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Economia di guerra? La paghino i padroni

 


No ai sacrifici per l'imperialismo tricolore. Per un piano d'emergenza anticapitalista

Dopo due anni di Covid, l'emergenza guerra. Tutti i governi capitalisti scaricano sulla classe operaia i costi diretti o indiretti della guerra in Ucraina. Il Presidente Draghi in conferenza stampa non esclude per il futuro persino piani di razionamento viveri. Si prepara l'opinione pubblica a possibili “economie di guerra”.

Intendiamoci, “non siamo in guerra”, nel senso che ad oggi tra Russia e NATO non c'è una guerra diretta e dispiegata. La NATO sostiene l'Ucraina per i propri interessi imperialistici, ma non muove la guerra alla Russia (niente no fly zone, come vorrebbe Zelensky). La Russia attacca l'Ucraina per assoggettarla ai propri interessi imperialisti ma non muove guerra alla NATO (niente attacco a Polonia e repubbliche baltiche). La terza guerra mondiale non è affatto già iniziata, e chi lo afferma non sa quello che dice, scambiando una terribile possibilità futura con la realtà presente

Tuttavia fenomeni da economia di guerra stanno compiendo primi passi in più direzioni, anche in Italia. I prezzi del gas, della corrente elettrica, degli idrocarburi, erano già in forte ascesa per l'effetto combinato della ripresa capitalista (aumento della domanda), della strozzatura di forniture e approvvigionamenti, delle speculazioni finanziarie (mercato dei future). La precipitazione della guerra russa all'Ucraina ha moltiplicato tutti questi fenomeni. Tutti i generi di prima necessità conoscono un'inflazione sconosciuta negli ultimi decenni. Il pane è colpito dal crollo dell'importazione di grano da Ucraina e Russia. La produzione agroalimentare è sconvolta dal disinvestimento nella filiera del pomodoro a vantaggio della ben più remunerativa produzione sostitutiva del grano ucraino. Ovunque avanza la ricerca del massimo profitto.

I capitalisti scaricano l'aumento dei costi sul prezzo delle merci, cioè innanzitutto sui salariati. Un ruolo indubbio lo giocano le speculazioni, che persino il ministro Cingolani a denti stretti ha dovuto riconoscere come “scandalo”, salvo poi minimizzare. In realtà la speculazione finanziaria non solo è consentita ma è pratica corrente della società borghese. Se gli operatori finanziari prevedono che gas, petrolio, carbone aumenteranno di prezzo in futuro, si affrettano a comprare quote di gas e petrolio sul mercato finanziario per poi rivenderle e guadagnarci. È quello che sta accadendo. Gas, petrolio, carbone, elettricità promettono affari d'oro, dunque vanno alla grande su questo mercato parallelo, al di là e al di sopra del mondo reale delle merci. Ma sulle merci e sul loro prezzo si scarica anche il costo di quell'operazione speculativa. I capitalisti si arricchiscono, i salariati si impoveriscono.

Naturalmente i capitalisti che si arricchiscono maggiormente sono i produttori di energia elettrica, gas e carburanti. Le loro azioni vanno a ruba e dunque il loro patrimonio si gonfia. Le loro merci sono sempre più care e dunque garantiscono profitti straordinariamente elevati. Poiché si tratta di materie prime che rappresentano un costo anche per i capitalisti delle aziende energivore (a partire dalla siderurgia), Confindustria ha chiesto al governo un intervento a favore delle imprese. Il governo ha subito provveduto stanziando nuovi fondi pubblici come credito d'imposta e garanzia del credito bancario (la banca faccia pure libero credito all'impresa, se l'impresa non paga provvede lo stato a pagare la banca). Fondi che si aggiungono ai 140 miliardi di risorse pubbliche messe a disposizione dei capitalisti nei due anni della pandemia. Risorse pagate dai salariati: o perché messe a carico del debito pubblico che va poi ripagato (coi relativi interessi) o perché finanziate dai tagli sociali.

