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Renzi, Berlusconi, Salvini, Di Maio: il fronte unico contro i salariati

La campagna elettorale è formalmente agli inizi, ma ha già rivelato la sua cifra: un fronte unico di tutti i partiti dominanti contro i lavoratori salariati. 
Renzi, Berlusconi, Salvini, Di Maio, apparentemente gli uni contro gli altri armati, sono in realtà accomunati da due indirizzi di fondo: una ulteriore riduzione delle tasse per i capitalisti e il rispetto dell'Unione Europea e dei suoi vincoli. La risultante del combinato disposto è una sola: un'ulteriore aggressione al lavoro salariato, privato e pubblico.
Basta semplicemente far di conto, sfrondando la confezione delle parole e andando a guardare qual è la merce.

In fatto di tasse, Renzi rilancia sulle decontribuzioni ai padroni, Berlusconi e Salvini gareggiano su una flat tax la più bassa possibile, Di Maio offre di fatto maggiore libertà di evasione (“basta controlli fiscali”) e abolizione dell'Irap. Ma parliamo in ogni caso di una nuova massiccia detassazione del capitale, in linea con la tendenza degli ultimi trent'anni, e col nuovo corso della politica fiscale sul piano mondiale (riforma fiscale di Trump, May, Macron...).
Anche in fatto di UE, tutti giocano alla “rinegoziazione delle regole” con posture diverse: Renzi offre un allungamento dei tempi del Fiscal Compact, Berlusconi e Salvini si contendono la tutela del made in Italy dalla concorrenza straniera, Di Maio chiede la revisione del tetto di deficit del 3%. Ma tutti sono paladini dell'Unione Europea capitalista, inclusi i sovranisti (ugualmente truffaldini) di ieri. E quindi tutti accettano il pilastro strutturale su cui la UE si fonda: la riduzione progressiva del debito pubblico, attraverso il suo pagamento, a garanzia delle banche creditrici (nazionali ed estere).

Bene. Qual è la risultante annunciata di un'ulteriore e massiccia riduzione delle tasse per i capitalisti, combinata con la prosecuzione del pagamento del debito pubblico (per di più a fronte del prevedibile innalzamento dei tassi di interesse sui titoli a seguito della cessazione della pioggia d'oro della BCE)? È molto semplice: una nuova massiccia aggressione alla voci della spesa sociale, in fatto di pensioni, sanità, istruzione, protezioni sociali. Non c'è altra risposta possibile. Perché anche la logica ha i suoi diritti. Se i capitalisti pagano ancor meno tasse (si calcola dai 40 ai 150 miliardi in meno, a seconda delle proposte in campo) e i banchieri continuano a incassare i 70/80 miliardi annui di soli interessi sul debito (in probabile rialzo), non ci può essere altra fonte di finanziamento che il continuo smantellamento delle tutele sociali. Altro che abolizione della Fornero, come blatera quell'ipocrita di Salvini. Altro che le pensioni di 1000 euro a tutte le casalinghe, come promette Berlusconi (in una logica iperfamilista). Altro che il reddito di cittadinanza a cinque stelle (in cambio della disponibilità al lavoro precario)! Il programma reale dei partiti dominanti è l'opposto di ciò che si annuncia nella televendita elettorale. E persino se una piccola parte di quelle misure venisse simbolicamente abbozzata sarebbe comunque a spese dei lavoratori salariati, il vero bancomat dell'intero sistema capitalista. Quelli che reggono sulla propria schiena l'80% del prelievo fiscale. Quelli che vivono ogni giorno la miseria di uno sfruttamento sempre più intollerabile, a garanzia dei profitti di borsa di grandi azionisti e parassiti, mai tanto prosperi e sempre meno tassati.

Questa truffa a reti unificate va contrastata. Ma lo può fare con le carte in regola solo una sinistra rivoluzionaria. Non una sinistra già compromessa nelle politiche dominanti, che omaggia Tsipras, che si limita all'antiliberismo. Ma una sinistra che si batte per il rovesciamento del capitalismo, per un governo dei lavoratori, per un'alternativa socialista. L'unica reale alternativa.
Partito Comunista dei Lavoratori

Un regalo da tre miliardi di euro per Deutsche Bank dal governo italiano


Le politiche bipartisan per garantire profitti con le tasche dei lavoratori

Da un articolo dell'Espresso si possono trarre alcuni retroscena riguardanti la gestione dei derivati e della finanza per usare i bilanci statali e il debito pubblico come un casinò in cui a vincere è sempre l'ospite forte.

Nella più totale segretezza, tutti i governi stipulano questi accordi finanziari con le banche: i cosiddetti derivati. In questo caso si fa riferimento a un contratto stipulato tra Tesoro italiano e Deutsche Bank (al tempo, e al momento, controllata da capitali cinesi, americani e qatarioti) nel 2004. In cosa consiste? Il debito pubblico italiano è altissimo e ad un innalzamento dei tassi di interesse aumenta il rischio di crisi finanziaria. Di conseguenza il governo decide di stipulare un contratto “assicurativo” con la banca stabilendo che se i tassi di interesse dovessero superare il 5% il differenziale verrebbe sborsato dalla banca alle casse dello Stato; in caso contrario, se i tassi rimangono sotto la cifra stabilita, lo Stato paga comunque alla banca il 5% di interessi. In poche parole, l'economia della scommessa con i soldi delle tasse dei lavoratori.

Ovviamente dal 2004 al 2015 i termini del contratto vengono regolarmente modificati in funzione delle oscillazioni del mercato e dei tassi. Così non solo lo Stato ha regalato denaro pubblico su una scommessa sbagliata, ma ha perseverato nel tentare nuove scommesse fino a stravolgere i termini contrattuali iniziali, ogni volta cedendo sempre più unilateralità alla Banca e ogni volta adeguandosi alle pretese di massimizzazione dei profitti e delle speculazioni, mettendosi completamente nelle mani di questi capitali finanziari.

In questo percorso sono coinvolti i vari governi susseguitisi al potere (Berlusconi II – Berlusconi III – Prodi II – Berlusconi IV e Monti) e i vari vertici della burocrazia amministrativa del Tesoro, come la responsabile della direzione del debito pubblico Maria Cannata e i tre direttori generali Domenico Siniscalco, Vittorio Grilli e Vincenzo La Via.
Nella dinamica delle clausole e delle varie scommesse il Tesoro ha sempre “perso” e sbagliato, regalando ogni 6 mesi diversi milioni di interessi a Deutsche Bank, e nell'anno in cui ha dovuto sborsare meno (2009) ha accettato una ristrutturazione sfavorevole alle casse dello Stato, per permettere così alla banca il recupero del mancato guadagno, con ristrutturazioni da li in poi annuali che hanno permesso a D.B. di avere praticamente la certezza, da ora in poi, di non perdere mai.

Tutte queste operazioni avvenivano proprio mentre Deutsche Bank, di fronte al rischio di crisi finanziaria e di debito rilanciata con la campagna sullo spread in esplosione, ritirò le proprie partecipazioni nel debito pubblico italiano passando da 8 miliardi di titoli di Stato a soli 996 milioni di euro. Un'operazione che venne annunciata solo a cose fatte, anzi proprio mentre la banca cominciava l'acquisto di nuovi titoli fino a circa tre miliardi di euro, attraverso questi derivati (credit default swap) e altre acquisizioni – ovviamente fatte quando i prezzi sono crollati.

Nel complesso, questa operazione è costata negli anni degli eventi narrati: una profonda instabilità politica; l'aggravamento della crisi finanziaria e del rischio default; la fuga da ogni rischio per la banca rispetto ad un eventuale crisi dei conti pubblici italiani e l'assicurazione, sempre per Deutsche Bank, dei propri profitti e delle proprie speculazioni; il regalo a D.B. di almeno 2,5 miliardi di euro in “scommesse” errate del Tesoro con i derivati e la garanzia di future speculazioni che potrebbero arrivare a costare oltre tre miliardi di euro allo Stato italiano.

Il tutto mette in mostra come i governi della borghesia e lo Stato capitalistico altro non siano che lo strumento dei capitali nazionali e internazionali per spartirsi potere e ricchezze. Il perfetto capitalista collettivo che si piega agli interessi di banche, industriali, palazzinari e speculatori. Il terreno di battaglia tra le varie fazioni della borghesia italiana, europea e mondiale.
Non è un caso, infatti, che con dinamiche e operazioni simili sui derivati, sempre nello stesso periodo, anche Morgan Stanley godette di una speculazione che portò altri 3,1 miliardi di euro dalle casse del Tesoro a quelle della banca americana.

Solo delle misure rivoluzionarie e direttamente finalizzate a rompere il sistema capitalistico, attuate da un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, fondato sulla forza dell'autorganizzazione degli sfruttati in un fronte unico di classe e di massa, possono rovesciare questo stato di cose.
Allo Stato dei banchieri e dei padroni dobbiamo sostituire lo Stato dei lavoratori e dei proletari, che nazionalizzi senza indennizzo per i grandi capitali, e con garanzia per i piccoli risparmiatori, tutte le banche e gli istituti di credito in un'unica banca pubblica e sotto il controllo dei lavoratori, rifiutando e cancellando il pagamento del debito al capitale finanziario e industriale, e nazionalizzando senza indennizzo tutti i settori strategici dell'economia - dalla produzione ai servizi – ponendo quelle aziende sotto il diretto controllo dei lavoratori.
Il tutto nella prospettiva dell'abbattimento dell'Europa capitalistica e imperialista, dove la Banca Centrale Europea incassa anche dai fragili equilibri tra le borghesie dominanti nazionali, per una federazione di governi dei lavoratori negli Stati uniti socialisti d'Europa!
Partito Comunista dei Lavoratori

Il mercoledì da leoni del sindaco De Magistris

 
Il sindaco del "popolo" contro gli operai

Ci sono a volte piccoli episodi nella vicenda politica che finiscono con assumere un significato che li trascende. È il caso del “mercoledì da leoni” di Luigi De Magistris.

