stalinista vive non più come tragedia ma come farsa. L'unica vera tragedia è che nella «confusione» generale vi sia chi scambia Rizzo per un comunista.

Partito Comunista dei Lavoratori

Per una terza intifada, per un progetto di liberazione

 


I fatti di Gerusalemme riportano all'attenzione la questione palestinese

Come sempre, sono piccoli episodi a innescare grandi avvenimenti.
Israele intendeva tenere l'annuale Marcia delle bandiere nella città vecchia di Gerusalemme per celebrare la propria conquista. A tal fine il governo di Tel Aviv ha transennato la piazza antistante la Porta di Damasco per impedire che potesse diventare un luogo di concentrazione della protesta palestinese contro la marcia. Ma il blocco degli accessi alla Spianata delle moschee è apparso un affronto alla popolazione araba, tanto più dopo il lungo periodo di limitazioni imposto dalla pandemia. La ribellione palestinese, al prezzo di 278 feriti, ha costretto le autorità sioniste a cambiare il percorso della marcia. Una piccola vittoria.

Negli stessi giorni nel quartiere arabo di Gerusalemme, Sheikh Jarrah, il piano di demolizione delle case palestinesi, spaventosamente incrementato sotto la pressione dei coloni, è inciampato nella volontà di resistenza di ventotto famiglie palestinesi che rivendicano i propri diritti di proprietà sulle case abitate e rifiutano di sloggiare. Una piccola resistenza che diventa il simbolo della volontà di ribellione al sionismo. La Corte suprema israeliana ha dovuto sospendere la sentenza per evitare di dar fuoco alle polveri, ma così ha confermato le difficoltà di Israele.


I NODI AL PETTINE

In realtà molti nodi stanno venendo al pettine. Gli “accordi di Abramo” tra Stato sionista e Stati Uniti, che sanciscono l'annessione della Cisgiordania e fanno di Gerusalemme la capitale d'Israele, sono stati celebrati troppo presto dalle potenze imperialiste.
Trump ha pensato di risolvere una questione storica incoronando l'onnipotenza di Israele in cambio di una manciata di soldi ai “vinti”. Biden non sembra avere intenzione di modificare gli accordi. Le borghesie arabe di diversi paesi si sono strette alla corte del sionismo incassando la contropartita di concessioni finanziarie e commerciali. Gli imperialismi europei hanno avallato il tutto col proprio silenzio, cercando di ricavarne un utile per i propri interessi.
Ma il quadro si va complicando in fretta su ogni versante.

Lo Stato d'Israele sta conoscendo una crisi politica interna senza precedenti. Quattro elezioni politiche in due anni misurano la difficoltà di trovare una stabilizzazione di governo. Il premier Netanyahu non riesce a trovare una maggioranza parlamentare nel mentre è inseguito da scandali finanziari e processi. Il rafforzamento delle organizzazioni di estrema destra sionista, incoraggiate dagli accordi di Abramo e dunque dallo stesso premier israeliano, complica ogni soluzione politica. Il fatto che oggi la ricerca di una maggioranza alternativa al Likud debba affidarsi ad un tentativo di accordo tra un'organizzazione reazionaria di coloni ipersionisti e un partito arabo israeliano dà la misura delle difficoltà. Netanyahu cerca di drammatizzare lo scontro militare con Hamas con tanto di bombardamenti su Gaza per restare in sella nel nome dell'emergenza nazionale contro “il nemico”. Ma è un gioco troppo ripetuto, in un contesto troppo logorato, per funzionare come in passato.

Problemi non meno gravi si pongono per la politica palestinese.
Il governo corrotto dell'ANP ha voluto rinviare le elezioni palestinesi nei territori occupati per timore di un esito catastrofico per al-Fatah, ma così perpetua una situazione di manifesta illegalità. Il mandato di Mahmoud Abbas è infatti scaduto nel 2009. Questa situazione sta disgregando l'unità interna di al-Fatah. La candidatura di Mohammed Dahlan, ex capo dei servizi segreti dell'ANP, da dieci anni in esilio, ha l'appoggio degli Emirati e di al-Sisi. Al polo opposto la candidatura di Marwan Barghouti, prigioniero da anni nelle carceri sioniste, richiama agli occhi dei palestinesi la domanda di rottura con le politiche collaborazioniste di Abbas. Il rinvio delle elezioni a data da destinarsi è il tentativo di sottrarsi all'esplosione interna di al-Fatah, ma contribuisce di fatto a radicalizzarla.
Quanto ad Hamas, l'unico vero obiettivo è preservare il proprio controllo su Gaza, costi quel che costi, coi metodi dell'integralismo confessionale e del dispotismo. La polarizzazione dello scontro con Israele serve solo a intestarsi il primato simbolico della contrapposizione al sionismo in funzione dello status quo.


