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Banche venete. La realtà del capitalismo e del suo Stato

 Il caso delle banche venete è la perfetta radiografia della natura del capitalismo e dello Stato borghese, contro tutte le false apologie della cosiddetta democrazia e della Costituzione. I fatti sono noti, e sicuramente brutali nella loro semplicità. Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca sono fallite. Trascinate al fallimento dalla crisi capitalistica del 2008, dall'espansione abnorme di crediti inesigibili, dal collasso dei valori azionari. Soluzione: il governo decreta la liquidazione coatta delle due banche, dividendo il loro patrimonio in due parti. Da un lato gli attivi superstiti, i crediti esigibili, depositi e obbligazioni di valore, i beni immobili; dall'altro tutta la spazzatura dei titoli tossici, crediti senza futuro, attività fallite. La parte sana viene acquistata al prezzo di 1 (uno) euro da Banca Intesa, assieme a Unicredit la principale banca italiana. La spazzatura tossica l'acquista invece il Tesoro, a carico dei contribuenti. Questi i fatti, di dominio pubblico e di per sé eloquenti: la collettività, già rapinata dalle banche, si accolla i costi del loro fallimento, a vantaggio di una banca che intasca gratis il bottino. 

Ma questa è solo la cornice del quadro. I dettagli sono ancor più illuminanti.
Ricordate gli appelli retorici delle istituzioni sulla “necessaria solidarietà nazionale” per “salvare le banche”, che sono “un patrimonio di tutti”? Bene. Le banche italiane hanno rifiutato di pagare la ricapitalizzazione delle banche venete, attraverso una cassa comune, caricando l'onere sullo Stato.
Ricordate l'infinita litania sul debito pubblico della "nazione", sulla mancanza di risorse per servizi sanità e pensioni, sulla necessità obiettiva dei sacrifici per ridurre la spesa sociale? Bene. La crisi del debito pubblico scompare quando si tratta di salvare le banche. Per comprare la spazzatura dei titoli tossici delle banche venete il governo spende per l'immediato oltre cinque miliardi. Che si aggiungono a 12 miliardi di garanzie pubbliche sui titoli regalati a Banca Intesa, che ha preteso e ottenuto copertura totale per i "futuri rischi”. Che si aggiungono a 10 miliardi già messi a garanzia dei bond emessi dalle banche venete negli ultimi mesi, nel tentativo (vano) di rimetterle in pista. Il tutto finanziato dal decreto varato a Natale che caricava sul debito pubblico 20 miliardi per il salvataggio delle banche.
Dunque: le stesse banche italiane che hanno in pancia 400 miliardi di titoli pubblici, che ogni anno intascano 70-80 miliardi di soli interessi sul debito, beneficiano di altre decine di miliardi pubblici per galleggiare sul mercato capitalistico. Grazie a questa operazione di socializzazione delle perdite, la principale banca italiana rilancia alla grande i propri profitti e dividendi, per di più gratis. Banca Intesa ottiene infatti in regalo: 26 miliardi di crediti in ottimo stato, 25 miliardi di raccolta dai depositi, 12 miliardi di obbligazioni, 23 miliardi di raccolta indiretta, oltre alla eliminazione delle due banche concorrenti fagocitate e alla conseguente conquista di un proprio monopolio nel Nord-Est.
Grazie a questo gigantesco regalo ottenuto dallo Stato, le quotazioni azionarie di Banca Intesa sono schizzate in cielo, con immenso gaudio dei grandi azionisti. Altro giro altro regalo, verrebbe da dire: lo Stato è solamente, come diceva Marx, il comitato d'affari del capitale, tanto più in tempo di crisi.

All'altro capo c'è naturalmente chi paga la festa. Non solo la massa dei lavoratori e della popolazione povera cui si chiederà di pagare il conto del debito pubblico accresciuto, a partire dai milioni di lavoratori statali cui si nega il contratto perché ”mancano i soldi”. Ma anche 4000 lavoratori bancari in esubero per la chiusura di due terzi delle 900 filiali delle banche venete (il terzo rimanente va gratis ad Intesa). Ma anche decine di migliaia di piccoli risparmiatori, cui le banche avevano rifilato obbligazioni subordinate truffa in cambio di laute promesse, e persino qualche migliaio di piccoli azionisti.
Il capitalismo ha le sue leggi, che non hanno riguardo per nessuno. Neppure per quella piccola borghesia che spesso si nutre dei suoi miti.

