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Il PCL e il movimento delle sardine

In questi ultimi giorni migliaia di persone stanno riempiendo le piazze d’Italia per protestare contro l’arrivo di Salvini, per dimostrare che c’è ancora chi non si arrende al tour infinito della sua becera propaganda razzista e xenofoba.
Così è nato il "movimento delle sardine", movimento che si presenta non solo come opposizione a Salvini ed alle sue politiche, ma anche come monito e nemesi contro tutta quella sinistra rimasta per anni troppo immobile, passiva e compromessa con le politiche di governo.
Quando ci si lamenta giustamente della pretesa del movimento di non avere al suo interno bandiere di partito, infatti, non si può sorvolare sul fatto che questo è anche il prodotto delle politiche lacrime e sangue di cui si è reso responsabile l’intero arco delle forze della sinistra più o meno riformista.
Noi sappiamo per esperienza che, dietro il presunto velo apartitico, si nasconde quasi sempre il volto del partito sbagliato, quello più sporco e ipocrita, in questo caso l’immarcescibile PD che, con la consueta opera di trasformismo, cerca ora in piazza di rifarsi il trucco.
A differenza del movimento di Greta del Fridays For Future, il movimento delle sardine, infatti, vede al momento non solo una presenza periferica del PD, ma un vero e proprio tentativo egemonico, in molte piazze anche riuscito. Nondimeno la motivazione che muove le piazze è sacrosanta, e il movimento va quindi seguito e incalzato per smascherare i suoi falsi amici.
Come PCL, sappiamo che, spesso, la coscienza politica nei movimenti è molto arretrata, specialmente in Italia, ma questa non è una ragione per lasciare da soli quei movimenti. Perciò non solo siamo dentro il movimento, ma lavoriamo per sviluppare al suo interno una prospettiva rivoluzionaria ed anticapitalista, l’unica in grado di battere davvero Salvini.
Tanto più che l’epoca è instabile e il PD oggi alla testa, con una propaganda audace e sistematica, può trovarsi presto alla coda per ruzzolare definitivamente nella polvere, liberando così la coscienza delle migliaia di “sardine” che oggi riempiono la piazza, facendo fare un passo avanti gigantesco alle lotte di classe di questo Paese. È questo l’obbiettivo per cui bisogna lavorare.
Armando Attilio Tronca

Per un femminismo coerentemente rivoluzionario e anticapitalista

Il Partito Comunista dei Lavoratori scende in piazza in occasione della manifestazione organizzata dal movimento Non Una di Meno a Roma, con un programma di rivendicazioni radicali, per spazzare via le cause della doppia oppressione di genere alla radice.
Il governo M5S-PD si colloca in continuità con i governi precedenti, e la messa in stand-by del DDL Pillon non segna un reale cambio di rotta. Assistiamo di fatto alla chiusura di spazi femministi di autodeterminazione (come Lucha y Siesta a Roma), all’avanzata indisturbata della xenofobia, all’erosione della Legge 194, al fallimento del Codice Rosso, all’aumento degli atti di violenza sessista e omofoba alimentati da un clima di odio maschilista, ai tagli al welfare e ai servizi, alla discriminazione sul lavoro e alla criminalizzazione delle lotte sindacali e delle lotte per la casa.

Noi riteniamo si debbano coniugare, senza tentennamenti, la lotta femminista contro il patriarcato alla lotta anticapitalista, a partire da rivendicazioni chiare e concrete:

• la difesa del lavoro, unico effettivo strumento di autodeterminazione per le donne, con l’abolizione di tutte le leggi che hanno precarizzato il lavoro e ne hanno eliminato le tutele: il Jobs Act e le controriforme degli ultimi vent'anni ci espongono ai ricatti sociali e sessuali; a questo si aggiunge la cancellazione di tutte le controriforme sulle pensioni e il ritorno al sistema pensionistico retributivo;

• la ripartizione del lavoro tra tutte e tutti con la riduzione dell’orario di lavoro a parità di paga; parità salariale per tutte e tutti;

• la nazionalizzazione sotto controllo dei lavoratori e delle lavoratrici delle imprese che chiudono, inquinano o delocalizzano: ci serve lavoro, non un’elemosina di cittadinanza;

• il salario garantito per chi è in cerca di occupazione, contro ogni forma di reddito di autodeterminazione slegato dalla condizione lavorativa, che non garantisce autonomia, ma al contrario prospetta maggiori possibilità di rinchiudere le donne nell’ambiente domestico;

• un welfare statale che non ci renda schiave all’interno della famiglia, con l’istituzione di un ampio programma di servizi sociali che si prenda in carico l’enorme quantità di lavoro di cura che oggi pesa sulle spalle delle donne, nella prospettiva della socializzazione del lavoro di cura.

Inoltre, pretendiamo l’abolizione dell’obiezione di coscienza, nonché la fine delle erogazioni statali alle strutture private. Fuori i religiosi dalla nostra vita e dalla nostra salute! Servono consultori pubblici per le donne e per i soggetti LGBTQIA+, sotto il controllo delle utenti e con accesso a tutte le tecniche per determinare le decisioni sul nostro corpo; vogliamo il libero e gratuito accesso all’interruzione di gravidanza e alla contraccezione. Vogliamo inoltre la cancellazione dei confini e l’eliminazione di tutte le leggi securitarie che opprimono le donne migranti e legittimano le violenze nei loro confronti.

Dobbiamo rigettare con forza ogni organizzazione sociale che produce sfruttati e sfruttatori, che produce povertà in nome del profitto e dalla quale derivi ogni pensiero politico che accetti come “naturale” la povertà e la divisione in classi.

Per questo è necessario che la lotta di genere si saldi alla lotta di classe, contro gli sfruttatori dalla parte di lavoratori e lavoratrici, con l’opposizione a questo governo e alle sue politiche.
Occorre una mobilitazione transfemminista internazionale e la costruzione di un fronte che unisca la lotta contro la violenza di genere alle lotte per la difesa dell’ambiente, perché, proprio come per sconfiggere il patriarcato abbiamo bisogno di una società dove il corpo di nessuna sia più merce e nessuno possa considerare il corpo delle donne una proprietà, per salvaguardare l’ambiente non deve più essere regola del mondo che prima viene il profitto, poi le vite delle persone e la salvaguardia dell’ambiente naturale.
Basta con i corpi in vendita e con lo sfruttamento irrazionale delle risorse naturali!
Occorre una mobilitazione che si unisca alle lotte sindacali, a quelle per la casa, a quelle antifasciste, per rovesciare capitalismo e patriarcato e ricacciare nel passato ogni tentazione di Medioevo.

Solo nella prospettiva anticapitalista e socialista su scala mondiale potremo vivere in un mondo senza violenze e oppressioni di genere.
Partito Comunista dei Lavoratori

Sostegno pubblico a un'azienda criminale?

Una vera nazionalizzazione è l'unica via

20 Novembre 2019
Un clamoroso paradosso sta emergendo su ArcelorMittal. Diverse procure aprono indagini sulle condotte del gruppo. Roba pesante: aggiotaggio, false comunicazioni, appropriazione indebita. I nuovi acquirenti di ex Ilva compravano materie prime a prezzi gonfiati da altre imprese del gruppo, e vendevano a prezzi stracciati a proprie consociate che hanno sede in Olanda e Lussemburgo (dove pagano tasse irrisorie); i parchi minerari sono stati progressivamente svuotati in sei mesi nella prospettiva di una chiusura già programmata; le manutenzioni ordinarie sono state da tempo dismesse, aggravando l'insicurezza del lavoro in fabbrica. In poche parole, gli azionisti di ArcelorMittal hanno volutamente depauperato l'azienda per poi imporne la chiusura. Si sono appropriate dell'Ilva non per continuare a produrre acciaio italiano da vendere all'estero, ma per vendere anche in Italia acciaio prodotto all'estero dopo aver chiuso Taranto.
Una condotta truffaldina e criminale.