Mercoledì 24 gennaio il sindaco di Napoli dichiarava il proprio sostegno alla lista elettorale di Potere al Popolo. Nessuna sorpresa. Il centro sociale Je so' pazzo, promotore di Potere al Popolo, ha appoggiato da sempre De Magistris (privatizzazioni delle municipalizzate incluse). Del tutto naturale dunque un atto di riconoscenza, sia pure formulato con distacco istituzionale.

Sta di fatto che lo stesso mercoledì, a Napoli, gli operai delle pulizie della ditta Samir intraprendevano uno sciopero contro il mancato pagamento degli stipendi, bloccando i trasporti della città. Uno sciopero duro e compatto, con occupazione di binari ferroviari, che è stato oggetto di cariche poliziesche piuttosto pesanti con diversi feriti tra gli scioperanti. Cariche giustamente denunciate da sindacalisti USB.

Anche De Magistris è intervenuto. Contro la polizia, penserà qualcuno. No, contro gli operai. E con un comunicato durissimo che denuncia lo sciopero dei lavoratori Samir come «azione criminale», dichiara testualmente tolleranza zero contro gli scioperanti, annuncia provvedimenti punitivi ad ogni livello nei loro confronti. Gli operai della Samir, già in lotta per la paga, dovranno ora vedersela in sede giudiziaria. Una vergogna.

L'episodio è piccolo, naturalmente, ma il suo significato è grande. Dimostra che un populismo elettoralista che rimuove il riferimento di classe nel nome del 'popolo' è esposto per sua natura a equivoci esplosivi, al di là di ogni illusione. De Magistris si è posto a tutore del popolo indistinto dei propri elettori contro la lotta e gli interessi dei salariati. Ha agito come garante dell'ordine pubblico della città contro uno sciopero che lo ha turbato. Con toni e argomenti francamente identici a quelli usati dal PD e dalle destre, ma in più con la diretta minaccia verso gli operai consentita dal suo potere istituzionale. Del resto, è il naturale riflesso condizionato del giustizialismo dipietrista e legalista da cui De Magistris proviene.

Il PCL non si aspetta nulla di diverso dal chavismo in salsa napoletana, a cui hanno capitolato tante sinistre (anche in ambienti di estrema sinistra). Ma invece chi pensa alla giunta De Magistris come metafora del “potere del popolo” ha forse una occasione in più per riflettere, ben al di là del perimetro partenopeo. Non può esistere un potere del popolo al di sopra delle classi. Il potere, ogni potere, o è dei lavoratori o è contro di loro. È in fondo la ragione di una sinistra rivoluzionaria.
Partito Comunista dei Lavoratori

Il prode Turigliatto e il governo Prodi


A proposito del "trotskista" che non silurò il centrosinistra

Sul Corriere del 26 gennaio è uscito un pezzo dedicato a Franco Turigliatto, il principale dirigente di Sinistra Anticapitalista. Come i nostri lettori sanno bene, Sinistra Anticapitalista, dopo mesi di avanti e indietro, a volte ridicoli, rispetto alla prospettiva di blocco elettorale di organizzazioni di estrema sinistra che ha poi dato vita a "Per una sinistra rivoluzionaria", ha subìto immediatamente il "richiamo della foresta" riformista, mascherato da movimentista, aderendo dalla sera alla mattina a Potere al Popolo.
Questo dimostra che l'evoluzione parziale di Sinistra Anticapitalista, in conseguenza della rottura della vecchia Sinistra Critica, se mai è esistita non si è consolidata, e SA è rimasta in pieno un'organizzazione opportunista che col trotskismo reale, cioè col suo metodo e programma, non ha niente a che fare.
Franco Turigliatto viene presentato nell'articolo come «il trotskista che silurò Prodi». Si tratta di una fantasia sostanziale, da cui, del resto, lo stesso Turigliatto cerca - molto cautamente - di smarcarsi un poco.
E tuttavia tale caratterizzazione, o analoga, è stata ripetuta molte volte dal 2008 ad oggi. Poiché la verità è rivoluzionaria ed ha una grande importanza politica, noi abbiamo alcune (poche) volte deciso di mettere i puntini sulle i. Ci sembra questo il caso, oggi. Per questo ripubblichiamo un testo di alcuni anni fa riferito ad un'intervista del nostro a La Repubblica. Naturalmente, non essendoci stata ancora la scissione di Sinistra Critica, si fa riferimento al nome di quella organizzazione. Come detto, materializzata nella persona di Turigliatto, la continuita di SA con SC è totale.
Buona lettura.



Il “rivoluzionario Turigliatto” e le 23 fiducie a Prodi
a proposito di disinformazione “democratica” de La Repubblica