La sola alternativa a questa rapina senza fine è la nazionalizzazione delle banche, - senza indennizzo per i grandi azionisti e sotto il controllo dei lavoratori - ,con la loro concentrazione in un'unica banca pubblica. È l'unica soluzione che può abolire il parassitismo del capitale finanziario e liberare immense risorse per i servizi pubblici e le protezioni sociali. È l'unica soluzione che può trasformare la banca da strumento di rapina in mezzo di sostegno alle necessità dei lavoratori. È l'unica soluzione che può proteggere lo stesso piccolo risparmio.
Ma la nazionalizzazione delle banche non sarà mai realizzata da un governo borghese, fosse pure “di sinistra”, come mostra l'asservimento di Tsipras alla troika e ai suoi banchieri. Può essere realizzata solamente da un governo dei lavoratori, basato sulla loro organizzazione e sulla loro forza, in una prospettiva anticapitalista e socialista. Come dimostrò un secolo fa la Rivoluzione d'Ottobre, l'unica che ha realizzato con mezzi rivoluzionari la nazionalizzazione delle banche.
Costruire nella classe lavoratrice, e innanzitutto nella sua avanguardia, la coscienza di questa necessità è la ragione del Partito Comunista dei Lavoratori.
Partito Comunista dei Lavoratori

Bosch di Bari: respingere con la lotta il piano aziendale!

volentieri pubblichiamo il volantino redatto dal Collettivo Politico “Guevara” riguardo alla vertenza in atto alla Bosch di Bari



Nelle scorse settimane la direzione dello stabilimento Bosch di Bari ha annunciato un piano di esuberi di 850 unità (quasi la metà degli attuali 1890 dipendenti), in conseguenza di una previsione di mercato al ribasso sulla vendita dei prodotti (componenti per motori diesel, mercato in crisi a seguito dello scandalo dieselgate sulle emissioni truccate).

L’azienda ha presentato il 20 giugno un piano che prevede
- Rinnovo contratto di solidarietà secondo i criteri del jobs act; quindi con una consistente diminuzione del salario
- Riduzione progressiva dell’orario di lavoro fino a 30 a ore
- Contratto di prossimità, in deroga a tutti i contratti nazionali di lavoro e leggi in materia;
- Retribuzione diretta e indiretta differita proporzionalmente in base all’orario di lavoro ridotto. E quindi riduzione di tredicesima, quattordicesima e indennità varie;
- Maggiorazione turno e indennità di scorrimento congelate nel quinquennio 2018-2022.
Nelle assemblee svoltesi in fabbrica lo stesso 20 giugno in fabbrica l’atteggiamento dei sindacati non è stato per niente adeguato alla gravità della situazione:Occorre sin da ora che i lavoratori mettano in atto iniziative di lotta!
Far passare il piano dell’azienda significherebbe non solo peggiorare le condizioni di vita dei lavoratori della Bosch di Bari, ma anche stabilire un nuovo e pericoloso precedente nella riduzione dei diritti del lavoro portata avanti da multinazionali, aziende e governo. Si legittimerebbe infatti la deroga al CCNL ed alle normative del lavoro.

La situazione del lavoro in generale diviene sempre più grave, la riduzione se non l’eliminazione degli ammortizzatori sociali con il jobs act, le privatizzazioni, le delocalizzazioni, i licenziamenti, la riduzione dei salari anche in aziende con bilanci floridi (vedi caso Telecom), i licenziamenti punitivi di lavoratori che contestano le scelte aziendali…
Ma ci sono segnali che si può invertire la tendenza se c’è la determinazione a lottare. Il NO del 67% dei lavoratori nel referendum sulla proposta di piano di ristrutturazione di Alitalia ed il successo dello sciopero dei trasporti e della logistica del 16 giugno scorso sono segnali positivi (non per niente Renzi e Delrio hanno lanciato per l’ennesima volta anatemi contro il diritto di sciopero).

