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Né con l'establishment europeista né con il sovranismo nazionalista

Per l'autonomia del movimento operaio. Per una soluzione di classe della crisi politica e istituzionale

28 Maggio 2018
Nel continuo saliscendi di questi mesi la crisi italiana precipita assumendo i caratteri di una crisi istituzionale.
La linea di demarcazione del confronto pubblico sembra contrapporre il cosiddetto fronte "della responsabilità”, di marca istituzionale e europeista, e il cosiddetto fronte sovranista, di marca populista e nazionalista. Da un lato la “difesa delle istituzioni” contro l'avventura, dall'altro la tutela del popolo italiano contro l'élite “mondialista e tedesca”. Da un lato Mattarella e Cottarelli, dall'altro Di Maio e Salvini.
In realtà ognuno dei due fronti è l'alibi dell'altro, in uno spregiudicato gioco di sponda e di reciproco alimento. Entrambi vorrebbero arruolare i lavoratori nella propria crociata. Ma l'interesse dei lavoratori e delle lavoratrici non ha nulla da spartire con nessuno dei due contendenti.

Il fronte della cosiddetta responsabilità istituzionale è il fronte tradizionale dell'establishment, del grande capitale italiano ed europeo. Il PD ne è la sponda politica organica. La sua preoccupazione è subordinare i salariati alla continuità dei sacrifici dentro la cornice della Unione Europea. Compressione dei salari, precarizzazione del lavoro, cancellazione dei diritti sindacali, a vantaggio dei profitti e della competitività delle imprese. Tagli a pensioni, sanità, istruzione, per finanziare la detassazione del capitale e pagare il debito pubblico alle banche. Sono le politiche di austerità promosse negli ultimi trent'anni dalle borghesie del vecchio continente a da tutti i loro governi. L'Unione Europea che queste forze difendono è il club entro cui i capitalisti italiani, tedeschi, francesi, spagnoli negoziano la tutela dei propri interessi comuni sul mercato mondiale, si contendono le rispettive zone di influenza, concordano le linee guida della propria offensiva antioperaia. Sergio Mattarella, al pari dei suoi predecessori, è il massimo tutore istituzionale dell'interesse dell'imperialismo italiano e dei suoi legami con la UE. Il governo Cottarelli, al pari dei precedenti, ne è il comitato d'affari. L'uomo della spending review e del rigore alla presidenza del Consiglio dà il segno inconfondibile al nuovo esecutivo: un replay del governo Monti in vista del voto come rassicurazione al mercato finanziario. Una provocazione contro i lavoratori. Per questo il sostegno della burocrazia CGIL a Mattarella è la conferma clamorosa della sua subordinazione al capitale, oltre che un insperato regalo alla campagna delle destre contro la “sinistra”.

Ma il fronte cosiddetto sovranista, con sventolio delle bandiere tricolori, non è affatto l'avvocato del popolo. Lo dimostra, se ve n'era bisogno, il contratto di governo tra M5S e Lega. Parla di lavoro, ma conserva il Jobs Act e tutte le leggi di precarietà, al punto da reintrodurre i famigerati voucher. Sventola la promessa di qualche elemosina sociale (reddito, pensioni), ma la mette sul conto dei salariati attraverso una riforma fiscale scandalosa che beneficia come non mai le grandi ricchezze. Chiede di rinegoziare i trattati della UE, ma solo per trovare i soldi con cui finanziare la detassazione dei profitti e continuare a pagare il debito alle banche, innanzitutto le banche italiane che ne detengono la gran parte. Infine dirotta la rabbia sociale contro i migranti per evitare che si rivolga contro i capitalisti, in una guerra tra sfruttati che avvantaggia solo gli sfruttatori, dentro il rilancio di tutta la peggiore spazzatura xenofoba e securitaria.

È vero: il grande capitale italiano non si affida oggi al sovranismo nazionalista, diffida delle sue intemperanze, vuole negoziare i propri interessi dentro la cornice istituzionale della UE, contro ogni rischio di sua destabilizzazione. Ma lo stesso grande capitale che “denuncia” il sovranismo nutre di fatto il suo consenso sociale con le proprie politiche di austerità, e beneficia dei suoi preziosi servizi di divisione dei lavoratori e di inquinamento della loro coscienza. E viceversa.
La polemica sovranista contro Mattarella e Cottarelli non muove dalle ragioni del lavoro e tanto meno della "democrazia", ma dall'ambizione di nuove destre (più o meno) reazionarie che puntano alla conquista in proprio del potere. Far propria la campagna “contro il golpe di Mattarella”, come oggi fanno alcuni ambienti della sinistra, non significa solo avallare implicitamente una visione angelicata della Costituzione borghese, ma coprire al di là di ogni intenzione rappresentazioni e linguaggi delle destre nel momento stesso della loro ascesa.

Contro l'europeismo borghese, contro il sovranismo nazionalista, c'è bisogno di costruire il campo che manca: un grande fronte di classe e di massa che unifichi i lavoratori e le lavoratrici attorno ad una propria piattaforma di lotta indipendente. Solo l'azione di massa della classe lavoratrice può spezzare la tenaglia tra establishment e populisti, scompaginare il blocco sociale delle destre, costruire dal basso una prospettiva nuova. Quella che chiama in causa il sistema capitalista, l'unica vera alternativa. Quella che impone la sovranità dei lavoratori, l'unica vera democrazia.
Partito Comunista dei Lavoratori

Un governo leghista... a cinque stelle

Il governo annunciato Di Maio-Salvini - Conte è solo un prestanome - è una minaccia reazionaria per i lavoratori, per le lavoratrici, per tutti gli sfruttati. Piccole elemosine sociali non riescono a nascondere questa verità.

Naturalmente la nostra denuncia non ha niente a che fare con le “critiche” del PD o dell'Unione Europea, unicamente preoccupati dei conti pubblici del capitale. La nostra denuncia muove dalle ragioni opposte: quelle dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati.

Il nuovo governo tutela innanzitutto la peggiore eredità di Renzi.
Mentre gli operai muoiono sul lavoro anche perché ricattati dalla precarietà e dalla cancellazione dei diritti, il nuovo governo non solo conserva il Jobs Act e tutte le leggi di precarizzazione del lavoro, ma reintroduce i famigerati voucher.
Mentre salgono in Borsa i profitti di grandi imprese e banche, il nuovo governo abbassa la tassa sui profitti al 15%, nel quadro di una riforma fiscale in cui chi ha di più paga di meno. È il più grande regalo fiscale ai padroni dell'intero dopoguerra.

Si promettono concessioni su reddito di cittadinanza e pensioni.
Ma il reddito è condizionato all'accettazione di lavoro precario, e 41 anni di contributi sono un miraggio per i giovani dopo una vita di precariato. Intanto si mantiene l'automatismo delle aspettative di vita per l'età pensionabile, a tutela del capitale finanziario. Ma soprattutto queste stesse promesse non hanno copertura. Non è un caso. Se vuoi regalare una montagna di soldi ai padroni, se vuoi continuare a pagare il debito pubblico alle banche, non puoi finanziare neppure le elemosine che prometti. O le promesse resteranno tali o saranno messe sul conto dei "beneficiari" con nuovi tagli sociali.