UNA PROSPETTIVA DI LIBERAZIONE

Di certo nessuna delle componenti del gruppo dirigente palestinese avanza una prospettiva di liberazione del proprio popolo. Ciò proprio nel momento in cui si stringe la morsa degli accordi di Abramo e al tempo stesso si moltiplicano le difficoltà della loro attuazione.
In queste condizioni, uno spettro si aggira nella Spianata delle Moschee e per i vicoli di Gerusalemme: quello di una terza intifada. Fu nel miglio sacro di Gerusalemme che presero slancio l'intifada degli anni '80, e quella degli anni 2000, quando una grande massa di palestinesi si sollevò contro l'occupazione per chiedere la liberazione della propria terra. Questa è oggi la vera preoccupazione dei circoli sionisti e delle potenze imperialiste. Non temono né al-Fatah né Hamas, temono la sollevazione della giovane generazione palestinese. Un timore che percorre le élite al potere nei paesi arabi, asservite all'imperialismo, perché sanno che una sollevazione palestinese potrebbe richiamare, come già in passato, la mobilitazione della popolazione araba e scuotere di conseguenza il loro potere.

Certo proprio l'esperienza delle grandi intifade mostra la necessità di una prospettiva strategica verso cui indirizzarle. Non c'è possibile soluzione storica della questione palestinese senza il diritto al ritorno nella propria terra. Non c'è diritto al ritorno nella propria terra senza la dissoluzione rivoluzionaria dello stato d'Israele, con la distruzione delle sue basi confessionali, giuridiche, militari. L'idea dei “due popoli, due Stati” su cui si sono abbarbicate le sinistre riformiste di tutto il mondo, ha rappresentato per lungo tempo una mistificazione insostenibile: l'idea della possibile soluzione della questione palestinese all'ombra del sionismo. Oggi è morta la stessa credibilità di quella illusione.
Non c'è soluzione della questione palestinese fuori da una prospettiva di rivoluzione, che unisca la ribellione delle masse palestinesi e delle popolazioni arabe con la mobilitazione antisionista della parte migliore della popolazione ebraica. Per una Palestina unita e socialista, dentro una federazione socialista araba, nel rispetto dei diritti della minoranza ebraica: la prospettiva strategica della Terza Internazionale comunista dei suoi anni rivoluzionari. La prospettiva della Quarta Internazionale delle origini.

La storia reale riporta le cose ai fondamentali. Senza ripartire da lì, senza ricostruire una direzione rivoluzionaria del popolo palestinese e della nazione araba che sappia battersi per la grande causa della liberazione dall'oppressione sionista e dall'imperialismo, la storia della Palestina e del Medio Oriente resterà segnata dalla barbarie.

Partito Comunista dei Lavoratori

L'addio di Pablo Iglesias

 


Quella di Podemos è l'ennesima parabola di una sinistra riformista che consuma le proprie fortune sui banchi ministeriali, e che così contribuisce alla vittoria della reazione

Le elezioni di Madrid hanno registrato un tracollo elettorale del PSOE, che perde il 10% dei voti, e la forte affermazione elettorale del PPE, combinata col consolidamento dell'estrema destra di Vox.
Il risultato non ha solo una valenza locale. Era la prima prova elettorale del nuovo governo Sanchez-Iglesias in Spagna. Un disastro. Le dimissioni di Pablo Iglesias col suo addio alla politica ne sono un portato.

Podemos non ha registrato una débâcle dal punto di vista elettorale. Il 7% riportato gli consente di avere una rappresentanza nel consiglio comunale di Madrid. Ma politicamente è il vero sconfitto. Pablo Iglesias si era dimesso da vicepresidente del governo Sanchez per candidarsi a Madrid. Lo scopo era sbarrare la strada alla destra. Tutta la sua campagna elettorale si è fondata sulla denuncia del pericolo franchista e sulla difesa della democrazia. La parola d'ordine era “no pasaran”, mutuata dall'esperienza del fronte repubblicano nella guerra civile del 1936-1939.
La candidatura di Iglesias si era presentata come la garanzia della vittoria. Il gesto delle dimissioni dalla vicepresidenza ministeriale per candidarsi a Madrid voleva essere inoltre un atto di rilancio dell'immagine pubblica di Iglesias e di Podemos come partito capace di sacrificare il potere all'interesse superiore della “democrazia” e della sua vittoria. Ma il gesto estetico finalizzato all'immagine è stato sepolto dal risultato.