Occorre mettere in atto a Bari e nella regione una mobilitazione ampia e unitaria, contro il piano della Bosch, a sostegno di tutte le vertenze locali e su una serie di punti fondamentali per tutelare i diritti dei lavoratori.
- Contro i licenziamenti punitivi (per il ripristino dell’art. 18)
- Per il divieto dei licenziamenti nelle aziende con bilanci in positivo
- Per il divieto delle delocalizzazioni

Sosterremo le iniziative dei lavoratori della Bosch e facciamo appello a costruire una mobilitazione unitaria a difesa dei diritti del lavoro che coinvolga tutti i settori.
Invitiamo i lavoratori della Bosch, delle altre aziende e di tutti i settori a partecipare ed intervenire con le loro ragioni alla
manifestazione unitaria promossa dai lavoratori del servizi sociali e dell’accoglienza e dai lavoratori agricoli del 30 giugno a Bari a Piazza Umberto alle ore 17.00

Collettivo Politico “Guevara”
www.collettivoguevara.org Fb Collettivo Guevara

Perché il reddito di cittadinanza non libera le donne

 
Una falsa rivendicazione per il movimento delle donne

20 Giugno 2017
L’8 marzo in quasi cinquanta Paesi si è tenuto il primo sciopero globale delle donne, un percorso transnazionale nato principalmente sulla spinta del movimento argentino Ni Una Menos - dove il troskismo ha avuto un ruolo importante – e sull’onda dello sciopero del 4 ottobre 2016 delle donne polacche in difesa del diritto all’aborto.

In Italia il percorso dell’8 marzo è stato declinato territorialmente e in molte città italiane sono stati organizzati cortei, presidi e iniziative pubbliche. Le manifestazioni cittadine sono state molto partecipate anche se lo sciopero “produttivo e riproduttivo” ha assunto una dimensione più simbolica che reale. Vanno comunque segnalate alcune realtà di controtendenza: ad esempio FP-SGIL, SIAL Cobas e CUB hanno avuto un ruolo chiave nella mobilitazione delle lavoratrici del comune di Milano, inoltre in alcune fabbriche come l’Electrolux di Susegana vi è stata un’adesione allo sciopero che ha raggiunto l’80%.

Il movimento Non una di meno si configura attualmente come un’esperienza eterogenea, plurale e indiscutibilmente rappresenta un terreno importante in cui intervenire per far emergere quelle posizioni classiste e rivoluzionarie che abbiano la forza di far inquadrare la battaglia contro il patriarcato e il tema della liberazione delle donna e di tutte le minoranze oppresse nell’orizzonte del conflitto fra capitale e lavoro. Una battaglia che non può essere o solo anticapitalista o esclusivamente antipatriarcale, ma necessariamente entrambe: anticapitalista e antipatriarcale.

Dopo le prime tappe romane dell’8 ottobre e del 27 novembre 2016, il 4 e 5 febbraio 2017 a Bologna si è tenuto un incontro nazionale di due giorni del movimento. Anche questo è stato un evento molto partecipato, nel quale sono intervenute quasi duemila attiviste, divisesi in otto tavoli tematici per portare avanti la scrittura del Piano femminista contro la violenza. In questo percorso sono state fatte proprie dal movimento alcune rivendicazioni minime ma certamente importanti quali la battaglia per i diritti civili ai migranti, per la chiusura dei CIE, per lo Ius soli, nonché la battaglia per il pieno funzionamento della legge 194 (interruzione volontaria di gravidanza) e per l’abolizione dell’obiezione di coscienza che rappresenta una questione centrale per la sessualità e la vita di tutte le donne. Ad oggi dunque questa nuova ondata femminista è riuscita a smarcarsi da istanze e problematiche portate avanti dal femminismo borghese come ad esempio la battaglia per la rappresentanza femminile nelle istituzioni e le quote rosa, nonché quella dal sapore moralista come quella contro la "mercificazione delle donne in politica" che sono state il cavallo di battaglia di "Se non ora quando?".

Ma dal percorso di Non una di meno sono emerse anche delle criticità che possono minare lo sviluppo futuro del movimento e portarlo a arenarsi in una involuzione istituzionale.
Dalla lettura del report uscito dal tavolo “Legislativo e giuridico” e soprattutto dalla rivendicazione centrale del reddito di cittadinanza assunta dal tavolo “Lavoro e welfare”, emerge una visione pericolosamente neutra e poco critica dello Stato borghese, nonché uno sguardo ambiguo nei confronti dell’Unione Europea; ciò si evince ad esempio dal richiamo della necessità di ottenere la piena attuazione dei principi della Convenzione di Istanbul del 2011 sulla “prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” o dalla richiesta che le aziende facciano “corsi di formazione” sulle tematiche della violenza di genere.
Come si può considerare un promotore della liberazione delle donne quello stesso Stato che dello sfruttamento e dell’oppressione è il garante? E come non si può riconoscere che la liberazione delle donne si inscrive in un processo di messa in discussione e necessaria trasformazione dei rapporti di forza vigenti?

