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La polizia di Berlino interrompe il Congresso sulla Palestina. La libertà di parola diventa una farsa

  Con un'azione che ha pochi precedenti recenti di questo tipo, il governo tedesco è arrivato a disturbare, fino all'impedimento fis...

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La polizia di Berlino interrompe il Congresso sulla Palestina. La libertà di parola diventa una farsa

 


Con un'azione che ha pochi precedenti recenti di questo tipo, il governo tedesco è arrivato a disturbare, fino all'impedimento fisico, il Congresso sulla Palestina, una conferenza internazionale con centinaia di attivisti e militanti.

Pubblichiamo il resoconto della conferenza e delle gesta censorie delle autorità scritto dai compagni di ArbeiterInnenmacht, anch'essi oggetto di repressione poliziesca. A loro, e al movimento per la Palestina in Germania, va la nostra solidarietà.



Le restrizioni ai diritti democratici fanno ormai parte del normale stato di "democrazia". La "solidarietà incondizionata" con Israele, dichiarata da Angela Merkel e Olaf Scholz come la ragion d'essere dello stato tedesco, è chiaramente incompatibile con la libertà di espressione.

Libertà di espressione che è stata messa nel mirino, come raramente prima, il 12 aprile a Berlino, una città che può vantare una lunga storia di violenza e arbitrio da parte della polizia.

Ma mentre tale repressione si concentra "normalmente" su manifestazioni, occupazioni, blocchi stradali, oltre che su atti di disobbedienza civile o sulla ribellione di precari, questa volta l'attacco alla libertà di espressione ha avuto come obiettivo una conferenza organizzata democraticamente, il Congresso sulla Palestina.


RAGIONE DI STATO

La solidarietà con Israele è stata dichiarata, anzi esaltata, come interesse primario della Germania, anche se le sue forze armate hanno appena ucciso circa 40.000 persone, e a Gaza oltre un milione di persone sono state cacciate dalle loro case e le loro città ridotte in macerie. Ora centinaia di migliaia di persone sono minacciate dalla fame. Il governo tedesco, l'opposizione borghese e i media, di fatto coalizzati, si aggrappano alla finzione che Israele stia solo esercitando il suo "diritto all'autodifesa", invece di condurre una guerra di aggressione genocida. E non è tutto: la Germania sostiene la guerra non solo politicamente e diplomaticamente, ma anche militarmente. Solo nel 2023, le esportazioni di armi verso Israele sono decuplicate.

Di conseguenza, questa guerra viene portata avanti anche in Germania. Da un lato, ciò ha lo scopo di lavare ideologicamente la colpa dell'imperialismo tedesco per l'Olocausto, mentre dall'altro, lo stato tedesco sta perseguendo i suoi tangibili interessi economici e, soprattutto, geostrategici.

Lo stesso esercizio del diritto alla libertà di parola è quindi diventato un'attività quasi criminale. Per settimane, gli opinionisti "democratici", sia reazionari che liberali, hanno chiesto ai media di vietare il Congresso sulla Palestina. Poiché ciò non era legalmente possibile, per giorni sono state avanzate richieste e minacce, che sono poi state messe in atto dalla polizia il 12 aprile. Il sindaco conservatore di destra di Berlino Karl Wegner ha minacciato per settimane un "intervento rigoroso" al "minimo sospetto" di dichiarazioni illegali. In parole semplici, ciò non significa altro che la minaccia di criminalizzare qualsiasi critica aperta allo Stato di Israele e alle sue basi razziste, qualsiasi solidarietà con la Palestina, qualsiasi posizione antisionista e qualsiasi difesa dei diritti democratici del popolo palestinese, in particolare del suo diritto all'autodeterminazione nazionale.


UNA PROVOCAZIONE

La giornata di apertura del Congresso sulla Palestina ha quindi avuto inizio con vessazioni inverosimili e assurde. Le norme antincendio ed edilizie sono state usate come pretesto per far entrare solo 250 persone in un locale che può ospitarne 600. Fin dall'inizio, quindi, è stato impedito a centinaia di persone di partecipare all'evento. Inoltre, la polizia ha prolungato artificialmente per ore l'intero processo di ammissione dei partecipanti.

Mentre le autorità negavano l'ingresso a centinaia di persone munite di biglietto, la polizia ha fatto entrare di nascosto giornalisti filosionisti e provocatori del quotidiano conservatore Die Welt, che aveva condotto una campagna gravemente diffamatoria contro l'evento e i diritti dei suoi organizzatori. Inoltre, la polizia ha posto come condizione per l'inizio dei lavori la presenza massiccia di agenti (in uniforme e in borghese). La polizia di Berlino ha schierato circa 900 agenti per ottenere questo risultato e portare a termine questa missione politica. Ed è riuscita a farlo.


IL DISCORSO DI HEBH JAMAL

Nonostante tutte queste vessazioni, provocazioni e metodi da stato di polizia (da cui Putin, Erdogan, Netanyahu, Biden, ma anche Meloni e Macron potrebbero ancora imparare qualcosa), il Congresso è iniziato con un discorso commovente, quello di Hebh Jamal, una giornalista palestinese-americana residente in Germania. Nel suo intervento ha esposto le menzogne, ma anche la cooperazione degli oppressori di tutto il mondo, una cooperazione che non è una teoria del complotto, ma rivela gli interessi comuni di tutte le classi dominanti in un ordine imperialista basato sullo sfruttamento e sull'oppressione. Soprattutto, Hebh Jamal ha chiarito che una conferenza che mette in evidenza i crimini della Nakba, l'espulsione e l'oppressione dei palestinesi, e la complicità dell'imperialismo tedesco, è di per sé un atto di resistenza.

La condanna di questa politica, che la conferenza si è impegnata a promuovere, è necessaria e fa parte della rottura del silenzio. È stato un momento di solidarietà che ci spinge ad agire, ad aumentare e a migliorare il coordinamento del nostro movimento.

Questo è esattamente ciò che l'intero establishment politico tedesco vuole evitare a tutti i costi. Questo "fronte unico" comprende i partiti della coalizione di governo, SPD, Verdi e Liberaldemocratici (FDP), e la principale forza di opposizione, i cristiano-democratici e cristiano-sociali della CDU-CSU, oltre all'estrema destra dell'AfD. Ma, vergognosamente, comprende anche parti del partito di sinistr Die Linke.


ECCO COS'È LA "DEMOCRAZIA" IMPERIALISTA

Il videomessaggio di Salman Abu Sitta, autore e ricercatore palestinese, cui lo stato tedesco aveva vietato l'ingresso nel paese a causa del suo coinvolgimento nel movimento di resistenza, è stato fermato dalla polizia dopo pochi minuti dall'inizio e senza alcun motivo apparente. Alla fine, all'avvocato degli organizzatori sono state fornite diverse motivazioni contraddittorie, molto discutibili anche dal punto di vista legale. A un certo punto la polizia ha spiegato che il discorso poteva contenere passaggi che potevano costituire un incitamento all'odio, e che ciò sarebbe stato oggetto di indagine. Sulla base del fatto che non si possono chiedere troppe "ragioni" per l'operato della polizia, è stato poi aggiunto che Salman Abu Sitta è stato bandito dall'attività politica in Germania.

La polizia non ha saputo dire quando e da chi ciò sia stato deciso, né se la riproduzione di un videomessaggio rientrasse nel divieto. Ma chi ha bisogno di motivazioni quando si ha a disposizione il monopolio dell'uso della forza? E per fugare ogni dubbio che il diritto alla libertà di riunione e di parola fosse calpestato, il congresso e tutti gli eventi successivi sono stati vietati e annullati sia il sabato che la domenica seguenti.

La polizia è così riuscita a interrompere e disperdere il Congresso. Ma non ci faranno tacere e non raggiungeranno il loro obiettivo di distruggere il nostro movimento, che sta crescendo e diventando sempre più forte.

Al contrario. Lo scioglimento arbitrario del congresso e l'attacco alla libertà di espressione non solo rivelano il carattere repressivo della polizia. Illustrano anche il carattere antidemocratico della politica del governo tedesco. E mostrano lo stretto legame tra la politica imperialista e la necessità di mantenere il monopolio dell'opinione pubblica. Oltre alla repressione, ci troviamo di fronte anche ad agitazioni e calunnie orchestrate, inclusa una massiccia ondata di razzismo antipalestinese, antimusulmano e antiarabo.

A nostro avviso, il fatto che i media tedeschi abbiano puntato anche i compagni dell'organizzazione ArbeiterInnenmacht [sezione tedesca della League for the Fifth International] e del suo gruppo giovanile REVOLUTION dimostra che abbiamo fatto qualcosa di buono. Tuttavia non vogliamo dimenticare che nelle ultime settimane l'establishment tedesco non ha nemmeno mancato di mostrare il suo lato antisemita, quando ha diffamato pubblicamente gli ebrei antisionisti, in particolare i compagni della Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East, e la cassa di risparmio di Berlino ha bloccato il loro conto associativo. Ma non dobbiamo dimenticare che sono soprattutto i nostri compagni palestinesi a essere brutalmente attaccati, le cui associazioni e organizzazioni sono minacciate e criminalizzate, e su cui pende la spada di Damocle dell'espulsione, mentre allo stesso tempo i loro amici e parenti muoiono o vengono buttati fuori dalle loro terre.

Oggi, 12 aprile 2024, i Wegner e i Giffey, gli Scholz e i Baerbock hanno potuto sciogliere il nostro congresso. Hanno i mezzi per farlo. Ma potrebbero non essere troppo sicuri del loro "successo", della loro "vittoria" sui nostri diritti democratici, e di certo non se la godranno troppo a lungo. Anche se sono riusciti a sciogliere il nostro congresso, esso è diventato - come una delle piccole ironie della storia - ancora più noto in tutto il mondo. Soprattutto, la repressione ha sensibilizzato molte più persone sul carattere reazionario e antidemocratico del capitalismo tedesco di quanto avrebbero potuto fare i nostri discorsi, contributi, discussioni e risoluzioni. L'imperialismo tedesco, in particolare, ha trascorso decenni a costruirsi l'immagine di essere relativamente "democratico" e "basato sui valori". Ma ora sta smascherando questa bugia autocelebrativa.