La Repubblica di giovedì 9 agosto ha pubblicato una breve intervista col compagno Franco Turigliatto, dirigente di Sinistra Critica ed ex senatore all'epoca del governo Prodi, dal titolo «Torna il rivoluzionario Turigliatto: “Monti il peggiore, va fermato”».
Nel soprattitolo lo presenta come “l'uomo che fece cadere Prodi”.
A dire il vero il buon Turigliatto nega questa falsità, accusando politicamente della caduta di Prodi le manovre di Veltroni.
L'intervistatore, per replicare a questo diniego, afferma: «lei ha votato per anno contro tutte le fiducie a Prodi», e qui la risposta è ambigua.
Rimettiamo in ordine le cose.
Turigliatto non fece assolutamente cadere il governo Prodi. Fu Mastella a ritirargli la fiducia, anche in riferimento alle sue vicende personali-familiari-giudiziarie. Che dietro questo ci possano essere state anche le manovre di un Veltroni, desideroso di primeggiare, è del tutto plausibile.
Quanto alla fiducie, Turigliatto (e il suo compagno Cannavò che sedeva alla Camera) ne ha votate 23, fino alla vigilia della caduta del governo, con le elezioni anticipate.
Turigliatto non ha votato la fiducia del febbraio 2007 rispetto al rifinanziamento della missione in Afghanistan, cosa per cui aveva precedentemente votato. Lo fece solo dopo che il relatore D'Alema aveva respinto la sua richiesta di adoperarsi per una futura e generica “conferenza di pace”, cui Turigliatto condizionava il voto al proseguimento della guerra imperialista. Ma anche in quel caso il governo non andò in minoranza a causa di Turigliatto, il quale non votò contro, ma proprio per non mettere in questione l'esecutivo si limitò a non partecipare al voto. Furono due senatori a vita, che fino ad allora avevano sostenuto il governo, a votare contro: il padrone Pininfarina (che si sbagliò) e Belzebù Andreotti (che votò contro per dare un segnale al governo, per conto del Vaticano, rispetto alle aperture sulle unioni civili).
Da quel momento in poi il buon “rivoluzionario” riprese a votare tutte le fiducie a Prodi, a partire da quella di reinsediamento del suo governo, nell'aprile 2007, su basi dichiaratamente ancora più reazionarie di prima. Turigliatto era già stato espulso da Rifondazione Comunista per la reazione isterica dei poltronieri del partito, che temevano ogni possibile disturbo alla loro collaborazione di classe col centrosinistra. Ed infatti presentò nella dichiarazione parlamentare il suo voto favorevole al governo come espressione dell'“appoggio critico” non del PRC, ma di Sinistra Critica.
L'atteggiamento di collaborazione di classe di Turigliatto - e di Cannavò alla Camera dei deputati: non c'è una responsabilità individuale, ma quella di Sinistra Critica - arrivo fino al punto di votare, giusto alla fine del 2007 e quindi alla vigilia della caduta di Prodi, per una riduzione di imposte a banche ed assicurazioni di tre miliardi di euro annui (che si aggiunsero ai 7 miliardi di riduzione, sempre annua, ai capitalisti dell'industria che i due “anticapitalisti” di SC avevano votato in precedenza).
Altro che non votare fiducie per un anno.
Diciamo però che non riteniamo responsabile di questa totale falsità il moderatissimo ma onesto Turigliatto.
Come detto, la sua risposta a La Repubblica è ambigua, ma non sembra proprio confermare il suo presunto voto contrario alle fiducie «per un anno». Ecco le parole di Turigliatto: «Sulla guerra, sul precariato, sulle pensioni proponevano progetti di destra. Soffrivo. Prodi mi diceva di portare pazienza, prometteva, ma poi non succedeva mai niente».
Benché non ci sia il no chiaro all'ipotesi di un passaggio al voto negativo, pare evidente che Turigliatto si riferisca alla sua costante sofferenza nel votare le schifezze di destra del governo, che però, evidentemente uso ad obbedir tacendo, il nostro accettava, sperando nel conforto di... Romano Prodi (eccezionale!).
In realtà è probabile che, come spesso capita - anche a noi - il giornalista di Repubblica abbia fatto una chiacchierata telefonica con Turigliatto e poi l'abbia ricostruita come una vera intervista a domande e risposte, con una costruzione funzionale al suo argomento: Prodi è caduto per responsabilità della "sinistra radicale”.
In realtà questo è lo schema che tutta la stampa e gli altri organi di informazione e dibattito politico accreditano costantemente. Il messaggio che tutti questi veicolano alle masse è che il centrosinistra è stato vittima delle sue contraddizioni, in particolare delle costanti resistenze della “sinistra radicale”. Ora, chiunque si ricordi o ricostruisca con esattezza e onestà quel periodo sa che la verità è esattamente opposta. Il PRC e il PdCI accettarono tutto senza fiatare, cercando solo, agli occhi delle masse, di stravolgere la realtà (il famoso “Anche i ricchi piangono” in un manifesto di Rifondazione, riferendosi ad una finanziaria assolutamente a vantaggio di capitalisti e ricchi).
L'elenco fatto nella frase riportata dal sofferente Turigliatto, con l'aggiunta della già ricordata riduzione delle tasse a capitalisti e banchieri, è indicativo dei temi principali del controriformismo del centrosinistra “organico”.
Ma allora, perché il ricordato schema falsificatorio di tutti i media e le forze politiche? Perché, come dicevano sia Gramsci che Trotsky, la verità è rivoluzionaria. Presentare i fatti come sono andati significherebbe mettere in questione il teatrino della politica borghese. La destra può contare sul voto di piccolo-borghesi e anche lavoratori sciocchi e reazionari perché presenta il PD e il centrosinistra come postcomunisti innamorati delle tassazioni alla proprietà. Il PD e amici devono presentarsi come amici dei lavoratori, che cercano di creare una situazione di sacrifici “equi”, di fronte ad una realtà oggettiva immodificabile. Il PRC, SEL e PdCI devono far credere di aver tentato di difendere gli interessi dei lavoratori e dei movimenti (magari riconoscendo a parole che il governo Prodi è stato un errore, come ha detto recentemente l'ex ministro Ferrero, che sarebbe come se Al Capone avesse detto - e forse lo ha fatto - che c'era troppa violenza nella Chicago fine anni '20). Sinistra Critica (che cerca costantemente di nascondere di aver sostenuto il Prodi) deve presentarsi come “anticapitalista”.
Questo scenario fittizio, introiettato dalle masse e anche da molti dei suoi presentatori, serve al dominio del capitale. Se no apparirebbe ai lavoratori che la destra non ha ragione di esistere, il PD è un partito organicamente borghese, la sinistra “radicale”, al momento della prova (perché quando le condizioni non ci sono è facile fare demagogia e presentarsi come anticapitalisti) si subordina al capitale; moltissimi di loro cercherebbero, quindi, un'alternativa realmente anticapitalistica. Potendo trovarla, nel caso concreto, nel partito che giustamente unico può rivendicare di non aver mai tradito, cioè il nostro PCL (non pensiamo, ovviamente, che ad oggi ci sia un complotto specificamente contro il nostro piccolo partito, ma lo scopo della falsificazione della realtà è preventivo contro ogni sviluppo realmente antisistema).
Smascherare il teatrino dell'informazione borghese e dell'autorappresentazione bugiarda della sinistra opportunista è un compito fondamentale nella battaglia per la prospettiva rivoluzionaria.
Per cui, per tornare all'oggetto principale di questa nota, quando saremo chiamati, come militanti, aderenti o sostenitori del PCL, a chiarire ciò che ci differenzia da Sinistra Critica, dovremo ricordare che non si tratta delle pur importantissime e profondissime divergenze teoriche con il revisionismo di SC, e neppure le pur fondamentali differenze di prospettive e di metodo (obbiettivi minimi contro obbiettivi transitori, utopiche 'Europe sociali' contro l'Europa socialista dei lavoratori), ma in primo luogo del fatto che, in un momento topico come quello del governo Prodi, SC si è schierata contro gli interessi dei lavoratori, appoggiando (con un'ottica tutta politicista, alla faccia del movimentismo) le schifezze del centrosinistra, in particolare con 23 voti di fiducia.
Dimenticavamo. Mentre i Bertinotti, Ferrero e Vendola appoggiavano quanto sopra godendo per le poltrone ottenute, il buon Turigliatto (e anche il duro Cannavò? attendiamo lumi) lo faceva soffrendo. Poverino, e povera anche Sinistra "Critica".

FG
Partito Comunista dei Lavoratori

Tre pendolari morti per i profitti di Trenord

 Stamattina, 25 gennaio, tra la stazione ferroviaria di Pioltello e quella di Segrate è deragliato un treno regionale di Trenord, proveniente da Cremona e diretto a Milano. La causa di questo incidente è stato il “cedimento strutturale” di 23 centimetri di binario, che si è staccato dalla rotaia e ha provocato il deragliamento delle carrozze centrali; la conseguenza dell’incidente è stata la morte di tre donne e il ferimento di un centinaio di persone, di cui 12 feriti gravi.
Come si evince dalle informazioni sull’incidente, la causa di questo incidente è la cattiva condizione - almeno in alcuni tratti - delle rotaie, e quindi degli scarsi investimenti nel controllo e nella manutenzione delle stesse. Queste mancanze non sono figlie di un cattivo costume italiano o della incapacità di questo o quell’altro dirigente di Trenord, ma delle logiche, ciniche e barbare, del capitalismo. Logiche per le quali una S.r.l - con capitali pubblici e privati, rispettivamente circa il 70 e il 30% - ha come proprio unico interesse quello di ricercare il profitto; e quindi, conseguentemente, di abbassare i costi. Se per questo è necessario aumentare lo sfruttamento dei lavoratori, con salari sempre più bassi e orari di lavoro sempre più alti, o non investire nella sicurezza, con treni moderni e la manutenzione delle rotaie, poco importa. Poco importa anche se questo può causare incidenti mortali, dove persone che utilizzano il treno ogni giorno per andare a lavoro perdono la vita.


CONDANNA AI RESPONSABILI

È necessario, innanzitutto, lottare per la condanna dei responsabili. Ad ora la questura ha aperto un fascicolo “a carico di ignoti per disastro ferroviario colposo”, e si prospetta che nei prossimi giorni si “iscriveranno i responsabili legali e della sicurezza di Rete Ferroviaria Italiana nel registro degli indagati” (ANSA).

È evidente che qualsiasi indagine che persegua genericamente il “danno” senza far luce sui veri meccanismi di funzionamento e sul ruolo dei dirigenti sia un'indagine del tutto insufficiente e truffaldina. Non si possono scaricare le colpe su ignoti o solamente, nelle migliori delle ipotesi, sui responsabili tecnici e legali della sicurezza; i responsabili veri di questo crimine sono i grandi azionisti e i membri dei CDA (in primis gli amministratori delegati) delle aziende Rete Ferroviaria Italiana (RFI) – azienda che gestisce le infrastrutture ferroviarie italiane – e Trenord, che hanno scelto di ridurre al minimo le spese per la manutenzione, a vantaggio dei bilanci delle aziende e dei propri profitti.

Ed è anche opinabile la caratterizzazione del disastro ferroviario come “colposo”, quando nello stesso tratto di binario era già avvenuto un parziale deragliamento di un treno solo sei mesi fa. Questo vuol dire che i responsabili della azienda (membri del CDA, vertici dirigenti e azionisti) hanno deciso di non investire nella manutenzione del tratto consapevoli – e quindi con dolo – che questo avrebbe potuto causare un incidente mortale.

La realtà è che, come ormai ampiamente dimostrato da innumerevoli altri tragici episodi delittuosi (ad esempio dalla tragedia dell'esplosione nella stazione di Viareggio nel 2009), la giustizia borghese non solo non offre alcuna garanzia di giustizia, ma è al contrario... garanzia di impunità per grandi manager e i colletti bianchi, e strumento al servizio delle logiche capitaliste e dei più biechi interessi privati. E nulla cambia nel caso ci fosse lo Stato al posto dei privati, anzi, ad impunità si aggiunge impunità.


LOTTIAMO PER UN SERVIZIO PUBBLICO DEI TRASPORTI

Ma non ci si può limitare alla condanna dei responsabili, si deve anche lottare per far in modo che non capiti di nuovo un disastro ferroviario, disastro peraltro annunciato da tempo.

Nonostante Trenord e RFI siano sotto il controllo di capitali pubblici – e sono solo in parte di proprietà di capitalisti privati - funzionano come aziende private che ricercano solo il profitto. Per questo è necessaria la nazionalizzazione completa delle aziende, senza indennizzo per gli azionisti assassini, e la gestione delle aziende sotto controllo di comitati dei dipendenti e dei cittadini pendolari. Questo perché solo i dipendenti di RFI e Trenord e i cittadini pendolari hanno l’interesse di difendere la sicurezza del servizio, e non il profitto di questo o quell’altro sciacallo.

Per questo il Partito Comunista dei Lavoratori propone a tutta la sinistra politica, sindacale e associativa di impegnarsi in una battaglia unitaria per l'accertamento delle verità e lo smascheramento dei colpevoli, e che rivendichi la fine delle privatizzazioni e la nazionalizzazione sotto controllo dei lavoratori e degli utenti del trasporto pubblico, nazionale e locale. L'unica soluzione realista ed efficace alla barbarie di un capitalismo ormai da tempo deragliato.
Michele Amura, coordinatore della sezione milanese del PCL

Giulio Regeni: la verità è rivoluzionaria

  
Decine di manifestazioni hanno ricordato oggi Giulio Regeni a due anni dal suo barbaro assassinio. “Verità per Regeni”, chiedono giustamente da due anni innumerevoli manifestazioni, iniziative, pronunciamenti, appelli. Ma la sacrosanta richiesta di individuare e punire gli assassini di Giulio non deve rimuovere l'evidenza: la verità sul caso Regeni è sin dall'inizio sotto gli occhi di tutti.