Questa incomprensione del ruolo antagonista dello Stato borghese e del sistema economico emerge chiaramente dalla più importante delle rivendicazioni assunte attualmente dal movimento, ossia il reddito di cittadinanza (o di autodeterminazione come viene definito).
Quella per il reddito rappresenta una rivendicazione di retroguardia: già in uso in molti paesi a capitalismo avanzato per prevenire il calo dei consumi causato dalla crisi economica, esso non ha mai rappresentato il frutto di una conquista del movimento operaio poiché non mette minimamente in discussione i privilegi del padronato e anzi, in una certa misura li istituzionalizza ulteriormente, poiché è un’istanza che disconosce il ruolo della lotta di classe come motore della Storia e per questo non riconosce la centralità del lavoro come terreno in cui si produce la contraddizione fra capitale e lavoro, e dunque quelle condizioni necessarie per la rottura rivoluzionaria con il sistema capitalista. È inoltre una istanza che nasce da analisi pseudoscientifiche che non riconoscono la proprietà privata come base delle diseguaglianze sociali e lo sfruttamento come estrazione di plusvalore dal lavoro salariato. È quindi una forma di sussidio non di emancipazione.
Inoltre è uno strumento particolarmente discutibile, tanto in un’ottica marxista quanto femminista, proprio perché rimuove la centralità del lavoro come orizzonte di autodeterminazione delle donne nei confronti della famiglia e la conseguente partecipazione attiva alle dinamiche della lotta di classe come mezzo di conquista di un proprio ruolo politico nella società.

È la stessa esperienza della rivoluzione bolscevica a ricordarcelo. Negli immediatamente anni successivi all’Ottobre vennero infatti messi in moto due processi intimamente connessi: da un lato vennero introdotte in massa le donne all’interno del lavoro produttivo con tutte le conseguenze economiche e politiche che ne conseguivano (diritto di voto e di elezione all’interno dei soviet, autonomia economica e acquisizione della piena cittadinanza); dall’altro lato vennero attuati i primi provvedimenti volti alla liberazione sessuale delle donne, ossia quelle istanze che si ponevano l’obiettivo di svincolarle dal destino biologico e sociale a cui il patriarcato le aveva relegate e di cui la morale borghese e la religione erano i moderni portavoce.
Così la Repubblica dei Soviet fra il 1918 e il 1922 legalizzò l’aborto e il divorzio, approvò le unioni civili, abolì la patria potestas e le differenze fra figli “legittimi” e “illegittimi”; dette avvio anche a una prima fase di socializzazione del lavoro di cura con l’apertura di mense pubbliche, di lavanderie pubbliche e di asili per l’infanzia, affinché fossero dei lavoratori salariati a occuparsi di quei lavori che per secoli le donne avevano dovuto svolgere gratuitamente all’interno della famiglia e in condizioni di subalternità.

Il reddito di cittadinanza invece non contempla tutto ciò; pone gli inoccupati alle dipendenze dello Stato e alla sua disponibilità o meno di elargire denaro (siamo in tempi di crisi economica, quindi o reddito o servizi) e non dunque indipendenti e liberati dalla “schiavitù del lavoro” come sostengono i vari settori movimentisti; tutto questo rischia di rendere ancora più subalterne le donne non solo nei confronti della famiglia, dove la violenta crisi economica le sta rigettando e vincolando al lavoro di cura, ma anche nei confronti dello Stato borghese, lo stesso stato che garantisce i medici obiettori, che fa tagli alla sanità, che riconosce la sacralità di un certo tipo di famiglia e un certo modo di essere genitore a discapito di tutti gli altri, che fa regalie al padronato e alle banche, che garantisce privilegi fiscali alla Chiesa cattolica e l’insegnamento confessionale nella scuola pubblica. Dunque, il reddito di cittadinanza rischia di divenire a tutti gli effetti un salario domestico per casalinghe.