Eppure nelle stesse ore in cui tutto questo emerge, il governo Conte moltiplica le offerte sottobanco all'azienda per convincerla a restare. L'offerta del menù è varia: o l'ingresso nel capitale della Cassa Depositi e Prestiti, o la partecipazione diretta del Tesoro, o uno spezzatino aziendale con lo Stato che si fa carico degli esuberi (bad company), o una combinazione di tutte queste misure. Il loro significato è semplice: lo Stato soccorre con risorse pubbliche il profitto privato degli azionisti. Non solo. Se gli azionisti accettano, il governo offre loro il sospirato scudo penale, che l'azienda chiede non a caso sulla stessa sicurezza sul lavoro.

In conclusione: il governo Conte offre ad un'azienda criminale non solo risorse pubbliche, ma l'impunità. Non sappiamo se ArcelorMittal accetterà, sappiamo che è un mercimonio immondo. Le burocrazie sindacali, Maurizio Landini in testa, non hanno nulla da dire su questo? Sembra di no. Anzi, sembrano essere il principale supporto del governo Conte e della sua linea, sull'Ilva come sulla finanziaria.

La nazionalizzazione dell'ex Ilva, senza indennizzo, e sotto il controllo dei lavoratori, si conferma una volta di più non solo come l'unica premessa di una necessaria riconversione a tutela del lavoro e della salute, ma anche come l'unica soluzione morale, per gli operai e per la popolazione tarantina.
Partito Comunista dei Lavoratori

Fascisti su Marte con il sidecar

Il blitz contro un gruppo di terroristi fascisti che in provincia di Siena stavano pianificando un attentato contro una moschea non sorprende chi, come noi, da tempo conosce il ritrovato dinamismo delle formazioni di estrema destra e invoca un'azione dal basso per fermarle.

La vicenda del gruppo senese, costituito da appartenenti al Movimento Idea Sociale fondato da Pino Rauti, oltre a destare impressione per la quantità di armi a disposizione dei protagonisti, ci riporta in mente il periodo in cui la Toscana era uno snodo chiave del neofascismo armato. Nei primi anni Settanta infatti, tra le provincie di Arezzo, Siena, Firenze e Lucca, venne fondato il Fronte Nazionale Rivoluzionario, ma sopratutto operarono cellule della rete di Ordine Nero, organizzazione coinvolta nello stragismo e responsabile dell'attentato al treno Italicus. Sempre nei dintorni di Arezzo si svolgevano i conciliaboli golpisti di Gelli e Borghese per pianificare il tentato colpo di Stato del 1970.
Sebbene in un contesto storico diverso, anche in tempi più recenti la Toscana è stata teatro di continue provocazioni e aggressioni anche armate. La memoria corre subito alla strage di Piazza Dalmazia del 2011, operata a Firenze da Gianluca Casseri, attivista di CasaPound. Ma non solo. Nel 2018, sempre a Firenze, Idy Diene, un ragazzo senegalese, venne brutalmente ucciso da mano razzista.
Poi ci sono una serie di episodi che hanno trovato minore risonanza mediatica nazionale, ma sono ugualmente significativi. A Lucca, per alcuni anni esponenti del neofascismo locale con frequentazioni nella tifoseria della Lucchese calcio e nella destra extraparlamentare, hanno imposto a suon di coltellate e agguati la loro linea dentro lo stadio e negli ambienti giovanili locali. Per capire la pericolosità dei soggetti in questione basti pensare che uno degli ex ultrà lucchesi è ora uno dei capi di una milizia fascista filorussa impiegata nella guerra del Donbass.
Venendo ai giorni nostri, soltanto in questa settimana ci sono giunte notizie di un'ulteriore aggressione a sfondo razzista a Firenze, ai danni di un venditore ambulante africano da parte di almeno due soggetti incappucciati, e dell'imbrattamento a Pontedera della lapide in memoria del già citato Idy Diene.

Non possiamo rimanere a guardare mentre è in fermento l'attività di chi nelle nostre città, favorito dalla propaganda reazionaria locale e nazionale, diffonde odio orizzontale tra lavoratori, fomenta guerre tra poveri e arriva ad aggredire fisicamente e pianificare stragi. Mentre i comuni toscani targati Lega e Fratelli d'Italia escono dalle reti di antidiscriminazione, tagliano fondi SPRAR e intitolano strade e rotatorie a politici missini, i gruppi fuori da quello che una volta si sarebbe chiamato “arco costituzionale” sfruttano il clima favorevole a un loro sostanziale sdoganamento per compiere iniziative sempre più audaci.
Senza contare che la continua tolleranza di aperture di sedi neofasciste, come quella di Forza Nuova a Montevarchi e quelle di CasaPound a Pontedera e a Castiglion Fiorentino (benedetta dal locale assessore alla cultura, avvocato Lachi), offre anche una sponda logistica a queste organizzazioni.
Alla connivenza spudorata della destra si aggiungono anche gesti ambigui da parte di esponenti del centrosinistra (poi impegnati in un borghese antifascismo da salotto e di facciata), come quando il sindaco del PD di Siena Valentini nel 2017 si fece fotografare a bordo di un sidecar delle SS.

La lotta al fascismo è per il Partito Comunista dei Lavoratori un terreno sul quale organizzare un fronte unico delle organizzazioni anticapitaliste e delle sinistre di opposizione, proprio come la difesa del lavoro per cui in questi giorni abbiamo lanciato una assemblea nazionale a Roma.
In Toscana nel 2009 le sezioni del PCL di Massa-Carrara e Lucca-Versilia furono tra i fondatori del Coordinamento Antifascista e Antirazzista Toscano (CAAT), cui poi presero parte le altre sezioni toscane del PCL e anche numerose sigle tra partiti, organizzazioni sindacali di base, centri sociali e altri raggruppamenti. In quel periodo le destre proponevano di organizzare ronde, utilizzando e gonfiando artatamente il clima della paura instaurato anche con l'ausilio dei mezzi di comunicazione borghese. In questo contesto si inserivano le solite sigle fasciste che cercavano, a volte camuffando il proprio nome, di accreditarsi come tutori dell'ordine, e avere così l'autorizzazione a colpire immigrati e "rossi". Il CAAT contribuì a sensibilizzare l'opinione pubblica su questo pericolo (poi scampato) con manifestazioni pubbliche, e contrastò efficacemente iniziative fasciste come quella di “Destra Unita”, raggruppamento dietro cui si celava Forza Nuova, che avrebbe dovuto tenersi a Viareggio nel giugno del 2010 ma che fu annullata dopo che centinaia di antifascisti scesi in piazza misero in chiaro i rapporti di forza tra le due realtà.
Oggi serve rilanciare un fronte unico antifascista e anticapitalista che operi in nome di quella che Victor Serge chiamava vigilanza rivoluzionaria. Con lo stesso spirito venne creato il CAAT, e allo stesso risultato dobbiamo mirare tenendo conto del mutato contesto storico e politico rispetto a dieci anni fa.