Salvini e Di Maio hanno già pensato a una valvola di sfogo della delusione sociale: la campagna odiosa contro gli immigrati. Il piano di segregazione e cacciata di 500.000 immigrati cosiddetti clandestini (perché privati di diritti) si combina con la discriminazione persino degli immigrati “regolari” in fatto di asili e sussidi. Una discriminazione esplicitamente etnica. È un caso che CasaPound plauda al nuovo governo?

“Prima gli italiani” ha un sottotitolo: “prima i capitalisti”, a spese di tutti gli altri.
Nessuna fiducia può essere riposta nel M5S di Di Maio, che va a braccetto con lo xenofobo Salvini.

È ora di mettere in campo un programma di lotta indipendente che unifichi la classe lavoratrice:
Per la cancellazione del Jobs Act e di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro.
Per la riduzione generale dell'orario di lavoro a parità di salario, ripartendo il lavoro tra tutti.
Per la pensione a 60 anni o con 35 anni di lavoro, pagato dalla tassazione progressiva dei grandi patrimoni, rendite, profitti.
Per un vero salario ai disoccupati che cercano lavoro, pagato dall'abolizione dei trasferimenti pubblici alle imprese private.

Solo una lotta generale per queste rivendicazioni può unificare 17 milioni di lavoratori salariati, e attorno ad essi l'esercito dei disoccupati.
Solo la lotta per un governo dei lavoratori può dare una prospettiva a questa mobilitazione: a partire dall'esproprio delle aziende che licenziano, dall'abolizione del debito pubblico verso le banche, dalla loro nazionalizzazione.

Cambiano i governi, ma sono tutti al servizio del capitalismo. Solo un governo dei lavoratori può fare pulizia.


Partito Comunista dei Lavoratori

A quarant'anni dalla approvazione della 194 la battaglia è ancora aperta

Dalle sentinelle in piedi alla Marcia per la Vita, passando attraverso il Family Day, il Fertility Day e le politiche reazionarie del ministro Lorenzin, la destra cattolica e quella neofascista da un po' di tempo vanno a braccetto nella loro guerra santa contro la libertà di scelta delle donne e i diritti delle soggettività LGBT. Questi movimenti negli anni non hanno mai smesso di attaccare le nostre conquiste e il nostro diritto all'autodeterminazione, ma certo nel nuovo scenario politico che si è generato dopo il 4 marzo l'eco delle loro istanze reazionarie e oscurantiste trova un terreno purtroppo molto più fertile in cui crescere.
Si è cominciato con le campagne omofobe, dove soprattutto le persone gay vengono rappresentate sempre in termini caricaturali e grotteschi, come autentici mostri contronatura (davvero inquietante il manifesto contro al Gay Pride di Forza Nuova del 2001 che recitava “Dietro un omosessuale si nasconde un pedofilo”); ora si passa alla politica contro la libertà di scelta delle donne, in particolare contro al loro diritto di non essere madri.

Recentemente Roma - non casualmente ma proprio perché garantisce la visibilità nazionale - è stata il teatro di prese di posizione pubbliche decisamente inquietanti. Il 5 aprile è apparso un manifesto gigante in centro, promosso dalla onlus Pro Vita, vicina a Forza Nuova (1), con la raffigurazione di un feto con scritto "Tu eri così a 11 settimane e ora sei qui perché tua mamma non ti ha abortito" (2); l'effetto cercato è quello di una rappresentazione forte, dove tutti i dettagli sono volti a restituire un messaggio emotivamente coinvolgente (il cuore che batte, il succhiarsi il dito...), dall'altro a colpevolizzare le donne, che in nome del proprio egoismo potrebbero scegliere di non mettere al mondo il figlio. Ma il manifesto fa anche un'altra operazione, altrettanto subdola e violenta: si rivolge al passante di turno – "tu eri così, e adesso se sei qui a leggere questo manifesto è perché sei stato fortunato, perché tua madre non ha deciso di abortirti" – e lo richiama alla “responsabilizzazione”, alla presa in carico e difesa di tutti quei feti che rischiano di non nascere perché le loro madri potrebbero abortirli. È una dichiarazione di guerra che invita il “cittadino” a schierarsi dalla parte della “vita”, e dunque contro la donna e il suo diritto di scelta: che siano i cittadini (possibilmente uomini) a scegliere, non le donne. Sempre ad aprile Forza Nuova ha fatto un blitz davanti la Casa Internazionale delle Donne esponendo uno striscione con scritto “194 strage di Stato”.

Pochi giorni fa, a Roma come in altre città d'Italia, è comparso un altro manifesto, che recitava uno slogan alquanto apocalittico: “L'aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo”. Anche qui l'operazione mediatica scelta è basata sull'ambiguità e il ribaltamento, perché a detta dei promotori, l'associazione della destra cattolica CitizenGo, promotrice fra l'altro della Marcia per la Vita:
«questi manifesti riportavano una scritta insopportabile. “L’aborto è la prima causa al mondo di femminicidio, che ha suscitato le reazioni scomposte di femministe e ultraprogressisti che hanno indetto petizioni per la rimozione dei cartelloni. Peccato che lo slogan oltre a scuotere le coscienze ricorda una sconvolgente realtà, ovvero quella degli aborti selettivi dei feti femmina. Una consuetudine in Paesi come Cina e India e in molte nazioni asiatiche dove è più forte la spinta al controllo delle nascite. Fenomeno che sta creando diversi problemi sociali e delle incolmabili disparità di sesso nella popolazione, che vanno a discapito proprio delle donne. Un dramma che dovrebbe essere denunciato ogni giorno che passa da chi ha veramente a cuore il benessere delle donne di tutto il mondo » (3).

Questa dichiarazione è emblematica da molti punti di vista. Innanzitutto emerge come questi movimenti siano dichiaratamente antifemministi, ossia contro ogni forma di organizzazione autonoma femminile che abbia come prospettiva l'emancipazione delle donne. In secondo luogo, in questo estratto viene costruito un nesso ambiguo e oltremodo scorretto fra femminicidio e aborto, ossia viene costruita una relazione implicita fra un problema attuale, punta dell'iceberg della recrudescenza dell'oppressione patriarcale delle donne italiane, e il loro legittimo diritto ad autodeterminarsi in ambito sessuale e riproduttivo.
È evidente che il riferimento al presunto "controllo delle nascite” in Cina e India è solo un pretesto strumentale (tant'è che nel manifesto questo nesso non è nemmeno esplicitato, e dunque il riferimento al femminicidio fa pensare immediatamente alla situazione italiana) per mandare un messaggio colpevolizzante alle donne che scelgono di non essere madri. Anche in questo caso, come in tutte le campagne mediatiche e prese di posizione pubbliche tanto della destra cattolica quanto dei neofascisti, le modalità comunicative sono sempre le stesse: da un lato le rappresentazioni pietistiche e paternalistiche delle donne, trattate alla stregua di eterne minorenni, vittime degli eventi, del sistema e in ultima istanza di se stesse; dall'altro la colpevolizzazione delle donne che scelgono di non sottomettersi al destino cui queste istanze reazionarie vorrebbero costringerle, ossia essere madri e mogli per natura e non per scelta e per percorsi di vita, una scelta fra le tante altre possibili.