Faremo in modo che gli vada di traverso. Possono vietare un congresso, ma non spezzeranno la nostra resistenza, la nostra volontà di combattere, la nostra determinazione. Perché, a differenza loro, noi lottiamo per una causa giusta, per la libertà e l'autodeterminazione del popolo palestinese, per un mondo senza sfruttamento e oppressione.

Martin Suchanek

Lo scontro fra Iran e Israele

 


La crisi dell'ordine imperialistico del mondo



L'azione militare iraniana della scorsa notte contro Israele è parte dell'aggravamento della crisi internazionale. Effetto e concausa al tempo stesso. La dinamica degli avvenimenti in corso non è ancora definita. Diverse variabili sono in campo. Ma è possibile inquadrare alcuni primi elementi essenziali.


L'azione militare iraniana è una risposta all'attacco omicida dello stato sionista al consolato iraniano di Damasco. La risposta in sé è legittima. Israele ha bombardato la sede diplomatica di uno stato estero, entro i confini di un altro stato, con un'azione militare banditesca. Talmente banditesca che Israele stesso non ha potuto rivendicarla pubblicamente. Negare all'Iran il diritto di rispondere all'attacco subito significherebbe affermare il diritto israeliano all'impunità. Ciò che sarebbe inconcepibile, tanto più nel quadro della guerra di annientamento intrapresa dallo stato sionista contro il popolo palestinese di Gaza, con la complicità degli imperialismi alleati.

Sostenere questo diritto di replica, in barba a ogni pacifismo ideologico, non significa certo per parte nostra appoggiare politicamente il regime arcireazionario della Repubblica islamica, né rivendicare una guerra tra lo stato iraniano e lo stato sionista. Il regime islamico iraniano è e resta un regime dispotico, responsabile dell'oppressione quotidiana dei lavoratori, dei giovani, delle donne, della popolazione curda. Un'oppressione terribile e sanguinosa. Ma a rovesciare questo regime hanno diritto la classe operaia e le masse oppresse iraniane in funzione di una propria prospettiva di liberazione, non certo l'imperialismo e il sionismo per via militare e in funzione dei propri interessi egemonici.

È importante ora comprendere la logica dei diversi attori dello scontro, e il groviglio di contraddizioni che lo attraversa. La Repubblica Islamica ha dovuto rispondere all'attacco israeliano al proprio consolato in Siria per evitare di apparire una tigre di carta agli occhi dei propri alleati e interlocutori regionali. Al tempo stesso non ha alcuna intenzione di avventurarsi in una guerra dispiegata che possa mettere a rischio la propria tenuta e sopravvivenza. Da qui una reazione militare contenuta, prevalentemente dimostrativa, annunciata con largo anticipo, indirettamente concordata per alcuni aspetti, nella sua moderazione, con la stessa diplomazia degli imperialismi avversari, inclusa la diplomazia USA.

L'incognita vera ora è la reazione israeliana. Il governo Netanyahu, e segnatamente il premier, hanno usato in questi sette mesi la guerra di Gaza come mezzo della propria sopravvivenza politica. Hanno utilizzato naturalmente il sostegno inossidabile degli imperialismi alleati, a partire dall'imperialismo USA, ma anche forzato e travalicato i loro “consigli” nella gestione delle operazioni miliari. Parallelamente hanno cercato di polarizzare lo scontro su scala regionale contro l'Iran per costringere gli imperialismi alleati a schierarsi al proprio fianco, e restringere il loro spazio di manovra. Lo stesso attacco al consolato iraniano, in attesa di un'inevitabile risposta, rientrava in questo gioco spregiudicato. Tuttavia, oltre a una certa soglia il gioco di Netanyahu si fa rischioso.

Tutte le potenze imperialiste, a partire dagli USA, chiedono al governo israeliano di non rispondere all'attacco iraniano con una propria ritorsione militare, ma di attendere una risposta internazionale congiunta di carattere diplomatico. In pratica Biden chiede a Netanyahu di non aprire la guerra contro l'Iran, e di evitare una spirale incontrollabile. La stessa pronta assistenza militare americana e britannica a Israele nel fronteggiamento dei droni iraniani, anche col ricorso a portaerei e caccia, è in funzione di un preciso messaggio a Netanyahu: “Proprio perché insieme ti abbiamo difeso, ora ti chiediamo di muoverci insieme”. In altri termini: ti offriamo la condanna diplomatica dell'Iran in cambio della rinuncia ad una tua guerra contro l'Iran.

Questa complessa dialettica in corso richiama le contraddizioni di fondo dell'imperialismo USA e la crisi della sua egemonia su scala mondiale. Tutta la politica USA, a partire dal 2008, è strategicamente mirata al contrasto dell'imperialismo cinese, e di riflesso del suo alleato russo. Gli accordi di Abramo nel 2020 fra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, servivano agli USA per cercare di “pacificare” la regione (sulla pelle dei palestinesi) dentro un nuovo equilibrio e architettura diplomatica, che consentisse loro di volgersi verso il Pacifico, concentrando su quel versante le proprie forze. Ma prima la crisi ucraina, poi la crisi di Gaza, hanno richiamato l'imperialismo USA ai propri doveri di potenza imperialista dominante su scacchieri imprevisti. Un ruolo dominante, tuttavia, ben più fragile che in passato. Tanto più in Medio Oriente.

L'imperialismo russo è tornato in gioco in Medio Oriente grazie alla guerra siriana col sostegno determinante ad Assad. L'imperialismo cinese ha officiato la distensione tra Arabia Saudita ed Iran, rompendo l'isolamento di quest'ultimo ed entrando nella partita regionale. La Turchia gioca il ruolo di potenza regionale autonoma in funzione di un proprio disegno neoottomano, al punto da sostenere Hamas e negare agli USA ogni possibile uso del proprio spazio aereo per una guerra eventuale contro l'Iran. La guerra di Israele a Gaza, con la sua gestione in proprio, più volte indifferente alle preoccupazioni americane, ha misurato e aggravato a sua volta la crisi di egemonia USA nella regione, buttando all'aria la tela di Abramo, e favorendo il libero gioco di tutti gli imperialismi e potenze rivali.

In questo quadro, l'imperialismo USA non vuole oggi la guerra dispiegata contro l'Iran. Ha bisogno di recuperare il bandolo di un'iniziativa politica in Medio Oriente, non di una guerra fuori controllo che potrebbe tracimare in un conflitto mondiale. Parallelamente, i fatti internazionali dimostrano che non tutto si svolge secondo i calcoli e la volontà degli USA, come vorrebbero tante rappresentazioni da operetta. Da qui le incognite e i pericoli obiettivi.

Di certo l'intera piega degli avvenimenti mondiali dimostra la crisi dell'ordine imperialistico nel mondo.
L'egemonia USA è apertamente in crisi, e al tempo stesso non si delinea una egemonia alternativa. L'imperialismo mondiale è privo di un baricentro, dentro una competizione tra vecchie e nuove potenze imperialiste per la spartizione del mondo. Ciò che determina il moltiplicarsi degli attori, su scala mondiale e regionale, con effetti e risultanti imprevedibili.
Nessuna potenza imperialista vuole oggi la terza grande guerra. Ma la corsa alle armi di tutte le potenze imperialiste, vecchie e nuove, è di fatto, nella prospettiva storica, una corsa verso la guerra e la sua preparazione. Solo una rivoluzione socialista, che saldi le ragioni della classe operaia con le ragioni di tutti i popoli oppressi, può scongiurare questa prospettiva tragica per l'umanità.

Partito Comunista dei Lavoratori

Ucraina. Dove va la guerra

 


La corsa alle armi degli imperialismi in Europa e la piega della guerra. La crisi del fronte ucraino. Il posizionamento dei marxisti rivoluzionari

12 Aprile 2024

English translation

Rullano i tamburi di guerra, ma anche letture improvvisate. È bene attenersi al principio di realtà. Il metodo del marxismo.


LA CORSA ALLE ARMI DI TUTTI I POLI IMPERIALISTI. ANCHE NELL'UNIONE EUROPEA

La corsa agli armamenti da parte di tutte le potenze imperialiste, vecchie e nuove, è in pieno svolgimento ed è di ampia portata. Se l'imperialismo russo si è strutturato come economia di guerra, se l'imperialismo cinese incrementa in misura esponenziale i propri investimenti militari, altrettanto fanno gli imperialismi NATO. Inclusi gli imperialismi europei.
Nel 2021 gli stati europei spendevano collettivamente 184 miliardi annui per la Difesa, nel 2024 arriveranno a 350 miliardi. Un aumento del 90% in tre anni. Sommando i paesi della UE alla Gran Bretagna, la loro spesa annua complessiva in investimenti militari è quattro volte superiore alla spesa militare della Russia, e supera di 50 miliardi la spesa militare della Cina.
La guerra in Ucraina ha sicuramente costituito un fattore dirompente in questa espansione degli investimenti militari in Europa. Al tempo stesso, tale espansione è enormemente superiore per dimensioni e tasso di crescita agli aiuti militari all'Ucraina (nella realtà sempre più centellinati).

Gli imperialismi NATO si armano non “per l'Ucraina” ma in previsione di possibili grandi guerre del futuro, in Europa e sul Pacifico, in contrapposizione alla Cina e al polo russo-cinese. La corsa alle armi è in questo senso, in una prospettiva storica, la corsa verso la guerra: lungo la rotta di collisione tra le potenze vecchie e nuove per la spartizione del mondo. La contrapposizione alla guerra è allora innanzitutto la contrapposizione all'imperialismo, a tutti gli imperialismi, a tutte le loro guerre d'invasione. Il che implica la difesa di tutti i popoli e le nazioni invase dagli imperialismi, indipendentemente dai loro governi e direzioni.

chtCentrale da ogni versante è la prospettiva del rovesciamento rivoluzionario dell'imperialismo stesso: l'unica vera soluzione di pace, durevole e giusta, su scala globale. Se vuoi la pace prepara la guerra, gridano in coro le classi dirigenti imperialiste, a tutte le latitudini del mondo, oggi anche in Europa. Se vuoi la pace prepara la rivoluzione, diceva Karl Liebknecht un secolo fa. È la nostra impostazione generale, classista e internazionalista, contrapposta ad ogni borghesia, estranea ad ogni illusione riformista e pacifista.