Partito Comunista dei Lavoratori - coordinamento Toscana


Bolivia: ahora sí, guerra civil

Non per Morales, ma per il potere operaio e contadino

12 Novembre 2019
La Bolivia precipita in queste ore nel caos. Dimessosi nella giornata di ieri, sotto pressione delle forze armate e della polizia nazionale, Evo Morales annuncia il suo rifugio in Messico, che gli concede asilo politico.
Dopo giorni di tensioni, dovute al non riconoscimento del risultato delle elezioni presidenziali da parte dell’opposizione, la Bolivia è a un passo dalla guerra civile. Da una parte l’esercito, la polizia e la destra golpista. Dall’altra la base sociale del MAS (Movimiento Al Socialismo) al grido di “Aahora sí, guerra civil!”
In queste ore drammatiche il posto dei marxisti rivoluzionari è al fianco dei giovani, dei lavoratori e delle masse popolari che si oppongono al colpo di Stato. Ma questo posizionamento di campo, contro i settori della destra razzista, filoimperialista e reazionaria, non deve significare in nessun momento un appoggio politico a Evo Morales.
Come marxisti rivoluzionari siamo sempre stati all’opposizione del governo di Evo Morales, un governo di collaborazione di classe che ha spianato la strada, negli anni, alla ripresa dell’iniziativa dei settori più reazionari della borghesia boliviana. La Bolivia ci insegna, ancora una volta, che non esistono rivoluzioni possibili entro un quadro elettorale e di collaborazione di classe. Solo la classe lavoratrice e le masse popolari, attraverso i loro strumenti di autorganizzazione e basandosi sulla loro forza, possono aprire la strada per una riorganizzazione socialista della società. Solo una rivoluzione socialista, in Bolivia, in Cile e in tutta l’America Latina, può stroncare per sempre la destra e l’imperialismo. La costruzione di un partito rivoluzionario in Bolivia e a livello internazionale è condizione essenziale per guidare questo processo alla vittoria.
Da questa angolazione, e con queste parole d'ordine, parteciperemo a tutte le iniziative di solidarietà contro il golpe in atto in queste ore, al fianco della resistenza del popolo boliviano. 

No al golpe in Bolivia! Nessun appoggio politico al governo! Costruiamo la solidarietà internazionalista!
Per un’iniziativa indipendente del movimento operaio e contadino contro i tentativi golpisti!
Per l’armamento delle masse popolari e la loro autorganizzazione in milizie e consigli!
Dal Cile alla Bolivia, una sola classe, una sola via!
Partito Comunista dei Lavoratori

Assemblea nazionale unitaria delle sinistre di opposizione







Dopo le importanti adesioni, nei giorni scorsi, di Potere al Popolo!, Fronte Popolare, La Città Futura, Democrazia Atea, Laboratorio Politico Iskra, e l'annuncio della partecipazione del Partito della Rifondazione Comunista, hanno comunicato la loro adesione all'iniziativa del 7 dicembre a Roma anche le seguenti organizzazioni:

Resistenze Internazionali

Collettivo Guevara

Collettivo marxista rivoluzionario “Assalto al cielo”

Risorgimento Socialista-Lega dei Socialisti

Associazione culturale Casa Rossa - Spoleto

Collettivo Syntagma - Milano

Circolo ARCI Interzona Fuori Luogo - Torino

Cobas Pubblico Impiego - Comune di Cologno Monzese



Per adesioni: assemblea7dicembre2019@gmail.com

Unire le lotte! Contro un governo padronale! Contro le destre reazionarie!

10 Novembre 2019
Roma, 7 dicembre, ore 10:00, Teatro de' Servi
Il governo Conte bis è un governo dei poteri forti, nazionali ed europei, col sostegno del capitale finanziario e del Vaticano. Il PD è il loro punto di riferimento organico, il M5S un utile comprimario, per di più capace di assumere su alcune tematiche posizioni ancor più di destra. La legge di stabilità è il loro manifesto: riduzione del cuneo fiscale senza che i padroni paghino un euro, e dunque a carico dei lavoratori; ripristino e allargamento delle agevolazioni fiscali a vantaggio dei profitti; rispetto ossequioso del Patto di stabilità concordato con la UE. Nel mentre resta intatto tutto il lavoro sporco dei governi precedenti: Jobs Act, Legge Fornero, decreti sicurezza contro i migranti e le lotte dei lavoratori, accordi con la Libia, autonomia differenziata.

Se la soddisfazione per la caduta del governo M5S-Lega, un governo reazionario e liberticida, è ben comprensibile, non c’è davvero alcuna ragione (un vero paradosso) per esultare a sinistra, come pure è avvenuto da parte di alcune organizzazioni, per la nascita di questo nuovo governo padronale. Ma paradosso ancora più tragico è che il governo si regge sul sostegno diretto delle direzioni sindacali e sul coinvolgimento della sinistra parlamentare. Ciò che regala alle destre peggiori, Salvini e Meloni, un ampio spazio di demagogia reazionaria presso gli strati popolari in funzione della propria rivincita. Come sempre, il “meno peggio” spiana la strada al peggio. Lo stesso risultato delle elezioni regionali in Umbria conferma questa verità.

C'è allora urgente bisogno di ricostruire un'opposizione di massa al governo Conte dal versante dei lavoratori e delle lavoratrici. Un'opposizione radicale e senza equivoci. Un'opposizione che punti a unire tutto ciò che padroni e governo vogliono dividere, a partire dalle lotte di resistenza a difesa del lavoro (ex Ilva, Whirlpool...) per contrastare i nuovi grandi processi di ristrutturazione capitalista. Una opposizione che si raccolga attorno ad una piattaforma generale indipendente, in una prospettiva di alternativa anticapitalista. Una opposizione che possa diventare riferimento utile per connettere i movimenti sociali, ambientalisti, femministi, contro la repressione e la reazione, a partire dal movimento contro il cambiamento climatico e di quello delle donne, dando continuità alle mobilitazioni di novembre. Una opposizione che possa saldare attorno alla classe lavoratrice la più vasta insoddisfazione popolare sbarrando la strada alla destra.

In funzione di questa prospettiva, e su queste basi di chiarezza, riteniamo necessaria la più vasta unità d'azione di tutte le sinistre di opposizione, sociali e politiche (comuniste, socialiste, anticapitaliste, libertarie). Per coordinare l'azione nelle lotte e unire nelle lotte il nostro campo sociale.


Per questo promuoviamo un'ASSEMBLEA UNITARIA DELLE SINISTRE DI OPPOSIZIONE, per affermare questo impegno unitario e quale occasione di confronto, iniziativa, mobilitazione.

Roma, 7 dicembre, presso il Teatro de' Servi (Via del Mortaro 22), dalle ore 10:00



Promotori:

Partito Comunista dei Lavoratori
Partito Comunista Italiano
Sinistra Anticapitalista






La lotta alla GM e la lezione per la vertenza ArcelorMittal

La necessità di una campagna unitaria per una vertenza radicale

8 Novembre 2019
I 40 giorni di sciopero radicale e combattivo dei lavoratori e delle lavoratrici della General Motors, negli Stati Uniti, hanno piegato uno dei colossi del grande capitale. Assumiamo quell'esempio per una lotta generale combattiva per la nazionalizzazione sotto controllo sociale e dei lavoratori di ArcelorMittal e di tutto il settore siderurgico
GENERAL MOTORS E UAW: 40 GIORNI E 40 NOTTI DI LOTTA

Nel cuore industriale della metropoli imperialista è successo qualcosa che ha scosso il grande capitale. Proprio laddove, con la narrazione ideologica dominante – fondata sul concetto di società postindustriale – si gioca a presentare come superati i concetti di classe operaia e di lotta di classe che ne dovrebbe conseguire, per spostare il focus sulla mobilitazione della middle/lower class nello scontro geopolitico e imperialistico con la Cina che ha, ormai, assunto i tratti di una vera e propria guerra commerciale, con i suoi alti e bassi, condotta attraverso le oscillazioni del populista Trump.