Il governo Sanchez-Iglesias non ha realizzato alcuna politica di svolta. La sua gestione della pandemia è stata del tutto simile a quella di ogni altro governo borghese europeo. Come in Italia, è emerso lo sfascio della sanità pubblica, lo scandalo della sanità privata, l'assenza della medicina territoriale, la gestione criminale delle case di riposo degli anziani. Sanchez e Iglesias hanno amministrato lo sfascio, cui i precedenti governi di destra e di sinistra avevano pesantemente contribuito.

Ma soprattutto, il governo ha marcato la continuità col passato sul terreno delle politiche sociali. Tutta la politica di bilancio e del lavoro è stata affidata alla grande concertazione con il padronato e le burocrazie sindacali. Le promesse di superamento del precariato sono rimaste lettera morta, con la permanenza di tutta la legislazione precedente. La strombazzata patrimoniale, di entità esclusivamente simbolica, si è ridotta ad una possibile opzione facoltativa delle amministrazioni regionali. Le politiche sull'immigrazione sono rimaste inalterate, ed anzi si sono appesantite in fatto di respingimenti e negazione dell'approdo, a partire dalla Canarie e da Ceuta e Melilla. Infine, per incassare le risorse del Recovery Plan, il governo ha aperto un negoziato interno per l'aumento dell'età pensionabile.

Coi suoi quattro ministri, Podemos è parte integrante e inseparabile di questa politica del capitalismo spagnolo. Il partito sospinto nel 2011 dal movimento degli indignados è oggi un ingranaggio del potere, utile paravento al PSOE per coprire e legittimare a sinistra la continuità della politica del capitale.
Tutti gli spartiti retorici di Pablo Iglesias sono stati recitati: quello del “partito degli onesti”, “né di destra né di sinistra”, quello della “vera socialdemocrazia” spagnola candidata al sorpasso del PSOE, quello del pungolo decisivo sul PSOE per costringerlo al cambio di passo, quello della diga decisiva contro la destra... Ora che tutte le maschere sono cadute, il re è davvero rimato nudo: l'ennesima parabola di una sinistra riformista che consuma le proprie fortune sui banchi ministeriali, e che perciò stesso contribuisce alla vittoria della reazione.
A segretaria di Podemos ora si candida l'attuale ministra del lavoro Yolanda Diaz, che viene dalla storia dello stalinismo spagnolo (PCE), in perfetta continuità con la politica del predecessore, e semmai con un tratto ancor più moderato. Podemos resterà ancor più incardinato al governo di coalizione col PSOE, in una compromissione ancor più stringente. Come già il PRC, come già Syriza, come già il PCP e il Bloco de Esquerda in Portogallo, come si candida a fare in un prossimo futuro la Linke tedesca. La ruota del riformismo gira su se stessa, e non riserva sorprese.

La costruzione di una sinistra classista e rivoluzionaria è all'ordine del giorno in Europa.

Partito Comunista dei Lavoratori

Fedez e il Primo maggio

 


Quando i diritti civili non incontrano la lotta di classe

Il Primo maggio di quest’anno, nonostante la pandemia, è stato un importante momento di lotta, di mobilitazione e di confronto che ha visto scendere in piazza diverse migliaia di lavorator* unit* nella lotta in barba a differenze di etnia, di genere e di appartenenza politica e sindacale. Migliaia di persone scese in piazza per difendere i loro diritti, mettere in luce le contraddizioni dell’attuale gestione della pandemia, denunciare la colpevole inefficienza di un sistema sanitario martoriato da decenni di tagli, contrastare le manovre antioperaie del governo Draghi e denunciare la connivenza delle direzioni dei sindacati confederali rispetto a tale stato di cose.

Eppure la notizia che da giorni rimbalza su tutti i mezzi di comunicazione e sembra dividere l’arco parlamentare e anche il movimento stesso (LGBTQIA+ e non solo) riguarda il celebre "concertone" del Primo maggio. In particolare riguarda un intervento fatto dal rapper Fedez durante la sua esibizione su quel palco, vergognosamente perimetrato – come è stato notato – dalle insegne di ENI, sponsor dell’evento (a dire il vero, purtroppo, non per la prima volta).