La cosiddetta tassa sugli extraprofitti sbandierata dal governo è una truffa. La tassa interviene su produttori, distributori, venditori e importatori di energia elettrica, gas, prodotti petroliferi. Ma dura solamente fino a giugno, riguarda solo il 10% dell'extraprofitto realizzato, non vale sotto la soglia di 5 milioni di extraguadagno. Più che la tassa del 10%, è la piena salvaguardia del 90% degli enormi extraprofitti realizzati. Non a caso il vantaggio per i consumatori è minimo: la miseria di 25 centesimi al litro fino al 30 aprile, mentre le imprese avranno uno sgravio del credito d'imposta del 12% sulla bolletta elettrica e del 20% di quella del gas. Un altro ordine di grandezza. Tutto questo a fronte di aziende energetiche che hanno già realizzato nel 2021 profitti d'oro: la sola ENI 4,12 miliardi di profitto netto e dividendi da favola per gli azionisti.

Parallelamente il governo porta la spesa militare al 2% del PIL, che equivale a 38 miliardi annui dai 25 attuali, nel momento stesso in cui la spesa in sanità vedrà una contrazione di 6 miliardi a regime col completamento del famigerato PNRR. Uno scandalo. Ma anche una festa per l'industria militare italiana. Il gruppo Leonardo si è visto riconoscere un ruolo guida nel riarmo continentale, grazie alla triangolazione con imprese francesi e tedesche. Le azioni del gruppo, come le azioni di tutto il complesso industrial-militare su scala mondiale, vedono crescere verticalmente il proprio valore.
Se negli anni della pandemia si sono arricchite le aziende farmaceutiche, gli anni del riarmo e della guerra vedranno la moltiplicazione dei profitti militari. È la legge eterna del capitalismo e dell'imperialismo, di un ordine capovolto della società in cui sofferenza e morte sono fattori di guadagno di pochi a spese dei molti. Non a caso la corsa al riarmo si combina con la riattivazione delle centrali a carbone e delle trivellazioni senza limiti, anche questo nel segno dell'emergenza bellica.

Intanto le sanzioni degli imperialismi occidentali contro l'imperialismo russo moltiplicano le crisi industriali. Le imprese italiane più esposte sul mercato russo (siderurgia, pelletteria, calzaturiero, mobilifici, tessile e moda) annunciano «inevitabili ristrutturazioni» sulla pelle dei propri operai. In parte per mungere nuove risorse pubbliche, in parte con l'obiettivo reale di riorganizzare la produzione, delocalizzare altrove, licenziare. Alcune economie di distretto, tipiche del capitalismo italiano, registrano già una sostanziale paralisi, come nel caso di Fermo. Ed è solo l'inizio.
Se la guerra si prolungherà, chiusure e ristrutturazioni si moltiplicheranno in diversi paesi. Tanto più che le banche mondiali a partire dalla Fed stanno alzando i tassi di interesse, o stanno riducendo gli acquisti di titoli pubblici (BCE), per cercare di contenere l'inflazione e l'abnorme indebitamento mondiale (pubblico e privato), ciò che esporrà la stessa ripresa capitalista a molte incognite.

Di fronte a tutto questo, le burocrazie sindacali non fanno che balbettare, mentre le sinistre riformiste, cosiddette radicali, sanno solo evocare l'intervento «di pace» dell'ONU imperialista o gesti simbolici e innocui.
È necessaria invece una mobilitazione vera del movimento operaio e dell'insieme delle sue organizzazioni che ponga al centro l'interesse dei salariati attorno a una piattaforma di lotta indipendente.

Nel mentre sosteniamo il diritto della resistenza ucraina contro l'imperialismo russo, fuori da ogni logica di puro pacifismo, ci contrapponiamo all'“economia di guerra” dell'imperialismo di casa nostra, che è sempre per noi il nemico principale. La guerra in corso dell'imperialismo russo contro l'Ucraina è parte della contesa tra poli imperialisti per la spartizione delle zone d'influenza nella stessa Europa. Non possono essere i proletari a pagare i costi della lotta tra imperialismi per il controllo del pianeta. Né in Russia né in Ucraina né in Occidente. Se la guerra è scatenata dal capitalismo, siano i capitalisti a pagarne i costi. Ovunque. Se c'è l'emergenza si impongono misure di emergenza, ma contro i capitalisti, non contro i proletari.

- Abolizione del segreto commerciale e controllo operaio sui prezzi.

- Blocco delle tariffe di gas, luce, benzina.

- Ripristino della scala mobile dei salari.

- Patrimoniale straordinaria del 10% sul 10% più ricco, per finanziare un piano di riconversione energetica fondato sulle energie rinnovabili.

- Nessun licenziamento per ragioni di guerra: le aziende che licenziano siano nazionalizzate sotto il controllo dei lavoratori.