La prima verità riguarda le responsabilità del regime egiziano di al-Sisi. Sono responsabilità talmente evidenti da essere state dichiarate dai fatti. Cosa rappresentano i mille depistaggi egiziani sul caso se non una confessione in piena regola? Prima la messinscena allusiva a un delitto sessuale. Poi l'accusa rivolta contro una banda di criminali comuni, immediatamente sterminata per assicurarsi il silenzio, con il “ritrovamento” in casa loro - guarda caso - dei documenti personali di Giulio. Infine le accuse reciproche tra servizi segreti e apparati militari egiziani, con tanto di veline taroccate, segnali in codice, imbarazzate smentite. Tutto ciò ha un solo significato possibile: Giulio Regeni è stato ammazzato, in ogni caso, dagli sgherri di al-Sisi. È stato ammazzato su delazione di un informatore (Mohamed Abdallah), a seguito delle sue ricerche e attività solidali con i sindacati operai indipendenti, il vero spauracchio del regime. Il fatto che le carte inviate alla magistratura italiana siano state “ripulite” dell'interrogatorio-confessione di Abdallah è un'ulteriore firma di regime sull'omicidio.

Ma c'è una seconda verità che emerge dal caso. Forse meno evidente, ma indubbiamente più scomoda. Quella che attiene all'infinita ipocrisia della diplomazia borghese, e in primo luogo del governo italiano.
Il governo italiano, come tutti, conosce perfettamente le responsabilità del regime, ma ha scelto di coprirlo su tutta la linea. Le promesse solenni sul fatto che “saranno individuati i responsabili della morte di Giulio Regeni”, che “l'Egitto deve dirci come stanno le cose”, stanno semplicemente a zero. L'Italia borghese non solo non può e non vuole rompere col regime di al-Sisi, ma ha bisogno di stringere un rapporto più stretto con l'Egitto. Lo richiedono gli interessi dell'ENI che proprio in Egitto ha scoperto nuovi preziosi giacimenti petroliferi. Lo richiede l'interesse italiano a contendere alla Francia l'egemonia in Libia e Nord Africa. Lo richiede l'esigenza di una collaborazione poliziesca dell'Egitto nel blocco delle partenze dei migranti, e nella loro segregazione criminale. Per questo è stata riaperta l'ambasciata italiana al Cairo, con tanto di onorificenze e di fanfare. Per questo Matteo Renzi ha a lungo ostentato pubbliche lodi ad al-Sisi, presentato testualmente come amico dell'Italia. Del resto, cosa può valere il corpo torturato di un giovane ricercatore di fronte al volume dei profitti ENI, prima azienda dell'Africa?
E c'è di più. Sotto campagna elettorale stiamo assistendo al tentativo di un nuovo squallido depistaggio, questa volta di marca (anche) italiana: quello che allude alle non meglio precisate responsabilità di un'insegnante universitaria inglese con cui Regeni collaborava. Idiozie, ovviamente. Ma cosa c'è di più utile per archiviare le vere responsabilità criminali degli apparati egiziani e coprire la continuità della propria collaborazione con un regime assassino?

Il caso Regeni ci parla dunque della politica borghese. Della sua miseria morale, del suo cinismo sconfinato. La dittatura del profitto produce crimini e copre i criminali. Non solo nei regimi militari, ma anche nelle cosiddette democrazie imperialiste, che peraltro coi regimi militari fanno affari lucrosi a tutte le latitudini del mondo. Le anime belle delle sinistre riformiste di casa nostra che rivendicano una nuova politica estera dell'Italia (capitalista) vendono fumo e chiacchiere vuote. La politica estera dell'imperialismo italiano è un riflesso inevitabile della sua natura. Solo un governo dei lavoratori può segnare una svolta. Il caso Regeni dimostra una volta di più che la verità è rivoluzionaria, o non è.
Partito Comunista dei Lavoratori

Contro la guerra di Erdogan

La Turchia di nuovo all'assalto dei kurdi

L'aggressione militare della Turchia alle forze kurde siriane segna un nuovo capitolo dello scenario di guerra della regione. L'obiettivo dichiarato del regime di Erdogan è annientare alla radice ogni possibile germe di autodeterminazione kurda, ma anche allargare manu militari la propria area d'influenza in Siria per rafforzare il peso negoziale turco al tavolo della spartizione. Non è un caso che l'aggressione avvenga alla vigilia del cosiddetto dialogo nazionale siriano, previsto a Sochi a fine gennaio.

L'aggressione turca si avvale di due fattori importanti. Il primo è la chiara copertura della Russia di Putin, che cerca di capitalizzare a proprio vantaggio ogni frizione interna al campo della NATO, e che ottiene in cambio da Erdogan il nuovo gasdotto in Turchia, rotta preziosa verso l'Europa attraverso il Mar Nero. Il secondo è la paralisi imbarazzata dell'imperialismo USA, che prima ha usato le forze kurde come propria fanteria nella guerra siriana, ma ora ha una evidente difficoltà a contrapporsi alla Turchia - alleato NATO - in termini politici e tanto più militari. «Gli Stati Uniti riconoscono pienamente il diritto legittimo della Turchia di proteggere i propri cittadini da elementi terroristi che lanciano i propri attacchi dalla Siria», ha dichiarato non a caso il segretario di Stato USA Rex Tillerson. La preoccupazione di non consegnare la Turchia alla Russia è manifesta.

I kurdi sono dunque ancora una volta la vittima designata degli interessi delle potenze imperialiste vecchie e nuove, e delle ambizioni neo-ottomane del regime turco. L'idea che la questione kurda possa essere risolta dai balletti delle diplomazie, magari come ricompensa del sangue versato contro l'ISIS, riceve l'ennesima smentita.
Esattamente come un secolo, fa le potenze imperialiste e regionali sono unicamente interessate al grande gioco della spartizione del Medio Oriente, contro i kurdi come contro i palestinesi. L'esperienza drammatica dei fatti dimostra una volta di più che i diritti di autodeterminazione nazionale del popolo kurdo, come del popolo palestinese, possono essere realizzati solo per via rivoluzionaria. Solo legando le aspirazioni delle nazioni oppresse alla rottura con l'imperialismo, con il sionismo, con tutti i regimi reazionari della regione, nella prospettiva storica di una federazione socialista del Medio Oriente.

In questo quadro, e da questa angolazione, difendiamo oggi le forze kurde dall'aggressione turca.

Partito Comunista dei Lavoratori

Intervista a Marco Ferrando


da Radio Radicale
23 Gennaio 2018
Intervista a Marco Ferrando, portavoce del PCL e candidato nella lista "Per una sinistra rivoluzionaria", rilasciata a Radio Radicale per la trasmissione Filo diretto del 22 gennaio. Nell'ambito dell'intervista si è avuto uno scambio diretto di opinioni con gli ascoltatori, che hanno rivolto domande sui vari temi riguardanti il programma elettorale e l'attualità politica nazionale e internazionale.

Per ascoltare l’intervista avvia il player qui sotto

Casapound e l'aggressione di Genova


Per una mobiltiazione di massa e di classe contro il fascismo

Tra il 12 e il 13 gennaio trenta militanti di CasaPound aggrediscono dieci attivisti di Genova Antifascista e accoltellandone uno. 
È necessario rispondere con una mobilitazione per lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste, contro la Lega Nord e le giunte di Toti e Bucci, contro le politiche razziste, reazionarie e di aggressione sociale del Partito Democratico. 
Solo costruendo il più ampio fronte unico antifascista sulla base di un programma dalla parte di lavoratori, migranti e oppressi è possibile costruire l'alternativa ad un sistema che conduce a guerra, sfruttamento, barbarie e miseria.

I FATTI DI GENOVA E LA CRESCITA DEI NEOFASCISTI 

A Genova, nella notte tra il 12 e il 13 gennaio, una squadraccia di trenta militanti di CasaPound ha vigliaccamente aggredito una decina di compagni intenti ad affiggere manifesti nel quartiere in cui è stata inaugurata da poco la sede di CPI. In questa aggressione a colpi di cinghie, bottiglie e pugni, un compagno dell'Assemblea Antifascista è stato colpito con un coltello alla schiena, riportando fortunatamente una lesione non grave. Quel che rimane è l'indicibile azione squadrista alla ricerca del morto, e il tentativo dei fascisti di affermare la propria legittimità ad agire indisturbati e violentemente contro migranti, oppressi e discriminati, comunisti, sindacalisti, anarchici, antagonisti e, in generale, tutti gli antifascisti.

Proprio come scrivemmo il 3 gennaio 2018, nel nostro articolo “Elezioni e destre neofasciste: daremo battaglia anche nella tribuna elettorale” (1), «Le elezioni politiche si avvicinano, e queste organizzazioni neofasciste cominceranno – e in parte già hanno cominciato – a cercare atti eclatanti, provocazioni, nuove azioni squadriste per lanciare le proprie candidature, liste e organizzazioni. Una delle prime realtà ad annunciare la propria presenza elettorale sarà proprio CasaPound, con il proprio neosegretario e candidato premier Simone Di Stefano (...)».

