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Libertà per Alfredo Cospito! Via il 41 bis!

 


31 Gennaio 2023

Lo Stato che sta infliggendo la morte a Cospito parla di violenza, quando la violenza è nella sua natura e nel suo operato. Ma questa violenza è legittima, perché è istituzionale

Tutti i poteri dello Stato cercano di scrollarsi di dosso il caso Cospito. Il ministro della “giustizia” Carlo Nordio, cosiddetto garantista, cerca la propria assoluzione morale col trasferimento di Cospito all'ospedale di Milano, ma al tempo stesso si preoccupa di conservare il posto mantenendo intatto il 41 bis. La magistratura della Cassazione rinvia il pronunciamento a marzo forse pensando che la morte di Cospito possa dispensarla da una decisione scomoda. Quanto alla Capa del governo non ha dubbi: “Lo Stato non può cedere alla violenza” dichiara la Giorgia nazionale con riferimento alle manifestazioni degli anarchici caricate dalla polizia, o a qualche innocuo atto dimostrativo.


Nessuna meraviglia. Un governo a guida postfascista non ha per definizione sensibilità democratica e umanitaria. Tanto più non l'ha verso un anarchico. Il suo scopo è esibire la fermezza dello Stato borghese contro ogni forma di “sovversione”. Cioè l'assolutezza del potere. E tuttavia colpisce l'infinita ipocrisia degli argomenti portati: «garantire la sicurezza collettiva, respingere il principio della violenza»...

Violenza. La Presidente del Consiglio è appena tornata da un viaggio in Libia nel quale ha assicurato alla guardia costiera libica altre cinque motovedette con cui riacciuffare in mare i disperati che cercano la fuga per riportarli nei lager della tortura e degli stupri. La liberalizzazione degli appalti, l'estensione dei contratti a termine, lo sfruttamento del lavoro gratuito degli studenti, sono leggi moltiplicatrici di omicidi. Il taglio della sanità pubblica dopo anni di pandemia – per pagare il debito alle banche e ingrassare la sanità privata – moltiplica lite d'attesa ormai infinite, con l'inevitabile strascico di morti. L'incremento progressivo delle spese militari sino al 2% del PIL è in preparazione di guerre future e delle relative carneficine annunciate. Tuttavia questa violenza assassina è pienamente legittima in quanto istituzionale. E anzi viene celebrata come doverosa e virtuosa non solo dal governo a guida postfascista ma anche dall'opposizione liberale. Per non parlare dei governi della UE e delle diplomazie imperialiste di mezzo mondo. Incluse quelle “democratiche”.

Eppure la denuncia è puntata sulla “violenza” di Alfredo Cospito, il suo «inaccettabile ricatto», la sua «minaccia allo Stato di diritto». Che consiste nel lasciarsi morire per contestare il 41 bis. Un trattamento inumano, progressivamente inasprito negli anni, che trasforma la galera in tortura: uno stato di isolamento fisico e mentale da ogni forma di relazione, fosse quella di un congiunto, di un libro, di una fotografia appesa al muro, di un pezzo di carta e di una penna. Una pena di morte celebrale persino più crudele di quella fisica, tanto più se combinata con l'ergastolo. Cospito “minaccia” di darsi la morte per contestare la morte inflitta dallo Stato. Lo Stato sta infliggendo la morte a Cospito per tutelare il proprio diritto alla forza, sino alle estreme conseguenze. Non è francamente rivoltante tutto questo?

Sta di fatto che dopo anni di populismo giudiziario, la linea della fermezza fa strage di cervelli e di umanità. Anche nel cosiddetto campo democratico. Il decantato Camillo Davigo invoca durezza “contro il ricatto” e irride Cospito: “i militanti dell'IRA sono morti davvero per fame”, un po' per dire che Cospito sta in realtà recitando e un po' perché in fondo un morto in più non sarebbe né uno scandalo né una tragedia. Il Fatto Quotidiano di Travaglio (31 gennaio) va più in là e pubblica le dichiarazioni “sovversive” di Cospito prima della sua assegnazione al 41 bis, per sottolineare che finalmente il 41 bis lo ha messo a tacere. Giuseppe Conte e il Movimento 5 Stelle, che ora si vorrebbe democratico e progressista, plaude naturalmente a Travaglio e all'intransigenza della magistratura C'è solo da rabbrividire a pensare che questo circo giustizialista sia stato eretto a bandiera per anni dalla cosiddetta sinistra radicale. Pensiamo solo alla figura di Ingroia... Quanto a De Magistris, prima ha dichiarato che Cospito non è una vittima perché è responsabile di violenza, poi ha convenuto su una timida richiesta di revoca del 41 bis nei suoi confronti. Insomma, un colpo al cerchio e uno alla botte per tenersi buoni tutti i suoi supporters.