- Requisizione integrale dei sovraprofitti realizzati dalle grandi aziende energetiche e loro investimento nella protezione ambientale. Nazionalizzazione senza indennizzo di tali aziende, a partire da ENI, sotto il controllo dei lavoratori.

- Nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio delle grandi aziende del complesso industrial-militare, a partire dal gruppo Leonardo.



Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici può realizzare queste misure.

IL NEMICO PRINCIPALE È IN CASA NOSTRA!

Partito Comunista dei Lavoratori

Tutti a Firenze il 26 marzo

 


Con i lavoratori GKN, contro tutti gli imperialismi

Il 26 marzo i lavoratori GKN hanno convocato a Firenze una manifestazione nazionale a sostegno delle ragioni dei lavoratori e delle lavoratrici. Il PCL sarà presente a questa manifestazione e invita a parteciparvi tutte le avanguardie di classe e di lotta, e tutte le organizzazioni del movimento operaio.

I lavoratori di GKN di Campo Bisenzio hanno condotto una lotta di valore esemplare a difesa del lavoro e della propria dignità. Questa lotta non è conclusa con l'annunciato cambio di proprietà aziendale. Ma a differenza che altrove i licenziamenti sono stati respinti, i lavoratori hanno preservato la propria unità e combattività, tenendo alto il proprio morale. Se questo è accaduto è perché a differenza che altrove il collettivo di fabbrica non ha seguito il rituale delle burocrazie sindacali durante le crisi (affidamento al buon cuore del padrone, preghiere al governo, meline istituzionali, benedizione dei parroci...), ma ha diretto la lotta su una linea di fatto alternativa: occupazione immediata della fabbrica, creazione immediata di una cassa di resistenza, e infine la richiesta della sua nazionalizzazione sotto controllo operaio. È grazie a questa azione di lotta che è stato possibile creare attorno alla vertenza una vasta campagna di solidarietà e di sostegno. È grazie a questa azione che il governo si è visto costretto a intercedere sulla proprietà per il ritiro dei licenziamenti. È la prova che solo quando metti paura all'avversario è possibile strappare un risultato.

Ma allora questi metodi di lotta e queste rivendicazioni esemplari vanno messi al servizio di tutto il movimento dei lavoratori. Per questo come partito non ci siamo limitati alla solidarietà e al plauso, ma abbiamo posto l'esigenza di una generalizzazione nazionale dell'esperienza della GKN per una svolta radicale di indirizzo del movimento operaio italiano. Per questo sosteniamo convintamente l'appello "Unire la lotta contro i licenziamenti" promosso in questo senso da centinaia di delegati sindacali e di avanguardie di diversa collocazione politica e sindacale.

Una svolta del movimento operaio è imposta anche dai drammatici fatti di guerra in Ucraina. La guerra imperialista della Russia contro l'Ucraina è la misura non solo della barbarie del capitalismo ma anche dei nuovi tempi di ferro e di fuoco che si preparano su scala mondiale. Il riarmo generale degli imperialismi ne è un tragico riflesso. Il riarmo degli imperialismi europei, sotto l'egida della NATO, sarà finanziato una volta di più dal taglio delle spese sociali e da nuovo indebitamento pubblico a carico dei proletari, mentre i venti dell'inflazione e del protezionismo taglieggiano i salari a favore dei profitti. Lavoro e ambiente saranno le prime vittime dei grandi piani di riarmo. Guerra e sfruttamento crescono insieme.

Tanto più scandaloso in questo quadro è il balbettio delle burocrazie sindacali. Come balbettano di fronte allo sfruttamento così balbettano di fronte al riarmo. È la misura della comune subalternità al proprio imperialismo, quello pronto ad arruolare un domani i salariati che oggi sfrutta per farne carne da cannone contro i salariati degli imperialismi rivali.

Per questa ragione, nel mentre da comunisti rivoluzionari sosteniamo il diritto della resistenza ucraina contro la criminale guerra d'invasione dell'imperialismo russo, ci contrapponiamo con tutte le nostre forze all'imperialismo di casa nostra, che è sempre il nemico principale. Non riconosciamo al “nostro” imperialismo alcun diritto di sanzione contro gli imperialismi rivali. Non partecipiamo in alcun modo alla sua guerra, ma rivendichiamo la nostra guerra. Che è la guerra dei lavoratori e delle lavoratrici di ogni paese per rovesciare la borghesia, distruggere l'imperialismo, imporre il proprio potere sulle rovine di questa società. Una guerra di classe, capace di candidarsi all'egemonia di tutte le lotte delle nazioni oppresse contro tutti gli imperialismi.