Questo quadro generale di riferimento non rimuove l'esigenza di una lettura specifica di ogni dinamica di guerra, nella sua concretezza e nelle sue contraddizioni. Così è per la guerra in Ucraina. Abbiamo prodotto in questi due anni come PCL e come Opposizione Trotskista Internazionale (OTI) molto materiale sulla guerra. Facciamo ora il punto sulla piega degli avvenimenti in corso. Un aggiornamento dell'analisi, la conferma di un metodo e posizionamento.


LA GUERRA IN UCRAINA VOLGE A FAVORE DELLA RUSSIA

Il fronte di guerra in Ucraina sembra volgere a favore della Russia. Le famose sanzioni degli imperialismi NATO, che nelle loro previsioni avrebbero dovuto piegarla, non hanno sortito effetto, se non quello di consolidare il sostegno popolare grande-russo attorno a Putin.
Putin si è rafforzato sul fronte interno. Ha capitalizzato con successo il fallimento della rivolta di Prigozhin, sino alla sua eliminazione. Ha decapitato l'opposizione borghese liberale di Navalny. Ha conosciuto un obiettivo successo elettorale, al di là della natura e dei metodi del regime. Sta sfruttando l'attentato terroristico dell'ISIS per compattare la popolazione nel sostegno alla guerra.
Militarmente dispone di una forza molto superiore all'Ucraina in fatto di uomini, missili, arei, munizioni di artiglieria. Sfrutta il contesto politico internazionale: la guerra in Palestina che distoglie attenzioni e fondi degli USA dal fronte ucraino, l'imminenza delle elezioni americane, la debolezza di Biden, il rafforzamento di Trump. Ed anche la crescente avversione dell'opinione pubblica europea verso gli aiuti militari all'Ucraina, e a maggior ragione verso un aumento dell'impegno militare a suo favore. Tutto lo scenario internazionale sembra volgere a favore di Putin. Incluso il rafforzamento delle destre sovraniste in Europa.

Gli imperialismi UE non sembrano oggi in grado di sostituire gli USA nel sostegno militare all'Ucraina. Né economicamente né politicamente, e neppure militarmente. Il grande salto di investimenti militari in Europa non ha ancora conosciuto una traduzione tempestiva e corrispondente in termini materiali. Manca un complesso industriale-militare capace di rimpiazzare quello americano. Le diverse industrie belliche nazionali competono l'una con l'altra, con diciassette sistemi d'arma diversi.
Si moltiplicano inoltre le contraddizioni fra i diversi stati nazionali imperialisti. La principale potenza militare europea, la Francia, ha alluso con Macron allo scenario di un possibile intervento diretto di truppe francesi o NATO in Ucraina. Ma è una sparata a salve. Tutti gli esperti militari concordano nel ritenere che la Francia non reggerebbe neppure una settimana di guerra vera sul campo, per l'assenza di un supporto militare adeguato. Perché Macron allora è uscito con questa allusione? Per un insieme di ragioni: sottolineare che la Francia è la principale potenza militare in UE, e non la Germania (nonostante i 100 miliardi di investimento militare stanziati dal governo tedesco); che è la Francia, quale principale potenza militare europea, ad essere titolata a guidare in futuro un eventuale negoziato di pace in Europa, e non la Germania. Forse si è trattato anche un tentativo di minaccia deterrente (velleitaria) nei confronti della Russia (del tipo: “non pensate di arrivare a Kiev, perché altrimenti...”, ecc).

In ogni caso, con la sua uscita, Macron ha indirettamente contribuito a spiegare a tutti la differenza di fondo tra un intervento militare diretto e un sostegno militare esterno. La NATO e i suoi imperialismi portanti si sono affrettati a dichiarare che non vogliono entrare direttamente in guerra contro la Russia. Lo stesso governo francese ha ripiegato.
Il punto è che mentre l'intervento diretto è una minaccia a salve, il sostegno esterno è sempre più debole. Questo è un problema oggettivo per il governo ucraino.


LA CRISI DEL FRONTE UCRAINO

Gli aiuti militari che gli imperialismi occidentali hanno inviato all'Ucraina si sono rivelati assai più modesti nella realtà che nella propaganda: una controffensiva fallita per assenza di copertura aerea, assenza cronica di munizioni, mancanza di sistemi Patriot per proteggere le città dai missili ipersonici russi... L'avanzata russa sul fronte di guerra è (anche) la risultante di questo.
Nel mentre si complica il fronte politico interno all'Ucraina. Il governo borghese di Zelensky ha evitato le elezioni ma non può evitare la demotivazione legata agli insuccessi. Il fallimento della controffensiva è stato un boomerang. Il disincanto della popolazione accresce le difficoltà di reclutamento. Il reclutamento forzato aumenta lo scollamento interno.

Zelensky ha dovuto rinunciare al reclutamento annunciato di 500000 uomini, limitandosi ad abbassare da 27 a 25 anni l'età della coscrizione. Ma non sa su quali numeri reali potrà contare. Intanto le contraddizioni interne all'apparato militare e amministrativo si allargano. Il Presidente ucraino cerca di aggirare le difficoltà prendendo tempo, massimizzando le pressioni su USA, NATO, UE per ottenere nuovi aiuti, promuovendo continui cambi ai vertici delle forze armate, centralizzando il comando nelle proprie mani, cercando di moltiplicare gli interventi militari ucraini in territorio russo attraverso le imprese spettacolari dei droni.

Sinora l'unico colpo riuscito riguarda l'intervento sulla marina russa nel Mar Nero, e il bombardamento di una serie di raffinerie in Russia (nonostante la raccomandazione contraria degli USA). Ma l'effetto materiale è inevitabilmente modesto. E l'effetto propagandistico sul piano interno è effimero. Mentre gli attacchi alla popolazione civile russa, per quanto limitati alla frontiera, offrono nuovi argomenti allo sciovinismo imperialistico di Putin, che addirittura cerca di attribuire all'Ucraina la responsabilità dell'attentato terroristico al Crocus. Una attribuzione grottesca, falsa e cinica, che ha trovato sponda in Italia in qualche ambiente vicino al Fatto Quotidiano (come nel caso di Pino Arlacchi). Ma una attribuzione che in Russia fa leva sui riflessi condizionati pavloviani del clima di guerra. Per l'Ucraina è un ulteriore problema.


I POSSIBILI SCENARI DELLA GUERRA

Non facciamo previsioni militari ma valutazioni politiche. Putin cercherà probabilmente di simulare disponibilità negoziali per accrescere le difficoltà degli imperialismi NATO sul fronte della loro opinione pubblica. Ma non ha oggi la necessità di trattare, essendo all'offensiva sul fronte militare. Né ha l'interesse a farlo sino alle elezioni di novembre negli USA, dove spera che una eventuale (probabile?) vittoria di Trump possa offrirgli altre carte da giocare.
Putin proseguirà dunque congiuntamente l'offensiva militare e la manovra diplomatica. L'obiettivo militare è riconquistare Charkiv a nord e puntare ad Odessa nel sud, la cui conquista sarebbe fondamentale per chiudere all'Ucraina ogni sbocco sul mare, precipitare la sua crisi interna, poter esibire un trofeo di grande prestigio all'opinione pubblica russa. Medvedev per parte sua continua a ribadire pubblicamente che l'obiettivo di fondo della Russia resta Kiev, perché il popolo ucraino come entità distinta non può esistere. Di certo le ragioni imperiali della guerra russa sono ribadite a ogni passo. Chi parla di guerra per procura della NATO rimuove le ragioni dichiarate dell'imperialismo russo già al piede di partenza dell'invasione.

È possibile un crollo del fronte militare ucraino? È possibile. In assenza di mezzi, uomini, munizioni, Zelensky può essere costretto ad arretrare la linea di difesa. Nei fatti, la gestione della guerra da parte della borghesia ucraina e del suo governo volge al peggio. Ha puntato tutto solo sull'aiuto degli imperialismi NATO, col risultato di trovarsi scoperto proprio su quel versante. L'aiuto non solo non sarà incrementato, ma sarà sempre più problematico. Il Congresso USA ha congelato i fondi. La proposta di 100 miliardi in cinque anni ventilati da Stoltenberg (NATO) si trova già contestata al piede di partenza da diversi paesi. L'uso dei fondi russi depositati in Occidente si scontra con gli interessi del capitale finanziario e le regole del suo casinò.

Le stesse promesse politiche all'Ucraina segnano il passo. La promessa dell'ingresso dell'Ucraina nella NATO deve attendere la fine della guerra, perché altrimenti la NATO sarebbe vincolata a un intervento diretto che non è nei suoi desideri. L'ingresso dell'Ucraina nella UE cammina su tempi lunghi, ed è osteggiato per ragioni finanziarie dagli stessi paesi alleati (Polonia) che temono di perdere i sussidi agricoli. Diversi imperialismi UE stringono accordi bilaterali con l'Ucraina (generalmente decennali) a futura memoria, ma tutti perciò stesso riguardano il dopoguerra e la spartizione del mercato della ricostruzione più che il conflitto in corso, rivelando l'assenza di una linea UE dentro la concorrenza spietata tra i suoi imperialismi nazionali.