Personalmente non crediamo sia necessario ricostruire qui la dinamica dei fatti (essa è ormai nota a quasi tutt* coloro che leggono i giornali, possiedono una televisione o hanno un profilo social). Non crediamo nemmeno sia necessario riportare il testo dell’intervento (rintracciabile un po’ ovunque anche per iscritto) o analizzarne il contenuto (esso sarebbe tutto sommato pienamente condivisibile). Sarebbe superfluo anche inserirsi all’interno della polemica sul timido ed impacciato tentativo di censura preventiva della RAI nei confronti dell’artista. Che la censura dei mezzi d’informazione esista e che la società borghese ne faccia ampio uso è noto ormai da secoli. Il fatto che molte persone se ne siano accorte soltanto pochi giorni fa può, al massimo, dare inizio ad alcune speculazioni, peraltro già trite, su quanto sia pervasiva l’illusione di libertà che caratterizza la nostra epoca.

Sarebbe abbastanza ridicolo anche dare ulteriore risalto al botta e risposta tra la Lega e il rapper, oppure denunciare l’incoerenza di Fedez sulla base dei testi delle sue canzoni (come fanno in molt* in questi ultimi giorni).

Altrettanto sciocco sarebbe insinuare – come fanno la UIL e alcune forze sedicenti comuniste – che un intervento sui diritti civili, a prescindere dal suo autore, sia “fuori contesto” perché il Primo maggio “si deve parlare solo di lavoro”. A parte che non si può ignorare il fatto che anche la maggioranza della popolazione LGBTQIA+, delle donne, delle minoranze etniche e religiose e delle altre soggettività discriminate da questo sistema rientrano a vario titolo nella classe lavoratrice, e che probabilmente il luogo di lavoro è uno dei luoghi dove più si fanno sentire le discriminazioni e la repressione delle differenze, comunque il Primo maggio – almeno per noi marxist* rivoluzionar* – è una giornata di lotta e di mobilitazione contro il capitalismo. E se – come abbiamo già sostenuto in altre occasioni – il capitalismo sta alla radice di tutte le diverse oppressioni, allora il Primo maggio è anche un’occasione in cui denunciare e lottare contro omo-lesbo-bi-transfobia, sessismo, razzismo, abilismo e ogni altra forma di oppressione. La lotta di classe, l’anticapitalismo e la rivoluzione sociale non sono chiostri riservati ai soli lavoratori (a questo punto il maschile plurale è d’obbligo), ma sono le strade maestre attraverso cui ogni sfruttat* e ogni oppress* può raggiungere finalmente la libertà, la dignità e i diritti di cui è stat* ingiustamente privat* fino a questo momento.

Tornando a quanto avvenuto, non stiamo parlando di un evento sorprendente. In fondo, ciò a cui abbiamo assistito è un copione già noto da oltre un secolo: un borghese rampante (in questo caso esponente di spicco dello star system nazionale) che indossa i panni del filantropo e coglie l’occasione per ergersi in maniera spettacolare a paladino dei “meno fortunati” e delle “minoranze”, guadagnando così nuovi consensi e ulteriore popolarità (operazione perfettamente riuscita, dobbiamo ammettere). Quanto egli creda in ciò che dice o fa non è particolarmente importante.

Molto più importante è analizzare come le sue parole siano state recepite dalla comunità LGBTQIA+ e, in generale, dalla cosiddetta sinistra. Molto più interessante è vedere come il dibattito pubblico sui diritti civili da alcuni giorni giri tutto attorno alle parole del signor Lucia.
Il fatto che un rapper commerciale e personaggio televisivo milionario (nonché testimonial ufficiale di Amazon Prime) venga osannato come fulgido esempio di artista engagé da tutto il variegato mondo del cosiddetto centrosinistra – dal PD a Sinistra Italiana, da Arcigay alla burocrazia CGIL passando per la cosiddetta stampa progressista e per il M5S, sempre più confuso e ambiguo sui diritti civili (tra uscite misogine e machiste di Grillo e posizioni contraddittorie interne con favorevoli e contrari al DDL Zan) – non è altro che l’ennesima dimostrazione della definitiva bancarotta del riformismo, privo ormai di qualsiasi riferimento politico e culturale credibile e completamente incapace di agire, anche solo formalmente, in favore de* sfruttat* e de* oppress* di queste società.

Quel centrosinistra, rappresentato in massima parte dal PD, che ogni giorno agisce contro la nostra classe rendendo sempre più precarie le nostre vite e sbriciolando un pezzo alla volta i nostri diritti in nome del profitto e del dominio della borghesia e delle sue organizzazioni.

Quel centrosinistra che ipocritamente tenta di nascondersi dietro al paravento dei diritti civili, salvo poi mostrare la propria vera natura anche in questo campo. Basti pensare al Decreto Minniti, alla mancata abolizione dei Decreti Salvini (che sono stati anzi potenziati in alcune delle loro funzioni repressive) o, per ritornare al tema principale, al DDL Cirinnà e al DDL Zan.