Per questo parteciperemo come PCL a quello specifico spezzone del corteo del 26 marzo che sarà caratterizzato da posizioni internazionaliste: né atlantiste né putiniane né pacifiste.

Partito Comunista dei Lavoratori

Il mal di campismo

 


“Gratta molti comunisti e troverai degli sciovinisti grande-russi” - Lenin

11 Marzo 2022

In questa guerra, come in altre, alcune organizzazioni politiche sostengono posizioni astrattamente marxiste, ma che in realtà possono essere definite semplicemente come una sorta di "nazionalismo rovesciato", ci riferiamo al campismo, ovvero la divisione del mondo in blocchi geopolitici contrapposti.

Raramente i campisti (solitamente di matrice m-l, cioè stalinista) affrontano il conflitto di classe interno delle nazioni del "campo antimperialista" e, senza analizzare la natura di questi governi e delle loro economie, attribuiscono a queste nazioni una funzione progressista e progressiva. Non criticano mai le “nazioni antimperialistiche” e tendono a glissare o a opporsi apertamente ai movimenti di lotta che emergono tra la classe operaia di questi stati. Così gli scioperi in Cina sono il frutto dello sponsor Usa; le manifestazioni di dissenso per la guerra in Russia sono egemonizzate dalle forze reazionarie ecc.

C'è stato un tempo in cui l'identificazione con un blocco anticapitalista e antimperialista aveva un senso. La Rivoluzione Russa è stata sostenuta da milioni di lavoratori che hanno operato anche una rottura politica con quella sinistra sciovinista e governista. Lenin e Trotsky hanno fatto una rivoluzione rovesciando un governo di centro-sinistra, hanno costruito un’internazionale (I.C.) contro le derive riformiste della vecchia socialdemocrazia.

Quindi, dopo la rivoluzione del 1917, nonostante la distorsione avvenuta con l’ascesa di Stalin al potere e la relativa deviazione del metodo rivoluzionario (svolta Kuomintang, Terzo periodo e Fronti Popolari, assenza di democrazia, socialismo in un paese solo ecc.), si poteva dire che vi erano due blocchi: uno che era nato dalla rivoluzione operaia e combatteva per il “socialismo” (la difesa della casta burocratica) e l’altro un blocco capitalista che sosteneva (anche economicamente) la controrivoluzione in tutto il mondo.

Questo scenario oggi non esiste più, sono solamente due gli stati operai in dissoluzione (ahimè), Cuba e Corea del Nord. Bisogna dire ai nostalgici dell’URSS che la Russia è un nuovo imperialismo fatto di borghesia e sciovinismo.

Il campismo contemporaneo è, se dovessimo riassumere, la più grande distorsione del marxismo in quanto spinge la solidarietà con gli stati piuttosto che con la classe e la sua lotta internazionale. L'internazionale di Marx, Engels, Lenin e Trotsky, come struttura organizzativa e pratica, è completamente cancellata da questa visione. Questa tendenza generalmente sostiene stati chiaramente capitalisti (come Iran e Siria) o stati che affermano a parole di essere socialisti come la Cina (coprendosi di ridicolo, perché la Cina, ad essere obiettivi, non solo è un paese capitalista ma è una vera e propria potenza imperialista con annesse entrature di capitali in Africa e in varie parti del mondo), oppure ancora i campisti si aggrappano alla Corea del Nord (che di soviet ed internazionalismo non ha neanche l'ombra ma ha solo un despota che governa miscelando culti religiosi ad un neostalinismo vintage).

Il campismo in questi giorni viene sventolato non solo dalle organizzazioni neo staliniste o staliniste ma anche da Putin che si aggrappa a questo metodo per giustificare la sua invasione dell’Ucraina in opposizione all’imperialismo statunitense ed europeo. Lo stesso Putin nel suo discorso o meglio nella sua dichiarazione di guerra all’Ucraina, fatto in diretta tv il 21 febbraio 2022, ha parlato di riconoscimento, formale ed ufficiale, delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, ma anche e soprattutto ha evidenziato le colpe di Lenin secondo cui: «chi ha governato nell'Urss di inizio '900» - sarebbe colpevole della nascita e dell' "invenzione" dell'Ucraina, che «ha tolto pezzi al territorio della Russia».