Noi invece sin dall'inizio abbiamo trovato naturale difendere Cospito dalle grinfie dello Stato e richiedere la cancellazione generale del 41 bis. Senza contorcimenti e opportunismi. Siamo leninisti, dunque lontani dall'anarchismo. Abbiamo sempre combattuto l'azione terrorista, anche in anni difficili, considerandola impotente contro lo Stato e funzionale di fatto al suo rafforzamento. Ci battiamo per una prospettiva di rivoluzione di classe e di massa, la sola capace di rovesciare l'ordine esistente. Rivendichiamo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici come unica forma di vera democrazia. Ma proprio perché rivoluzionari, inguaribilmente contrapposti allo Stato borghese, difendiamo dalla repressione dello Stato tutti coloro che lo combattono dal versante degli oppressi, fosse pure con mezzi e concezioni sbagliate. Non siamo neutrali tra lo Stato e un compagno prigioniero. È il metodo di Lenin, di Trotsky, dei partiti comunisti delle origini. È il codice morale cui ci ispiriamo.

Partito Comunista dei Lavoratori

I salariati in massa contro Macron

 


Mentre i sindacati italiani dormono un sonno profondo, un grande scontro sociale è iniziato in Francia contro l’aumento dell’età pensionabile

24 Gennaio 2023

Una cartina di tornasole, nel cuore della lotta di massa, del confronto fra riformisti e rivoluzionari

Lo scontro sociale si allarga in Francia. Il 19 gennaio otto organizzazioni sindacali hanno promosso una giornata di sciopero generale con manifestazioni in tutta la Francia. Il 31 gennaio è convocata un’altra giornata di sciopero. L’oggetto delle scontro è il progetto di riforma delle pensioni del governo Macron in discussione oggi in Parlamento, che eleva l’età pensionabile da 62 a 64 anni.

Lo scontro sulle pensioni (e non solo) ha una lunga tradizione in Francia. Nel 1995 il governo Juppé fu costretto a revocare la “riforma” pensionistica e a dimettersi dopo tre settimane di sciopero prolungato e di battaglie di piazza. I lavoratori imposero con la propria forza il diritto ad andare in pensione a 60 anni. Nel 2010 il duro conflitto tra movimento operaio e il presidente Sarkozy si risolse al contrario in un relativo successo del governo che elevò l’età pensionabile a 62 anni. Macron ha presentato nella precedente legislatura un progetto di ulteriore innalzamento dell’età pensionabile attraverso un sistema “a punti”. Ma l’irruzione del Covid lo ha costretto a sospendere l’attacco. Ora ritiene giunto il momento di rilanciarlo.

Non si tratta di semplice puntiglio, ma delle ragioni di competitività del capitalismo francese su scala globale e nella stessa Europa. In una fase in cui tutti i governi capitalisti fronteggiano l’aumento massiccio dei costi energetici e aumentano i propri bilanci militari in misura esponenziale, la Francia borghese non può permettersi di mantenere l’età pensionabile a 62 anni. Il suo innalzamento a 64 anni garantirebbe al governo un “risparmio” di quasi 20 miliardi da qui al 2030, che potrebbero essere girati in varie forme ai capitalisti e alle spese di guerra. Da qui la determinazione del governo. La stessa che ha recentemente mostrato nel tagliare del 40% l’indennità di disoccupazione.

La prova di forza si annuncia impegnativa. Lo sciopero del 19 gennaio ha avuto successo. I dati di partecipazione non sono omogenei tra i diversi settori, con un livello più alto nel settore pubblico, nei trasporti, nei servizi, e più differenziato nell’industria. Ma complessivamente un livello di partecipazione superiore a quello registrato nel 2019, all’apertura dello scontro prima del Covid. Lo stesso livello di adesione allo sciopero nell’industria automobilistica è indicativo. Significativo soprattutto il successo delle manifestazioni, a partire da quella oceanica di Parigi. Se il Ministero degli Interni, al di sopra di ogni sospetto, parla di un milione e centomila manifestanti a livello nazionale (due milioni secondo i sindacati) vuol dire che la mobilitazione è stata davvero molto ampia. Circa sei volte tanto le manifestazioni più partecipate dei famosi gilet gialli del 2018.