Due leggi fortemente insufficienti, dei meri atti formali privi di qualsivoglia forza effettiva. Il primo nasce già come compromesso, per espressa volontà dei suoi autori, e subisce poi una lunga serie di manomissioni (anche da parte dei suoi promotori) che rendono molto debole il risultato finale. Il secondo, non ancora approvato, è un testo di legge che si propone di contrastare l’omo-lesbo-bi-transfobia e la misoginia attraverso un quanto mai discutibile inasprimento delle pene in un’ottica che, senza troppe remore, ci sentiamo di definire securitaria. All’interno di un più ampio contesto, caratterizzato da una sempre più diffusa e capillare repressione di stato e di una sempre più intransigente cultura dell’ordine, tale manovra, malgrado i propositi nobili, mostra dei risvolti inquietanti ed esecrabili, in quanto si accompagna ad un inadeguato sistema di prevenzione delle discriminazioni e di formazione sul tema ulteriormente indebolito dal celebrato articolo 4 del DDL che garantisce il ‘pluralismo delle idee’ e la ‘libertà delle scelte’ (ironicamente significa che qualsiasi persona o organizzazione omofoba che non voglia istituire un lager o organizzare un pogrom è libera di continuare ad esporre le proprie posizioni pubblicamente e senza limitazione alcuna). Non possiamo negare che questa legge presenti anche alcuni aspetti positivi, quali, per esempio, il potenziamento dei centri contro le discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere, il monitoraggio statistico nazionale delle discriminazioni e della violenza omo-lesbo-bi-transfobica, l’elaborazione di una strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere e l’istituzione della giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia in data 17 maggio. Ma essi risultano pur sempre alquanto incerti e l’impianto generale della legge propende in ogni caso verso la semplice punizione dei reati e non verso l’eliminazione del problema (1).

D’altro canto sarebbe impossibile eliminare il problema senza individuarne ed eliminarne la causa, ovvero la criminale e marcescente struttura del capitalismo. Compito che ovviamente neanche * più sincer* de* riformist* sarebbe disposto ad assolvere. Figuriamoci che cosa può essere disposto a fare il gruppo parlamentare del PD.

Ed è questo il centro della questione. La comunità LGBTQIA+ non può continuare a pendere dalle labbra di questo centrosinistra ipocrita, non può continuare a credere nelle promesse e nelle fantomatiche conquiste del gradualismo riformista, non può continuare a fare affidamento sulle celebrità che fanno coming out o che si schierano “dalla parte giusta” (come Fedez), e non può continuare a tacciare chi non concorda con il metodo descritto pocanzi di essere divisiv*, estremista o perennemente scontent*. Continuando lungo questo vicolo cieco, l’unico risultato possibile è il perpetuarsi della nostra condizione di subalternità.

L’unica via praticabile resta il recupero della combattività che caratterizzava questo movimento alle origini, a partire dal recupero e dalla rivendicazione della nostra condizione di esseri “fuorinorma” e, in seguito, con la costruzione di un fronte ampio capace di convogliare tutte quelle forze, soggettività ed esperienze che in questo sistema si sentono sfruttate ed oppresse, scomode ed inascoltate, sole e indifese: lavorator*, migrant*, donne, precar*, persone discriminate sulla base del loro stato fisico o psicologico e ogni altro “dannat*” di questa Terra. Tutto questo deve avvenire chiaramente in un’ottica di rottura anticapitalista, antifascista, femminista, internazionalista e anticlericale.

Ovvero nell’ottica dell’instaurazione del socialismo e della conquista del potere da parte di tutt* coloro che il potere borghese ha oppresso e continua ad opprimere.




(1) Con quanto abbiamo detto riguardo al DDL Zan non intendiamo – come fanno altri soggetti politici – rigettare l’importanza di una legge contro l’omo-lesbo-bi-transfobia. Una legge di questo tipo è assolutamente necessaria, urgente, attesa e voluta dalla comunità LGBTQIA+. Semplicemente questa legge non è il DDL Zan (per quanto quest’ultimo possa rappresentare un minuscolo passo avanti rispetto al nulla esistente) per i motivi già citati.

Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione donne e altre oppressioni di genere

FedEx-TNT: dieci anni di resistenza contro la ristrutturazione aziendale

 


La vertenza della FedEx-Tnt di Piacenza ha profonde radici e si sviluppa lungo un decennio di ristrutturazioni aziendali.