Ma il movimento Non Una di Meno ha ancora il potenziale e la disponibilità di energie per intraprendere un’altra strada e un’altra battaglia per la liberazione delle donne e di tutte le minoranze oppresse, ossia quella per creare nuove condizioni materiali e nuovi rapporti di forza che permettano alle donne di lavorare per se stesse e essere autonome (così che se costruiranno una famiglia, lo faranno da donne libere e per scelta, non per necessità o per mancanza di orizzonti) e a questa battaglia va aggiunta quella per i diritti delle lavoratrici per poter garantir loro gli strumenti di autodeterminazione dentro gli stessi luoghi di lavoro, senza che rischino di perdere il posto e senza che debbano accettare di subire pratiche sessiste (oggi come ieri molto frequenti). Il movimento deve dunque fare propria la battaglia per la redistribuzione del lavoro esistente fra tutti e tutte e la riduzione dell’orario di lavoro a parità di paga, l’abolizione del Jobs Act e di tutte le leggi di precarietà, il reintegro dell’articolo 18 esteso a tutti i lavoratori dipendenti, l’abolizione dell’obiezione di coscienza in tutte le strutture sanitarie pubbliche, l’abolizione della riforma della Buona scuola e dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica, la separazione fra Stato e Chiesa e dunque l’abolizione del Concordato.
Chiara Mazzanti

No alla privatizzazione del trasporto pubblico!




Sciopero generale dei trasporti

15 Giugno 2017
Testo del volantino per lo sciopero generale dei trasporti di venerdì 16 giugno

(N.b.: riteniamo utile rimandare anche al comunicato del Sindacato Generale di Base tra i promotori dello sciopero: 
https://www.sindacatosgb.it/502-16-giugno-2017-viva-lo-sciopero-generale)


Lo scontro che si è aperto in Italia nel settore dei trasporti è determinato in primo luogo dalla ristrutturazione che il capitalismo italiano deve concludere anche in questo settore, come ha già fatto negli altri settori industriali. 


TRASPORTO FERROVIARIO

La ristrutturazione delle ferrovie si inserisce nel più alto progetto di privatizzazione che ha segnato la politica neoliberista, sviluppatasi in Italia dagli anni '80, e presentata come necessaria a superare l'inefficienza dello Stato nella erogazione dei servizi. La realtà è però diversa: è sotto gli occhi di tutti come la ristrutturazione sia stata fatta pagare, oltre che ai ferrovieri, con un peggioramento della loro condizione di lavoro, anche agli utenti che usufruiscono del trasporto ferroviario.

TRASPORTO PUBBLICO LOCALE

La manovra licenziata alla fine di aprile dal governo dedica alcuni articoli al TPL, che in particolar modo viene determinata con una riduzione fino al 20% dei trasferimenti finanziari da parte dello Stato rispetto a quanto percepito l’anno precedente.

Ci sarà una ulteriore riduzione del 15% della quota regionale, qualora le regioni non affidino il servizio tramite bando di gara, ponendo in essere di fatto un incentivo alla privatizzazione del trasporto pubblico.

Tali ultimi provvedimenti sono in perfetta continuità con la politica dei tagli ai finanziamenti del trasporto pubblico messa in atto negli ultimi vent'anni, causa principale delle condizioni disastrose in cui versa il settore, che hanno prodotto un significativo peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e del servizio offerto agli utenti e l’aumento delle tariffe, e che hanno portato le aziende di trasporto, dove il tema manutentivo è notizia quotidiana, sull’orlo del fallimento, scaricando i costi e gli effetti di scelte sbagliate determinate dall’inseguimento dei profitti sulla pelle dei lavoratori, degli utenti e di tutta la collettività.

Il continuo smantellamento della competenza del pubblico sulla gestione dei trasporti come nelle ferrovie, nel TPL, con la scellerata deregulation negli aeroporti, dei vettori aerei come Alitalia, ha portato inevitabilmente alla diminuzione dei servizi offerti all’utenza e allo scadimento della qualità di quelli esistenti, con il conseguente aumento delle tariffe e all’espulsione dei lavoratori dai posti di lavoro.

TRASPORTO AEREO

Nuovo capitolo della vicenda Alitalia. Ennesima operazione di ristrutturazione aziendale sulla pelle di chi lavora. Ulteriore regalia di soldi pubblici ai capitalisti. Nel 2008, a seguito di un durissimo scontro sindacale, governo Berlusconi e burocrazie sindacali imposero la privatizzazione della compagnia di bandiera, quale premessa del futuro rilancio. I fatti hanno dimostrato il contrario. Da qui il nuovo intervento del governo Renzi e poi di Gentiloni per l'ennesimo salvataggio di Alitalia e il varo del nuovo piano di lacrime e sangue contro i lavoratori: tagli di salari, di diritti e diminuzione di organici. Questi i termini dell’ennesimo accordo al ribasso di CGIL-CISL-UIL e UGL col governo ed il fallimentare management della società, accordo sottoposto a referendum e bocciato a larghissima maggioranza dai lavoratori.