IL PUGNO DI MOSCHE DI ZELENSKY. LE IPOTESI DI “PACE PER PROCURA” TRA IMPERIALISMI

La linea di Zelensky si trova in mano un pugno di mosche. Nello sforzo di garantirsi il sostegno dei capitalisti ucraini, Zelensky ha moltiplicato le misure a loro favore riducendo loro le tasse, liberalizzando i licenziamenti, comprimendo i diritti sindacali, moltiplicando svendite e privatizzazioni a vantaggio dei capitali occidentali. Ma così ha semplicemente demotivato le energie difensive della popolazione ucraina, quelle che all'inizio della guerra si erano espresse nell'arruolamento di centinaia di migliaia di volontari per difendere il paese dall'invasione e ora sono largamente rifluite o depresse. Una guerra di liberazione nazionale sotto la guida della borghesia ucraina ha rivelato inevitabilmente tutte le proprie debolezze. A due anni dall'invasione russa e dalla vittoriosa difesa di Kiev contro la colonna di 60 chilometri di carri armati russi, la linea Zelensky mostra la corda. Un'opposizione di classe in Ucraina dovrebbe contestare la gestione borghese della guerra investendo nella mobilitazione indipendente della classe operaia e della popolazione povera: quella interessata a difendere il proprio lavoro e i propri diritti dagli invasori russi, ma anche dagli oligarchi ucraini, che Zelensky protegge.

Le diplomazie imperialiste stanno cercando dietro le quinte una via d'uscita per sé, non per l'Ucraina. La trama ufficiosa su cui si lavora, dietro le quinte, sembra quella di una tregua fondata sullo scambio: l'Ucraina concede alla Russia i territori conquistati con l'invasione, la NATO offre ospitalità a ciò che resta dell'Ucraina. Un compromesso tra briganti. Una spartizione dell'Ucraina tra imperialismo invasore e imperialismi NATO. Oggi l'operazione di scambio fatica ad aprirsi un varco, ma un'elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti potrebbe ampliare le sue chance. Tanta parte del pacifismo saluterebbe forse questa soluzione come la ritrovata “pace”. Ma sarebbe una pace imperialista. Una pace per procura tra vecchie e nuove potenze.

Può essere che l'Ucraina si trovi in futuro costretta a tale soluzione da un rapporto di forza obiettivamente impari. In ogni guerra sono possibili cedimenti obbligati e dolorosi. Valse persino per i bolscevichi a Brest-Litovsk. Ma ciò non muterebbe la natura imperialista della soluzione siglata: l'imperialismo russo vedrebbe premiata la ragione annessionista della propria guerra; gli imperialismi NATO allargherebbero ulteriormente la propria alleanza in Europa, dopo l'ingresso di Svezia e Finlandia. Una simile pace non potrebbe essere definita diversamente che come pace tra briganti.


IL POSIZIONAMENTO INDIPENDENTE DEI MARXISTI RIVOLUZIONARI

Ricapitoliamo allora il nostro posizionamento, da marxisti rivoluzionari, verso la guerra in Ucraina.

1) Abbiamo difeso e difendiamo l'Ucraina e il suo diritto di resistenza dalla guerra d'invasione dell'imperialismo russo, che era ed è anche il diritto ad usare a questo scopo gli aiuti militari (interessati) degli imperialismi NATO. La storia delle resistenze dei popoli oppressi ha mostrato un'infinità di volte il loro utilizzo a proprio vantaggio delle contraddizioni imperialiste. La resistenza irlandese alla Gran Bretagna usò l'appoggio tedesco, la resistenza etiope all'Italia usò l'appoggio britannico, la resistenza curda all'ISIS ha usato recentemente l'appoggio americano... Tutti gli appoggi erano interessati. Ma il loro uso è stato legittimo. Lo stesso vale per l'Ucraina.

2) La nostra difesa dell'Ucraina dalla guerra d'invasione russa non significa appoggio politico a Zelensky. Al contrario. Il governo borghese di Zelensky è contro i lavoratori a vantaggio degli oligarchi e degli imperialismi occidentali. La stessa gestione borghese della guerra ha contribuito ad accrescere le difficoltà della resistenza. Un'opposizione di classe in Ucraina deve battersi contro il governo Zelensky per misure anticapitaliste (esproprio dei capitalisti, cancellazione del debito verso il capitale finanziario, armamento operaio e popolare) e per una alternativa di governo (un governo dei lavoratori). È la lotta per una direzione di classe alternativa della resistenza all'invasione russa. Per una soluzione socialista della crisi ucraina.

3) Siamo contrari a ogni escalation interimperialista della guerra, a ogni invio di truppe NATO in Ucraina, a ogni rafforzamento e allargamento della NATO, a ogni incremento di spese militari degli imperialismi di casa nostra. Per questa stessa ragione non abbiamo rivendicato l'invio di armi all'Ucraina. L'Ucraina ha il diritto ad usarle per difendersi dalla guerra d'invasione dell'imperialismo russo, noi abbiamo il dovere di mettere in guardia (anche) i lavoratori ucraini dagli interessi predatori degli imperialismi NATO. A maggior ragione, se la guerra si trasformasse in uno scontro diretto tra la Russia e gli imperialismi NATO, con l'invio di truppe NATO in Ucraina (scenario ad oggi improbabile), la nostra posizione cambierebbe in direzione di un disfattismo bilaterale su entrambi i fronti.

4) La nostra soluzione di giusta pace ha rivendicato, sin dall'inizio della guerra, il ritiro delle truppe d'invasione russa dai territori annessi dopo il febbraio 2022, il diritto di libera autodeterminazione delle popolazioni del Donbass (che difendemmo dopo il 2014 dal governo reazionario ucraino post-Maidan), il riconoscimento dell'appartenenza della Crimea alla Russia (in quanto la sua popolazione è russa), la neutralità dell'Ucraina rispetto ai poli imperialisti. È una soluzione oggi distante dai rapporti di forza sul campo, e dai progetti dei principali attori. Ma è l'unica soluzione rispettosa dei diritti dei popoli. Altre soluzioni di pace possono rivelarsi, a certe condizioni, inevitabili. Ma sarebbero soluzioni imperialiste, patteggiate da predoni.

In conclusione. Su ogni versante e in ogni piega della guerra, il posizionamento dei marxisti rivoluzionari muove sempre da un'angolazione di classe, anticapitalista, internazionalista. È ciò che ci distingue dai campisti, dai pacifisti, dai riformisti, dai centristi di ogni declinazione ed estrazione. Ne siamo orgogliosi.

Partito Comunista dei Lavoratori

A sostegno della protesta pro Palestina nelle università

 


Giù le mani dagli studenti! Palestina libera!

Si diffonde la protesta nelle università italiane. Una protesta che unisce migliaia di studenti, docenti, ricercatori, contro la barbarie che si sta consumando a Gaza, dove giorno dopo giorno, in un crescendo di orrore e brutalità senza fine, uomini, donne, bambini vengono privati di cibo, casa, cure, e sono oggetto di una guerra di annientamento; mentre nella vicina Cisgiordania non si contano i rastrellamenti omicidi dell'esercito israeliano contro le forze della resistenza, uniti alla violenza squadrista dei coloni che sequestrano terre, distruggono case, promuovono il terrore contro i palestinesi residenti.

Di fronte a tutto questo, migliaia di studenti in tante università italiane hanno detto semplicemente “basta!”. Lo hanno detto in forme diverse: o contestando la partecipazione a conferenze universitarie di dichiarati esponenti della campagna sionista pro Israele, o interrompendo lezioni ordinarie per leggere e diffondere comunicati di denuncia, o facendo pacifica irruzione nei rispettivi senati accademici per prendere parola e avanzare richieste.
La richiesta comune è la fine della collaborazione delle università italiane con le università israeliane nel campo della ricerca scientifica, tecnologica, militare. Una richiesta sottoscritta da migliaia di docenti ed esponenti della cultura. Una richiesta che sosteniamo.

Contro la protesta studentesca si è prontamente levato il governo a guida postfascista. Giorgia Meloni si è detta preoccupata. Il suo cognato-ministro Lollobrigida ha denunciato il pericolo di un ritorno del terrorismo (!). La peggiore stampa reazionaria ha evocato l'intervento di polizia e carabinieri per "riportare l'ordine” nelle università. La ministra per l'Università Bernini, più cautamente, ha riunito i rettori in conclave per affidarsi alle loro autonome decisioni, inclusa quella di chiamare eventualmente la polizia. Su tutto primeggia l'appello solenne alla “democrazia”, alla “tolleranza”, al “rispetto delle opinioni”, assieme alla rituale denuncia dell'”antisemitismo risorgente”. Una denuncia che... in bocca agli eredi postfascisti dell'Olocausto fa una certa impressione.

La verità è che l'antisemitismo non c'entra nulla, come non c'entra nulla Giorgia Meloni con la democrazia. C'entra invece il sionismo, l'ideologia nazionalista reazionaria che supporta lo Stato d'Israele quale Stato coloniale, costruito sulla cacciata dei Palestinesi dalla loro terra. Un'ideologia che, identificandosi abusivamente con l'ebraismo, non solo ignora e calpesta la migliore tradizione storica di quest'ultimo, ma perciò stesso lo espone in tutto il mondo al rischio dei peggiori rigurgiti antisemiti.
Quando migliaia di studenti chiedono la fine della collaborazione con le università israeliane non chiamano affatto in causa gli ebrei. Chiamano in causa una forma di complicità e di sostegno allo Stato sionista, alla sua ricerca tecnologico-militare, alla sua azione di sequestro della terra, dell'acqua, del cibo, dei palestinesi. Complicità e sostegno che l'Italia continua ad assicurare ad Israele.

“Intolleranza”? Lo scandalo sta semmai nella tolleranza dell'azione genocida, da ormai cinque mesi, da parte della cosiddetta comunità internazionale. Quella che mentre piange lacrime ipocrite per l'”eccesso” di vittime civili a Gaza, continua ad armare lo Stato sionista, ripiana i suoi bilanci, gli mette a disposizione il fior fiore della ricerca. Migliaia di studenti non sono più disposti a tollerare tutto questo, né la negazione di tutto questo.