La battaglia per la difesa della 194, quarant'anni dopo la sua approvazione, è purtroppo tuttora aperta. Così come più in generale è aperta la battaglia per la difesa della salute sessuale e del diritto all'autodeterminazione delle donne. Ma oggi più di ieri la prospettiva di liberazione delle donne non può non fare i conti con la tremenda crisi economica e sociale che da più di dieci anni aggredisce diritti, salute e speranze. È sempre più evidente come i tagli alla spesa sociale, l'aggressione padronale al mondo del lavoro e ai diritti sindacali si ripercuotano anche nella vita privata di noi donne.
La sfida di oggi è quella della ricostruzione di un fronte unitario e di massa, che contro ogni subordinazione all'ideologia padronale dell'austerità o della meritocrazia rivendichi la riduzione dell'orario a parità di paga e la conseguente redistribuzione del lavoro esistente fra tutti e tutte. L'autonomia economica rappresenta infatti un principio fondamentale per garantire la costruzione libera della propria soggettività e del proprio percorso di vita, ed è dunque un presupposto indispensabile, specialmente per quanto riguarda le donne, per la liberazione dall’oppressione familiare e dalla dipendenza – economica o psicologica – dal compagno.

La genitorialità deve essere considerata una libera scelta fra altre possibili, e non un destino biologico e morale, un presunto dovere nei confronti della Patria tanto cara a Forza Nuova, né tantomeno un privilegio “naturale” della coppia eterosessuale.
Con questo spirito di superamento dell’ideologia della famiglia “tradizionale”, dobbiamo batterci per il riconoscimento del diritto alla genitorialità tanto al singolo individuo quanto alla coppia omosessuale.

Liberazione sessuale significa anche liberare la sessualità dei soggetti dal destino ideologico della procreazione e della maternità. È per questo che l’aborto deve essere libero e gratuito, e deve essere abolita l’obiezione di coscienza, ossia il privilegio di medici e personale sanitario a sostituirsi alle donne nella scelta. Inoltre, la contraccezione deve essere garantita a prezzi popolari.

La liberazione delle donne e delle minoranze sessuali e di genere si iscrive dunque in un processo rivoluzionario di rottura con la morale e con l’organizzazione economica e politica della società capitalista, e dunque deve essere rivendicato come passaggio imprescindibile l’abolizione unilaterale del Concordato fra Vaticano e Stato, l’esproprio senza indennizzo di tutte le grandi proprietà immobiliari ecclesiastiche, e in definitiva l’abolizione di tutti i privilegi fiscali, giuridici, normativi, assicurati alla Chiesa cattolica, a partire dalla truffa dell’8 per mille e dell’insegnamento religioso confessionale nella scuola pubblica.

Una battaglia indiscutibilmente ambiziosa, però l'unica che realisticamente possa garantirci benessere e libertà che meritiamo.



Note

(1) In proposito “Marciando per la famiglia (Versione lunga): i legami tra ProVita ONLUS e Forza Nuova”: https://www.youtube.com/watch?v=pcCI9Hai5W4&feature=youtu.be .

(2) http://www.ansa.it/lazio/notizie/2018/04/05/manifesto-provita-a-romapdoffende-scelta-donnesia-rimosso_5d369113-5935-4161-99cc-8ad0aa4c9b54.html .

(3) http://lanuovabq.it/it/laborto-e-ormai-un-dogma-via-quei-manifesti-1 .


Partito comunista dei lavoratori - commissione contro le oppressioni

Bandiera sionista, sangue palestinese. Come settanta anni fa

«Si possono effettuare queste operazioni nella maniera seguente: distruggendo i villaggi, dandogli fuoco, facendoli saltare in aria e minandone le macerie; oppure attraverso operazioni di rastrellamento e di controllo, circondando i villaggi e facendo retate all'interno...»
(Piano Dalet, 10 marzo 1948)

«...Dobbiamo essere precisi nei tempi, nei luoghi, nei bersagli... Dobbiamo colpire tutti senza pietà, comprese le donne e i bambini. Altrimenti non sarà un'operazione efficace...»
(Diario di Ben Gurion, 1 gennaio 1948)


Mentre Donald Trump saluta commosso “il grande giorno per Israele” nell'anniversario della sua nascita, Israele rovescia una pioggia di piombo contro i palestinesi. In un solo giorno oltre cinquanta palestinesi assassinati e migliaia di feriti lungo il confine di Gaza segnano la continuità di una mattanza nauseante. Una mattanza apertamente rivendicata dal governo di Tel Aviv, consentita dalla complicità di tutte le potenze imperialiste, coperta dall'infinita ipocrisia della stampa borghese internazionale, inclusa quella di casa nostra.

L'ipocrisia non è solo quella di chi apertamente sostiene l'azione criminale del governo israeliano, attribuendone cinicamente la responsabilità alle vittime dell'eccidio, colpevoli di non sopportare in silenzio la propria oppressione. L'ipocrisia è anche di chi “rimprovera” a Netanyahu un uso sproporzionato della forza, un “eccesso” di autodifesa, una politica “sbagliata” e “controproducente” per Israele; perché in forma diversa ripropone la difesa dello Stato sionista e delle sue ragioni, l'eterno equivoco di un possibile sionismo pacifico e democratico.

La verità è che lo Stato sionista è per sua natura uno Stato criminale, perché nasce da un crimine: la cacciata di 750.000 palestinesi dalla propria terra, dai propri villaggi, dalle proprie case, per imporre uno Stato artificiale e coloniale. Una pulizia etnica pianificata (Piano Dalet), attuata coi metodi del terrore, avallata dagli imperialismi democratici e dalle Nazioni Unite. Armata dall'URSS di Stalin (con 24.500 fucili, 5.200 mitragliatrici, 54 milioni di proiettili), primo paese assieme agli USA a riconoscere nel 1948 lo Stato d'Israele.

Uno Stato è inseparabile dalle sue radici. Uno Stato coloniale nato dal terrore può perpetuare la propria oppressione solo col terrore. In questo senso il massacro di oggi è il degno festeggiamento da parte sionista dei settant'anni dello Stato d'Israele. Per questo tutti i democratici sinceri, tutti coloro che sentono come propria l'oppressione palestinese, tutti coloro che vivono con un senso di rabbia e di impotenza la cronaca drammatica di queste ore, hanno un solo modo di dare un futuro alla propria indignazione: battersi innanzitutto per la verità. Che è sempre rivoluzionaria, in Palestina e ovunque.
Partito Comunista dei Lavoratori

La rifondazione comunista per... spingere a sinistra Di Maio?

«Renzi è un irresponsabile avventuriero» che ha scelto «il tanto peggio tanto meglio». «Il nostro giudizio assai critico verso M5S non ci impedisce di giudicare come gravissimo che il PD abbia operato per spingere il partito di Di Maio e Casaleggio a destra con una logica cinica e miope. Il contrario di quello che ha fatto la sinistra durante tutta la storia repubblicana.»