In meno di dieci giorni, questa tragica e facile previsione si è avverata.
Non possiamo quindi che esprimere la nostra massima e incondizionata solidarietà ai compagni e alle compagne aggredite e al compagno accoltellato alle spalle dal branco di sgherri al servizio di padroni e guerrafondai. Proprio come rinnoviamo la nostra solidarietà a tutte le realtà politiche, sindacali e sociali che sono state vittime, negli ultimi anni, di aggressioni, minacce, intimidazioni, azioni squadriste e blitz, la cui escalation impedisce un elenco esaustivo senza riempire una pagina di nomi e realtà. Solo a Genova, città di questo gravissimo fatto, si sono susseguite le minacce al compagno di Rifondazione Comunista Giuseppe Pittaluga e agli studenti e alle studentesse del CSR e del Coordinamento dei Collettivi Studenteschi Antifascisti; i blitz ad alcune sedi dell'ANPI, dell'ARCI e della CGIL; l'aggressione alla nostra compagna militante e delegata sindacale CGIL-FILCAMS Cinzia Ronzitti, le intimidazioni alla giornalista di Genova24 Katia Bonchi etc.
Inutile dire e ricordare che i militanti di CasaPound sono stati autori dell'assassinio di Samb Modou e Diop Mor a Firenze, del tentato omicidio a Emilio Visigalli a Cremona, dell'aggressione dei giornalisti Rai Piervincenzi e Anselmi per il servizio sulle collusioni tra CPI e la camorra a Ostia, del pestaggio del segretario della FIOM di Forlì Gianni Cotugno.

In una fase di crisi economica e grande competizione globale tra borghesie e governi imperialisti, queste organizzazioni non solo prendono forza ma divengono espressione di potere e si inseriscono in una generale deriva reazionaria delle impalcature istituzionali e politiche del sistema capitalistico. Deriva in grado di esprimere, sotto forma di movimenti e organizzazioni neofasciste o anche solo opzioni populistiche e xenofobe, veri e propri governi seduti al tavolo dei grandi nell'Europa “democratica”, come nel caso dei governi della Polonia, dell'Ungheria, dell'Austria, o capaci di divenire la punta di diamante e il braccio armato dell'imperialismo europeo, come in Ucraina.
I fascisti e i populismi reazionari si mostrano ancora come uno strumento delle borghesie e delle forze politiche “democratiche” e liberali, da quest'ultimi coperti se non addirittura appoggiati e finanziati, contro il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici e contro il movimento rivoluzionario, sindacale e antagonista, e qualora questi fossero deboli, in termini preventivi contro la sola minaccia di una loro riorganizzazione e rinascita.

Così è possibile, ora, vedere governi di centrosinistra che applicano legislazioni, decreti e modifiche costituzionali reazionarie, razziste, autoritarie, corporativiste, antisindacali, repressive; governi di centrodestra ancora più spavaldi e spudoratamente collusi con le organizzazioni neofasciste e neonaziste, e, queste ultime, libere di agire indiscriminatamente e di godere di spazi di agibilità e copertura mediatica spropositati.


LE RESPONSABILITÀ POLITICHE E SOCIALI DEI GOVERNI DI CENTROSINISTRA E CENTRODESTRA 

Così il caso genovese assume una valenza nazionale e internazionale per tutti i sinceri antifascisti e anticapitalisti, proprio in questa fase.
È lì infatti che si mettono in mostra le collusioni estremamente strette tra centrodestra e forze neofasciste. Prima dell'aggressione erano regolari le sponde politiche e le collaborazioni tra Lega Nord e Fratelli d'Italia e organizzazioni come CasaPound, Lealtà e Azione e Forza Nuova: l'assessore comunale Garassino, portavoce della campagna securitaria e antimigranti/antiprofughi della Lega Nord più volte promotore di iniziative comuni con CPI e LeA; il passaggio dell'ex consigliere regionale di Fratelli d'Italia già AN, Gianni Plinio a CasaPound, così come avvenuto per il consigliere municipale della Media Valbisagno della Lega Nord Felsidio Censi.
Dopo l'aggressione però la maschera cade definitivamente: sia Bucci, sindaco di Genova, che Toti, presidente della Regione Liguria, si lanciano sui giornali a sminuire e coprire l'accaduto riducendolo a semplice fatto di ordine pubblico, condannando le violenze di entrambe le parti e “contro gli estremismi di ogni colore”, cercando di paragonare la violenza di una protesta con la violenza di un atto di vigliaccheria e di un accoltellamento di un singolo militante, negando le responsabilità di CasaPound di fronte ad un'azione compiuta da militanti di quell'organizzazione partiti dalla loro sede, negando che si possa “attribuire a qualche forza politica la responsabilità delle azioni di persone violente”. Alla richiesta di negare gli spazi pubblici ai neofascisti, Bucci risponde prima con una contromozione di salsa autoritaria, che vieta gli spazi pubblici a chiunque sia contro la Costituzione, le leggi, gli statuti regionali e i regolamenti comunali: in pratica anche una protesta contro una legge potrebbe essere vietata, giocando al rialzo nel gioco del paragone tra aggressione fascista e protesta politica. Toti, invece, rimanda tutto alla magistratura e alla polizia, negando che il fatto possa avere una valenza politica e dichiarando esplicitamente legittima e indiscutibile l'esistenza di organizzazioni come CasaPound e la loro partecipazione anche alle elezioni politiche. In fondo, nel nome del “prima gli italiani” Lega Nord, forze della destra conservatrice e liberale e CasaPound si sono trovati spesso anche in piazza assieme.

Al tempo stesso, si mostrano ridicoli e patetici i tentativi del Partito Democratico di rifarsi una pulizia del viso ponendosi come “argine democratico” alla minaccia fascista. In primis arriva l'intervento di condanna del ministro Orlando, il coautore dei decreti Minniti-Orlando, vere e proprie leggi razziste contro i profughi e di aggressione alla povertà e ai migranti nel nome del decoro urbano; poi arriva una mozione in consiglio comunale contro la concessione di spazi pubblici a tutte le organizzazioni che non garantiscano il rispetto dei valori costituzionali e pratichino fascismo, razzismo, omofobia, transfobia e sessismo. Una bella operazione d'immagine che unisce il PD al PD-civico, la Lista Crivello, nella consapevolezza che la mozione non sarebbe mai passata e mai passerà, per permettere a tutte le parti in campo di uscirne vincenti, formalmente coerenti con l'immagine che vendono di loro, sulla pelle dei lavoratori, degli sfruttati e degli oppressi.
Lo stesso Partito Democratico, infatti, è stato ed è lo strumento della borghesia e dell'imperialismo italiano ed europeo contro lavoratori, disoccupati, migranti, poveri e oppressi. Dal Piano casa che colpisce il diritto all'abitare, al Testo Unico sulla Rappresentanza Sindacale che colpisce i diritti sindacali e di sciopero dei lavoratori e delle lavoratrici; dal Jobs Act per la precarizzazione strutturale del lavoro alla cancellazione dell'art.18 per dare mano libera ai padroni; dal decreto Minniti-Orlando, già citato, agli accordi con Libia, Niger e Somalia per l'esternalizzazione e la disumanizzazione delle frontiere, in mano a mercenari e tagliagole, e alle missioni militari per depredare le risorse in tutto il mondo.
Risulta quindi evidentemente ipocrita e falso lo sgomento di certi personaggi verso le azioni compiute dal braccio armato che applica concretamente le disposizioni dei decreti e delle politiche dei propri governi.


LA NECESSITÀ DELLA MOBILITAZIONE DI CLASSE E DI MASSA E LA DISCESA IN CAMPO DEL PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI 

Per queste motivazioni e per la valenza nazionale di questi tragici e gravissimi fatti, comunichiamo la piena adesione della nostra organizzazione a tutte le prossime iniziative promosse da Genova Antifascista, partendo dal già avvenuto presidio, trasformato in corteo, con volantinaggio e attacchinaggio per riprendersi l'agibilità nel quartiere dell'aggressione del 20 gennaio, passando per l'assemblea pubblica in Piazza De Ferrari del 31 gennaio fino al corteo del 3 febbraio.

I nostri compagni e le nostre compagne genovesi hanno seguito e contribuito alla costruzione di quel percorso di unità d'azione contro la minaccia fascista, si sono battuti e si battono all'interno di quella lotta per una mobilitazione di massa e di classe, per una piattaforma anticapitalista e rivoluzionaria dalla parte dei lavoratori, delle lavoratrici, delle oppresse e degli oppressi; nella consapevolezza che per fermare le organizzazioni fasciste è necessario abbattere il potere delle banche, dei padroni, del capitale e dei loro governi, e instaurare il governo dei lavoratori e delle lavoratrici nel quadro di una federazione europea di stati socialisti.