Di più. Migliaia di studenti oggi si chiedono: come è possibile che l'opinione pubblica mondiale sia a favore del popolo palestinese e invece le principali autorità del mondo difendono lo Stato d'Israele e la sua politica genocida, al punto persino da proibire o minacciare o manganellare le manifestazioni pro Palestina? Dove sta la democrazia, le sue promesse, la sua retorica, se i fatti la sbugiardano ogni giorno? Gaza diventa allora uno squarcio di verità sull'intero scenario del mondo.

E la verità è che la decantata “democrazia” è solo una finzione nella società borghese. Il potere reale si concentra nelle mani di una minoranza privilegiata di grandi azionisti, grandi manager, grandi capitalisti, e degli apparati statali al loro servizio. Il famoso diritto internazionale da tutti evocato è solo il diritto della forza degli Stati imperialisti, vecchi e nuovi, che lottano tra loro per la spartizione del mondo sulla pelle dei popoli oppressi e della maggioranza dell'umanità.

Il colonialismo è inseparabile dall'imperialismo. Il colonialismo sionista non a caso si è appoggiato prima all'imperialismo britannico e poi all'imperialismo americano, che oggi ne costituisce lo scudo assieme agli imperialismi europei. Quanto all'imperialismo russo, sta approfittando della guerra in corso in Palestina per proseguire la propria guerra d'invasione in Ucraina, mentre l'imperialismo cinese si allarga in Africa, in America Latina, e sul Pacifico.
Intanto la corsa gigantesca agli armamenti attraversa tutti i continenti e minaccia in prospettiva una nuova grande guerra.
Così va oggi il mondo. Né potrebbe andare diversamente, nel quadro del capitalismo.

Solo una rivoluzione socialista può liberare l'umanità e tutti i popoli oppressi dalla piaga del capitalismo e dell'imperialismo, e quindi da ogni forma di colonialismo e di guerra. Il sostegno ai palestinesi e alla loro resistenza può e deve connettersi a questa prospettiva storica di liberazione.

A maggior ragione oggi diciamo: giù le mani dagli studenti! Palestina libera!

Partito Comunista dei Lavoratori


ANCORA IL MANGANELLO AL SERVIZIO DEL SIONISMO

 


Il Partito Comunista dei Lavoratori esprime la propria incondizionata solidarietà alle studentesse e agli studenti che ancora una volta hanno subito la repressione violente delle forze del disordine.

È successo mercoledì davanti al Rettorato del Università di Bologna.

Oggi il PCL si associa alla legittima occupazione dello stesso Rettorato da parte delle giovani e dei giovani palestinesi

Stigmatizza il comportamento becero del rettore che ha impedito alle studentesse di esprimere la propria denuncia della complicità istituzionale, compresa quella dell’Università, del genocidio perpetrato dal regime sionista israeliano nei confronti del popolo palestinese, e contro la missione militare dell’imperialismo italiano nel Mar Rosso.

Ritiene indegno questo personaggio, con il suo comportamento da energumeno, a rappresentare il prestigioso ateneo.

Si è già scatenata a comando la canea politico mediatica filosionista che usa come una clava l’accusa di antisemitismo contro il movimento studentesco che solidarizza con la causa palestinese.

Si tratta di una vomitevole ipocrisia e di autentiche lacrime di coccodrillo.

Rigettiamo con forza questa accusa, e anzi rivoltiamo l’accusa di razzismo nei confronti dei mass media, del mondo politico e istituzionale che favoriscono obbiettivamente l’eccidio di un intero popolo.

A istituzioni criminali come queste e ai loro sgherri non si deve ubbidire. Bisogna solamente programmarne il rovesciamento verso una società socialista, l’unica in grado di tutelare il diritto di chiunque di autodeterminarsi, come individui e come popoli.

Nello stesso momento, la stessa canea con le medesime firme scatena un’ondata di odio razzista islamofobo senza precedenti nei confronti degli insegnanti della scuola di Pioltello rei ei di aver interrotto per un giorno le lezioni in occasione della fine del ramadan, dimostrando così in modo esemplare cosa vuol dire una scuola inclusiva e antirazzista.

Mentre il pericolo di antisemitismo viene sbandierato ipocritamente dalle forze eredi del regime fascista che perseguitò a morte gli ebrei, quelle stesse forze spandono il mefitico veleno del razzismo antislamico.

Avanti con la solidarietà al popolo palestinese e alla sua lotta di liberazione

Incondizionatamente a fianco della Resistenza dei partigiani palestinesi

Per la distruzione rivoluzionaria dello Stato di Israele

Per una Palestina, libera laica e socialista nell’ambito di una Federazione socialista del Medio-Oriente.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI - SEZIONE DI BOLOGNA

Le elezioni in Sardegna e la capitolazione della sinistra


 Sinistra Italiana e Rifondazione Comunista come ruote di scorta dei poli borghesi

Le elezioni regionali in Sardegna hanno registrato una sconfitta politica di Giorgia Meloni. Sul terreno strettamente elettorale le liste della destra hanno persino ampliato la propria percentuale di voto rispetto al risultato delle elezioni politiche del 25 settembre 2022. Ma l'impopolarità del candidato Paolo Truzzu, in particolare a Cagliari, ha zavorrato la coalizione trascinandola nel burrone.
Giorgia Meloni si era intestata sia il candidato sia la campagna elettorale, con punte di esibizione macchiettistica nella volata finale. La sconfitta di Truzzu è dunque a suo carico. Investe le relazioni interne alla destra e intacca l'immagine pubblica della premier. Meloni cerca naturalmente di minimizzare la valenza del risultato. Salvini ne approfitta per rilanciare la carta del terzo mandato per Zaia e i governatori del Nord, cercando di sopravvivere alla disfatta del proprio progetto di Lega Nazionale (“Per Salvini premier”). Nessun immediato terremoto in vista, beninteso, ma le acque della coalizione si increspano, in attesa del voto in Abruzzo.

La coalizione tra PD, M5S e Alleanza Verdi-Sinistra ha capitalizzato il tonfo di Truzzu. La candidata pentastellata Alessandra Todde ha beneficiato di un voto più largo di quello della sua coalizione, non senza l'apporto del voto disgiunto targato Lega e Partito Sardo D'Azione.
Il successo politico è stato in ogni caso superiore al successo elettorale. Non ha risolto né poteva risolvere le contraddizioni che attraversano il centrosinistra su scala nazionale, a partire dalla lotta tra PD e M5S per l'egemonia. Ma ha rafforzato Schlein all'interno del PD, disarmando per il momento i malumori interni sul terzo mandato, ed ha legittimato ruolo e ambizioni di Conte.
L'apertura di Calenda al centrosinistra dopo il fallimento dell'operazione Soru è un ulteriore portato del risultato sardo. L'alleanza borghese di liberalprogressisti, liberalconfindustrali e pentastellati rafforza in prospettiva la propria candidatura all'alternanza, in una logica bipolare. È, in prospettiva, un possibile governo di ricambio del capitalismo italiano, in un quadro NATO ed europeista. Il sostegno di PD e M5S alla missione navale nel Mar Rosso, in appoggio allo Stato sionista, riassume la loro natura.

Ciò che invece le elezioni sarde confermano impietosamente è l'assenza di una sinistra autonoma e alternativa ai poli borghesi.
Sinistra Italiana, in compagnia dei Verdi, rafforza il proprio ruolo di ancella subalterna del polo borghese liberale. L'unica vera preoccupazione di Fratoianni era di essere svuotato elettoralmente dall'effetto Schlein e di essere dunque scaricato dalla prossima coalizione di governo. Il 4% e rotti lo ha rassicurato su entrambi i fronti, come il fatto che Calenda non ponga problemi circa la presenza di Alleanza Verdi-Sinistra (AVS) in coalizione. La larga intesa in Abruzzo da AVS a Calenda, e persino a Italia Viva di Renzi, è in questo senso per Fratoianni un successo strategico.

Quanto a Rifondazione Comunista si è coalizzata con... Azione e +Europa di Emma Bonino attorno alla candidatura del padrone di Tiscali Renato Soru. Per noi nessuna meraviglia. Rifondazione Comunista è stata nella giunta di Renato Soru dal 2004 al 2009. Il suo segretario regionale ha rivendicato pubblicamente non a caso l'esperienza di governo con Soru per tutta la campagna elettorale, ringraziando Soru per il riconoscimento di Rifondazione. Il fatto che Soru, in perfetta coerenza con la propria natura padronale, abbia fatto una campagna elettorale denunciando il reddito di cittadinanza come assistenziale, col plauso naturale di Calenda e Bonino, non ha turbato Rifondazione. L'importante per Rifondazione era il proprio riconoscimento da parte di Soru. Penoso.
Non meno penosa l'assenza di una sola parola sul sito nazionale del PRC circa le elezioni in Sardegna. Delle due l'una. O la scelta di Soru era condivisa (o comunque coperta) dalla Segreteria nazionale, e allora era corretto rivendicarla e intestarsela, oppure non lo era, e allora occorreva dissociarsi. Il silenzio è l'opportunismo peggiore, che i militanti del PRC non si meritano.

La battaglia per un partito indipendente della classe lavoratrice sulla base di un programma anticapitalista è l'unica vera risposta alla capitolazione della sinistra politica. Il PCL è oggi l'unico partito che si batte controcorrente, con coerenza, per questa prospettiva. Costruiamolo insieme.

Partito Comunista dei Lavoratori

Il governo dei manganelli alla prova della Palestina

 


Si allarga il divario tra le politiche filosioniste e il sentimento pubblico

Le cariche poliziesche a Pisa e Firenze contro manifestazioni studentesche pro Palestina hanno scosso ampi settori di opinione pubblica. L'immagine diretta della violenza repressiva ha suscitato una reazione diffusa di sdegno. Il Presidente della Repubblica, che il giorno stesso delle cariche poliziesche aveva censurato come «inaccettabile violenza»... il manichino di stoffa bruciato di Giorgia Meloni, ha cercato di riequilibrare la propria immagine con ventiquattro ore di ritardo parlando del ricorso al manganello come fallimento dello Stato.