Questo concetto (testuale) non è stato espresso da Bruno Tabacci, Cesare Damiano, Pier Luigi Bersani, come sarebbe naturale pensare. E neppure da Nicola Fratoianni. No, è stato espresso in un comunicato ufficiale da Maurizio Acerbo, segretario del Partito della Rifondazione Comunista, colonna portante di Potere al Popolo.
Il concetto è notevole, per la densità di significati e implicazioni. Misura in poche righe tutto l'"equivoco rifondazione": l'assenza di una chiara demarcazione di classe, la continuità rivendicata con la storia del riformismo italiano, la natura reale della prospettiva che si persegue.


DIRE LA VERITÀ SUL M5S 

Potremmo intanto osservare, en passant, che criticare Renzi per “irresponsabilità” verso la “sinistra” è una contraddizione politica e logica: il renzismo è l'erede di una lunga parabola che già da tempo (prima coi DS e poi col PD) aveva rotto con la sinistra e il movimento operaio. Renzi vi ha aggiunto la propria vocazione bonapartista e una contrapposizione frontale al lavoro. Perché si dovrebbe chiedergli “responsabilità” per una sinistra che ha puntato ad annientare?

Ma non è questo il punto. Si rimprovera a Renzi di aver spinto a destra il M5S. Cioè, se le parole hanno un senso, di non aver lavorato per spostare il M5S a sinistra, negoziando con Di Maio. Ma a parte il fatto che difficilmente si poteva chiedere a Renzi di spostare a sinistra alcunché, cosa significa “spostare a sinistra Di Maio e Casaleggio”?
Significa continuare a rimuovere la natura reazionaria del M5S: cultura plebiscitaria, campagne di respingimento dei migranti, contrapposizione del reddito al lavoro, sostegno alle riforme fiscali di Trump... Certo, il M5S non è la Lega. Ma la sua convergenza con Salvini non ha forse la propria radice nel sottofondo di una cultura politica? Oggi il nuovo corso di Luigi Di Maio trapianta semplicemente questa radice genetica nella ricerca di una rappresentanza diretta dell'establishment (fedeltà alla UE, alla NATO, al capitale finanziario) per fare del M5S l'architrave della Terza Repubblica. Ne consegue la natura anfibia del M5S attuale: metà reazionario e metà confindustriale, in ogni caso di destra con taglio populista. Si può pensare di “spostare a sinistra” una diversa declinazione della destra?

Il fatto che il M5S abbia una larga base elettorale tra i lavoratori e i disoccupati è naturalmente un fatto vero (e drammatico). Ma lavorare a separare i lavoratori da quel partito significa innanzitutto spiegare loro cos'è, non limitarsi alla “critica” (che in sé non vuol dir nulla). Significa segnare una demarcazione di classe tra gli interessi del lavoro e quelli che il M5S rappresenta, e ancor più si candida a rappresentare. L'esatto opposto dell'illusione di poter spostare a sinistra il M5S.

Ma c'è di più. Proprio la soluzione di governo M5S-PD che Acerbo implicitamente avalla (“il meno peggio”) è stata a lungo la soluzione preferita dal grande capitale dopo il 4 marzo. La logica era lineare: un M5S col 33%, attorno al “responsabile” Di Maio, va definitivamente "costituzionalizzato" e trasformato in baricentro politico; la funzione del PD è quella di consolidare e sospingere questa normalizzazione del M5S. Il fatto che Renzi si sia messo di traverso a questo disegno in funzione del proprio controllo autocentrato sul PD è altra questione. Non a caso la stampa borghese e il Quirinale hanno criticato la scelta di Renzi perché ha anteposto i propri interessi all'interesse generale di sistema.
Dunque rimproverare il PD per non aver spinto a sinistra il M5S (cioè, detto in prosa, di non aver negoziato il governo con Di Maio) significa mettersi a rimorchio del Corriere della Sera, di Repubblica, di Mattarella. Può essere che questo favorisca migliori relazioni del PRC con la cosiddetta sinistra del PD e le truppe disperse di Liberi e Uguali (che già si erano iscritte non a caso nel governo M5S-PD). Ma a questo si riduce la rifondazione del comunismo?


"LA SINISTRA DI TUTTA LA STORIA REPUBBLICANA" 

In realtà nulla di nuovo sotto il sole.
Quando Acerbo rivendica, in contrapposizione a Renzi, «quello che ha fatto la sinistra durante tutta la storia repubblicana» afferma una volta tanto una verità. Sì, la sinistra riformista italiana in tutta la storia repubblicana ha perseguito la politica del meno peggio, a rimorchio della borghesia italiana.

Nella storia della Prima Repubblica fu la politica del PCI verso la DC, nel nome della famigerata anima popolare della Democrazia Cristiana, che si doveva strappare alla destra e costringere al compromesso storico. Una formula sponsorizzata dal grande capitale tra il 1976 e il 1978 per imbrigliare e disperdere la grande avanzata del movimento operaio.

Nella storia della Seconda Repubblica fu la politica di Bertinotti (e di Cossutta, Diliberto, Rizzo, Ferrero) nei confronti del PDS, poi DS, infine PD, nel nome del condizionamento a sinistra del centrosinistra in contrapposizione al centrodestra. Un centrosinistra a lungo sostenuto dalla grande borghesia, italiana ed europea, per smantellare le conquiste del lavoro.

In entrambi i casi si invocava il meno peggio. In entrambi i casi quella politica preparò il peggio. Se oggi ci ritroviamo un probabile governo M5S-Lega, una sinistra politica irriconoscibile, un movimento operaio piegato, non lo dobbiamo alla scelta di Renzi... di non corteggiare Di Maio. Lo dobbiamo al fallimento di una politica di lungo corso del riformismo italiano, che in nome del realismo ha organizzato disastri.
Purtroppo è la stessa logica di fondo che oggi ripropone, in forma indiretta, il segretario di Rifondazione. Il fatto che la riproponga in rapporto a Luigi Di Maio ricorda solo il vecchio detto: ”...dalla tragedia alla farsa”.
Partito Comunista dei Lavoratori

L'abbraccio Di Maio-Salvini (con il benestare di Berlusconi)

Giunta sull'orlo di una autentica crisi istituzionale, la crisi politica italiana registra un improvviso colpo di scena. Silvio Berlusconi dà il proprio benestare ad un governo Di Maio-Salvini.
Che il benestare passi formalmente attraverso un voto di astensione critica o di opposizione responsabile cambia poco, avendo M5S e Lega nel loro insieme una autosufficienza di numeri parlamentari, seppur risicata al Senato. Il significato è politico. Da un lato Berlusconi ha ceduto alle pressioni dei propri gruppi parlamentari terrorizzati dal bagno di sangue annunciato del ritorno al voto. Dall'altro punta a fare di necessità virtù, con obiettivi diversi e complementari: capitalizzare le prevedibili difficoltà del nuovo governo senza rompere l'alleanza col centrodestra, mantenere un potere di condizionamento sugli equilibri politici (contrattazione di ruoli nelle commissioni parlamentari e nell'alta burocrazia statale), ottenere garanzie per le proprie aziende, guadagnare tempo sull'orologio del proprio declino in attesa della famosa sentenza di Strasburgo.