Negli anni 2012-2013, dopo il fallimento del progetto di acquisto da parte di UPS, respinto dall’Autorità antitrust, TNT comunica 4000 licenziamenti (2/3 in Europa, 854 in Italia su circa 3000, tra corrieri e impiegati). Il piano aziendale prevede la chiusura di 24 filiali su 103, per fare confluire le attività operative delle filiali più piccole in quelle di dimensioni maggiori.

Negli stessi anni, a partire dal 2011, nel magazzino TNT di Piacenza si sviluppano le prime lotte dei circa 300 facchini sostenuti dal SI COBAS (allora in costruzione), lotte contro buste paga fittizie di pochi euro e contro la valanga di lavoro nero e di evasione fiscale e retributiva che allargava i profitti di TNT e delle cooperative degli appalti e subappalti di cui il colosso olandese si serviva per ridurre i costi. Una vertenza dura, in cui i soggetti padronali hanno dispiegato tutta la loro capacità repressiva licenziando i facchini in lotta, ma comunque conclusa positivamente con la vittoria dei lavoratori, reintegrati con l’applicazione del contratto nazionale di categoria.

In seguito all’annuncio della ristrutturazione del 2012-13 si attivano mobilitazioni con blocchi e scioperi in tutta la filiera italiana. La ristrutturazione viene gestita dalle sigle confederali, dopo una fase di mobilitazione, con un accordo di cassa in deroga e uscite (cosiddette) volontarie incentivate e trasferimenti. Misure che hanno diviso i lavoratori e cancellato la possibilità di una lotta generalizzata.

Nel 2014, come parte integrante della ristrutturazione e degli esuberi vengono firmati dalle sigle confederali i primi accordi per l’internalizzazione delle attività di magazzino, che oltre a fissare diverse deroghe al contratto nazionale (particolarmente su flessibilità oraria, inquadramenti e mansioni) mettono in competizione lavoratori diretti e indiretti.

Il 7 aprile 2015 TNT (54 mila dipendenti) viene comprata (ma la fusione sarà effettiva l’anno successivo) per 4,4 miliardi di euro dal gruppo statunitense FedEx (220 mila dipendenti), che con l’acquisto della multinazionale olandese si espande nel mercato europeo, in una fase di crescita dell’e-commerce, che orienta la strategia aziendale della fusione dei due gruppi, e in competizione con il colosso Amazon che lancia investimenti nelle attività di trasporto e consegna. Fa parte dell’operazione l’investimento nel polo logistico di Malpensa (terzo hub europeo, dopo Colonia e Parigi) funzionale alla ottimizzazione della rete dei trasporti via aria (FedEx detiene la più grande rete di spedizioni via aerea) e via terra (TNT, specializzata nel trasporto su gomma, ha 550 depositi e 19 hub che connettono nel network europeo più di 40 paesi). L’obiettivo di FedEx, attraverso l’hub di Malpensa e l’investimento in Italia, non è solo il mercato europeo, ma anche quelli del Medio Oriente, dell’India e dell’Africa.
TNT annuncia in Italia ulteriori 239 esuberi (su 2613 addetti) nel settore amministrativo e in quello delle vendite. Tagli gestiti con ulteriore cassa in deroga e mobilità, senza che questo porti all’opportuna unificazione della vertenza tra personale diretto e addetti esternalizzati.

Nel maggio 2018, dopo avere chiuso l’ultimo trimestre 2017 con un utile di 755 milioni di dollari, FedEx (che ha in Italia 1143 dipendenti diretti, 750 nelle 34 stazioni operative, di cui 485 corrieri) comunica il licenziamento di 315 lavoratori (quasi tutti corrieri), TNT (2500 dipendenti - per 93 stabilimenti tra magazzini e hub – più 4350 addetti che lavorano per conto delle società appaltatrici - 2650 addetti al trasporto e 1700 addetti al facchinaggio) di 46 dipendenti, oltre a 115 trasferimenti complessivi, quasi tutti di impiegate, che nascondono, per la distanza del trasferimento, altrettanti licenziamenti.

La ristrutturazione prevede il modello della terziarizzazione seguita da TNT, con l’esternalizzazione delle attività di FedEx in favore di TNT e la chiusura di 24 stazioni FedEx (e il conseguente licenziamento degli addetti alla gestione di ritiri e consegne e degli impiegati) e la chiusura di due piattaforme di TNT, con la concentrazione delle attività commerciali in quattro centri.

Dopo una serie di scioperi organizzati tra maggio e giugno dai sindacati confederali la vertenza si conclude amaramente con esodi “volontari” e 208 ricollocazioni a condizioni peggiorative.