La verità è che il governo a guida postfascista ha inaugurato una stagione nuova nel rapporto con la piazza. Un rapporto selettivo, naturalmente, a seconda della base sociale coinvolta. Le manifestazioni dei trattori hanno potuto bloccare ripetutamente le strade con relativa facilità, trattandosi della base sociale del governo, seppur contesa tra Fratelli d'Italia e la Lega. Lì la polizia non si è mossa. Quando la base sociale è diversa, diverso è l'intervento dello Stato. Che si tratti dei rave party, degli ambientalisti, dei picchetti operai, degli studenti, lì scatta ripetutamente il riflesso d'ordine degli apparati di sicurezza.
Non c'è bisogno sempre di una direttiva esplicita di Piantedosi, che forse in qualche caso avrebbe persino desiderato di evitare grane. Si tratta del comportamento indotto oggettivamente dal nuovo quadro politico. Il poliziotto si sente incoraggiato dalla presenza al governo, finalmente, degli “amici della polizia”. Da qui un senso di copertura e legittimazione che libera la facilità del manganello, cui si aggiunge la corsa di Lega e Fratelli d'Italia ad intestarsi, in reciproca concorrenza, il plauso della polizia. «Chi tocca un poliziotto o un carabiniere è un delinquente» afferma Salvini dopo i pestaggi per fare da controcanto a Mattarella. È la politica legge e ordine come marchio identificativo della destra.

E tuttavia nei fatti di Pisa e Firenze non c'è solo questo. C'è anche il riflesso indiretto della pressione sionista e del clima generale cui questa concorre.
L'ambasciata israeliana, come peraltro in altri paesi, sta moltiplicando le pressioni istituzionali per delegittimare le manifestazioni pro Palestina. Siamo (ancora) molto lontani dal livello di Germania e Francia, dove la stessa libertà di manifestazione viene abolita o chiamata in causa. Lo dimostrano le mille manifestazioni pro Palestina che si sono svolte liberamente in questi mesi. E tuttavia cresce una campagna intimidatoria, a partire da scuole e università, tesa a rappresentare ogni espressione di antisionismo come sospetto antisemitismo da censurare ed eventualmente reprimere. Basta vedere cosa è accaduto sul palco di Sanremo con la censura a Ghali, e davanti alle sedi della Rai, con pestaggi polizieschi esibiti e rivendicati. Lo stesso intervento del ministro Valditara contro le occupazioni studentesche ha tratto spunto, guarda caso, da occupazioni intitolate (anche) alla solidarietà verso la Palestina. Così a Pisa si è detto che il manganello era necessario per difendere la sinagoga dai facinorosi «amici di Hamas» (Donzelli). Una specifica circolare del ministero degli Interni, dopo il 7 ottobre segnalava peraltro alle forze di polizia il rischio di obiettivi sensibili da tutelare.

Gli ambienti della borghesia liberale mostrano disappunto verso questa politica repressiva. La loro principale preoccupazione è che possa incendiare gli animi e radicalizzare i giovani. È una preoccupazione dal loro punto di vista assolutamente fondata. E tuttavia si tratta degli stessi ambienti borghesi che sostengono con entusiasmo la politica estera filosionista del governo Meloni, che ospitano sulle proprie pagine apologie incantate di Israele (vedi Corriere della Sera e Repubblica), che appoggiano la missione navale imperialista a guida italiana sul Mar Rosso, che invocano pubblicamente la massima unità nazionale tricolore attorno a questa politica contro ogni possibile defezione. In altri termini, l'opposizione borghese liberale al governo Meloni, e al suo manganello, è la stessa che gli assicura una preziosa cintura di sicurezza. Il cosiddetto Piano Mattei, le nuove ambizioni dell'imperialismo italiano in terra d'Africa, i programmi di riarmo accelerato dell'Italia per mettersi al passo delle nuove sfide mondiali conoscono proprio in quegli ambienti la massima celebrazione. Basti vedere l'orientamento strategico della rivista Limes di Lucio Caracciolo. Il governo e i suoi metodi repressivi si avvantaggiano di questo sostegno.

E tuttavia il fronte borghese ha un problema che si chiama proprio Palestina. Cresce infatti ogni giorno il divario tra l'isteria filosionista della borghesia italiana e il senso comune dell'opinione pubblica, in particolare tra i giovani. L'orrore quotidiano delle politiche genocide nella terra di Gaza, le crudeltà dell'occupazione sionista in Cisgiordania, suscitano un naturale senso di identificazione nella causa palestinese nella maggioranza della società. Le manganellate e le censure contro le manifestazioni pro Palestina contribuiscono a rafforzarlo.
Il movimento operaio deve entrare finalmente sulla scena per prendere la testa di questo sentimento giovanile. Dare a questo sentimento una coscienza politica e una prospettiva programmatica – antisionista, antiimperialista, anticapitalista – è il compito dei marxisti rivoluzionari.

Partito Comunista dei Lavoratori

La nostra solidarietà a Ghali


 Diamo la nostra piena solidarietà al rapper Ghali che dal palco di Sanremo, nel più totale silenzio del mondo dello spettacolo, ha avuto la sensibilità e il coraggio di denunciare il genocidio in corso a Gaza. Una denuncia autentica, sentita, profondamente umana.


La reazione isterica dell'ambasciatore d'Israele, che censura la presa di posizione del cantante nel nome della denuncia del 7 ottobre, misura ancora una volta l'arroganza cinica del sionismo, che capovolgendo la realtà presenta ogni legittima resistenza palestinese all'oppressione sionista, quali che siano le sue direzioni e le sue forme, come ragione dei propri crimini mostruosi.
Abbiamo sempre criticato la natura politica di Hamas, ma Hamas è parte della resistenza palestinese, e la resistenza è un diritto di ogni popolo oppresso. Tanto più contro un'occupazione che ha un secolo di storia alle proprie spalle, e che oggi rivela una volta di più, in particolare a Gaza, tutta la propria criminalità genocida: con decine di migliaia di morti, innanzitutto bambini, il 70% di case distrutte, la privazione di acqua, cibo, medicine, fosse comuni di palestinesi bendati, prigionieri esibiti nudi su carri bestiame, uno scenario di orrore senza fine.
Il più crudo atto di resistenza all'oppressione, anche nei suoi aspetti più discutibili, è nulla di fronte a tutto questo.

Ancora più scandaloso, se possibile, è il pronto sostegno alla censura sionista da parte dei vertici della Rai, che hanno sentito il bisogno di rassicurare l'ambasciata sionista circa la linea editoriale filoisraeliana dell'informazione pubblica. Da sempre la Rai e i media hanno rivelato una cinica indifferenza di fronte all'oppressione quotidiana del popolo palestinese. Di più, hanno sempre coperto e giustificato i crimini sionisti contro civili, donne, bambini, e le responsabilità delle potenze imperialiste nel loro sostegno determinante ad Israele. Il fatto che oggi partecipino in prima persona alla pubblica censura di Ghali misura una volta di più il loro squallido servilismo verso il sionismo.

A maggior ragione ribadiamo la nostra solidarietà a Ghali. Ci auguriamo che la sua denuncia aiuti a rendere ancor più partecipata la manifestazione del 24 febbraio a Milano, a sostegno del popolo palestinese e della resistenza palestinese.

Partito Comunista dei Lavoratori

Ennesimo suicidio nei CPR. No alle prigioni di stato! Abbattiamo i muri del capitale!

 


"Se un giorno dovessi morire, vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta (…) I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. Mi manca molto la mia Africa e anche mia madre. Non c’è bisogno di piangere su di me, la pace sia con la mia anima e che io possa riposare in pace."


Con queste parole, scritte sul muro della sua prigione di Ponte Galeria, Ousmane Sylla, guineano di 22 anni, si è sottratto alla reclusione insensata e crudele inflittagli dallo stato italiano negli ultimi mesi della sua vita. Una reclusione dovuta al suo aver varcato i confini di questo paese, e solamente a questo. Ousmane si trovava in un CPR. Non aveva quindi commesso alcun reato. Era recluso in quanto privo di lavoro, e quindi di permesso di soggiorno.

Con queste parole Ousmane, senza saperlo, risponde anche a Giorgia Meloni e alla sua Africa immaginaria, l'Africa di quel Piano Mattei che dovrebbe tradurre in pratica l'"aiutiamoli a casa loro", cioè l'Africa fantasticata e propagandata a uso e consumo di quella classe capitalista europea che, a suon di prestiti e investimenti, si accinge a spolpare l'osso lanciato dal neocolonialismo dal volto meloniano.

Non c'è nulla di nuovo, in questo ultimo ordinario suicidio di Stato, che lo differenzi dalle decine di altri che sono già avvenuti negli oltre venticinque anni di esistenza degli infami Centri di Permanenza per i Rimpatri, lascito politico del Padre della Patria Giorgio Napolitano, ministro del centrosinistra di Romano Prodi (legge Turco-Napolitano), rimasti in vita con peggioramenti successivi sin dal 1998.
Nulla di nuovo nella modalità in cui il giovane era stato ritenuto idoneo a una permanenza nel CPR. Nulla di nuovo nell'iter burocratico che aveva eliminato ogni possibilità di una sua uscita. Nulla di nuovo nelle proroghe successive, che avevano trasformato la sua detenzione in un incubo che era apparso ai suoi occhi, e che era, senza fine. Nulla di nuovo nella constatazione dell'humus di corruzione del luogo e delle istituzioni coinvolte ("i militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro"). Nulla di nuovo neanche nella solitudine e nello strazio con cui la sua vita è giunta a conclusione, fra abbandono, assenza di cure e controllo, ritardo nei soccorsi, impossibilità di prevenzione.

Non poteva esserci nulla di nuovo perché l'inferno della cosiddetta detenzione amministrativa non può che generare solo, e sempre, la morte di chi non riesce a trovare abbastanza forza per poter a quell'inferno sopravvivere.
Ousmane quella forza non l'ha trovata, perché anche di quella forza è stato privato.