Sicuramente ha avuto un ruolo il fronte unico delle otto principali centrali sindacali, da Solidaires alla CFDT, passando per la CGT. Un fronte più esteso che nel 2019, e negli scioperi del 2016 contro la Legge El Khomri (il Jobs Act francese), dove la CFDT aveva fatto da sponda al governo. Ma soprattutto incide il sentimento di massa ostile alla riforma nella larga maggioranza dei salariati e nella maggioranza della società francese, come testimoniano tutti i sondaggi. Il successo delle manifestazioni del 19 gennaio è anche questo: non solo hanno coinvolto, secondo diverse testimonianze, settori nuovi di salariati, precedentemente restii a manifestare, ma hanno catalizzato la simpatia di una più ampia massa popolare, colpita dal carovita, dai tagli sociali alla sanità e all’istruzione, ed anche per questo ostile al governo. Il quale peraltro nella nuova legislatura non ha più una maggioranza parlamentare organica su cui basarsi, stretto tra l’estrema destra di Le Pen e la sinistra a guida Mélenchon, e dunque è costretto sulle pensioni a negoziare i voti dei gollisti.

Molto dipende ora dalla direzione della lotta. A differenza delle immobili burocrazie sindacali di casa nostra, le direzioni sindacali in Francia si caratterizzano per una postura relativamente “combattiva”. Ma è bene non farsi illusioni. Come già in occasione degli scioperi contro la legge El Khomri del 2016, le direzioni sindacali temono l’esplosione sociale di un movimento di lotta fuori controllo. Per questo hanno rinunciato a promuovere “scioperi riconducibili”, cioè prolungabili dalle assemblee dei lavoratori interessati. La CGT fa sapere alla propria base che li avrebbe voluti ma che la mediazione unitaria con la CFDT lo ha impedito. La verità è che la stessa burocrazia CGT teme una dinamica di scavalco in cui di fatto la direzione del movimento passa sotto il controllo degli scioperanti. Per questo si è scelta la modalità di giornate nazionali di sciopero distanziate nel tempo, come nel 2016. Una modalità che non massimizza la forza d’urto dello sciopero ma in compenso garantisce il controllo della burocrazia.

La preoccupazione di una dinamica di scavalco ha un fondamento. Gli scioperi e le manifestazioni del 19 gennaio sono state preceduti da un autunno inquieto. A ottobre una ondata di scioperi nelle raffinerie ha paralizzato larga parte della Francia. A novembre si sono moltiplicate lotte aziendali per forti aumenti salariali. A dicembre si è sviluppato uno sciopero a oltranza fuori controllo del personale viaggiante delle ferrovie (i controllori), promosso da strutture di base autorganizzate. Oggi la grande stampa francese teme che lo scontro sulle pensioni possa trascinare con sé una ribellione di massa che sfugga di mano alle burocrazie. È il richiamo del grande sciopero del ’95, ma anche del 2005, quando la mobilitazione di massa prolungata e radicale di lavoratori e di giovani costrinse il governo Villepin a ritirare una legge di precarizzazione del lavoro già presentata in parlamento (Cpe). Inutile dire che le preoccupazioni della borghesia sono le speranze della parte più avanzata della classe operaia francese.

La sinistra politica partecipa naturalmente allo scontro sulle pensioni, secondo l’impostazione dei suoi diversi soggetti. Il blocco riformista della NUPES (la France Insoumise di Mélenchon, il PCF, il Partito Socialista, i Verdi) è impegnato sul piano parlamentare in opposizione al governo, ma con obiettivi differenziati. Il Partito Socialista, spaccato a metà circa il rapporto con NUPES, si oppone alla rivendicazione dell’età pensionabile a 60 anni avanzata dalla CGT, attestandosi sui 62 anni. Il PCF e i Verdi si accodano in questo al Partito Socialista. Sia il PS che il PCF si affidano in ogni caso alla direzione delle burocrazie sindacali cui si limitano ad offrire una sponda parlamentare.

Mélenchon ha una postura parzialmente diversa. Sostiene la rivendicazione sindacale dei “60 anni” ma sviluppa proprie manifestazioni di partito, con un proprio calendario parallelo e in parte concorrenziale con il calendario sindacale. La logica è quella della propria autopromozione elettorale. France Insoumise non avanza alcuna parola d’ordine alternativa all’interno del movimento di sciopero circa l’autorganizzazione della lotta. La sua competizione con la burocrazia CGT è esclusivamente di immagine e richiamo mediatico. La stessa rivendicazione di “un referendum” sulla riforma, in sé accettabile, è concepita come diversivo rispetto alla radicalizzazione della lotta, alla sua organizzazione, al suo sbocco.

