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Dalla crisi politica alla crisi istituzionale?

La crisi politica italiana rischia di trasformarsi in crisi istituzionale. Per la prima volta nella storia della Repubblica è seriamente possibile che dopo le elezioni politiche non si trovi una maggioranza parlamentare per formare un governo. Di più: per la prima volta la Presidenza della Repubblica può vedersi respinta dal Parlamento una propria proposta di governo. La sola possibilità - per non dire probabilità - di questi eventi dà la misura della straordinarietà della crisi politica italiana dopo il crollo della seconda Repubblica il 4 marzo.

Il M5S ha fallito la propria candidatura a nuovo baricentro del sistema politico istituzionale. Un fatto carico di conseguenze politiche, che vanno ben al di là del M5S.

Di Maio si era offerto a tutti, da Salvini a Renzi, pur di conquistare la presidenza del Consiglio. A ognuno ha offerto un programma compatibile ritagliato a immagine e somiglianza dell'interlocutore, come nel gioco delle tre carte. Alla borghesia ha offerto l'affidabilità istituzionale del partito di governo, solenni giuramenti di fedeltà alla NATO e alla UE, garanzie di ulteriori riduzioni fiscali per i profitti. Alla Conferenza Episcopale Italiana il rispetto ossequioso dei suoi interessi materiali. Ma l'operazione di autoinvestitura è finita in un vicolo cieco. Salvini non ha scaricato Berlusconi (nella prospettiva di un'eredità annunciata) per fare il maggiordomo di Di Maio. Il PD, seppur incoraggiato da Mattarella, è rimasto prigioniero di Matteo Renzi e del suo controllo sul partito. Il risultato è stato il naufragio. La propria candidatura “non trattabile” quale capo di governo è diventata un cappio al collo per Di Maio anche più stretto della sua inseparabile cravatta. Per voler governare con tutti, ha finito col governare con nessuno.


DI MAIO: L'AMBIZIONE FRUSTRATA DI UN PREMIER MANCATO

“Il nostro risultato è stato un trionfo.. che ci proietta inevitabilmente verso il governo... Tutti dovranno venire a discutere con noi”, dichiarava entusiasta Luigi Di Maio il 4 marzo. L'ebbrezza del sogno dominava l'immaginario di un giovane ambizioso, nella classica tradizione dei parvenu di provincia, proiettandolo in un futuro di gloria. Con una consapevolezza: quello era il treno della storia che potrebbe non passare mai più. O la conquista del governo, o il rischio del nulla (o peggio, di finire nelle fauci della guerra interna al M5S).

Per questo nei due mesi trascorsi Di Maio ha fornito ai peggiori figuri improvvise patenti di affidabilità, pur di cercare di conquistarne i favori. “Di Salvini ci possiamo fidare”, "con lui si possono fare cose importanti", “Salvini è un uomo di parola”. Potremmo considerare "non ostile" un eventuale appoggio esterno di Berlusconi, si è spinto a dire, pur di arrivare al governo con Salvini. Ma lì la prima corda si è rotta, per l'indisponibilità di Berlusconi a fare da tappeto. E il giorno dopo Di Maio, nella classica parabola della volpe e dell'uva, ha detto “noi mai con Berlusconi”, giocandosi a quel punto per proprietà transitiva la carta Salvini.

A questo punto lo schema di gioco cambia in ventiquattro ore. Di Maio prova la carta del PD, assecondando le spinte di Mattarella e di buona parte dell'establishment per un governo M5S-PD. Un illustre professore sconosciuto, estratto dal totonomi del web ma istruito per bene dalla Casaleggio, ha scoperto in due giorni le meravigliose convergenze di programma tra M5S e PD, istruendo la pratica del cosiddetto contratto di programma. In un ampio articolo sul Corriere della Sera Di Maio squadernava le disponibilità generose di questo contratto: via il reddito di cittadinanza (rimpiazzato col REI di Gentiloni), via la cancellazione della legge Fornero (neppure citata), una nuova messe di regalie fiscali ai padroni su IRES, IRAP, nuove tecnologie 4.0. “Col PD si possono fare cose importanti”, concludeva Di Maio. Il padronato applaudiva. Ma l'inchiostro del Corriere non si era ancora asciugato che Matteo Renzi si metteva di traverso, non tanto per tutelare il PD, quanto per tutelare il proprio controllo sul PD che un negoziato di governo col M5S avrebbe potuto mettere a rischio. Di Maio finiva così con un pugno di mosche, mentre il M5S perdeva in Friuli i tre quarti dei propri voti, in buona parte in direzione Lega. Un disastro totale, su tutta la linea.