Ecco il nuovo paradosso dei campisti: definirsi comunisti in opposizione a Lenin. Applauso!

Putin insomma rispolvera lo sciovinismo “grande russo”, lo stesso sciovinismo grande russo combattuto da Lenin anche all’interno dei bolscevichi contro Stalin che ne fu uno dei massimi rappresentanti.

Lenin aveva le idee chiarissime sul processo di autodeterminazione. Sosteneva, sia praticamente che teoricamente, che il processo di costruzione sovietico avvenisse su base volontaria perché «… lo zarismo e la borghesia grande-russa, con la loro oppressione, hanno lasciato nelle nazioni vicine un’ombra di rancore e di diffidenza verso i grandi-russi in generale, e questa diffidenza va dissipata con i fatti, e non con le parole». Questo metodo è alla base del leninismo, cioè della costruzione del socialismo per convincimento e non per assimilazione.
«(…) Invece della parola autodecisione, (...) io pongo un concetto assolutamente preciso: il diritto di separarsi liberamente» [1].

Insomma per Lenin il diritto dell’autodeterminazione era una parte integrante del programma bolscevico: «Il socialismo vittorioso deve necessariamente instaurare la completa democrazia e, quindi, non deve attuare soltanto l'assoluta eguaglianza dei diritti delle nazioni, ma anche riconoscere il diritto di autodecisione delle nazioni oppresse, cioè il diritto alla libera separazione politica» [2].

Per Lenin la lotta per l’autodeterminazione non era semplicemente una formula vuota, ma un metodo politico, un principio, e come è noto sulle questioni di principio Lenin non era solito fare concessioni, così la lotta contro lo sciovinismo grande russo per Lenin non si esaurisce nella battaglia teorica e in proclami ma vede anche la sua declinazione all’interno del partito, del suo partito.

Lenin ha già aveva notato nei primissimi anni ‘20 i metodi di Stalin e un'ulteriore conferma di ciò la ebbe verso la fine del 1922, quando ebbe chiaro in che modo Stalin silenziava il dissenso dei compagni georgiani. L’impero zarista era conosciuto, era passato alla storia come la “prigione dei popoli”, molte etnie/nazioni erano state rinchiuse dal recinto zarista. La classe operaia e il movimento popolare di queste nazioni oppresse avevano fuso la lotta contro lo zarismo con la lotta per la propria autodeterminazione, non a caso il diritto all’autodeterminazione era stato, come abbiamo scritto, uno dei punti fondanti del bolscevismo. Dopo il successo della rivoluzione, i bolscevichi avevano costruito il potere sovietico su alcune repubbliche nazionali oltre a quella Russa (Ucraina, Bielorussia, Georgia, Armenia, Azerbaijan) ovvero la Rsfsr (Repubblica socialista federativa sovietica russa).

Anche se sulla carta i rapporti tra le repubbliche sovietiche erano formalmente regolati, il Partito Russo bolscevico aveva una forte tendenza ad accentrare. Lenin dunque pone l’attenzione sulla questione e cerca una via d’uscita. Nell’estate del 1922 l’ufficio politico bolscevico crea una commissione, presieduta da Stalin, che ha il compito di affrontare la questione “georgiana” e delle altre federazione. Questa commissione è composta di persone vicine a Stalin e produce un testo (Tesi sull’autonomizzazione) che vidima nei fatti l’annessione delle cinque federazioni alla Russia.
Lenin reagisce nonostante le sue non buone condizioni di salute prima definendo Stalin “un po’ troppo precipitoso” [3].

Successivamente Lenin va all’affondo in una lettera indirizzata a Kamenev e al Comitato Centrale del 6 ottobre:
«Compagno Kamenev! Dichiaro guerra (e non una guerriciola, ma una lotta per la vita e per la morte) allo sciovinismo grande russo. Non appena mi sarò liberato di questo maledetto dente, lo assalirò con tutti i miei denti sani».

Alla fine Stalin media non avendo la maggioranza nel CC. Cede ma il problema sarà solo rimandato.

Lenin, dunque, non aveva dubbi sul concetto di autodeterminazione come, tornando a noi, sul tema del campismo non aveva dubbi sul concetto di “patria”: nella battaglia tra un imperialismo dominante e uno che cercava di ascendere Lenin si schierava senza mezzi termini da parte del proletariato, non aveva una divisione verticale (campi), bensì orizzontale (classi).