LA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA EVITA LA CRISI ISTITUZIONALE 

Le pressioni su Berlusconi non sono venute peraltro dai soli gruppi parlamentari di Forza Italia. Sono venute anche dal PD, ugualmente impaurito dalla corsa al voto dopo la Caporetto del 4 marzo, e in una profondissima crisi interna. E sicuramente sono venute della stessa Presidenza della Repubblica, che voleva evitare l'umiliazione di un governo del Presidente bocciato dalle Camere, una precipitazione alle urne senza riforma della legge elettorale, la conseguente riproposizione dopo il voto di una impasse sostanzialmente immutata, il rischio di irruzione della speculazione finanziaria nella crisi politica. Non a caso Mattarella, nel suo discorso a conclusione dell'ultimo giro di consultazioni, pur annunciando un “governo neutro” di propria nomina, aveva lasciata aperta la finestra della possibile ricomposizione di una maggioranza politica, e per dilatare i tempi supplementari di questa possibile ricomposizione aveva fatto filtrare la propria disponibilità a rinviare lo scioglimento delle camere dopo l'annunciato voto di sfiducia verso il governo del Presidente. La preoccupazione di evitare una crisi istituzionale senza rete ha avuto dunque un ruolo decisivo nella svolta politica in atto.


LA VORACITÀ DEI GIOVANI PARVENU 

I giovani gruppi dirigenti di M5S e Lega, dopo aver scalato i propri partiti, ambiscono a scalare lo Stato borghese. Dietro di loro una pletora di aspiranti ministri e sottosegretari che non vogliono perdere l'occasione della (loro) storia. La Lega porta in dote al nuovo governo l'amministrazione delle regioni del Nord e la fitta rete di relazioni coi poteri forti dei propri territori. Il M5S vi porta il proprio controllo sul blocco sociale del Meridione e la fame insaziabile di poltrone borghesi. La spartizione tra Lega e M5S di quasi tutte le cariche istituzionali al piede di partenza della legislatura dava subito la misura della voracità dei parvenu. La svolta in corso la conferma nel modo più clamoroso: Di Maio e Salvini hanno scelto di sacrificare il proprio annunciato successo in nuove elezioni, a luglio o settembre, sull'altare del proprio accesso immediato al governo del capitale. Meglio l'uovo oggi, dice il vecchio adagio popolare. La soddisfazione delle ambizioni ministeriali ha prevalso su ogni altro calcolo.


LE CONTRADDIZIONI DEL NUOVO GOVERNO E LA MINACCIA REAZIONARIA 

Il negoziato tra M5S e Lega è in pieno corso. Sia in fatto di premiership, ministeri, sottosegretariati, sia sul programma e la sua gestione. La contraddizione è evidente. I blocchi sociali di riferimento di M5S e Lega sono diversi, e diversamente dislocati. Flat Tax al Nord e reddito di cittadinanza al Sud ne sono state le bandiere, assieme all'abolizione della legge Fornero come richiamo trasversale di entrambi. Al tempo stesso sia la Lega, sia soprattutto il M5S, si sono presentati al capitale finanziario italiano ed europeo come garanti dei patti siglati sulle politiche di bilancio pubblico, una garanzia offerta allo stesso Mattarella in cambio di una legittimazione istituzionale. Quale punto d'equilibrio potranno trovare tra la vecchia demagogia casereccia e il nuovo abito istituzionale?

Una mediazione in termini di sommatoria dei due programmi elettorali è facile da un punto di vista letterario, ma è incompatibile coi parametri di bilancio che M5S e Lega si sono impegnati a onorare. Mentre una mediazione costruita per elisione bilanciata delle rispettive promesse li esporrebbe al rischio di un rapido crollo di credibilità presso i rispettivi elettorati.

Il nuovo governo cercherà di affrontare il problema in due modi. In primo luogo con la diluizione delle promesse e della loro attuazione lungo l'arco della legislatura. In secondo luogo scaricando le contraddizioni sul lato più reazionario della propria politica. Non potendo dare al proprio popolo soddisfazioni sociali, si può offrirgli soddisfazioni morali: massimizzare le politiche di respingimento esemplare degli immigrati; indurire il regime carcerario; inasprire le normative sulla sicurezza e il “decoro” (sulla scia di Minniti-Orlando); liberalizzare la legittima difesa; e naturalmente sbandierare l'immancabile trofeo dell'abolizione dei vitalizi (15 milioni di risparmio annuo).
Dirottare la rabbia sociale su falsi bersagli sarà una tecnica di occultamento delle difficoltà. Anche per questo un Salvini ministro degli Interni segnerebbe una nuova frontiera della deriva reazionaria in Italia.


MATTARELLA VIGILA PER CONTO DEL CAPITALE 

Il nuovo governo Di Maio-Salvini non è la soluzione preferita dal grande capitale. Il grande capitale puntava ad un governo M5S-PD, col primo che portava in dote il consenso e il secondo con una funzione di garanzia e di controllo. Il quel quadro il M5S avrebbe potuto sacrificare più agevolmente le proprie promesse sociali attribuendone la responsabilità al PD, e il PD avrebbe potuto incoraggiare la costituzionalizzazione del M5S, portandola a compimento. Ma questo disegno non aveva i numeri parlamentari sufficienti, e in ogni caso è stato silurato da Renzi, per la sua partita interna al PD. Ora il nuovo governo ha una matrice interamente estranea alle tradizioni politiche delle famiglie borghesi europee, e nessuno dei due sodali può evocare facilmente il proprio alleato come alibi delle promesse mancate.

Per questo la Presidenza della Repubblica già si ritaglia il ruolo di supervisore esterno a garanzia dell'interesse superiore del capitale. Annuncia che vorrà avere voce sulle nomine dei ministeri chiave in Economia, Esteri, Giustizia. In un certo senso svolgerà quel ruolo di controllo politico sull'esecutivo “populista” che la borghesia voleva assegnare al PD. Sicuramente cercherà di spingere il nuovo governo verso una riforma della legge elettorale, in funzione della governabilità di sistema. Ma con questo non potrà certo risolvere le contraddizioni profonde che il nuovo quadro politico porta con sé.


RIPARTIRE DALL'OPPOSIZIONE DI CLASSE 

Prematuro pensare, in questo contesto, a un governo di legislatura.
Ma nessuna contraddizione del nuovo governo potrà precipitare a sinistra senza una ripresa dell'opposizione sociale, di classe e di massa.
L'opposizione del PD muoverà dalla difesa dei conti pubblici e dalle preoccupazioni dell'establishment, nazionale ed europeo. Le truppe disperse di Liberi e Uguali, che avevano sperato di riciclarsi in un governo M5S-PD, si attesteranno su un'opposizione “democratica”.
Ma non vi sarà una linea di resistenza efficace sullo stesso terreno democratico senza ricondurla alla centralità dello scontro tra capitale e lavoro: l'unica linea di scontro che può scomporre i blocchi reazionari e aprire dal basso uno scenario nuovo. Una linea di scontro che richiede non solo l'autonomia dal PD, ma l'aperta contrapposizione al M5S, fuori da ogni ambiguità e illusione.