Non esiste un caso "CPR di Milano" o "di Potenza", "di Trapani", "di Macomer", "di Gradisca" o "di Roma": esiste solo un caso "CPR" e "detenzione amministrativa". Facciamo nostre le parole della Rete Mai più Lager - No ai CPR.
Ciò significa, per noi, che non può esserci lotta allo strumento CPR, al suo fine e alla sua logica, se non riconoscendo la loro natura stessa di dispositivo atto a selezionare, smistare, ed eventualmente ed eccezionalmente sopprimere, quella particolare merce che è la forza lavoro importata in questo paese. Ciò vuol dire, semplicemente, affrontare la regolamentazione capitalistica del lavoro immigrato, "regolare" o "irregolare," in Italia e in Europa.

La lotta ai CPR nel nome dello stato di diritto equivale a lottare contro il capitalismo nel nome della bontà d'animo (1). Come se non fosse già il testo della legge a prescrivere che nei CPR (e nelle altre strutture simili) «lo straniero deve essere trattenuto con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità». Come se, una volta che si dovesse mai riuscire ad ottenere (ammesso che ciò sia possibile) il rispetto della dignità umana dei detenuti e la trasformazione dei meccanismi di funzionamento dei CPR, il problema sarebbe risolto.

Al contrario. La lotta ai CPR chiama in causa i lavoratori in quanto tali, immigrati e nati in Italia. Chiama in causa i sindacati. Chiama in causa un programma che unifichi le lotte in difesa delle condizioni di lavoro, del salario, con le lotte per i diritti di chi vive e chi arrivi in Italia.
La lotta ai CPR è una lotta a questo modello di società, una società che innalza muri intorno alle persone mentre li abbatte intorno alle merci e al denaro. La lotta ai CPR è la lotta al capitalismo.




(1) Ci chiediamo che senso abbia, da comunisti, parlare di «assenza di titoli per cui si è presenti nel territorio nazionale» come di una «condizione» da dover affrontare e sanare con non meglio precisati «processi di regolarizzazione». È proprio il concetto di "titolo per poter essere sul territorio nazionale" che va respinto, in quanto cardine della logica criminale e criminogena, oltre che reazionaria in sé, della irregolarizzazione (e clandestinizzazione) dei migranti. Da comunisti e anticapitalisti, la parola d'ordine dovrebbe essere: abbasso le frontiere, no alla divisione dei migranti e alla criminalizzazione, accoglienza di tutti e tutte coloro che cercano migliori condizioni di vita

Partito Comunista dei Lavoratori

La classe operaia argentina torna in campo


 Lo scorso 24 gennaio uno sciopero di massa ha bloccato l’Argentina contro le politiche reazionarie del presidente ultraliberista di destra di Milei, ma anche contro la volontà politica del governo argentino di dare seguito e farsi promotore e vassallo delle politiche del Fondo Monetario Internazionale, che hanno strangolato e continueranno a strangolare i settori popolari del paese sudamericano.


Javier Milei si era presentato come la faccia antisistema, con una retorica cosiddetta anarcocapitalista e anticasta; invece, ha da subito dimostrato che per lui e la destra l’unica “casta” da sfruttare è il popolo. Infatti, l’offensiva di Milei si è subito palesata con la svalutazione del peso e l’idea per ora non realizzata di dollarizzare l’economia argentina, passando per l’eliminazione dei sussidi statali per energia, trasporti e acqua.

In Argentina la svalutazione era già galoppante, e le attuali politiche della destra mileista stanno determinato un ulteriore aumento vertiginoso dei prezzi dei generi alimentari. Inoltre, uno dei motivi che hanno favorito la discesa in campo della classe lavoratrice è stato l’annuncio che i dipendenti pubblici con meno di un anno di anzianità non vedranno rinnovati i loro contratti, andando ad ingrossare le file dei disoccupati.

Nonostante l’autentica marea umana presente – le immagini di Buenos Aires erano impressionanti – il governo della borghesia continua nella sua offensiva con l’emanazione del Decreto de Necesidad y Urgencia (1), un vero e proprio paradigma antioperaio con forma giuridica. Nel decreto, tra le altre misure capestro, si legifera sulla limitazione del diritto di sciopero, sull’abrogazione delle leggi di monitoraggio dei prezzi, sulla privatizzazione delle aziende statali quali Aerolineas Argentinas e YPF (2). Il DNU cancella i regolamenti sulla proprietà terriera, i controlli sulle esportazioni estere e taglia le spese per la previdenza sociale.

Il governo argentino ha adottato come corollario al DNU, o meglio come deterrente alle manifestazioni di massa, un protocollo antiprotesta, firmato dalla ministra della sicurezza Patricia Bullrich, al fine di reprimere le lotte, fino all’impedimento fisico di manifestare, arrivando ad arrestare i manifestanti, senza bisogno di un mandato giudiziario e comminando multe per le stesse azioni attuate dai manifestanti.

L’obiettivo della classe lavoratrice argentina deve essere quello di sconfiggere il “piano motosega” di Milei e il FMI, segnalando contestualmente le responsabilità del peronismo che hanno portato al ripudio popolare del governo, dando sfortunatamente a Milei il ruolo di personaggio politico di alternativa.
La crisi la devono pagare i padroni e i banchieri, opponendo al programma capitalista un piano alternativo e popolare che preveda un aumento immediato, in emergenza, dei salari e delle pensioni, finanziando tali misure con il rifiuto di pagare il debito estero e i piani di finanziamento del FMI.
Inoltre, bisogna imporre forti imposte alle imprese nazionali e multinazionali, salvaguardando il carattere pubblico delle imprese statali e nazionalizzando le imprese pubbliche privatizzate.
Questo programma potrà essere portato avanti solo da un governo di lavoratrici e lavoratori, unico soggetto in grado di migliorare le attuali condizioni del proletariato argentino. Per questo obiettivo marcia il Frente de Izquierda y de Trabajadores (Fronte di Sinistra e dei Lavoratori), unico attore politico realmente alternativo e rappresentativo degli interessi sociali e politici delle lavoratrici e dei lavoratori argentini.




(1) Il Decreto è assimilabile ad un Decreto Legge italiano, per mezzo del quale il governo legifera sulla base della necessità ed urgenza.

(2) Rispettivamente la compagnia di bandiera dell’aviazione civile e l’impresa petrolifera di stato

Lukas Vergara

Marcelo Nowerzstern (Roberto Gramar)


 Mercoledì 31 gennaio ci ha lasciato il compagno Marcelo Nowerzstern, più conosciuto col suo nome politico di Roberto Gramar, fondatore e a lungo dirigente del Partido Obrero (PO) argentino (alla sua epoca, Politica Obrera) e successivamente, nell’emigrazione in Francia e rimanendo sempre legato al PO, del Nuova Partito Anticapitalista (NPA) e della sua tendenza di sinistra Anticapitalisme & Révolution (A&R).

Alcuni tra i compagni più vecchi (di militanza) del partito se lo ricordano perché intervenne al primo congresso del nostro partito, nel 2008. Pochi altri per averlo incontrato a una delle Feste annuali di Lutte Ouvrière a Parigi.

Marcelo è morto di tumore all’età di 82 anni, dopo una vita tutta spesa per la rivoluzione.
Giovanissimo militante socialista, poi del gruppo di estrema sinistra antistalinista (ma non trotskista) centrista Praxis, nel 1961, all’età di 19 anni ne uscì con altri sei giovani compagni, tra cui Jorge Altamira, per dar vita ad un gruppo intorno ad una piccola rivista dal nome di Politica Obrera. Tre anni dopo, nel 1964, rafforzatasi con altri militanti, Politica Obrera si costituì in vera e propria organizzazione. Marcelo ne era uno dei principali dirigenti accanto a Jorge Altamira. Ma benché i due apparissero allora come una specie di coppia di amici personali o politici, i caratteri dei due compagni non potevano essere più distanti (perlomeno se erano già quelli che abbiamo conosciuto in anni successivi). Autocentrato e bonapartistico Altamira, convinto di avere tutte le verità in tasca, anche se irrispettoso solo verso i deboli e non verso chi gli teneva testa. Aperto, democratico e senza manie di grandezza, con un carattere che lo faceva amare da tutti, Marcelo.

All’inizio degli anni ’70 fu tra coloro che allargarono la visione nazionale del PO, ponendolo in contatto con il Partito Operaio Rivoluzionario (POR) di Bolivia diretto da Guillermo Lora e poi con la corrente lambertista (dal suo dirigente principale Pierre Lambert) che nel 1972 diede vita con appunto PO e il POR al Comitato d’Organizzazione per la Ricostruzione della Quarta Internazionale (CORQI). Con impegno internazionalista si trasferì con la sua compagna di tutta una vita Ester (con cui ebbe due figlie in quegli anni) in Cile nel 1971, al momento della presidenza Allende, per cercare di costruire un'organizzazione trotskista conseguente in quel paese. Riuscì in effetti a costruire una piccola organizzazione centrata sulla città di Concepción, la Organizzazione Marxista Rivoluzionaria (OMR), che fu travolta dalla repressione golpista, a eccezione di una cellula di giovani portuali che si mantenne per più di un decennio nella clandestinità.

Marcelo si trovava casualmente a Buenos Aires, ma Ester era in Cile e fu arrestata. Dopo un mese, però, essendo straniera, fu espulsa con altri argentini.
È proprio dopo il golpe, nel novembre del 1973, che Marcelo rappresentò il PO ad una riunione del CORQI, largamente dedicata proprio all’esperienza cilena, e fu lì che chi scrive lo incontrò per la prima volta.
Poiché su decisione congiunta del PO e del CORQI Marcelo fu assegnato al lavoro tra gli esuli cileni, la maggioranza dei quali erano rifugiati in Europa, Marcelo si trasferì a Parigi, come funzionario del CORQI, per dedicarsi a questa attività.
La questione si complicò e assunse aspetti drammatici perché Ester, che doveva partire più tardi per raggiungerlo, fu bloccata all’aeroporto di Buenos Aires e imprigionata sotto l’accusa di far parte di un'organizzazione guerrigliera, anzi di esserne una coordinatrice internazionale nel Cono sud dell’America Latina. Fortunatamente si era prima del golpe militare del marzo 1976, e dopo pesantissimi mesi di prigione con altri prigionieri fu rilasciata ed espulsa, e poté riunirsi con Marcelo e le sue figlie a Parigi.