Per questo accogliamo positivamente la piattaforma antifascista espressa da quella assemblea, come frutto del confronto delle sue diverse anime interne, in grado di individuare i principali nodi politici, economici e sociali su cui si costruisce e si radica la propaganda fascista e razzista, in una prospettiva di rovesciamento della narrazione delle cause e delle condizioni di miseria e sfruttamento generalizzato e di unificazione dei vari affluenti della lotta di classe.
Riceviamo con dispiacere la decisione della Camera del lavoro di Genova di ritirare la propria adesione formale alla piattaforma, così come quella dell'ANPI di non voler aderire al percorso di Genova Antifascista. È giunta l'ora che anche le dirigenze di queste organizzazioni assumano la consapevolezza che non esistono “governi amici”, che il Partito Democratico è il partito del padronato, della Confindustria, delle banche, delle guerre e delle politiche di sfruttamento, xenofobe e antiprofughi, e che non rappresenta alcun argine al fascismo, ma è anzi la causa della proliferazione di queste organizzazioni e ideologie.
Non basta appellarsi ad una Costituzione, che governi e padronato hanno dimostrato essere carta straccia al servizio della borghesia, nata più che dal coronamento della Resistenza antifascista, dal tradimento e dal furto della sua “rossa primavera” e della sua rivoluzione, garantendo la ricostruzione dello Stato borghese “democratico”, l'amnistia e la continuità per l'apparato burocratico fascista, da utilizzare da lì in poi contro la minaccia “comunista”.
L'unico strumento che hanno i proletari, gli oppressi e gli sfruttati in generale per fermare il fascismo non è la democrazia borghese ma la mobilitazione generale, di massa e di tutta la classe lavoratrice contro il capitalismo e lo sfruttamento in ogni sua forma.
Una mobilitazione che rivendichi nell'immediato la cacciata delle giunte di Toti e di Bucci, la messa al bando e il discioglimento di CasaPound e di tutte le organizzazioni neofasciste, la cancellazione di tutte le politiche di aggressione sociale, economica e politica portate avanti dai governi di centrodestra e centrosinistra e, ora, dal Partito Democratico di Renzi e Gentiloni. Tutti obiettivi ottenibili solo ed esclusivamente con la costruzione di un fronte unico di classe entro una mobilitazione di massa antifascista e anticapitalista, non certo con la delega a istituzioni borghesi colluse e colpevoli della crescita del fascismo e del razzismo e delle aggressioni sociali degli ultimi quarant'anni, siano esse governi, parlamenti, giunte, prefetture e questure, o aule dei tribunali.

Il Partito Comunista dei Lavoratori, in questa fase di impegno nella campagna elettorale e nella raccolta firme, come in molte lotte e interventi politici, sindacali e sociali, è disponibile fin da subito all'immediata mobilitazione contro le organizzazioni neofasciste, razziste e xenofobe, per il più ampio fronte unico antifascista.



(1) https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=5780
Partito Comunista dei Lavoratori


L'imperialismo italiano all'opera in Niger


Chiamare le cose con il loro nome

«L'Africa è la nostra profondità strategica», dichiara il sottosegretario agli Esteri Mario Giro. In questo concetto sta la ragione di fondo della spedizione italiana in Niger.

Non è solo questione di “sorveglianza delle frontiere e del territorio” per bloccare i migranti alla partenza. Naturalmente è anche questo, ma non è solo questo. Il capitalismo italiano cerca di nuovo il proprio posto in Africa, dentro la grande partita internazionale tra potenze imperialiste per la spartizione del continente. Estrazione di materie prime vitali, controllo delle rotte commerciali e portuali tra Oceano Indiano ed Atlantico, enormi distese di terre coltivabili, un gigantesco volume di nuove commesse ed affari legato alla costruzione di infrastrutture e logistica: questo è l'Africa per l'imperialismo. Il nuovo imperialismo cinese ha guadagnato le prime posizioni nella spartizione. Gli imperialismi europei, a partire dalla Francia, cercano di difendere la propria area d'influenza e di inserirsi nelle nuove filiere. L'imperialismo italiano, con in testa ENI, è pienamente partecipe della competizione. Il gioco è scoperto. Mentre la stampa borghese decanta i valori della nuova missione, all'insegna della “lotta contro i trafficanti”, gli ambienti diplomatici, i vertici militari, i consigli di amministrazione delle grandi imprese non si fanno scrupolo di chiamare le cose con il loro nome. Mai come oggi la categoria dell'”interesse nazionale” dell'Italia in Africa viene apertamente sdoganata. La rivista Limes ha recentemente fornito un'ampia documentazione di questa verità parallela, che è semplicemente la vera verità. Del resto se ENI è la principale azienda del continente nero, occorre una politica estera all'altezza di questo ruolo. La presenza di truppe tricolori sul suolo è un pezzo decisivo della politica estera, del suo peso negoziale nella definizione di spazi ed equilibri.


IL CONTENZIOSO ITALO-FRANCESE

L'operazione Niger s'incastra inoltre nel negoziato italo-francese. L'Italia ha un contenzioso diretto con la Francia in diversi settori (cantieristica, media, banche, assicurazioni), e diverse recriminazioni irrisolte. Il giornale di Confindustria è giunto a lamentare un (improbabile) atteggiamento “coloniale” della Francia verso l'Italia, in fatto di acquisizioni industriali e finanziarie. Un'accusa ridicola da parte della seconda potenza industriale d'Europa, ma che dà la misura del contenzioso in atto. Lo sgomitamento in agosto sul controllo dei cantieri navali francesi è solo la punta dell'iceberg. Questo confronto tra Italia e Francia si estende in Africa, a partire dalla questione libica che vede ENI e Total l'una contro l'altra armate. La riconciliazione dell'Italia col boia al-Sisi, con buona pace del povero Regeni, è funzionale alle relazioni dell'Italia col generale libico Haftar (sostenuto dall'Egitto), da non lasciare in mani francesi: un interlocutore prezioso per raggiungere un punto d'equilibrio con la Francia in Libia. Parallelamente l'inserimento italiano in Niger, parte organica dell'Africa francese, segnala alla Francia che l'Italia gioca ormai a tutto campo. L'Italia mette sul piatto del negoziato con la Francia il proprio appoggio militare in Niger per battere cassa su altre partite. È il normale mercimonio della politica estera borghese.


LA PARTITA DI SCAMBIO NELLA UE

Non solo. La missione italiana in Niger entra indirettamente nel negoziato tra Italia e Unione Europea. L'Italia è di fronte a un passaggio difficile sul fronte UE. Francia e Germania stanno provando a ridefinire attorno a un proprio asse centrale i nuovi equilibri in Europa. Sia sul terreno della difesa militare, sia su quello dei patti finanziari (unione bancaria). Il capitale finanziario italiano teme come la peste ogni clausola che preveda un tetto al possesso di titoli pubblici da parte delle banche tricolori. Per questo Il Sole 24 Ore ha aperto un fuoco preventivo di sbarramento denunciando il pieno dei titoli pubblici regionali da parte delle banche dei Länder. Come dire: se volete la guerra, la faremo anche noi. In realtà il governo italiano cerca un accordo anche su questo con Germania e Francia. L'Italia mette allora sul piatto della bilancia il proprio intervento in Africa, e più in generale la funzione di custode del fronte Sud per conto dell'Unione Europea, per chiedere contropartite in altri campi. "Noi blocchiamo le partenze di chi fugge dalla fame, condanniamo alle galere libiche centinaia di migliaia di rifugiati, disertiamo lo stesso soccorso in mare di chi si imbarca, facciamo insomma il grosso del lavoro sporco nell'interesse dell'intera Unione. Voi rispettate però gli interessi delle nostre banche." Questo è il vero sottotraccia della spedizione in Niger.


L'UNITÀ NAZIONALE TRICOLORE E LE CONTRADDIZIONI A SINISTRA

Per questo tutti i partiti dominanti in Parlamento hanno votato o avallato la missione: PD, Berlusconi, Fratelli d'Italia, Lega. Il M5S no, ma solo per l'«insufficiente chiarezza sulle regole d'ingaggio». Del resto il M5S è pienamente partecipe del fronte reazionario sull'immigrazione. L'unità nazionale tra partiti dominanti contro i salariati, in fatto di precarizzazione del lavoro, detassazione delle imprese, pagamento del debito pubblico, è la stessa unità nazionale attorno alla missione militare in Africa. Una coerenza esemplare.

E a sinistra? Liberi e Uguali ha votato contro la missione, ma solo «per l'assenza di un sufficiente dibattito», e perché «non è chiaro se le truppe vanno per una missione di pace o anche con un mandato militare». Come dire che in futuro se venissero sventolate ragioni umanitarie potrebbe andar bene. Nessuna sorpresa da parte di una formazione che ospita D'Alema, bombardatore di Belgrado, e annuncia proprie disponibilità verso un futuro governo di unità nazionale.
Potere al Popolo si pronuncia contro la missione nel nome della pace. Ma dichiara che il proprio riferimento internazionale è lo sciovinista Mélenchon, sostenitore della grandezza della Francia nel mondo e del valore della bandiera tricolore (francese) contro la bandiera rossa. Sarebbe questo l'internazionalismo?

Solo la lista “Per una sinistra rivoluzionaria” chiama le cose con il loro nome. Denuncia l'operazione militare in Niger come missione dell'imperialismo italiano. Chiarisce i suoi scopi veri. Chiama alla mobilitazione contro la missione nel nome delle stesse ragioni con cui si oppone a tutte le politiche di rapina sociale sul fronte interno: la lotta di classe contro il capitale, al fianco di tutti gli oppressi, per un'alternativa socialista, per un governo dei lavoratori.

Partito Comunista dei Lavoratori

Il capitalismo nuoce gravemente alla salute

 Per la nazionalizzazione dell'industria farmaceutica!