Milioni di elettori avevano cercato nel M5S una nuova sinistra, e lo ritrovano a braccetto del lepenista Salvini. Milioni di lavoratori avevano cercato nel M5S uno strumento di difesa e cambiamento sociale, e lo ritrovano a braccetto di Confindustria e alla ricerca della sua benedizione. Tutte le illusioni sul M5S - purtroppo avvallate per anni dagli ambienti più diversi della sinistra politica e sindacale - sono e saranno sottoposti alla doccia gelida della realtà, mentre ciò che rimane del popolo disperso della sinistra è privo più che mai di un riferimento politico e di una proposta chiara.

Ricostruire una coscienza classista e anticapitalista tra gli sfruttati, radicarsi nelle loro organizzazioni, battersi per l'unificazione delle loro lotte, è il lavoro quotidiano, tanto più oggi, del Partito Comunista dei Lavoratori.
Partito Comunista dei Lavoratori

La strage continua

Mercoledì 9 maggio, bollettino di guerra: muore un operaio di 19 anni schiacciato da un blocco di cemento alla Fincantieri di Monfalcone (GO) e uno studente di 16 anni, in stage, si semi-amputa una mano con una fresa in provincia di Udine.

10 Maggio 2018
Ennesimo morto sul lavoro, ennesimo infortunio di uno studente in stage. Non si tratta di “drammatiche fatalità”. In un sistema economico dove la contraddizione principale è tra interessi dei lavoratori e capitale, tra sicurezza nei luoghi di lavoro e disperata ricerca di profitto a scapito dell’incolumità dei lavoratori stessi, tutto assume un significato più vasto.

Non è possibile tutelare la sicurezza dei lavoratori senza porsi in contrapposizione alle logiche padronali.

Per questo come Partito Comunista dei Lavoratori ci schieriamo incondizionatamente dalla parte degli studenti e delle studentesse che non si piegano ai ricatti e ai crimini della Buona Scuola e ai lavoratori che hanno incrociato le braccia dopo la tragedia ai cantieri navali di Monfalcone.

Riprendere la mobilitazione studentesca contro la Buona Scuola deve significare rivendicare l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro, funzionale solo agli interessi delle aziende, rimettendo in campo la forza del movimento del maggio 2015, che fece vacillare il governo e fu tradito dalle burocrazie sindacali. Fermare la Buona Scuola era possibile e, come ci insegnano i lavoratori e studenti francesi in queste settimane, solo la lotta di massa può far indietreggiare i governi e ribaltare i rapporti di forza a favore degli sfruttati.

L’abolizione di tutte le controriforme nel mondo della scuola e nel mondo del lavoro (Buona Scuola, Jobs Act, Legge Fornero, etc..) possono avvenire soltanto attraverso la mobilitazione di massa e di classe degli studenti e dei lavoratori. Nessun partito della borghesia ha come interesse la tutela dei diritti della classe lavoratrice e la difesa della scuola pubblica. I lavoratori e gli studenti possono contare solo ed unicamente sulla loro forza e la loro organizzazione.

È necessario ribaltare i rapporti di forza sui luoghi di lavoro e nelle scuole, ponendo in ogni lotta e in ogni mobilitazione la questione dell’autorganizzazione democratica degli studenti e dei lavoratori, dell’unità delle lotte, della costruzione del più ampio fronte unico di classe e di massa contro padronato e governo, qualunque esso sia.

Nella consapevolezza che solo abbattendo questo sistema economico basato sul profitto e instaurando un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, basato sulla loro forza ed autorganizzazione, è possibile tutelare davvero l’interesse dei lavoratori, degli studenti e della maggioranza della società.

- Per una scuola libera, pubblica, laica e al servizio dei proletari e delle masse popolari!

- Per l’abolizione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro!

- Per una svolta unitaria e radicale del movimento operaio!

- Come nel ’68 e come in questi giorni: fare come in Francia! Mobilitiamoci, organizziamoci, ribaltiamo i rapporti di forza! 


In un mondo in cui le scuole diventano aziende e le aziende sfruttano gli studenti ricercare l’unità tra movimento studentesco e movimento operaio diventa una questione irrinunciabile. È la ragione stessa dell’attività degli studenti del Partito Comunista dei Lavoratori.
Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione studenti

A 70 anni dalla Nakba: Per la distruzione rivoluzionaria dello stato sionista di Israele

Per una Palestina libera, unita, laica e socialista in una Federazione Socialista del Medio Oriente.

10 Maggio 2018
Il PCL aderisce al corteo nazionale in solidarietà con la lotta del popolo palestinese
70 anni fa si compiva la tragedia del popolo palestinese. Le forze colonialiste del sionismo cacciavano con una feroce azione terrorista la popolazione araba di Palestina dalla maggioranza della sua terra. Lo facevano con il pieno appoggio determinante dell’imperialismo USA , ma anche del regime stalinista dell’URSS (che fu il primo paese insieme agli Usa a riconoscere lo stato sionista e armò le sue forze attraverso il regime cecoslovacco). Lo facevano di fronte alle feudoborghesie arabe che tradivano il popolo arabo di Palestina e la sua lotta antimperialista, in subordinazione all’imperialismo inglese e alle sue manovre nei confronti degli USA.

Come Partito Comunista dei Lavoratori siamo orgogliosi di derivare dalla tradizione della Quarta Internazionale delle origini. Essa fu infatti l’unica organizzazione del movimento operaio internazionale che si pronunciò, controcorrente, di fronte allo sfacciato appoggio al sionismo sia dei partiti socialdemocratici filoimperialisti sia di quelli “comunisti” stalinisti- contro la nascita dello stato sionista e per una Palestina unita. E ciò sia come organizzazione internazionale, che con sua piccola sezione in Palestina, composta sia di militanti arabi che ebrei, uniti nella difficile battaglia antisionista (a differenza del sionista Partito Comunistra stalinista locale).

Così affermava la IV Internazionale nel 1947:
«La posizione della Quarta Internazionale di fronte al problema palestinese resta chiara e netta come in passato. Essa sarà all’avanguardia della lotta contro la spartizione, per una Palestina unita e indipendente, nella quale le masse determineranno sovranamente la loro sorte attraverso l’elezione di un’assemblea costituente. Contro gli effendi e gli agenti imperialisti, contro le manovre della borghesia egiziana e siriana che si sforza di deviare la lotta emancipatrice delle masse in una lotta contro gli ebrei, essa lancerà l’appello alla rivoluzione agraria, alla lotta anti­capitalista e antimperialista, motori essenziali della rivoluzione araba. Ma essa non potrà condurre questa lotta con delle possibilità di successo che a condizione di prendere posizione senza equivoco contro la spartizione del Paese e contro la costituzione dello Stato ebraico

E nel 1948 il gruppo trotskista di Palestina concludeva le sue tesi affermando:
grazie alla direzione borghese e feudale dei paesi arabi – agente dell’impe­ria­lismo – siamo stati battuti in una tappa della lotta contro l’imperialismo; e dobbiamo prepararci per la vittoria in una prossima fase, cioè per l’unificazione della Palestina e dell’Oriente arabo in generale - creando la sola forza che possa raggiungere questi obiettivi: il partito proletario rivoluzionario unificato dell’Oriente arabo.»