Una volta di più si conferma che la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori dell'azienda Alitalia e la ripubblicizzazione di tutti i servizi di trasporto è l'unica via per salvaguardare i lavoratori (e gli utenti) dagli effetti del barbaro mercato capitalistico, riorganizzando alla radice il trasporto aereo e tutti i servizi dei trasporti in generale come trasporto pubblico al servizio esclusivo della collettività, secondo un piano razionale.

Per queste ragioni il Partito Comunista dei Lavoratori è al fianco dei lavoratori, delle lavoratrici e delle organizzazioni sindacali che hanno promosso lo sciopero generale dei trasporti.
Partito Comunista dei Lavoratori

16 giugno: sciopero generale della logistica

Escalation di violenza e repressione nel settore della logistica

15 Giugno 2017
Il settore della logistica ha rappresentato in questi ultimi anni la punta più avanzata della lotta di classe in Italia: scioperi “selvaggi”, scioperi nazionali, picchetti e blocco delle merci sono stati gli strumenti messi in campo dai lavoratori di questo settore, dove vige la regola del massimo sfruttamento legata ad una illegalità diffusa, dove esistono condizioni di vita e di lavoro disumane fondate sul ricatto, e dove le lotte rappresentano un riscatto per questa classe lavoratrice che non ha nulla da perdere ma tutto da conquistare.

La presenza del sindacalismo conflittuale, rappresentata da sindacati come il SiCobas (ma anche da altre sigle sindacali e dall’opposizione CGIL – Il Sindacato è un’altra cosa), e la conseguente direzione classista e conflittuale delle lotte, coniugata alla determinazione dei lavoratori del settore, ha permesso un salto di qualità normativo e salariale molto importante, conquistato poco a poco, picchetto per picchetto, vittoria per vittoria.

Proprio per la presenza di questo ciclo di lotte, nel settore della logistica si sta verificando una escalation di repressione e violenze contro i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali: nel settembre del 2016 con la morte di Abd El Salam, operaio investito durante un picchetto da un camion della GLS; in gennaio con la repressione nei confronti del SiCobas, attraverso l’arresto di Aldo Milani; in aprile con il tentativo di investire con un tir i lavoratori impegnati in un picchetto alla Artoni di Caorso (Piacenza), seguito immediatamente da un’aggressione a colpi di mazza di ferro. Mentre a fine marzo i lavoratori della Coca Cola di Nogara (Verona), costretti a occupare il tetto dello stabilimento per contrastare i licenziamenti, hanno subito cariche violente con manganelli elettrici, e la chiusura dello stabilimento compiuta dall’azienda per rappresaglia contro le lotte sindacali.

Questi non sono casi isolati, ma i più eclatanti di un generale aumento della repressione a forza di cariche, aggressioni, denunce e fogli di via (anche a qualche militante del PCL); perché questo modello di direzione sindacale risulta scomodo e quindi il padronato e le forze di repressione utilizzano ogni mezzo per cercare di contrastarlo.


VERSO LO SCIOPERO NAZIONALE 

Il 9 aprile c’è stata una assemblea nazionale dei delegati del SiCobas e dell’ADL Cobas per discutere e preparare la piattaforma per il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro. Questo è sicuramente un fattore positivo. Da troppo tempo il movimento operaio, sotto le direzioni del sindacato concertativo e filopadronale, tratta sulla piattaforma della controparte - padronato e governo - e non sulle sue proprie rivendicazioni, causando alla classe lavoratrice molto spesso enormi sconfitte.

Per questo, come Partito Comunista dei Lavoratori, sosterremo in pieno lo sciopero nazionale della logistica del 16 giugno partecipando ai picchetti davanti ai magazzini, come già abbiamo fatto negli scorsi scioperi in varie zone d’Italia. I nostri militanti, ovunque sindacalmente collocati, si batteranno per l’adesione allo sciopero della logistica delle proprie sigle sindacali con una propria proposta di estensione e unificazione di tutte le lotte.