Per 40 giorni consecutivi, dopo oltre un decennio di assenza totale di anche minime mobilitazioni, la classe lavoratrice del settore automobilistico ha scioperato e preso per la gola la General Motors. Un riscatto di classe e un moto di orgoglio nascosto da ogni canale di comunicazione ufficiale, per non fornire esempi pericolosi alle classi sfruttate. Un silenzio funzionale anche a non mettere in cattiva luce e in difficoltà un settore di grande capitale coinvolto in un'aperta guerra capitalistica mondiale, con cui affrontare una nuova rivoluzione industriale che costringe tutti gli attori in campo a mettere in moto riconversioni e investimenti per intercettare la tendenza del mercato all'auto elettrica e la corsa ad un inedito mercato utile per l'espansione del capitale, alimentata anche dalla retorica borghese e piccolo-borghese di un nuovo capitalismo "green".

La classe lavoratrice ha messo in mostra di possedere ancora, nelle sue mani, un potere capace di mettere in ginocchio e far tremare le grandi borghesie ed i governi anche laddove possano sembrare inattaccabili e intoccabili. Un potere che si può esplicitare solo con l'unità di classe e con la radicalità di mobilitazioni e di scioperi ad oltranza, conquistando i cuori della società e raccogliendo solidarietà in loro sostegno. Un potere che può scavalcare anche le stesse burocrazie sindacali, costringendole a rincorrere la mobilitazione, alla ricerca di un accordo che possa soddisfare una base compattata dall'esperienza della lotta unitaria.
Quaranta giorni in cui oltre 48.000 lavoratori hanno fatto pagare un conto di profitti perduti alla GM di quasi 3 miliardi di dollari, costringendoli ad andare incontro alla maggior parte delle rivendicazioni e richieste, strappando: un premio di 11.000 dollari a dipendente; due aumenti salariali del 3%, con due erogazioni una tantum del 4% del salario; la rimozione del tetto di partecipazione agli utili (dopo anni in cui l'azienda macinava miliardi sulla pelle di salari al palo e diritti in smantellamento); il mantenimento delle coperture sanitarie ai livelli attuali; l'accordo per la stabilizzazione a tempo indeterminato dei lavoratori precari e ricattati che abbiano lavorato per almeno tre anni in azienda (sconfiggendo un modello che imponeva ad un settore di lavoratori di rimanere a livelli salariali nettamente più bassi e a non poter godere di benefit, coperture assicurative, diritti sindacali etc.).

I principi su cui si è costruita la mobilitazione sono stati proprio la rivendicazione di una forte redistribuzione a fronte di un'azienda che aumentava il proprio potere nello scacchiere mondiale macinando sempre più utili, ma che annunciava la chiusura di stabilimenti e la cancellazione di posti di lavoro; e il contrasto della divisione del fronte dei lavoratori con una sempre maggior differenziazione delle condizioni di lavoro, salariali e dei diritti e benefit tra lavoratori a tempo indeterminato e quelli a tempo determinato, lavoratori a pieno salario e altri a salario crescente, qualificati e forzosamente non qualificati, e così via.


DALL'ESEMPIO DELLA GENERAL MOTORS ALLA BATTAGLIA CONTRO ARCELOR MITTAL

Da questo punto di vista, parlando di un settore strategico per gli USA come quello dell'automobile, non può non venire in mente il contraltare del contesto di attualità italiano, in cui diverse aziende strategiche aggrediscono le condizioni di lavoro e minacciano delocalizzazioni, chiusure, licenziamenti – come nel caso della Whirlpool – o che minacciano di chiudere la baracca dell'industria siderurgica italiana, rilanciando ricatti per ottenere pieni poteri e mani totalmente libere di fare profitti incondizionati sulla pelle dei lavoratori e dei livelli occupazionali, su quella degli abitanti, dell'ambiente e delle condizioni di vita generali. Parliamo ovviamente di Arcelor Mittal e delle acciaierie di Taranto, Novi Ligure, Cornigliano, Racconigi e Marghera – in tutto 10.600 dipendenti – con tutte le inevitabili ricadute sull'enorme indotto, che coinvolge oltre 9.000 dipendenti.

Invece di fare aperture alla linea di cedimento al ricatto, come immediatamente proposto da Landini in supporto alla logica del PD e della nuova creatura di Renzi, Italia Viva, per fornire immunità penale al più grande colosso dell'acciaio mondiale in cambio del mantenimento degli impianti, i cui livelli occupazionali sono già stati ridimensionati, e con operazioni di bonifica fatte con i pochi quattrini sottratti ai Riva.
Invece di inutili piagnistei su accordi ormai divenuti carta straccia, fondati sull'illusione che si possa inchiodare la grande borghesia a pezzi di carta o promesse di politicanti passati.
Invece di mobilitazioni di qualche ora, peraltro spezzettando il fronte dei lavoratori su base geografica e sulla base di singoli impianti produttivi, spesso costruendo rivendicazioni addirittura contrapposte.

Oggi bisogna cogliere proprio l'esperienza e l'esempio dei lavoratori della GM, inchiodare il grande capitale e i governi al loro servizio, nel ridicolo teatrino di slogan urlati e cedimenti nei fatti di ogni parte politica. Inchiodarli con la forza di una mobilitazione unitaria della classe lavoratrice, per lo meno di tutto il settore siderurgico italiano, ponendo in campo la forza compatta e combattiva di chi nei fatti tiene in piedi gli stabilimenti e ne paga anche il maggior scotto della loro nocività.
Una mobilitazione che metta in chiaro come non esistano padroni singoli o loro cordate che possano realmente curarsi degli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici, dei territori, dell'ambiente e della salute (considerate dal grande capitale esternalità negative da scaricare sulla collettività) contemporaneamente. Una mobilitazione che blocchi il paese fino a che non si assume una soluzione reale, credibile e nell'interesse di lavoro, salute e ambiente.
Il tutto con la consapevolezza che la sola classe lavoratrice può assumere questo impegno, costringendo lo Stato a requisire tutte le proprietà di chi si è arricchito su sangue, sudore, tumori e inquinamento; nazionalizzando senza indennizzo l'Ilva e tutto il settore siderurgico, ponendolo sotto il controllo dei lavoratori e dei loro rappresentanti reali, non delle burocrazie al soldo della controparte.

Per cui, oggi più che mai, è importante che tutta la sinistra di classe, anticapitalista e rivoluzionaria, tutto il sindacalismo combattivo e conflittuale, tutto il mondo delle associazioni e dei movimenti per l'ambiente – Fridays For Future compreso – si uniscano nel rivendicare la difesa di un lavoro a condizioni dignitose, dei livelli occupazionali, della nazionalizzazione del settore siderurgico e di una sua radicale riconversione, accompagnate dalla bonifica di tutte le aree devastate e dalla cura e compensazione dei danni alla salute collettiva. Imponendo il costo di tutto questo ai pochi che, negli anni, si sono garantiti con questo settore profitti, potere e ricchezze. Partendo proprio dall'organizzazione e dal sostegno di uno sciopero generale e prolungato del settore e dall'istituzione di casse di solidarietà e organizzazione di mutuo soccorso per il sostegno degli scioperanti.
Unire le forze per una campagna e una battaglia nell'interesse di quei lavoratori e dei cittadini coinvolti, nella consapevolezza di portare avanti una battaglia per tutta la società e per la collettività.