La parola d'ordine, basata sull'analisi della realtà e del carattere delle classi era e dovrebbe essere patrimonio del marxismo rivoluzionario; il proletariato non può sostenere nessuna guerra in cui i lavoratori si uccidono in nome della borghesia, così oggi di fronte alla aggressione dell’imperialismo nascente russo il metodo dovrebbe essere lo stesso.

Lenin fu accusato di essere un servo dell’imperialismo tedesco. Insieme a Trotsky e Rosa Luxemburg pagò con la vita la lotta contro lo sciovinismo. Il modo migliore per ricordare questi grandi marxisti è apprendere il loro metodo.

Il marxismo rivoluzionario è altro rispetto al campismo e consiste innanzitutto, come Lenin e Trotsky ci hanno insegnato, nella lotta per il potere politico della classe operaia e non fare gli ultras di presidenti egotisti autoritari di nazioni e/o potenze capitaliste.


Note

1 Lenin, Opere Complete, vol. 26
2 La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all'autodecisione, Lenin 1916
3 Lenin, Opere Complete, vol. 42

Eugenio Gemmo

Massima solidarietà a Marta Collot

 


Il Partito Comunista dei Lavoratori-sezione di Bologna esprime la più ampia solidarietà e vicinanza alla compagna Marta Collot, apprendendo dello stupro da lei subito tre anni fa in un parco della Bolognina e dello stalking di cui è vittima da tempo.

Esprime inoltre il massimo sdegno per il non luogo a procedere deciso dalla magistratura bolognese nei confronti del soggetto che la molesta da ormai due anni.

Da comunisti rivoluzionari non abbiamo alcuna fiducia nella magistratura borghese, e sappiamo bene come vi siano due pesi e due misure: i compagni che nel luglio del 2001 hanno manifestato al G8 di Genova hanno subito condanne fino a 13 anni di carcere, imputati addirittura del reato di devastazione e saccheggio mutuato dal codice Rocco di epoca fascista, mentre la violenza patriarcale e misogina viene fatta passare come un reato di secondaria importanza, non degno neppure di essere perseguito con un processo penale!

Contro ogni colpevolizzazione delle vittime (quante volte abbiamo sentito frasi vergognose come "vestire così se la cercano", "sì ma era ubriaca, cosa si aspettava succedesse!" ecc.), contro ogni discriminazione ed abuso nei confronti delle donne e delle persona LGBTQIA+.

Per una società socialista ed egualitaria, contro ogni forma di patriarcato, per la donna libera dall'oppressione dell'uomo ed entrambi liberi dallo sfruttamento del capitale,

massima solidarietà alla compagna Marta Collot.

LO STUPRATORE NON È UN MALATO, 
È FIGLIO SANO DEL PATRIARCATO!

Partito Comunista dei Lavoratori - sez. di Bologna


8 marzo. Contro tutti gli imperialismi e ogni violenza di genere


 L’8 marzo del 1917, nella Giornata internazionale della donna, le operaie tessili di Pietrogrado entrano in sciopero e una massa di donne si riversa nelle strade, chiamando all’unità i lavoratori e rivendicando il pane e la fine della guerra, innescando così la Rivoluzione russa di febbraio (secondo il calendario giuliano).


A poco più di un secolo di distanza, ancora oggi le donne e le persone queer pagano il prezzo più alto delle guerre, della devastazione degli imperialismi e del capitalismo, in quanto oggetto di violenze, stupri, migrazioni forzate.

L’imperialismo di casa nostra ha già garantito, in ottemperanza al Patto Atlantico, l’invio di armi e contingenti militari, e la continuità dell’impiego di risorse che alimenteranno il conflitto e prosciugheranno il sistema sociale, la sanità, la scuola, i consultori e tutti i servizi pubblici, già smantellati da tagli e privatizzazioni e ulteriormente provati da due anni di emergenza sanitaria.

La crisi economica accentuata dal Covid e la ristrutturazione capitalistica che sta caratterizzando la risposta a essa, hanno aggravato l’indebolimento e la precarizzazione dell’occupazione femminile e aumentato il divario di genere. Tra disoccupazione, dimissioni volontarie per seguire figli e genitori anziani, part-time obbligati, le donne perdono la possibilità di autonomia e autodeterminazione. Il lavoro di cura rimane un ambito femminilizzato, una prigione costruita dall’ideologia patriarcale e capitalistica, che scarica sulle donne compiti e necessità per sopperire alla mancanza di servizi pubblici universali e gratuiti.