Bisogna gettare le basi per la costruzione di una mobilitazione generale e di massa, che a partire dalle generose lotte dei lavoratori della logistica si connetta alle lotte dei lavoratori dei trasporti, del pubblico impiego, della scuola e del settore privato, che metta in discussione tutti gli accordi a perdere che le burocrazie sindacali hanno concesso, che cancelli le leggi antioperaie che hanno precarizzato il lavoro e attaccato i diritti - a partire dal Jobs act - e che metta in campo come parole d’ordine il blocco dei licenziamenti, la ripartizione del lavoro tra tutti e tutte con la riduzione dell’orario di lavoro a parità di paga e l’esproprio senza indennizzo, la nazionalizzazione delle aziende che licenziano, delocalizzano, speculano e inquinano. Solo questo programma può dare forza a una classe lavoratrice sfruttata e oppressa e può aprire lo spazio per l’unica soluzione di classe all’attacco padronale e alla crisi capitalistica.

Perché solo un governo dei lavoratori, basato sulla loro forza e sulla loro organizzazione, può realizzare una vera “repubblica fondata sul lavoro”: rovesciando il potere dei capitalisti e concentrando nelle mani dei lavoratori e delle lavoratrici le leve della produzione.
Partito Comunista dei Lavoratori

Poste Italiane: continua la farsa

 Il tira e molla sulla seconda trance di privatizzazioni, anche con il cambio di vertice, permette al governo di prendere tempo e all'azienda di fare tutti i dovuti aggiustamenti per presentare un pacchetto aziendale debitamente messo a lucido sulla sua facciata, per meglio nascondere tutte le inefficienze reali e l'aumento dello sfruttamento a danno dei lavoratori, specialmente del settore recapito. Così continua la politica aziendale fatta di: tagli al personale e agli uffici; generale mancato turn over delle posizioni lavorative; mancanza e obsolescenza dei mezzi e delle strumentazioni; riorganizzazione del recapito a giorni alterni con il conseguente taglio delle zone, l'aumento dei carichi di lavoro sui singoli portalettere e la messa in discussione del servizio universale a discapito delle zone periferiche e meno lucrose; precarizzazione sempre più spudorata delle condizioni di lavoro; messa in discussione dei diritti dei lavoratori costantemente attaccati nel loro quotidiano, messi sempre più sotto un controllo quasi orwelliano e costretti a svolgere lavorazioni extra sottopagate entro l'orario lavorativo, come nel caso della formula dell' abbinamento per i portalettere, o obbligati a ritmi sempre più stressanti con straordinari forzati. 

Per i precari la beffa è anche peggiore. Non solo gli viene imposta una condizione di perenne ricatto, con rinnovi di pochi mesi (a volte anche inferiori ai 30 giorni), ma sempre di più vengono utilizzati sostanzialmente per coprire carenze di organico strutturali, sobbarcandoli della maggior parte delle prestazioni straordinarie necessarie a tenere in piedi il recapito spesso sotto il ricatto del non rinnovo. Spesso imposte anche se illegittime e in alcuni casi neppure retribuite in toto.

Nonostante questo le loro prospettive non supereranno mai i 24 mesi di lavoro. Per gli oltre 5000 precari dell'azienda il miraggio del tempo indeterminato è apertamente negato fin da principio. Quei lavoratori sono semplice carne da macello per due anni, per esser poi sostituiti da altri esattamente come loro per le stesse identiche mansioni. E la loro quota, rispetto ai contratti indeterminati, aumenta sempre di più, a dimostrazione che il comparto del recapito vuole essere smantellato, appaltato, messo in secondo piano da Poste Italiane.

Questo è il merito del Jobs Act e di tutte le leggi di precarizzazione del passato, delle politiche di privatizzazione e smantellamento dei servizi e delle aziende pubbliche. Questo è il merito di questo sistema politico ed economico e spesso, delle connivenze dei maggiori sindacati concertativi.
E' sicuramente positivo che l'SLC-CGIL tenti di lanciare una mobilitazione dei precari contro la loro condizione e per una graduatoria per assunzioni a tempo indeterminato, ma non può essere sufficiente. Solo uno sciopero di tutto il comparto delle Telecomunicazioni e dei Servizi può frenare questa aggressione generale e mettere in campo la forza dei lavoratori e delle lavoratrici contro un problema sistemico. E con esso uno sciopero generale contro la precarietà, le privatizzazioni, i licenziamenti e i tagli ai servizi pubblici, per rilanciare la politica del lavorare meno e lavorare tutti, unica soluzione alla crisi attuale.