CIAK, SI GIRA. RITORNA PER QUALCHE MESE IL M5S “ANTISISTEMA” 

Finito su un binario morto, frustrato nelle proprie ambizioni, esposto a nuove contraddizioni interne, il M5S converte ancora una volta in altre ventiquattro ore il proprio profilo. Ciak, si gira. Tutta l'autorappresentazione di partito di governo recitata per oltre due mesi si rovescia per ordine di scuderia nel proprio opposto. Rinasce il M5S “antisistema”, contro “il complotto di tutti i partiti”, "tutti traditori del popolo”. Il Salvini di cui ci si poteva fidare diventa in pochi giorni “lo schiavo di Berlusconi e dei suoi soldi”. Il PD di cui si apprezzava il programma “senza preclusioni per Renzi” ridiventa improvvisamente il partito "della mafia e delle banche”. La UE di cui si beatificava solennemente il profilo ridiventa matrigna, con tanto di referendum sull'euro (escluso per tutta la campagna elettorale). Cosa significa questa improvvisa riconversione? Una cosa semplice: fallita l'operazione lampo dello sbarco al governo, pagato lo scotto d'immagine del proprio trasformismo governista, il M5S sente l'esigenza di reindossare i vecchi panni populisti per cancellare la caduta d'immagine, recuperare consenso, riaccumulare forza, rilanciare così con un passo più lungo la propria immutata ambizione di governare il capitalismo italiano. Per questo deve riprendere il vecchio mestiere acchiappavoti, e il repertorio truffaldino di sempre, cercando al tempo stesso di serrare le fila di gruppi parlamentari irrequieti, spaventati in particolare nel Nord dall'ipotesi di nuove elezioni.


LA CRISI POLITICA DIVENTA ISTITUZIONALE 

Ma il fallimento dell'operazione dei Cinque Stelle trascina con sé conseguenze di sistema.

Il M5S non può andare al governo, ma nessuna soluzione di governo appare possibile fuori e contro il M5S. Ciò sembra minare alla base l'operazione annunciata di Sergio Mattarella a favore di un governo del presidente, quale ultima soluzione. Un governo del presidente, diretta emanazione del Quirinale, può essere solo un governo parlamentare, basato sulla fiducia del Parlamento. Ma quale maggioranza parlamentare può votare la fiducia al governo di Mattarella? Il M5S si tira fuori e si dichiara contro, con la parola d'ordine di (impossibili) elezioni a giugno. La Lega non ha interesse a compromettersi in questo governo, con i voti necessari del PD, lasciando a M5S la prateria di un'opposizione solitaria. Forza Italia non ha i numeri, ammesso che avesse il coraggio, per sostenere un governo col PD, e il PD non potrebbe peraltro, anche avesse i numeri, governare nel quadro attuale col solo Berlusconi. Lo stallo è totale.

Il Quirinale cercherà di far leva sulla responsabilità nazionale (cioè gli interessi generali del capitale) per massimizzare la pressione sui partiti borghesi: ma in assenza di un panico finanziario, come nel 2011, grazie alla copertura della BCE, è difficile pensare che i soli richiami alla sterilizzazione degli aumenti IVA, del finanziamento delle missioni militari, della nuova stretta di bilancio necessaria a far fronte agli impegni UE, possa promuovere una tale pressione dell'opinione popolare da forzare dal basso una soluzione di governo confindustriale purchessia. La stagione Monti-Fornero è ancora una memoria troppo fresca per richiamare, a livello di massa, una fascinazione per i governi presidenziali.
D'altra parte una soluzione politica con mandato pieno a Salvini, come richiede Meloni, è resa impossibile dall'assenza di una maggioranza parlamentare precostituita, condizione stessa dell'assegnazione dell'incarico. A meno di (improbabili, seppur non impossibili) scomposizioni rapide dei gruppi parlamentari Cinque Stelle, con l'emersione di un gruppo consistente di deputati e senatori (presumibilmente del Nord) disponibile a formalizzare preventivamente un proprio appoggio a un governo di centrodestra, quella soluzione è obiettivamente impraticabile.

Vedremo lunedì le proposte di Mattarella, e gli sforzi della sua fantasia.
Ma ad oggi sembra configurarsi come soluzione probabile quella di elezioni politiche anticipate ad ottobre; presumibilmente con l'attuale legge elettorale, perché nessuna maggioranza parlamentare pare in grado di varare una nuova legge.
Vi si può arrivare con un ulteriore straordinario prolungamento dell'attuale governo Gentiloni, seppur privo di ogni base parlamentare. Vi si può arrivare con un governo del presidente, che non ottiene la fiducia delle Camere, ma guida la corsa al voto. In entrambi i casi, soluzioni inedite che darebbero la misura dell'eccezionalità della crisi politica italiana e che trascinano nella crisi la Presidenza della Repubblica.

Di certo la crisi politica e istituzionale della borghesia italiana misura una volta di più la crisi parallela del movimento operaio: l'assenza di un quadro di mobilitazione reale, unitaria, di classe, di massa, che sappia irrompere nello scenario politico e cambiarne l'agenda. Ma questo è un altro discorso.
Partito Comunista dei Lavoratori