Quello della sanità e della ricerca farmaceutica è uno dei campi in cui emerge più chiaramente quanto il sistema capitalista sia in contrasto con il benessere di tutti

La multinazionale farmaceutica Pfizer ha annunciato il proprio addio alle ricerche contro l'Alzheimer. Non è un fatto isolato. Un anno fa un'altra grande azienda farmaceutica, la Merck, aveva annunciato la stessa scelta. Il direttore scientifico della Fondazione Santa Lucia di Roma, Carlo Caltagirone, ha spiegato queste scelte nel modo più candido: «Ormai le aziende puntano ad avere risultati importanti in tempi brevi». Tradotto: Merck e Pfizer hanno esigenza di fare profitti immediati sul mercato, non possono attendere i tempi della scienza. Se una ricerca va per le lunghe, vada a quel paese la ricerca. L'umanità può aspettare.
Ci hanno spiegato per decenni le virtù del privato, contro il parassitismo del pubblico. La spesa pubblica per la ricerca scientifica è stata ovunque amputata, e delegata alle aziende. Basta vedere le condizioni della ricerca universitaria. Ora le stesse aziende che hanno in mano la ricerca, spesso usufruendo di sovvenzioni pubbliche, abbandonano il campo. Il percorso di produzione di nuovi farmaci (ricerca, sperimentazione, registrazione, vendita) è troppo lungo per la loro voracità. I dividendi degli azionisti battono cassa. Se questo avviene persino per grandi patologie, che presentano enormi potenzialità di mercato (come l'Alzheimer), figuriamoci per patologie minori. Non è un caso se le cosiddette malattie rare - che pure coprono nel loro insieme diversi milioni di persone - sono disertate dalla ricerca farmaceutica. Il mercato è troppo piccolo per motivare un investimento. A meno che lo Stato non intervenga a sostegno del profitto.

L'Italia è un caso esemplare. In Italia trenta aziende farmaceutiche controllano un fatturato di 30 miliardi. Sono tutte controllate da grandi famiglie capitaliste (Menarini, Chiesi, Recordati...), che incrementano a più non posso profitti e dividendi, gonfiando il prontuario farmaceutico con prezzi esorbitanti, a carico delle casse pubbliche (cioè del portafoglio dei lavoratori) o direttamente dei malati. Ad esempio le 8000 malattie rare (un milione di persone coinvolte) prevedono farmaci a costi proibitivi. I nuovi Lea (livelli essenziali di assistenza) della Lorenzin ne riconoscono appena 110. Lo Stato dà alle aziende incentivi fiscali e condizioni di monopolio nel settore. Le aziende scaricano sui prezzi il vantaggio acquisito. Parallelamente, il costo degli antitumorali è quadruplicato in sette anni, mentre le cure innovative costano sino a 100.000 euro senza rimborso alcuno.

L'esproprio dell'industria farmaceutica, senza indennizzo per i grandi azionisti, sotto il controllo dei lavoratori, non è solo una misura socialmente necessaria, per recuperare un controllo pubblico sulla salute. È anche una misura di igiene morale.

Partito Comunista dei Lavoratori

 

Legge Fornero? Non saranno Lega e M5S a cancellarla


Solo un governo dei lavoratori può abolire la legge Fornero

Lega e M5S provano a truffare milioni di lavoratori promettendo l'abolizione della legge Fornero. Sono gli stessi partiti che scavalcano Renzi nel promettere una nuova massiccia riduzione delle tasse alle imprese. La seconda promessa, vera, si mangia la prima, finta.
Tutti i paesi capitalisti, dentro e fuori l'Unione Europea, si contendono l'attrazione degli investimenti offrendo alle aziende riduzioni fiscali. La risultante è ovunque la continuità dei tagli alla spesa sociale, a partire da pensioni e sanità. Salvini e Di Maio si allineano al corso generale. Del resto, Salvini dovrà garantire il suo sodale Berlusconi, che a sua volta garantisce Merkel e le banche. Di Maio cerca la legittimazione presso i circoli del capitale finanziario. Dunque garantiranno entrambi, in caso di governo, la continuità della Fornero, per finanziare le riduzioni fiscali sui profitti e il pagamento del debito pubblico. E se mai dovessero simulare qualche ritocco, lo metterebbero a carico dei salariati.

La verità è che l'abolizione della legge Fornero implica l'abolizione del debito pubblico verso le banche, e la loro nazionalizzazione. Ciò che solo un governo dei lavoratori può realizzare. Per questo solo la lista “Per una sinistra rivoluzionaria” può rivendicare seriamente l'abolizione della legge Fornero, e il ritorno della pensione a 60 anni. Il resto è truffa.

Partito Comunista dei Lavoratori

 

Tsipras colpisce il diritto di sciopero

  
Il governo Syriza-Anel ha varato pochi giorni fa due misure esemplari: da un lato la messa all'asta delle case sequestrate per debiti verso le banche; dall'altro una legge antisciopero che dichiara illegali gli scioperi promossi da assemblee dei lavoratori cui non partecipino la maggioranza degli iscritti ai sindacati. Uno scandalo. Hanno qualcosa da dire al riguardo Liberi e Uguali e Potere al Popolo?

Potere al Popolo ha presentato due giorni or sono la propria lista al Parlamento europeo, ospitato dal gruppo del GUE/Sinistra Europea, capeggiata da Tsipras. Ha sentito il dovere di solidarizzare pubblicamente con gli scioperi in corso in tutta la Grecia contro le misure del governo Tsipras, oppure ha onorato col proprio silenzio il padrone di casa contro i lavoratori greci? Naturalmente la seconda cosa.

La verità è che il diavolo fa la pentola ma non i coperchi. Tanta retorica sulle lotte, sui movimenti, sul “fare e non dire”, per continuare a coprire il governo Tsipras!
Solo la lista “Per una sinistra rivoluzionaria” dirà la verità su quanto sta avvenendo in Grecia. Perché la verità è rivoluzionaria.
Partito Comunista dei Lavoratori

Solidarietà agli aggrediti dalla squadraccia di Casapound

 I fascisti alzano il tiro, ma noi sapremo rispondere. Combatteremo i servi della borghesia con la forza delle nostre idee e presidiando i nostri quartieri. Il fascismo si sconfigge costruendo una società libera da oppressioni, sfruttamento e povertà. Una società dove governano i lavoratori e non il capitale

Il Partito Comunista dei Lavoratori esprime massima solidarietà alle compagne ed ai compagni antifascisti che mentre affiggevano manifesti in Piazza Tommaseo sono stati oggetto di un raid punitivo da parte di una squadraccia di Casapound. Circa trenta persone armate di bastoni e coltelli che nel miglior stile fascista hanno attaccato un gruppetto di antifascisti con il chiaro scopo di intimidire e spaventare. Con questa incursione hanno gettato la maschera “buona” con cui si sforzavano di presentarsi: dietro agli aiuti agli italiani si nascondono solo prevaricazione e violenza perpetrata con metodi tipici del Ventennio.
Le richieste e le manifestazioni di chi si opponeva all'apertura di nuove sedi fasciste e alla loro legittimazione sono rimaste inascoltate; di fatto si è permesso a questi gruppi di agire indisturbati sul territorio e di organizzarsi, passando da aggressioni isolate come quella a Cinzia Ronzitti ad esibizioni pubbliche con sfoggio di retorica mussoliniana come a Casella, per arrivare a vere e proprie squadre organizzate.
Questi vigliacchi sappiano che gli antifascisti non si lasciano intimidire e non permetteranno ai fascisti di impadronirsi della città e del paese.

Il Partito Comunista del Lavoratori sarà sempre al fianco degli antifascisti e continuerà a denunciare e combattere anche i partiti che li hanno coperti, chi ha consentito che si presentassero alle elezioni mascherati in altre liste o autonomamente, chi ha attuato politiche che hanno massacrato la classe lavoratrice e le fasce più deboli.
Ma il fascismo non si combatte con gli appelli a istituzioni sorde, ma creando un ampio fronte di opposizione che si organizza e lotta sul piano politico contro l'avidità e la sopraffazione del capitalismo, dell'imperialismo e delle multinazionali; contro i governi che per mezzo di politiche reazionarie di sfruttamento e precarizzazione hanno creato le condizioni alla destra neofascista di riemergere.

Ribadiamo e rilanciamo la necessità di una partecipazione di massa al corteo del 3 febbraio, con concentramento alle ore 15 in Piazza De Ferrari, per rispondere con l'azione a queste aggressioni e a questa minaccia.
Perché il Jobs Act, la legge Fornero, il decreto Minniti-Orlando, le delocalizzazioni, le privatizzazioni, i tagli allo stato sociale hanno creato disoccupazione, precarietà, miseria, limitazione della libertà e creato l'humus su cui il fascismo prospera. È ora di dire basta, i responsabili di questo sfacelo non devono più governare. Governino i lavoratori.

Partito Comunista dei Lavoratori - sezione di Genova

Renzi, Berlusconi, Salvini, Di Maio: il fronte unico contro i salariati


La campagna elettorale è formalmente agli inizi, ma ha già rivelato la sua cifra: un fronte unico di tutti i partiti dominanti contro i lavoratori salariati.
Renzi, Berlusconi, Salvini, Di Maio, apparentemente gli uni contro gli altri armati, sono in realtà accomunati da due indirizzi di fondo: una ulteriore riduzione delle tasse per i capitalisti e il rispetto dell'Unione Europea e dei suoi vincoli. La risultante del combinato disposto è una sola: un'ulteriore aggressione al lavoro salariato, privato e pubblico.
Basta semplicemente far di conto, sfrondando la confezione delle parole e andando a guardare qual è la merce.