La violenza patriarcale ci costringe a contare il numero dei femminicidi, dei lesbicidi e dei trans*cidi, a scontare l’esclusione sociale, le tante violenze fisiche e/o psicologiche dentro e fuori le mura domestiche, l’omo-lesbo-bi-transfobia e la patologizzazione psichiatrica delle persone LGBTQIA+. Una lunga catena di sfruttamento e oppressione, che relega ai margini soprattutto soggettività trans* e donne migranti.

Il Covid ha anche complicato l’accesso all’interruzione di gravidanza e alle cure per la salute sessuale e riproduttiva, già sotto l’attacco dell’obiezione di coscienza e di politiche reazionarie, familistiche e clericali.

Tra arretramenti e vittorie sulla strada della depenalizzazione e legalizzazione dell’aborto vissuti contemporaneamente su scala mondiale, serve un fronte di lotta internazionale, che inserisca la conquista dell’accesso all’aborto libero, sicuro e gratuito all’interno di una piattaforma generale contro le oppressioni e le violenze generate dall’alleanza tra capitalismo e patriarcato.

- Per dire no alla guerra e alle aggressioni imperialiste! La solidarietà di classe non conosce confini. Vogliamo l’eliminazione di tutte le leggi securitarie che legittimano violenze, in particolare su donne migranti e persone LGBTQIA+.

- Per difendere il lavoro, unico strumento di emancipazione e autodeterminazione, con il blocco permanente dei licenziamenti, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, un salario garantito a chi è disoccupat* e in cerca di occupazione e un salario pieno in caso di cassa integrazione.

- Per socializzare il lavoro di cura, attraverso servizi pubblici gratuiti adeguati, che creeranno altri posti di lavoro, contro tagli, privatizzazioni ed esternalizzazioni.

- Per ottenere una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco e un sistema di tassazione fortemente progressivo. Prendiamo le risorse da chi ha abbondantemente vissuto di rapina!

- Per una scuola pubblica e laica, liberata da tutte le controriforme che l’hanno resa un’azienda. Basta con l’alternanza scuola-lavoro (PCTO), i tirocini e tutte le forme di lavoro gratuito. Vogliamo un’educazione senza stereotipi di genere e l’educazione sessuale nelle scuole, con il coinvolgimento dei centri antiviolenza e delle associazioni LGBTQIA+.

- Per l’abolizione dell’obiezione di coscienza e di ogni influenza della Chiesa nelle nostre vite. Per consultori pubblici e sotto il controllo dell* utenti, donne e persone LGBTQIA+, per l’accesso alla contraccezione e all’aborto farmacologico.


Liberiamo le nostre vite, uniamo le nostre forze per costruire la rivoluzione mondiale contro l’ordine sociale eterocispatriarcale e capitalista!



Volantino allegato in basso

Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione donne e altre oppressioni di genere

Né atlantisti né putiniani né pacifisti

 


Per un'iniziativa classista e internazionalista contro la guerra. Contro tutti gli imperialismi, per un'alternativa socialista

2 Marzo 2022

L'intervento dell'imperialismo russo in Ucraina segna lo scenario mondiale.

Putin ha dichiarato pubblicamente il suo scopo a reti unificate: riportare l'Ucraina sotto il controllo della Santa Madre Russia, da cui fu strappata per responsabilità di Lenin e dei bolscevichi. Un'ambizione sciovinista grande-russa, degna della tradizione zarista (e poi staliniana), accompagnata da una campagna ideologica reazionaria esplicitamente anticomunista.
Il tentativo di presentare l'invasione dell'Ucraina come un soccorso al Donbass è penoso. È l'ennesimo travestimento umanitario di una guerra imperialista.
Riconosciamo i diritti di autodeterminazione delle popolazioni russofone del Donbass. Li abbiamo difesi e rivendicati sin dal 2014 contro il nazionalismo reazionario ucraino. Ma i diritti del Donbass non hanno nulla a che vedere con la guerra di Putin, se non come pretesto propagandistico. La Russia punta all'intera Ucraina, e lo fa coi mezzi del terrore. Del Donbass le interessa solo le miniere.
Altrettanto falso è l'obiettivo della “denazificazione” dell'Ucraina. Il regime che domina la Russia non è più democratico di quello Ucraino. E in ogni caso, è la classe operaia dell'Ucraina ad avere il diritto di rovesciare il proprio governo reazionario, non certo l'imperialismo russo e i suoi bombardieri. L'esportazione della “democrazia” col rombo del cannone è solo una cinica ipocrisia. Lo era in Iraq, in Serbia, in Afghanistan, sulle bocche degli imperialismi d'Occidente. Lo è, ancor più grottesca, sulle labbra di Putin in Ucraina.