Nel 1979 Lambert e la sua organizzazione (Organizzazione Comunista Internazionalista, OCI, che dominava il CORQI) decisero di attuare una manovra di unificazione con la corrente detta morenista (dal suo lider maximo Nahuel Moreno), che veniva dalla rottura col Segretariato Unificato della Quarta Internazionale. La presenza del PO, storico avversario politico dell’opportunismo morenista in Argentina, creava evidentemente un problema a tale manovra, per cui, con gli inqualificabili metodi loro propri, i lambertisti cominciarono ad attaccare e poi calunniare il PO, arrivando ad espellerlo dal CORQI nonostante questo gli costasse la rottura anche con il POR e altre organizzazioni minori. Tutto questo in un momento in cui la situazione in Argentina, sotto la dittatura di Videla, era al punto più tragico.

Marcelo naturalmente fu licenziato da funzionario, riuscendo però fortunatamente a trovare presto un nuovo lavoro. Nel frattempo partecipava alla piccola cellula del PO in Francia, partecipando in primo luogo all'azione di solidarietà con i militanti latinoamericani vittime delle varie dittature allora esistenti. Nello stesso periodo riprese il contatto tra noi e le organizzazioni interazionali di cui facevamo parte, da un lato, e il PO, inizialmente via Parigi e tramite soprattutto Marcelo. Contatti facilitati anche dall'estrema gentilezza fraterna di Marcelo e Ester, che finché fu possibile (prima cioè dell’aggravarsi delle condizioni di salute di Marcelo) ospitarono in occasione dei suoi viaggi a Parigi chi scrive nel loro appartamento della periferia della grande metropoli.

Con il ritorno della democrazia borghese in Argentina, Marcelo ritornò per un periodo in Argentina, riprendendo a militare in quello che era diventato il Partido Obrero. Ma ciò non durò a lungo. Ester e le sue figlie, ormai adolescenti e inserite nell’ambiente parigino, erano rimaste in Francia. Dopo circa un anno, anche Marcelo rientrò in Francia. Poiché il PO, con una scelta certo strana per un'organizzazione trotskista, non ha mai avuto una politica di costruzione in situazioni nazionali a partire da piccoli nuclei, il lavoro di politico di Marcelo si limitò per diversi anni al sostegno al PO, anche come suo corrispondente dalla Francia (più qualche rientro breve in Argentina) e alla solidarietà internazionalista. Ma Marcelo era troppo uno spirito politico attivo. Così, vincendo l’approccio limitato di Altamira e, per quanto ci riguarda, con il nostro pieno sostegno, decise circa vent'anni fa di entrare nella sezione del Segretariato Unificato, la Lega Comunista Rivoluzionaria (LCR), poi trasformatasi in NPA. Naturalmente lo fece in difesa di posizioni trotskiste conseguenti, e quando queste si espressero in una battaglia di tendenza partecipò alla vita della sua sinistra (A&R), non solo come militante ma come dirigente, logicamente rispetto alle sue qualità politiche. Infatti nell’unica occasione in cui A&R elesse un proprio esecutivo nazionale, nel 2015, Marcelo fu uno dei suoi nove componenti. E sempre in rappresentanza di A&R fu eletto nel Comitato Nazionale del NPA. È tanto più significativo questo suo impegno perché da diversi anni Marcelo soffriva e si curava per un tumore.

Nel 2017 scoppiò uno scontro del tutto imprevisto e imprevedibile nel PO. Finalmente la maggioranza del suo gruppo dirigente si ribellò al dominio bonapartistico di Altamira, ponendolo in minoranza, fino a portarlo a una scissione nel 2019. Con sorpresa forse di Altamira ma certo non nostra, Marcelo e Ester scelsero senza esitazione la parte giusta, ossia la maggioranza del partito.
Negli ultimi anni il peggiorare delle condizioni di salute obbligò Marcelo a ridurre sempre di più l’attività politica. Questo fu molto negativo per A&R e per noi, in parte politicamente ma soprattutto sul terreno dei rapporti. Perché, anche per la storia comune, Marcelo era certamente il compagno di A&R più vicino a noi. Rispetto allo stesso PO e alle nostre divergenze con esso, non su tutte le questioni importanti ma certo su alcune di esse (l’analisi catastrofista della situazione mondiale, le posizioni confuse e contraddittorie sul processo di restaurazione del capitalismo in Russia e Cina), era più vicino a noi che al PO.

La scomparsa del compagno Marcelo è quindi una grande perdita, per noi come per il PO, in termini politici. Ma soprattutto è una enorme perdita umana per tutti quelli che lo hanno conosciuto. Compensata da una vita piena, felice accanto a Ester per sessant'anni, sempre il lotta per l’avvenire socialista.

Addio Marcelo.

Franco Grisolia

La nota congiunta di Tajani e Weber. Corsa alle armi e lotta tra gli imperialismi

 


Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha annunciato la creazione di una riserva militare ausiliaria con «compiti di sicurezza interna ed esterna» di diecimila unità. Parallelamente il governo ha varato un decreto che accelera la procedura decisionale circa l'impiego estero di forze della Difesa «per il loro immediato impiego operativo». Non c'è ovviamente una connessione diretta tra le due decisioni, ma c'è sicuramente una relazione di fondo. Le nuove ambizioni della politica estera italiana si dotano di nuovi strumenti. Si tratta dell'effetto di trascinamento del nuovo contesto internazionale.


Un esercito e più investimenti strategici. Per l'Europa è l'ora della Difesa comune”: è il titolo della nota congiunta (28 gennaio) del ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani e del Presidente del Partito Popolare Europeo Manfred Weber.

«La stella polare è la NATO... Ma gli alleati transatlantici saranno al nostro fianco solo se anche noi europei saremo disposti a fare la nostra parte. Negli ultimi dieci anni Paesi come Russia e Cina hanno aumentato i loro bilanci per la difesa rispettivamente di quasi il 300% e il 600%. Le forze armate statunitensi hanno speso oltre 800 miliardi di dollari nel 2022. Al contrario, la UE a 27 ha aumentato collettivamente la spesa per la difesa del 20%, arrivando a un livello di poco superiore ai 200 miliardi». Da qui la petizione a favore di un rapido sviluppo del militarismo per una «vera Difesa europea».

Tre sono i passi proposti: «aumentare la capacità di produzione di armamenti, attraverso iniziative militari congiunte. Razionalizzare e unire il più possibile la spesa per risparmiare, puntando a un mercato unico per la Difesa. [...] sviluppare [a lungo termine] una vera “Unione europea di difesa” con forze integrate di terra, mare e aria. [...] Abbiamo creato l'Euro: è stato un successo. Dobbiamo far nascere politica estera e Difesa comune: oggi è una necessità assoluta».

Naturalmente occorre sfrondare la nota delle ridondanze retoriche, tanto più alla vigilia delle elezioni europee: i paesi imperialisti dell'Unione Europea hanno interessi distinti e concorrenziali in molti campi, incluso quello dell'industria militare; si contendono le aree di influenza in diversi scacchieri internazionali (dal Nord Africa al Medio Oriente ai Balcani); non hanno la stessa postura nel rapporto con l'imperialismo egemone USA. La strada di un superimperialismo europeo è e resta dunque disseminata di mine. Un conto era unire gli stati americani in una unica federazione nell'epoca preimperialista, un altro è unire su basi federali Stati imperialisti del vecchio continente con tradizioni nazionali consolidate e rivali.

E tuttavia sarebbe sbagliato non cogliere il significato della nota congiunta. Stretti nella morsa tra il vecchio imperialismo dominante USA e le nuove potenze imperialiste di Cina e Russia, gli imperialismi nazionali europei cercano di recuperare un proprio spazio. Lo possono fare alla sola condizione di accrescere la propria potenza militare. E possono accrescerla a condizione di concertare le rispettive risorse ad un livello più avanzato dell'attuale. Non sappiamo se vi riusciranno, ma sappiamo che le forze politiche centrali dell'establishment continentale (il Partito Popolare Europeo in primis) rivendicano pubblicamente questo intento.

Si conferma una volta di più l'attualità di Lenin del 1915: su basi capitaliste gli Stati Uniti d'Europa o sono impossibili o sono reazionari. Proprio così. Potremmo anzi dire che l'attuale Unione Europea condensa già oggi entrambi gli aspetti. L'unificazione federale è impedita dalle contraddizioni nazionali, ma ogni passo unitario implica la crescita del militarismo. Le sciocchezze che circolano a sinistra su una possibile Unione Europea “di pace” sono contraddette sempre più dall'evidenza.

L'indebolimento dell'imperialismo USA sulla scena mondiale, unito alle ambizioni degli imperialismi rivali, rafforza la linea di tendenza degli imperialismi europei. Essi non hanno dubbi sulla propria collocazione nell'Alleanza Atlantica. Ma sanno e sentono che la vecchia rendita di posizione della tutela militare USA non è più garantita nel futuro storico come lo è stata nel passato.
La nuova lotta tra le potenze per la spartizione del mondo pone gli imperialismi europei di fronte a un bivio: o la rassegnazione al proprio declino o lo sviluppo della propria forza militare.

In questo quadro l'imperialismo tricolore cerca un ruolo. «L’Italia, che ha la Presidenza del G7 per il 2024, nei prossimi mesi avrà un ruolo chiave nel trovare con gli alleati risposte politiche alle richieste europee. E potrà imprimere un’accelerazione proprio sulla Difesa europea, da intendersi come pilastro europeo della Nato, anche avendo a mente l’appuntamento chiave del vertice dell’Alleanza di Washington in luglio». A buon intenditor poche parole.

Partito Comunista dei Lavoratori