Nel corso di questi anni di ristrutturazione, si sono succeduti in diversi magazzini affidati a cooperative e società terze, alcuni cicli di lotte organizzate in particolare dal SI COBAS, in una situazione di illegalità diffusa e di condizioni lavorative al limite della schiavitù, per l’applicazione del contratto nazionale e per la contrattazione aziendale, per le tutele in cambio di appalto, e una serie di vertenze per i rinnovi del contratto nazionale dell’autotrasporto merci e logistica.

Nel maggio del 2020 nell’hub di Peschiera Borromeo (Milano) si è svolta la durissima vertenza sostenuta dal SI COBAS per i 66 lavoratori interinali lasciati a casa dalla FedEx TNT con la disdetta di un accordo che prevedeva la loro assunzione, nello stesso periodo in cui l’emergenza sanitaria ha sospinto anche nella logistica una campagna di astensione dal lavoro come autodifesa operaia, organizzata dallo stesso sindacato.

Un attacco repressivo sferrato a furia di cariche e pestaggi con la collaborazione di tutte le forze di polizia, Digos, carabinieri. Nello sciopero, allargato alla filiera, le mani dello Stato e del padronato cercano di avere la meglio sulla resistenza operaia, organizzata contro la riorganizzazione della filiera e la disdetta degli accordi sindacali finalizzata ad abbassare il costo della forza-lavoro.

Nel gennaio 2021 FedEx-TNT (che intanto nell’agosto del 2020 era uscita da Fedit – l’associazione padronale intestataria della contrattazione – per entrare in Assolombarda) avvia un’altra fase di pesante ristrutturazione di tutto l’assetto aziendale, che prevede in Europa un taglio di 6300 addetti (di cui 650 in Italia). Il 18 gennaio comincia lo sciopero nella filiera italiana organizzato dal SI COBAS (oltre a Piacenza, Milano, Bologna, Parma, Piacenza, Roma, Fidenza, Modena e Napoli), mentre in Belgio scioperano i lavoratori dell’hub dell’aeroporto di Liegi, dove sono previsti 671 licenziamenti su 1800 dipendenti.

Dal 28 gennaio i lavoratori FedEx-TNT del magazzino di Piacenza scioperano contro i licenziamenti annunciati, per i protocolli di prevenzione e per il premio di risultato, una conquista che l’azienda non ha più riconosciuto.
Una nuova ondata di repressione si scatena contro i lavoratori e contro il SI COBAS, con cariche e uso di gas lacrimogeni e con diversi procedimenti penali, misure cautelari (tra i quali gli arresti domiciliari dei due coordinatori provinciali del Si COBAS, in seguito ritirati), perquisizioni domiciliari e revoche del permesso di soggiorno, che hanno suscitato un movimento di solidarietà e il moltiplicarsi di scioperi nella filiera, e – dalla parte opposta – favorito la serrata messa a punto da FedEx-TNT, che comincia a svuotare il magazzino.

A fine marzo FedEx-Tnt aggiorna il piano di ristrutturazione, inserendo l’assunzione diretta di 800 lavoratori addetti al servizio di smistamento dei pacchi negli hub nazionali di Padova, Ancona, Bari, Bologna, Fiano Romano, Firenze e Napoli Teverola, e annuncia la riorganizzazione della rete della distribuzione, che prevede il progetto di un nuovo grande hub a Novara e la chiusura dello stabilimento Le Mose di Piacenza, gestito dal consorzio Lintel e dalla società Alba, con lo spostamento delle attività sugli altri magazzini e la prospettiva del licenziamento per circa 300 lavoratori.

Proseguono i blocchi e i picchetti organizzati dal SI COBAS in diversi magazzini della filiera italiana. A Piacenza, Peschiera Borromeo e San Giuliano milanese, sotto il fuoco della repressione delle forze dell’ordine statale e borghese e delle guardie private padronali, assoldate tra l’estrema destra locale.

Di fronte a questo piano di ristrutturazione aziendale i sindacati confederali non oppongono ostacoli e avallano la brutale repressione in atto. Addirittura la FILT CGIL esercita il suo ruolo concertativo con FedEx-TNT contro la conflittualità e la resistenza organizzata degli addetti del magazzino di Piacenza, rendendosi complice dello smistamento dei carichi verso altri hub attraverso la gestione concordata delle attività dei corrieri (anch’essi dipendenti di una società appaltatrice, la VI Express) e mettendo in contrapposizione i lavoratori tra loro, nei picchetti di fronte al magazzino come in presidio e in udienza in prefettura. Una condotta che in questi ultimi giorni è stata opportunamente contestata e denunciata da un gruppo di una trentina di iscritti e iscritte alla CGIL di Piacenza con una lettera pubblica che si pronuncia contro la criminalizzazione del conflitto sociale e indica la necessità del superamento della contrapposizione tra lavoratori e tra sigle sindacali.