Come abbiamo difeso incondizionatamente l'Iraq dall'imperialismo USA, nonostante il governo reazionario di Saddam Hussein; come abbiamo difeso incondizionatamente la Serbia contro l'aggressione degli imperialismi NATO, nonostante il governo reazionario di Milosevic; così oggi difendiamo l'Ucraina contro l'invasione dell'imperialismo russo, nonostante il governo reazionario di Zelensky.
Di più. Come siamo stati dalla parte della resistenza irachena contro le forze americane di occupazione, in piena autonomia dalle sue componenti islamico integraliste, così siamo oggi dalla parte della resistenza Ucraina contro le forze russe di occupazione, in piena autonomia dalle forze governative di Kiev. Non siamo pacifisti ma comunisti. Contro tutti gli imperialismi e le loro guerre, per un'alternativa socialista. Per questo diamo la nostra piena solidarietà alla campagna contro la guerra del Partito Operaio Rivoluzionario russo.

Ma il nostro primo fronte di guerra è l'imperialismo di casa nostra, quello della NATO, della UE, della stessa Italia. La loro propaganda antirussa a sostegno dell'Ucraina è solo la maschera dei propri appetiti.
Per trent'anni gli imperialismi d'Occidente, sotto la direzione USA, hanno puntato a capitalizzare a proprio vantaggio il crollo dell'URSS sul piano degli equilibri mondiali. L'espansione della NATO nell'Est Europa, in barba a ogni ipocrita promessa formale, ha seguito questa rotta. Ora il rinato imperialismo russo, alleato di un imperialismo cinese in grande ascesa, vuole non solo contenere gli imperialismi d'Occidente ma recuperare il terreno perduto, utilizzando a questo fine la distrazione asiatica dell'imperialismo USA, occupato dallo scontro con la Cina sul Pacifico. Ed ecco allora i governi d'Occidente gridare alla democrazia e alla pace. E in nome della pace rilanciare la grande corsa agli armamenti nel cuore della stessa Europa. “Lo facciamo per aiutare l'Ucraina”, gridano in coro. Falso. Lo fanno per preservare il controllo sulla propria area d'influenza nell'interesse del proprio capitale finanziario.
I diritti di autodeterminazione dell'Ucraina non saranno difesi dal Fondo Monetario Internazionale, dalle classi capitalistiche dell'Unione Europea, dal governo Zelensky loro alleato e dalle sue politiche ultraliberiste. Non sono gli amici di Erdogan sulla pelle dei curdi, o dello Stato sionista sulla pelle dei palestinesi, a poter sbandierare i diritti dei popoli contro le autocrazie. In ogni caso è la classe lavoratrice di Russia che ha il diritto di rovesciare il proprio governo imperialista, non la NATO degli imperialismi rivali, i loro governi, le loro sanzioni.

È necessario che il movimento operaio internazionale maturi un proprio punto di vista indipendente sulla guerra in corso. Ogni imperialismo vuole arruolare i propri salariati nella guerra contro gli imperialismi rivali, ai fini della spartizione del mondo. Bisogna respingere questa trappola infame che ha disseminato di tragedie il Novecento.
Gli operai non hanno patria, come scriveva Marx, perché la loro patria è la propria classe al di là delle frontiere. Solo contrapponendosi al proprio imperialismo, solo ponendosi alla testa dei diritti nazionali di ogni popolo oppresso, è possibile ricomporre l'unità della classe operaia internazionale, rovesciare il capitalismo, liberare l'umanità dalla barbarie delle guerre. “Se vuoi la pace prepara la rivoluzione” gridava Karl Liebknecht un secolo fa sullo sfondo della prima guerra imperialista. È una parola d'ordine non meno attuale di allora.

Riteniamo importante che tutte le organizzazioni della sinistra politica e sindacale che si riconoscono in una posizione classista e internazionalista contro tutti gli imperialismi facciano sentire unitariamente la propria voce. Contro il proprio imperialismo, che è sempre il nemico principale, contro l'imperialismo russo che oggi invade l'Ucraina, per un'alternativa socialista internazionale.

Partito Comunista dei Lavoratori