Cristian Briozzo

Abolire i decreti sicurezza!

Il PCL aderisce alla manifestazione del 9 novembre a Roma

7 Novembre 2019
Il Partito Comunista dei Lavoratori aderisce alla manifestazione nazionale del 9 novembre a Roma per l'abolizione dei decreti sicurezza.

Come era prevedibile il cosiddetto governo di svolta, guidato dallo stesso Presidente del Consiglio, con la sostituzione della Lega col PD, continua le politiche di Salvini su immigrazione e ordine pubblico. I decreti sicurezza restano intatti nella loro sostanza: intatto il primo decreto sicurezza che cancella la protezione umanitaria e allarga il bacino della cosiddetta clandestinità; intatto il secondo decreto sicurezza che ostacola lo stesso soccorso in mare e costringe i barconi a lunghi soggiorni fuori dai porti. A questo si aggiunge la conferma del famigerato Memorandum coi tagliagole libici varato da Minniti e ben custodito da Salvini, che finanzia la guardia costiera del governo al-Sarraj e i suoi affari con i trafficanti di esseri umani e i loro lager.

Persino gli argomenti a supporto sono gli stessi di prima. “Bloccare le partenze” resta l'imperativo categorico per Di Maio, che ha solo cambiato abito ministeriale alla propria politica reazionaria. Quanto al PD, si copre dietro il ruolo di architrave di sistema, aggiungendo di tanto in tanto qualche ipocrita preoccupazione “umanitaria”. La risultante è la continuità col passato, che oltretutto concima giorno dopo giorno il terreno della rivincita di Salvini e Meloni, gli arnesi peggiori della xenofobia tricolore.

La costruzione del fronte unico contro il nuovo governo passa per la rivendicazione dell'abolizione dei decreti di Salvini e di tutte le misure di discriminazione, segregazione, oppressione a danno dei migranti; dentro la prospettiva di un'alternativa sociale che chiami in causa l'ordine capitalista e le sue misure di sfruttamento, di oppressione, di guerra, che sono alla base delle migrazioni. Quelle che le stesse “democrazie” imperialiste vorrebbero respingere e recintare.
Partito Comunista dei Lavoratori

Ilva: nazionalizzazione, la sola soluzione

La battaglia dell'Ilva assume oggi una valenza centrale.


LA BUFALA DELL'ACCORDO DI UN ANNO FA

L'accordo firmato un anno fa dal primo governo Conte (M5S-Lega) concedeva la principale azienda siderurgica italiana al più grande colosso della siderurgia mondiale, Arcelor Mittal. Le burocrazie sindacali firmatarie dell'accordo, CGIL, CISL, UIL, lo celebrarono come l'accordo del secolo, magnificandone le virtù: difesa dell'occupazione e dei diritti dei lavoratori, garanzia di risanamento ambientale, un orizzonte radioso. Persino USB firmò, unendosi al coro. Il tutto a copertura, incredibile a dirsi, dell'allora governo M5S-Lega, ma anche col plauso del PD e di larga parte delle sinistre “radicali”. Del resto... garantiva il mitico Maurizio Landini, neosegretario generale CGIL, come si poteva sconfessarlo?

Ma l'anno trascorso ha fatto tabula rasa di questa retorica. Riduzione dell'occupazione reale a regime, selezione antisindacale delle riassunzioni, taglio dei diritti acquisiti per i lavoratori riassunti, aumento della cassa integrazione, risparmi sulla sicurezza del lavoro, ritardi sugli impegni ambientali. Basti pensare che ad oggi i soli interventi di risanamento avvenuti, compresa la copertura dei parchi minerari, sono stati finanziati dai fondi sequestrati a Riva. Insomma, un vero bidone. Come il nostro partito aveva denunciato e previsto.

Il “recesso” di ieri di Arcelor Mittal è solo la confessione pubblica di questa verità.


L'IMMUNITÀ PENALE PER IL PROFITTO

Il colosso franco-indiano ha acquistato gli stabilimenti ex Ilva dietro garanzia dell'immunità penale. Una clausola inesistente altrove. Sta a dire che la messa a norma della produzione dal punto di vista ambientale richiede un certo tempo, e che in questo tempo l'azienda è immune sotto il profilo giudiziario, cioè non risponde di reati ambientali o di mancata sicurezza sul lavoro. L'esistenza stessa di questa clausola, quale condizione dell'acquisto, chiarisce se ve n'era bisogno la sua spregiudicatezza e persino la sua natura incostituzionale. Il profitto reclamava una zona franca a garanzia dei azionisti, governo e sindacati acconsentivano.

Ma dopo il tracollo elettorale dei Cinque Stelle a Taranto, e non solo, il panico dei parlamentari pugliesi, la minaccia di un loro abbandono, in particolare al Senato, col rischio conseguente di una possibile caduta del governo, il buon Di Maio è dovuto correre ai ripari concedendo alla fronda interna la rimozione parziale dell'immunità. E Arcelor Mittal ha colto la palla al balzo per tirarsi fuori. Senza immunità penale il profitto se ne va.


LA GUERRA MONDIALE DELL'ACCIAIO

Una mossa contrattuale per riottenere lo scudo giudiziario, oppure per negoziare magari un nuovo accordo con tagli maggiori sull'occupazione? Lo vedremo. Certo l'operazione ha risvolti più ampi che vanno ben al di là dell'aspetto giuridico. Arcelor Mittal ha acquisito gli stabilimenti ex Ilva per sottrarli innanzitutto alla concorrenza. La sovrapproduzione dell'acciaio è enorme sul piano mondiale, anche per l'ingresso della concorrenza cinese. Tutti i grandi gruppi del settore sono dunque impegnati in una guerra senza risparmio di colpi. Questa guerra si combatte attraverso l'abbattimento dei costi: riduzione della manodopera, distruzione dei diritti, aggiramento delle clausole ambientali (laddove esistono). Arcelor Mittal è in prima fila in questa guerra, una guerra che investe la siderurgia europea, a partire da Germania e Francia. L'Italia è solo un frammento di questa partita di domino. I grandi azionisti di Arcelor si muovono e si muoveranno in Italia secondo le convenienze del proprio piano industriale globale. Di certo la nomina come nuovo amministratore delegato della mastina Lucia Morselli, nota “tagliatrice di teste” in fatto di posti di lavoro, non promette nulla di buono. Le cifre che circolano sui cosiddetti esuberi annunciano una possibile mattanza.


NON CI SONO PADRONI BUONI

Tutta la lunga esperienza della privatizzazione della siderurgia italiana conferma che non vi sono padroni buoni. Vi sono solo padroni interessati al profitto. A qualsiasi costo, per l'appunto, cancro incluso. Sempre con l'assistenza dello Stato, spesso con la complicità dei burocrati sindacali. Padron Riva comprò nel 1995 la vecchia Italsider per un pugno di lire, allo scopo di spolparla per quasi vent'anni e portare in Svizzera i miliardi fatti, mentre le polveri sottili dei parchi scoperti avvelenavano Taranto. Le burocrazie sindacali, a partire da Taranto, finirono (letteralmente) sul libro paga dei Riva per garantire pace sociale in fabbrica e protezione sul territorio. La vicenda della FIOM tarantina fu emblematica. Ora i nuovi acquirenti di Arcelor Mittal hanno prima avuto in dono dallo Stato un contratto vantaggioso penalmente immune, e ora minacciano di rifarsi contro gli operai, per di più pretendendo come faceva Riva la “solidarietà delle maestranze”.