In fatto di tasse, Renzi rilancia sulle decontribuzioni ai padroni, Berlusconi e Salvini gareggiano su una flat tax la più bassa possibile, Di Maio offre di fatto maggiore libertà di evasione (“basta controlli fiscali”) e abolizione dell'Irap. Ma parliamo in ogni caso di una nuova massiccia detassazione del capitale, in linea con la tendenza degli ultimi trent'anni, e col nuovo corso della politica fiscale sul piano mondiale (riforma fiscale di Trump, May, Macron...).
Anche in fatto di UE, tutti giocano alla “rinegoziazione delle regole” con posture diverse: Renzi offre un allungamento dei tempi del Fiscal Compact, Berlusconi e Salvini si contendono la tutela del made in Italy dalla concorrenza straniera, Di Maio chiede la revisione del tetto di deficit del 3%. Ma tutti sono paladini dell'Unione Europea capitalista, inclusi i sovranisti (ugualmente truffaldini) di ieri. E quindi tutti accettano il pilastro strutturale su cui la UE si fonda: la riduzione progressiva del debito pubblico, attraverso il suo pagamento, a garanzia delle banche creditrici (nazionali ed estere).

Bene. Qual è la risultante annunciata di un'ulteriore e massiccia riduzione delle tasse per i capitalisti, combinata con la prosecuzione del pagamento del debito pubblico (per di più a fronte del prevedibile innalzamento dei tassi di interesse sui titoli a seguito della cessazione della pioggia d'oro della BCE)? È molto semplice: una nuova massiccia aggressione alla voci della spesa sociale, in fatto di pensioni, sanità, istruzione, protezioni sociali. Non c'è altra risposta possibile. Perché anche la logica ha i suoi diritti. Se i capitalisti pagano ancor meno tasse (si calcola dai 40 ai 150 miliardi in meno, a seconda delle proposte in campo) e i banchieri continuano a incassare i 70/80 miliardi annui di soli interessi sul debito (in probabile rialzo), non ci può essere altra fonte di finanziamento che il continuo smantellamento delle tutele sociali. Altro che abolizione della Fornero, come blatera quell'ipocrita di Salvini. Altro che le pensioni di 1000 euro a tutte le casalinghe, come promette Berlusconi (in una logica iperfamilista). Altro che il reddito di cittadinanza a cinque stelle (in cambio della disponibilità al lavoro precario)! Il programma reale dei partiti dominanti è l'opposto di ciò che si annuncia nella televendita elettorale. E persino se una piccola parte di quelle misure venisse simbolicamente abbozzata sarebbe comunque a spese dei lavoratori salariati, il vero bancomat dell'intero sistema capitalista. Quelli che reggono sulla propria schiena l'80% del prelievo fiscale. Quelli che vivono ogni giorno la miseria di uno sfruttamento sempre più intollerabile, a garanzia dei profitti di borsa di grandi azionisti e parassiti, mai tanto prosperi e sempre meno tassati.

Questa truffa a reti unificate va contrastata. Ma lo può fare con le carte in regola solo una sinistra rivoluzionaria. Non una sinistra già compromessa nelle politiche dominanti, che omaggia Tsipras, che si limita all'antiliberismo. Ma una sinistra che si batte per il rovesciamento del capitalismo, per un governo dei lavoratori, per un'alternativa socialista. L'unica reale alternativa.

Partito Comunista dei Lavoratori

Dopo sette anni la Tunisia torna nelle strade


Dalla parte dei lavoratori e dei giovani tunisini

Ciò che sta avvenendo in Tunisia sbugiarda una volta di più la retorica dell “aiutiamoli a casa loro”, e riporta le cose alla loro realtà.

Il Fondo Monetario Internazionale (cui contribuisce il capitale finanziario “di casa nostra”) prende per il collo il popolo tunisino col metodo classico dello strozzinaggio. Parla come sempre di “aiuto”. Offre in realtà un prestito quadriennale di 2,9 miliardi di dollari in cambio di drastiche misure d'austerità. Il governo tunisino di unità nazionale fa da esattore per conto di FMI: taglio dei sussidi alimentari ed energetici con i conseguenti aumenti di prezzo (dal pane alla benzina), aumento dell'età pensionabile, aumento delle imposte indirette. In un paese in cui la disoccupazione giovanile è del 30% e i salari arrivano a 200 euro.

L'italiano Sole 24 ore, organo di Confindustria, plaude a queste misure: «Riforme strutturali impopolari, ma un passaggio obbligato, per quanto doloroso» (11 gennaio). Aggiunge tuttavia il timore di... «una ripresa incontrollata dei flussi migratori». Già, uno spiacevole dettaglio.

Di certo ampi settori popolari e di gioventù tunisina non sono disposti a subire i costi sociali dello strozzinaggio. A sette anni esatti dalla rivoluzione popolare che rovesciò Ben Alì le strade e le piazze della Tunisia sono percorse da manifestazioni di massa e parole d'ordine contro il governo e il FMI. La polizia colpisce i manifestanti, usando le norme dello Stato d'emergenza ancora in vigore dal 2015: centinaia di arresti e feriti, un manifestante assassinato, sono la misura della repressione. Ma le manifestazioni si moltiplicano irradiandosi da Tunisi ai piccoli centri della provincia. Il governo tunisino di Youssef Chahed dispone di un ampia maggioranza in Parlamento, ma non sa come controllare le piazze.

Al tempo stesso la direzione del movimento è inadeguata. Il cosiddetto Fronte popolare, che unisce in sé settori stalinisti e nasseriani, partecipa alle manifestazioni ma invita al pacifismo, mentre tiene un comportamento opportunista in Parlamento sulla stessa legge di bilancio che la popolazione povera contesta. In realtà l'unico reale obiettivo del Fronte è usare il movimento come cassa elettorale in vista del voto amministrativo del prossimo 6 maggio. Una seconda componente del movimento si raccoglie nel collettivo “Cosa aspettiamo?” di impronta più radicale, ma non avanza una prospettiva politica, al di là di una manifestazione nazionale annunciata. Sull'intero scenario pesa l'atteggiamento della burocrazia sindacale dell'UGTT, che rifiuta di proclamare lo sciopero generale e di fatto sostiene il governo.

Occorre voltare pagina. Costruire comitati d'azione nei luoghi di lavoro, nei quartieri, nelle scuole, nelle università, per dare un'organizzazione di massa al movimento. Rivendicare il fronte unico più largo di tutte le forze del movimento operaio in aperta opposizione al governo Chahed, per il ritiro incondizionato della legge di bilancio, per il rilascio immediato di tutti gli arrestati. Battersi per la proclamazione dello sciopero generale. Rivendicare un piano sociale di svolta, a partire dal ripudio del debito pubblico della Tunisia verso gli strozzini del capitale finanziario, la nazionalizzazione delle banche e dei monopoli imperialisti. Avanzare la prospettiva di un governo operaio e popolare come unica alternativa per la popolazione povera di Tunisia. Sono le parole d'ordine imposte dalla dinamica degli avvenimenti, nel segno di una direzione alternativa della lotta.

La costruzione di una direzione marxista rivoluzionaria resta la questione decisiva, come ha dimostrato la stessa esperienza della rivoluzione di massa del 2010/2011. La forza d'urto più grande non può realizzare un'alternativa senza una direzione cosciente. Selezionare le forze di una nuova direzione è il compito dei marxisti rivoluzionari in Tunisia, e non solo.
Partito Comunista dei Lavoratori

Di Maio, la rivoluzione dei padroni

 “Via 4000 leggi nei primi giorni di governo” per favorire le imprese. “Via l'Irap”, già ribassata da Renzi, a favore delle imprese. “Via gli studi di settore”, a favore delle imprese. Nuovo abbattimento della tassa sui profitti (Ires), già ridotta drasticamente da Prodi (e Ferrero) e poi ancora da Renzi, col plauso entusiasta delle imprese. 
La campagna elettorale di Di Maio è un'appassionata dichiarazione d'amore per Confindustria e le libere professioni. Mira alla conquista del padronato del Nord, nel nome delle stesse identiche bandiere del berlusconismo e del renzismo, ma con lo slancio tipico degli ultimi arrivati.

Sarebbe Di Maio il candidato... antisistema?

In un paese in cui i padroni hanno ottenuto mani libere su lavoro e territorio (lo Sblocca Italia); in cui i profitti hanno beneficiato di una progressiva detassazione (-10% di Ires negli ultimi dieci anni); in cui il capitale finanziario evade ed elude sistematicamente il fisco, attraverso le banche, per più di cento miliardi ogni anno; in cui i grandi gruppi industriali e bancari patteggiano direttamente con l'Agenzia delle entrate agevolazioni ulteriori ed esenzioni (vedi per ultimo il caso Campari); in cui salariati e pensionati reggono l'80% del carico fiscale (+14% negli ultimi trent'anni)... il candidato Luigi di Maio rivendica una nuova legislazione a favore delle imprese. Del resto non ha forse applaudito la riforma fiscale di Trump e l'«esempio» Macron?

La verità è che il M5S sta dentro la deriva reazionaria che si è abbattuta sui lavoratori salariati. Ne è semplicemente una voce. Certo, è una “rivoluzione”. Ma è la rivoluzione dei padroni.
Partito Comunista dei Lavoratori