Il nostro partito continua a solidarizzare con questa lotta, considerato che alcuni suoi militanti e iscritti sono lavoratori di Poste Italiane e di varie aziende private di recapito, e portano avanti ogni giorno questa lotta nel loro posto di lavoro e assieme ai loro colleghi.
Partito Comunista dei Lavoratori

Dalla parte dei lavoratori dell'Ilva

Com'era prevedibile la vendita dell'Ilva al miglior offerente si traduce in un attacco pesante ai lavoratori: 6.000 operai in esubero, prevalentemente a Taranto ma non solo. Questo è il conto presentato dal gruppo ArcelorMittal, vincitore della gara d'acquisto. Gli stessi operai sfruttati per decenni e falcidiati dai tumori si vedono ora minacciati dalla privazione del lavoro. I licenziamenti come “risarcimento” delle morti. Se poi i sindacati vorranno ridurre gli “esuberi”, dovranno accettare l'abbattimento dei salari, ha aggiunto a mezza bocca la nuova proprietà. Non è tutto. I nuovi padroni offrono la miseria di appena 25 milioni per investire in “salute, sicurezza, ambiente” (un terzo di quanto ha offerto la cordata dei pescecani concorrenti di Acciaitalia) dopo aver già incassato come condizione preliminare d'acquisto l'esonero da ogni controversia legale in fatto di tutela ambientale. Mentre annunciano che la sola copertura dei parchi minerari (da cui si alzano le polveri che uccidono i lavoratori tarantini) richiederà ben cinque anni, contro i due previsti dal piano ambientale originario. Insomma: lavoro e salute sono incompatibili col profitto.
Il Sole 24 Ore, quotidiano di Confindustria, celebra la vendita dell'Ilva con parole alate. «L'Ilva ha un acquirente. L'asta ha funzionato. È stato ristabilito un principio di realtà. Non vi piace la parola mercato? Usiamo la parola industria. È stato reintrodotto nel discorso sull'Ilva il principio della sostenibilità del numero di dipendenti rispetto alla finanza d'impresa e all'attività produttiva... Va richiesto realismo ai lavoratori e ai sindacati» (31/5). Più chiaro di così!
Il principio di realtà è l'interesse del padrone. Le sue vittime se ne facciano una ragione. Peraltro non si tratta di un caso particolare. In tutto il mondo l'enorme sovrapproduzione siderurgica trascina un attacco frontale ai posti di lavoro, dentro una selvaggia concorrenza per la spartizione del mercato. Anche in Europa. Non a caso l'Antitrust europeo ha già notificato al gruppo Arcelor il rischio che la sua acquisizione dell'Ilva possa configurare una posizione dominante incompatibile con le regole della concorrenza nella UE. Arcelor ha replicato che se necessario rinuncerà ad alcune produzioni: tagliando posti di lavoro in Polonia, in Germania, in Francia, in Lussemburgo. L'attacco al lavoro degli operai dell'Ilva è parte dunque di questo scenario globale.

Per questa stessa ragione, la difesa del lavoro e della salute degli operai dell'Ilva richiede una soluzione anticapitalista. Era chiaro sin dall'inizio che nessun nuovo capitalista acquirente avrebbe garantito lavoro e salute. La riduzione dei posti di lavoro e degli investimenti ambientali era al contrario il terreno stesso della gara d'acquisto. Gli acquirenti comprano in funzione del massimo profitto, e il massimo profitto richiede l'abbattimento del “costo” del lavoro e dei “costi” ambientali. L'offerta Arcelor è stata accettata e premiata dal governo Gentiloni e dal ministro Calenda, quali piazzisti del capitale. Non può essere accettata dagli operai dell'Ilva. Occorre una opposizione di massa che unisca i lavoratori dei diversi stabilimenti Ilva, contro ogni logica mirata a dividerli. Occorre costruire una opposizione di lotta radicale, quanto radicale è l'attacco del padrone. Occorre ricondurre l'azione di lotta all'unica soluzione che possa garantire la difesa del lavoro e della salute degli operai: quella della nazionalizzazione dell'Ilva, senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori. Fuori da questa prospettiva, come i fatti dimostrano, si prepara solamente il peggio.

Il PCL sostiene da sempre incondizionatamente la lotta dei lavoratori dell'Ilva, come la lotta di Genova di un anno fa. Portando in questa lotta, come in ogni lotta, la prospettiva politica del governo dei lavoratori. L'unica vera alternativa. L'unica che possa riorganizzare la società dalle sue fondamenta, rovesciando la dittatura del profitto.

Partito Comunista dei Lavoratori