Nessuna solidarietà va data invece ai nuovi padroni. L'interesse di classe degli operai non ha nulla da spartire col loro. La siderurgia va certo salvaguardata, fuori e contro la pretesa specularmente opposta di chi chiede la chiusura degli stabilimenti (chi rivendica la chiusura nel nome del risanamento del territorio dia un occhiata al deserto di Bagnoli, presidiato da camorra e disperazione, e poi ne riparliamo). Ma gli operai non possono scegliere tra morire di fame o morire di cancro. Possono e debbono rivendicare insieme lavoro e salute, diritti inseparabili, e possono farlo solo contro la legge del profitto. Per questo avanziamo la parola d'ordine della nazionalizzazione dell'Ilva, senza alcun risarcimento per i nuovi acquirenti, e sotto il controllo dei lavoratori.


NAZIONALIZZAZIONE E RICONVERSIONE
La produzione di acciaio è indispensabile, come il risanamento ambientale dei territori inquinati. Tenere insieme queste due esigenze è perfettamente possibile, sulla base delle acquisizione della tecnica e della scienza. La stessa Arcelor Mittal ha riconosciuto che la produzione di acciaio attraverso il gas e non il carbone è tecnicamente possibile, salvo lamentare i maggiori costi e dunque la non convenienza di mercato. Ma la non convenienza per gli azionisti coincide con la massima convenienza per i lavoratori e la maggioranza della società. Per questo gli stabilimenti ex Ilva vanno nazionalizzati sotto controllo operaio. Perché solo gli operai, nel loro proprio interesse, possono tutelare i posti di lavoro, anche attraverso la riduzione dell'orario a parità di paga. Perché solo gli operai, nel loro proprio interesse, possono conciliare la tutela del lavoro con la riorganizzazione radicale della produzione dell'acciaio, dando risposta reale alla domanda di sicurezza ambientale della popolazione povera dei quartieri. Più in generale, va nazionalizzata l'intera produzione dell'acciaio, riorganizzando la produzione secondo un piano del lavoro definito dai lavoratori stessi, finalmente sottratto al cinismo cieco del mercato.


DI INCOMPATIBILE C'E SOLO IL CAPITALISMO

La nazionalizzazione è “incompatibile” con la legislazione della UE, con il libero mercato, con le virtù del capitale? È vero. Ma solo nel senso che è il capitale ad essere incompatibile con le esigenze della società umana. La battaglia per la nazionalizzazione dell'ex Ilva o diventa una battaglia anticapitalistica per un governo dei lavoratori, o non è.

Il PCL farà della battaglia per la nazionalizzazione l'asse del proprio intervento tra i lavoratori Ilva. Ed è una battaglia che non può limitarsi all'Ilva. Se la più grande azienda del paese è sotto attacco, se sono in gioco 20.000 operai, sommando l'indotto, se è in gioco il cuore della produzione industriale su scala nazionale, lo scontro riguarda l'intero movimento operaio italiano. Il fronte unico a difesa del lavoro per la nazionalizzazione dell'Ilva è la parola d'ordine centrale di tutte le avanguardie di classe.
Marco Ferrando

L'Ottobre e l'Internazionale comunista

Ricordiamo la rivoluzione russa con uno dei principali risultati dell'Ottobre: la nascita della Terza Internazionale, l'Internazionale comunista di Lenin e Trotsky. Lo facciamo attraverso l'appello che nel congresso di fondazione (marzo 1919) ne sancì l'atto di nascita, cioè il Manifesto al proletariato di tutto il mondo, scritto da Trotsky, che costituì una delle risoluzioni finali del congresso. L'esperienza russa, riferimento esplicito nel Manifesto, è inserita magistralmente all'interno di una sintetica ma profonda analisi del quadro mondiale, che da esso traeva forza e che a esso rimandava nelle sue prospettive strategiche saldamente internazionaliste e rivoluzionarie.


Sono passati settantadue anni dacché il partito comunista annunciò al mondo il proprio programma sotto forma di un Manifesto scritto dai massimi maestri della rivoluzione proletaria, Karl Marx e Friedrich Engels. Anche a quel tempo il comunismo, che era appena entrato nell'arena della lotta, fu aggredito con irrisione, menzogne, odio, e persecuzione dalle classi possidenti, che giustamente sentivano in esso il proprio nemico mortale. Nel corso di quei settant'anni il comunismo si sviluppò per vie intricate, periodi di precipitose avanzate alternatisi con periodi di declino; ha conosciuto dei successi, ma anche delle dure sconfitte. Tuttavia il movimento procedette essenzialmente sulla via indicata in anticipo dal Manifesto del partito comunista. L'epoca della lotta finale, decisiva, giunse più tardi di qual che gli apostoli della rivoluzione sociale avevano creduto e sperato. Ma ora è giunta. Noi comunisti, rappresentanti del proletariato rivoluzionario di vari paesi d'Europa, America, e Asia, che ci siamo riuniti nella Mosca sovietica, ci sentiamo e ci riteniamo gli eredi e gli esecutori della causa il cui programma fu annunciato 72 anni fa. È nostro compito generalizzare l'esperienza rivoluzionaria della classe operaia, ripulire il movimento dagli inquinamenti disgregatori dell'opportunismo e del socialpatriottismo, mobilitare le forze di tutti i partiti autenticamente rivoluzionari del proletariato mondiale e così facendo facilitare e accelerare la vittoria della rivoluzione comunista in tutto il mondo.

Oggi, mentre l'Europa è coperta di macerie e rovine fumanti, i più infami incendiari sono occupati a scovare i criminali responsabili della guerra. Dietro di loro stanno i loro cattedratici, membri del parlamento, giornalisti, socialpatrioti, e altri ruffiani politici della borghesia.

Per molti anni il socialismo predisse l'inevitabilità della guerra imperialista, vedendone le cause nella cupidigia insaziabile delle classi possidenti dei due maggiori schieramenti, e, in generale, di tutti i paesi capitalisti. Al congresso di Basilea, due anni prima dello scoppio della guerra, dirigenti socialisti responsabili di tutti i paesi bollarono l'imperialismo come autore dell'imminente conflitto, e minacciarono alla borghesia la rivoluzione socialista come vendetta proletaria per i crimini del militarismo. Oggi, dopo l'esperienza degli ultimi cinque anni, dopo che la storia ha messo a nudo le brame predatorie della Germania, e le azioni non meno criminali dell'Intesa, i socialisti di stato dei paesi dell'Intesa continuano insieme con i propri governi ad accusare il deposto Kaiser tedesco. Per giunta, i socialpatrioti tedeschi che nell'agosto 1914 proclamarono che il libro bianco diplomatico degli Hohenzollern era il più sacro vangelo delle genti, ora, come vili leccapiedi, seguono le orme dei socialisti dell'Intesa e denunciano la monarchia tedesca caduta, che un tempo hanno servito in modo abbietto, come il principale criminale. Sperano così di far dimenticare la loro propria colpa e al tempo stesso di meritare la benevolenza dei vincitori. Ma la luce gettata da avvenimenti rivelatori e da rivelazioni diplomatiche smaschera, fianco a fianco, le vacillanti dinastie Romanov, Hohenzollern e Asburgo, le cricche capitaliste dei loro paesi, le classi dominanti di Francia, Inghilterra e Stati Uniti in tutta la loro sconfinata infamia.

La diplomazia inglese non uscì allo scoperto fin proprio al momento in cui scoppiò la guerra. Il governo dei finanzieri ebbe cura di non rilasciare alcuna dichiarazione esplicita della propria intenzione di entrare in guerra al fianco dell'Intesa per non spaventare il governo di Berlino. A Londra volevano la guerra. Ecco perché si comportarono in modo che Berlino e Vienna contassero sulla neutralità dell'Inghilterra, mentre Parigi e Pietrogrado confidavano fermamente sull'intervento dell'Inghilterra.