A 70 anni di distanza queste parole restano pienamente valide.
Le illusioni su piani di pace sponsorizzati dall’imperialismo si sono rivelate per quelle che erano. Gli accordi di Oslo non hanno aperto la strada verso la libertà del popolo palestinese, ma solo verso il perdurare della sua oppressione. Milioni di palestinesi continuano a vivere in miseria nel duro esilio dei campi profughi. Ogni giorno nuova terra viene sottratta al popolo arabo. E la criminale repressione delle manifestazioni a Gaza dimostra chi sono i veri eredi dei massacri coloniali e reazionari. La prospettiva dei “due popoli, due stati” (che di per sè esclude il diritto al ritorno per milioni di profughi palestinesi) appare sempre più utopistica e si configura al meglio come quella di un “bantustan” o addirittura di “riserve indiane” o nuovi ghetti. Bisogna dire basta ad ogni illusione. La liberazione della Palestina non potrà che essere il prodotto della sconfitta, grazie alla lotta rivoluzionaria, del sionismo e dell’imperialismo.

Ma per far ciò è necessario la rottura con le vecchie direzioni fallimentari.
Il nazionalismo piccolo borghese di Al Fatah ha portato alla situazione odierna e la vecchia direzione arafattista si è tramutata nell’espressione di una nuova borghesia miserevole e corrotta, capitolarda e agente dell’imperialismo rappresentata dalla ANP. È l’espressione locale del fallimento sul piano generale del “socialismo arabo” piccolo borghese, dei variegati regimi bonapartisti che aveva promesso la libertà, non solo nazionale ma anche sociale alle masse arabe e che non hanno alla fine portato che a nuova oppressione e sfruttamento. La risposta al fallimento del nazionalismo borghese e piccolo borghese non può però essere l’islamismo in nessuna delle sue forme. Si tratta di forze reazionarie, antiproletarie e antifemminili, originariamente agenti della reazione imperialista.

Come Partito Comunista dei Lavoratori sosteniamo incondizionatamente la lotta delle masse contro sionismo e imperialismo, qualunque sia la sua direzione attuale. Al contempo, però, affermiamo con nettezza la nostra posizione: solo un partito rivoluzionario marxista, basato sul proletariato e le masse oppresse, e quindi del tutto indipendente da ogni settore della borghesia, può portare alla vittoria contro il sionismo e l’imperialismo.

Ma tale vittoria non può essere raggiunta nell’ambito della sola Palestina. Solo l’unione di lotta del proletariato e delle masse arabe può sconfiggere definitivamente la forza dell’imperialismo. Solo una prospettiva socialista può liberare il popolo arabo dall’oppressione, dalle guerre e dai massacri che lo colpiscono, in primo luogo in Siria. E solo tale prospettiva può coinvolgere una parte della classe operaia e della gioventù ebraica, portandole a comprendere che esse stesse devono liberarsi dalla guerra e dallo sfruttamento sociale della borghesia sionista, indebolendo così il nemico della liberazione del popolo arabo. Per questo, per quanto difficile, come la storia ha dimostrato, solo la prospettiva di una Palestina unita e socialista in un Medio Oriente socialista è la via per la vittoria futura

Ed è quella che devono costruire i militanti della sinistra e del proletariato arabo, unendosi in partiti e in una internazionale marxista rivoluzionaria. 

  • PIENA SOLIDARIETÀ ALLA LOTTA DEL POPOLO PALESTINESE E DELL’INSIEME DEL POPOLO ARABO

  • NESSUNA PACE COL SIONISMO E L’IMPERIALISMO.

  • ABBASSO LA BORGHESIA, I MONARCHI E GLI SCEICCHI ARABI, AGENTI DELL’IMPERIALISMO

  • PER IL DIRITTO AL RITORNO IN PATRIA PER TUTTI I RIFUGIATI PALESTINESI.

  • PER LA DISTRUZIONE RIVOLUZIONARIA DELLO STATO SIONISTA.

  • PER UNA PALESTINA LIBERA, UNITA, LAICA E SOCIALISTA CON PIENI DIRITTI DEMOCRATICI DI MINORANZA NAZIONALE AL POPOLO EBRAICO

  • PER L’UNITÀ RIVOLUZIONARIA DEL POPOLO ARABO

  • PER UNA FEDERAZIONE SOCIALISTA DEL MEDIO ORIENTE
Partito Comunista dei Lavoratori

Dalla crisi politica alla crisi istituzionale?

La crisi politica italiana rischia di trasformarsi in crisi istituzionale. Per la prima volta nella storia della Repubblica è seriamente possibile che dopo le elezioni politiche non si trovi una maggioranza parlamentare per formare un governo. Di più: per la prima volta la Presidenza della Repubblica può vedersi respinta dal Parlamento una propria proposta di governo. La sola possibilità - per non dire probabilità - di questi eventi dà la misura della straordinarietà della crisi politica italiana dopo il crollo della seconda Repubblica il 4 marzo.

Il M5S ha fallito la propria candidatura a nuovo baricentro del sistema politico istituzionale. Un fatto carico di conseguenze politiche, che vanno ben al di là del M5S.

Di Maio si era offerto a tutti, da Salvini a Renzi, pur di conquistare la presidenza del Consiglio. A ognuno ha offerto un programma compatibile ritagliato a immagine e somiglianza dell'interlocutore, come nel gioco delle tre carte. Alla borghesia ha offerto l'affidabilità istituzionale del partito di governo, solenni giuramenti di fedeltà alla NATO e alla UE, garanzie di ulteriori riduzioni fiscali per i profitti. Alla Conferenza Episcopale Italiana il rispetto ossequioso dei suoi interessi materiali. Ma l'operazione di autoinvestitura è finita in un vicolo cieco. Salvini non ha scaricato Berlusconi (nella prospettiva di un'eredità annunciata) per fare il maggiordomo di Di Maio. Il PD, seppur incoraggiato da Mattarella, è rimasto prigioniero di Matteo Renzi e del suo controllo sul partito. Il risultato è stato il naufragio. La propria candidatura “non trattabile” quale capo di governo è diventata un cappio al collo per Di Maio anche più stretto della sua inseparabile cravatta. Per voler governare con tutti, ha finito col governare con nessuno.


DI MAIO: L'AMBIZIONE FRUSTRATA DI UN PREMIER MANCATO

“Il nostro risultato è stato un trionfo.. che ci proietta inevitabilmente verso il governo... Tutti dovranno venire a discutere con noi”, dichiarava entusiasta Luigi Di Maio il 4 marzo. L'ebbrezza del sogno dominava l'immaginario di un giovane ambizioso, nella classica tradizione dei parvenu di provincia, proiettandolo in un futuro di gloria. Con una consapevolezza: quello era il treno della storia che potrebbe non passare mai più. O la conquista del governo, o il rischio del nulla (o peggio, di finire nelle fauci della guerra interna al M5S).