A Padova e a Bologna, insieme ai sindacati di categoria di CISL e UIL, la FILT CGIL sigla con FedEx-TNT, come previsto dal piano di ristrutturazione aziendale, incentivi all’esodo e due accordi di internalizzazione, contestati per una serie di pesanti clausole (conciliazioni tombali, verifiche sul casellario giudiziale, selezioni) e di elementi peggiorativi che conterrebbero all’interno. Nonostante nei due magazzini la rappresentanza sia fuori da ogni dubbio di ADL e Si COBAS, quindi contro il diritto dei lavoratori e delle lavoratrici di scegliere il proprio sindacato e di gestire e mantenere il controllo democratico della vertenza.

Mentre ai lavoratori di Piacenza, tenacemente in lotta, viene indegnamente offerto dalla società Alba (dietro la quale si nasconde la committente FedEx-TNT) di essere ricollocati altrove attraverso l’agenzia interinale che dal 2013 collabora con FedEx-TNT nelle ristrutturazioni, perdendo il posto di lavoro e insieme tutte le tutele e i diritti conquistati.

In questa fase della ristrutturazione aziendale di FedEx-TNT la FILT CGIL sta svolgendo un ruolo complice e collaterale al padronato in virtù del riconoscimento che detiene a prescindere dalla rappresentanza nei luoghi di lavoro e in contrapposizione al radicamento del sindacalismo conflittuale e alle lotte di resistenza che si stanno dispiegando nella filiera, avallando il piano padronale di riduzione del costo della forza-lavoro e di controllo degli stabilimenti. L’ultima fase di un piano padronale ormai decennale, che non è stato purtroppo affrontato negli anni con la necessaria unità tra lavoratori e lavoratrici, divisi tra comparti e sigle sindacali.

Contro il tradimento e la collaborazione di classe della burocrazia sindacale, in questo caso e in generale, è necessario rivolgersi all’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici (o al più ampio fronte possibile) per una ricomposizione di massa del sindacato di classe, contro ogni feticismo di organizzazione, sviluppando comitati di lotta, forme di coordinamento (tra delegati/e, settori, comparti, ecc.) e di autorganizzazione elette democraticamente, di cui le organizzazioni sindacali devono farsi sostenitrici. Senza questa prospettiva, e in assenza di una dinamica di massa, le legittime iniziative di denuncia e di protesta organizzate dal SI Cobas rischiano oggettivamente di circoscrivere la rabbia operaia in una logica identitaria e autocentrata, senza riuscire a rivolgersi alla massa dei lavoratori e delle lavoratrici per una direzione alternativa, autonoma e di classe del movimento sindacale.

Nelle ultime settimane diversi sono stati i momenti di condivisione di iniziative di lotta di fronte al Ministero dello Sviluppo Economico e al Ministero del Lavoro, nelle piazze della capitale e nelle diverse piazze del 1° maggio, che hanno visto riuniti lavoratori e lavoratrici impegnati in diverse importanti vertenze, tra le quali Alitalia, FedEx-TNT, Texprint, Arcelor Mittal, FCA, e lavoratori dello spettacolo, della scuola, portuali, rider, e lavoratori e lavoratrici disoccupate.

In prospettiva la sfida che aspetta l’esemplare lotta della FedEx-TNT e tutte le lotte e centinaia di vertenze disseminate sul territorio nazionale (che vanno collegate internazionalmente) è l’organizzazione di una risposta unitaria all’attacco repressivo messo in atto dal padronato e dall’apparato statale, e la costruzione di una mobilitazione generale prolungata, contro lo sblocco dei licenziamenti e il progetto di ristrutturazione capitalistica del governo Draghi. Una mobilitazione che ricomponga tutti i segmenti di una classe lavoratrice frammentata e disorientata – per principale responsabilità della direzione delle burocrazie sindacali confederali – attorno a un programma di lotta elaborato e definito democraticamente, a partire dai luoghi di lavoro fino alla condivisione e discussione in organismi eletti che decidano tempi e forme di lotta. Un fronte unico di classe e di massa per una vertenza generale che miri a sollevare milioni di salariati contro le condizioni di impoverimento dettate dalla gestione capitalistica della crisi e contro l’oppressione e le catene dell’attuale ordine sociale ed economico.

Partito Comunista dei Lavoratori – Commissione sindacale