Maturata per decenni da tutto il corso degli avvenimenti, la guerra fu scatenata grazie alla provocazione diretta e deliberata della Gran Bretagna. Il governo inglese calcolò di offrire alla Russia e alla Francia quel tanto di appoggio da farle procedere finché, trovandosi queste ai limiti della resistenza, anche il nemico mortale dell'Inghilterra, la Germania, fosse paralizzato. Ma la potenza della macchina militare tedesca si rivelò troppo formidabile e non lasciò all'Inghilterra altra scelta che l'immediato intervento in guerra. Il ruolo di tertius gaudens cui la Gran Bretagna, seguendo un'antica tradizione, aspirava, toccò agli Stati Uniti. Il governo di Washington si rassegnò con la massima facilità al blocco inglese, che limitava unilateralmente la speculazione della Borsa valori americana sul sangue europeo, dato che i paesi dell'intesa compensarono la borghesia americana con pingui profitti per le violazioni della "legge internazionale". Ma la schiacciante superiorità militare della Germania costrinse il governo di Washington ad abbandonare la propria fittizia neutralità. Rispetto all'insieme dell'Europa, gli Stati Uniti assunsero il ruolo che aveva assunto l'Inghilterra rispetto al continente in guerre precedenti e che cercò di assumere nell'ultima guerra, vale, a dire: indebolire un campo aiutando l'altro, intervenire nelle operazioni militari solo quel tanto che basti ad assicurarsi tutti i vantaggi della situazione. Rispetto al livello delle speculazioni americane, la puntata di Wilson non era molto alta, ma fu la puntata definitiva, e gli assicurò il premio.

La guerra ha reso consapevole l'umanità delle contraddizioni del sistema capitalistico che si configurano in sofferenze primordiali, fame e freddo, epidemie, crudeltà morali. Questo ha risolto una volta per tutte la controversia accademica all'interno del movimento socialista a proposito della teoria dell'impoverimento e dell'indebolimento progressivo del capitalismo da parte del socialismo. Per decenni studiosi di statistica e pedanti fautori del superamento delle contraddizioni hanno cercato di scovare in ogni angolo del globo fatti veri o presunti che attestino il maggior benessere di vari grippi e categorie della classe operaia. Si suppose che la teoria dell'impoverimento fosse stata sepolta sotto alle irrisioni sprezzanti con cui la bersagliavano gli eunuchi della professoralità borghese e i mandarini dell'opportunismo socialista. Oggigiorno quest'impoverimento, non più solamente di genere sociale, ma anche fisiologico e biologico, ci si pone di fronte in tutta la sua spaventosa realtà.

La catastrofe della guerra imperialista ha spazzato via ogni conquista delle lotte sindacali e parlamentari. Perché questa guerra fu un prodotto delle tendenze insite nel capitalismo tanto quanto lo furono quegli accordi economici e quei compromessi parlamentari che la guerra seppellì nel sangue e nel fango.

Lo stesso capitale finanziario, che fece precipitare l'umanità nell'abisso della guerra, nel corso della guerra subì mutamenti catastrofici. Il rapporto tra carta moneta e base materiale della produzione è completamente spezzato. Perdendo costantemente importanza come tramite e regolatore della circolazione capitalistica dei beni, la carta moneta è divenuta strumento di requisizione, di ladrocinio, di violenza militare-economica in generale. L'assoluto svilimento della carta moneta rispecchia la mortale crisi generale dello scambio capitalistico dei beni. Nei decenni precedenti la guerra, la libera concorrenza, in quanto regolatrice della produzione e della distribuzione, era già stata sostituita nei campi più importanti della vita economica dal sistema dei trust e dei monopoli; ma durante la guerra il corso degli eventi strappò questo ruolo dalle mani di tali associazioni economiche e lo trasferì direttamente al potere statale militare. La distribuzione delle materie prime, l'utilizzazione del petrolio di Baku o romeno, del carbone del Donetz e del frumento ucraino, la sorte delle locomotive, dei vagoni e delle automobili tedesche, l'approvvigionamento di pane e cibo per l'Europa affamata – tutte queste questioni fondamentali della vita economica del mondo non vengono decise dalla libera concorrenza, né dalle associazioni di trust e consorzi nazionali e internazionali, ma dall'esercizio diretto del potere militare negli interessi della propria prolungala conservazione. Se la assoluta soggezione del potere statale al potere del capitale finanziario condusse l'umanità alla carneficina imperialista, in seguito attraverso questo macello di massa il capitale finanziario ha completamente militarizzato non soltanto lo stato ma anche se stesso, e non è più in grado di adempiere alle proprie funzioni economiche primarie altrimenti che per mezzo del sangue e del ferro.

Gli opportunisti, che prima della guerra fecero appello agli operai perché esercitassero la moderazione nell'interesse della transizione graduale al socialismo, e che durante la guerra richiesero la docilità di classe in nome della pace civile e della difesa nazionale, ora chiedono di nuovo l'abnegazione del proletariato per sormontare le terrificanti conseguenze della guerra. Se le masse operaie dovessero dar retta a questa paternale, lo sviluppo capitalista celebrerebbe la propria restaurazione in forme nuove, più intense e più mostruose, sopra le ossa di molte generazioni, con la prospettiva di una nuova e inevitabile guerra mondiale. Fortunatamente per l'umanità ciò non è più possibile.

Il controllo statale della vita economica, cui il liberalismo capitalista si opponeva tanto strenuamente, è diventato una realtà. Non c'è nessuna possibilità di un ritorno alla libera concorrenza, e neppure alla dominazione di trust, gruppi monopolistici, ed altri mostri economici. C'è soltanto un unico problema: d'ora innanzi chi si incaricherà della produzione nazionalizzata – lo stato imperialista o lo stato del proletariato vittorioso?

In altre parole: tutta l'umanità che lavora duramente diventerà schiava di una cricca mondiale vittoriosa che, sotto il nome di Società delle Nazioni e aiutata da un esercito "internazionale" e da una marina "internazionale", qui deprederà e reprimerà e lì getterà le briciole, ovunque incatenando il proletariato con il solo scopo di mantenere il proprio dominio; oppure la classe operaia d'Europa e dei paesi avanzati di altre parti del mondo prenderà in mano essa stessa l'economia disgregata e distrutta per assicurarne la ricostruzione su basi socialiste?

È possibile abbreviare l'attuale epoca di crisi soltanto per mezzo della dittatura del proletariato, che non guarda al passato, che non tiene in considerazione né privilegi ereditari né diritti di proprietà, ma che prende come punto di partenza la necessità di salvare le masse affamate e mobilita a tal fine tutte le forze e le risorse, introduce l'obbligo universale del lavoro, stabilisce il regime della disciplina operaia, non soltanto al fine di risanare nel corso di qualche anno le ferite aperte dalla guerra ma anche al fine di sollevare l'umanità ad altezze nuove e inimmaginate.