Per questo nei due mesi trascorsi Di Maio ha fornito ai peggiori figuri improvvise patenti di affidabilità, pur di cercare di conquistarne i favori. “Di Salvini ci possiamo fidare”, "con lui si possono fare cose importanti", “Salvini è un uomo di parola”. Potremmo considerare "non ostile" un eventuale appoggio esterno di Berlusconi, si è spinto a dire, pur di arrivare al governo con Salvini. Ma lì la prima corda si è rotta, per l'indisponibilità di Berlusconi a fare da tappeto. E il giorno dopo Di Maio, nella classica parabola della volpe e dell'uva, ha detto “noi mai con Berlusconi”, giocandosi a quel punto per proprietà transitiva la carta Salvini.

A questo punto lo schema di gioco cambia in ventiquattro ore. Di Maio prova la carta del PD, assecondando le spinte di Mattarella e di buona parte dell'establishment per un governo M5S-PD. Un illustre professore sconosciuto, estratto dal totonomi del web ma istruito per bene dalla Casaleggio, ha scoperto in due giorni le meravigliose convergenze di programma tra M5S e PD, istruendo la pratica del cosiddetto contratto di programma. In un ampio articolo sul Corriere della Sera Di Maio squadernava le disponibilità generose di questo contratto: via il reddito di cittadinanza (rimpiazzato col REI di Gentiloni), via la cancellazione della legge Fornero (neppure citata), una nuova messe di regalie fiscali ai padroni su IRES, IRAP, nuove tecnologie 4.0. “Col PD si possono fare cose importanti”, concludeva Di Maio. Il padronato applaudiva. Ma l'inchiostro del Corriere non si era ancora asciugato che Matteo Renzi si metteva di traverso, non tanto per tutelare il PD, quanto per tutelare il proprio controllo sul PD che un negoziato di governo col M5S avrebbe potuto mettere a rischio. Di Maio finiva così con un pugno di mosche, mentre il M5S perdeva in Friuli i tre quarti dei propri voti, in buona parte in direzione Lega. Un disastro totale, su tutta la linea.


CIAK, SI GIRA. RITORNA PER QUALCHE MESE IL M5S “ANTISISTEMA” 

Finito su un binario morto, frustrato nelle proprie ambizioni, esposto a nuove contraddizioni interne, il M5S converte ancora una volta in altre ventiquattro ore il proprio profilo. Ciak, si gira. Tutta l'autorappresentazione di partito di governo recitata per oltre due mesi si rovescia per ordine di scuderia nel proprio opposto. Rinasce il M5S “antisistema”, contro “il complotto di tutti i partiti”, "tutti traditori del popolo”. Il Salvini di cui ci si poteva fidare diventa in pochi giorni “lo schiavo di Berlusconi e dei suoi soldi”. Il PD di cui si apprezzava il programma “senza preclusioni per Renzi” ridiventa improvvisamente il partito "della mafia e delle banche”. La UE di cui si beatificava solennemente il profilo ridiventa matrigna, con tanto di referendum sull'euro (escluso per tutta la campagna elettorale). Cosa significa questa improvvisa riconversione? Una cosa semplice: fallita l'operazione lampo dello sbarco al governo, pagato lo scotto d'immagine del proprio trasformismo governista, il M5S sente l'esigenza di reindossare i vecchi panni populisti per cancellare la caduta d'immagine, recuperare consenso, riaccumulare forza, rilanciare così con un passo più lungo la propria immutata ambizione di governare il capitalismo italiano. Per questo deve riprendere il vecchio mestiere acchiappavoti, e il repertorio truffaldino di sempre, cercando al tempo stesso di serrare le fila di gruppi parlamentari irrequieti, spaventati in particolare nel Nord dall'ipotesi di nuove elezioni.


LA CRISI POLITICA DIVENTA ISTITUZIONALE 

Ma il fallimento dell'operazione dei Cinque Stelle trascina con sé conseguenze di sistema.

Il M5S non può andare al governo, ma nessuna soluzione di governo appare possibile fuori e contro il M5S. Ciò sembra minare alla base l'operazione annunciata di Sergio Mattarella a favore di un governo del presidente, quale ultima soluzione. Un governo del presidente, diretta emanazione del Quirinale, può essere solo un governo parlamentare, basato sulla fiducia del Parlamento. Ma quale maggioranza parlamentare può votare la fiducia al governo di Mattarella? Il M5S si tira fuori e si dichiara contro, con la parola d'ordine di (impossibili) elezioni a giugno. La Lega non ha interesse a compromettersi in questo governo, con i voti necessari del PD, lasciando a M5S la prateria di un'opposizione solitaria. Forza Italia non ha i numeri, ammesso che avesse il coraggio, per sostenere un governo col PD, e il PD non potrebbe peraltro, anche avesse i numeri, governare nel quadro attuale col solo Berlusconi. Lo stallo è totale.

Il Quirinale cercherà di far leva sulla responsabilità nazionale (cioè gli interessi generali del capitale) per massimizzare la pressione sui partiti borghesi: ma in assenza di un panico finanziario, come nel 2011, grazie alla copertura della BCE, è difficile pensare che i soli richiami alla sterilizzazione degli aumenti IVA, del finanziamento delle missioni militari, della nuova stretta di bilancio necessaria a far fronte agli impegni UE, possa promuovere una tale pressione dell'opinione popolare da forzare dal basso una soluzione di governo confindustriale purchessia. La stagione Monti-Fornero è ancora una memoria troppo fresca per richiamare, a livello di massa, una fascinazione per i governi presidenziali.
D'altra parte una soluzione politica con mandato pieno a Salvini, come richiede Meloni, è resa impossibile dall'assenza di una maggioranza parlamentare precostituita, condizione stessa dell'assegnazione dell'incarico. A meno di (improbabili, seppur non impossibili) scomposizioni rapide dei gruppi parlamentari Cinque Stelle, con l'emersione di un gruppo consistente di deputati e senatori (presumibilmente del Nord) disponibile a formalizzare preventivamente un proprio appoggio a un governo di centrodestra, quella soluzione è obiettivamente impraticabile.

Vedremo lunedì le proposte di Mattarella, e gli sforzi della sua fantasia.
Ma ad oggi sembra configurarsi come soluzione probabile quella di elezioni politiche anticipate ad ottobre; presumibilmente con l'attuale legge elettorale, perché nessuna maggioranza parlamentare pare in grado di varare una nuova legge.
Vi si può arrivare con un ulteriore straordinario prolungamento dell'attuale governo Gentiloni, seppur privo di ogni base parlamentare. Vi si può arrivare con un governo del presidente, che non ottiene la fiducia delle Camere, ma guida la corsa al voto. In entrambi i casi, soluzioni inedite che darebbero la misura dell'eccezionalità della crisi politica italiana e che trascinano nella crisi la Presidenza della Repubblica.

Di certo la crisi politica e istituzionale della borghesia italiana misura una volta di più la crisi parallela del movimento operaio: l'assenza di un quadro di mobilitazione reale, unitaria, di classe, di massa, che sappia irrompere nello scenario politico e cambiarne l'agenda. Ma questo è un altro discorso.
Partito Comunista dei Lavoratori