Lo stato nazionale, che impartì un possente impulso allo sviluppo capitalistico, é diventato troppo angusto per l'ulteriore sviluppo delle forze produttive. Questo rende ancor più insostenibile la posizione dei piccoli stati circondati dalle maggiori potenze d' Europa e d'altri continenti. Questi piccoli stati, che sorsero a seconda delle volte come frammenti ricavati da altri più grandi, come spiccioli in pagamento di svariati servizi resi o come cuscinetti strategici, hanno dinastie loro proprie, cricche dominanti proprie, pretese imperialistiche proprie, propri intrighi diplomatici. La loro illusoria indipendenza poggiava, prima della guerra, sulle stesse basi su cui poggiava l'equilibrio di potere europeo - l'antagonismo ininterrotto tra i due campi imperialisti. La guerra ha disgregato quest'equilibrio. Dando un'enorme preponderanza alla Germania nelle prime fasi, la guerra costrinse i piccoli stati a cercare salvezza nella magnanimità del militarismo tedesco. Quando la Germania fu sconfitta, la borghesia dei piccoli stati, insieme ai loro "socialisti" patriottici, si accostò agli imperialismi alleati vittoriosi e incominciò a cercare garanzie per il mantenimento della propria esistenza indipendente nelle clausole ipocrite del programma wilsoniano. Nello stesso tempo il numero dei piccoli stati aumentò; dalla monarchia austroungarica, da parti dell'antico impero zarista, sono state ricavate nuove entità statali, che non appena nate balzarono l'una alla gola dell'altra per la questione delle frontiere di stato. Intanto gli imperialisti alleati stanno componendo alleanze di piccole potenze, sia vecchie sia nuove, ad essi legate con la garanzia della loro mutua inimicizia e comune impotenza.

Mentre opprimono e coartano i popoli piccoli e deboli, con ampi ceti intermedi tanto nelle campagne quanto nelle città sono ostacolati dal capitalismo, e sono in ritardo nel proprio sviluppo storico. Al contadino del Baden e della Baviera che non è ancora capace di vedere al di là del campanile della chiesa dei paese, al piccolo produttore di vino francese che viene rovinato dai capitalisti che operano su vasta scala e che adulterano il vino, e al piccolo coltivatore americano derubato e truffato dai banchieri e dai membri del Congresso - a tutti questi ceti sociali, spinti dal capitalismo fuori della corrente principale dello sviluppo, apparentemente si fa appello, in regime di democrazia politica, per dirigere lo stato. Ma in realtà, in tutte le questioni importanti che determinano i destini dei popoli, l'oligarchia finanziaria decide alle spalle della democrazia parlamentare. Ciò fu soprattutto vero per quel che riguardava la guerra; è vero ora per quel che riguarda la pace.

Quando l'oligarchia finanziaria ritiene opportuno avere una copertura parlamentare per i propri atti di violenza, lo stato borghese ha a propria disposizione a questo scopo molteplici strumenti ereditati da secoli di dominio di classe e moltiplicati da tutti i miracoli della tecnologia capitalista - menzogne, demagogia, irrisione, calunnia, corruzione, e terrore.

Esigere dal proletariato che, come un mite agnello, ottemperi alle prescrizioni della democrazia borghese nella lotta finale, per la vita o per la morte, con il capitalismo, è come chiedere ad un uomo che lotta per la propria vita contro dei tagliagole di osservare le regole artefatte e restrittive della lotta francese, redatte ma non osservate dai suoi avversari.

In questo regno della distruzione, dove non soltanto i mezzi di produzione e di scambio ma anche le istituzioni della democrazia politica giacciono sotto rovine insanguinate, il proletariato deve creare il suo proprio apparato, destinato in primo luogo a collegare la classe operaia e ad assicurare la possibilità di un intervento rivoluzionario nello sviluppo futuro dell'umanità. Questo apparato è il soviet degli operai. I vecchi partiti, i vecchi sindacati, hanno dimostrato nelle persone dei propri dirigenti di essere incapaci di condurre a buon fine, persino di comprendere, i compiti indicati dalla nuova epoca. Il proletariato ha creato un nuovo tipo di apparato, che abbraccia l'intera classe operaia indipendentemente dall'occupazione specifica e dalla maturità politica, un apparato flessibile capace di rinnovamento e di estensione continui, capace di attirare nella propria orbita ceti sempre più vasti, aprendo le porte ai lavoratori della città e della campagna che siano vicini al proletariato. Questa organizzazione insostituibile dell'autogoverno della classe operaia, della sua lotta, e poi della sua conquista del potere statale, è stata collaudata nell'esperienza di vari paesi e rappresenta la conquista maggiore e l'arma più potente del proletariato del nostro tempo.

In tutti i paesi in cui le masse si sono risvegliate alla coscienza, continueranno a costituirsi i soviet dei delegati degli operai, soldati, e contadini. Rafforzare i soviet, accrescerne l'autorità, erigerli in contrapposizione all'apparato statale della borghesia - questo è oggi il compito più importante dei lavoratori leali e dotati di coscienza di classe di tutti i paesi. Per mezzo dei soviet la classe operaia può salvarsi dalla disgregazione introdotta nel suo seno dalle orribili sofferenze della guerra e della fame, dalla violenza delle classi possidenti e dal tradimento dei suoi vecchi dirigenti. Per mezzo dei soviet la classe operaia sarà in grado di arrivare con maggiore sicurezza e facilità al potere in tutti quei paesi in cui i soviet sono in grado di raccogliere la maggioranza dei lavoratori. Per mezzo dei soviet la classe operaia, una volta conquistato il potere, dirigerà tutte le sfere della vita economica e culturale, com'è attualmente il caso della Russia.

Il crollo dello stato imperialista, da quello zarista a quello più democratico, va di pari passo col crollo del sistema militare imperialista. Gli eserciti innumerevoli mobilitati dall'imperialismo potevano reggersi soltanto finché il proletariato fosse rimasto obbedientemente sotto il giogo della borghesia. Lo sfacelo dell'unità nazionale significa anche uno sfacelo inevitabile dell'esercito. Questo è quanto accadde prima in Russia, poi in Austria-Ungheria e in Gerso di tutti gli strumenti a propria disposizione per paralizzare l'energia del proletariato, prolungare la crisi, e rendere così anche maggiori le calamità dell'Europa. La lotta contro il centro socialista è la premessa indispensabile per la lotta vittoriosa contro l'imperialismo.

Nel respingere la pavidità, le menzogne e la corruzione degli antiquati partiti socialisti-ufficiali, noi comunisti, uniti nella terza Internazionale, riteniamo di continuare in successione diretta gli sforzi eroici e il martirio di una lunga serie di generazioni rivoluzionarie da Babeuf a Karl Liebknecht a Rosa Luxemburg.

Se la prima Internazionale previde il futuro corso degli eventi e indicò le vie che esso avrebbe seguito, se la seconda Internazionale raccolse e organizzò milioni di proletari, la terza Internazionale, dal canto suo, è l'Internazionale della aperta lotta di massa, l'Internazionale della realizzazione rivoluzionaria, l'Internazionale dell'azione.

L'ordine mondiale borghese è stato fustigato a sufficienza dalla critica socialista. Il compito del Partito comunista internazionale consiste nel rovesciare quell'ordine e nell'erigere al suo posto l'edificio dell'ordine socialista.

Noi facciamo appello ai lavoratori e alle lavoratrici di tutti i paesi perché si uniscano sotto la bandiera comunista sotto cui sono già state ottenute le prime grandi vittorie.

Proletari di tutti i paesi! Nella battaglia contro la ferocia imperialista, contro la monarchia, contro le classi privilegiate, contro lo stato borghese e la proprietà borghese, contro tutti i generi e le forme di oppressione sociale e nazionale: Unitevi!

Sotto la bandiera dei soviet degli operai, sotto la bandiera della lotta rivoluzionaria per il potere e la dittatura del proletariato, sotto la bandiera della terza Internazionale - proletari di tutti i pesi, unitevi!

6 marzo 1919