Peraltro, il partito di Mélenchon attraversa un durissimo scontro interno al proprio gruppo dirigente e parlamentare tra i fedelissimi del Capo e chi gli contesta una gestione del partito plebiscitaria, estranea ad ogni confronto democratico. Oggi Mélenchon cerca di nascondere e riassorbire questa linea di faglia dietro al sostegno allo sciopero, ma non sarà semplice e non durerà per molto. Nei fatti proprio lo scontro sociale evidenzia una volta di più la natura elettoralistica e istituzionale di FI.

I marxisti rivoluzionari francesi sono in prima fila nella lotta con una propria proposta indipendente. Sul piano rivendicativo intrecciano la contrapposizione alla riforma delle pensioni (e la rivendicazione dei 60 anni di età pensionabile) con la rivendicazione generale di un forte aumento salariale di 400 euro e della scala mobile dei salari. Sul piano della lotta avanzano la proposta delle assemblee generali dei lavoratori quali sedi decisionali, del loro sviluppo intercategoriale e territoriale, del loro coordinamento nazionale. È la parola d’ordine dello sciopero generale sotto il controllo dei lavoratori stessi. Esattamente ciò che temono i padroni e il loro governo, ma anche le burocrazie del sindacato.

Mentre una parte del NPA (Nouveau Parti Anticapitaliste) ha scelto di scindere il proprio partito per accodarsi a Mélenchon e puntare a un blocco elettorale con i riformisti di NUPES, larga parte del NPA, il grosso dei suoi militanti sindacali, la quasi totalità dei suoi giovani, hanno scelto di preservare la propria indipendenza politica dal riformismo e di battersi per una alternativa rivoluzionaria. All’interno del movimento di massa, a sostegno della sua unità, ma con la propria proposta anticapitalista. Sono i compagni raccolti attorno all’appello “Per la necessità e l’urgenza della rivoluzione”.

Auguriamo a questi compagni di sviluppare una politica di raggruppamento rivoluzionario delle forze dell’avanguardia della classe operaia e della gioventù: per la costruzione di quel partito rivoluzionario di cui ha bisogno, oggi più che mai, il proletariato francese... E non solo.

Partito Comunista dei Lavoratori

Potere al Popolo e Rifondazione, Bolsonaro e Lula

 


La fiducia in Lula delle sinistre riformiste. Da vent'anni. Contro ogni principio di classe

Non è in discussione, com'è ovvio, la denuncia dell'azione golpista della destra reazionaria brasiliana dell'8 gennaio, l'aggressione squadrista al palazzo presidenziale, la natura fascistoide del blocco sociale bolsonarista che essa esprime. La sconfitta del sovversivismo reazionario è il primo compito della sinistra brasiliana.

Ma tutto ciò non implica affatto la fiducia politica nel governo Lula, il governo più a destra tra i governi a guida PT degli ultimi vent'anni. Eppure è questa la posizione pubblica assunta da Potere al Popolo e da Rifondazione Comunista, in perfetta continuità con l'identificazione nel lulismo a partire dal 2002.

«In America Latina negli ultimi anni abbiamo assistito alla ripresa di un’avanzata progressista che spaventa l’imperialismo, le oligarchie locali e la reazione, tanto più in una fase in cui con la guerra e il passaggio al mondo multipolare gli Stati Uniti perdono il loro ruolo di egemonia, di “poliziotti del mondo”». Così dichiarano Rete dei Comunisti, Cambiare Rotta e Opposizione Studentesca D’Alternativa, architravi di Potere al Popolo. Ma allora perché tutte le potenze imperialiste, a partire dagli USA, si sono affrettate a sostenere Lula contro Bolsonaro e la sua ciurma? La rappresentazione del governo Lula come minaccia per l'imperialismo è una battuta infelice. I governi Lula e Rousseff hanno gestito le politiche della borghesia brasiliana e dell'imperialismo internazionale: rigoroso pagamento del debito estero, privatizzazioni e tagli sociali, enorme precarizzazione del lavoro, compartecipazione alle missioni militari. La burocrazia sindacale della CUT ha subordinato il movimento operaio alla concertazione di queste politiche. È proprio per questo che il malcontento sociale di ampi strati popolari è stato capitalizzato dalla destra e dal suo gigantesco blocco reazionario interclassista. La vittoria di Bolsonaro nel 2019 è stata il portato di questa dinamica. Fortunatamente Bolsonaro è stato sconfitto per un pugno di voti il 30 ottobre, ma continua a controllare metà del Brasile e la maggioranza del Parlamento. L'operazione squadrista dell'8 gennaio è fallita, ma la reazione brasiliana è in piedi, purtroppo, mentre le politiche di Lula le forniranno nuovo terreno di pascolo.

I dirigenti di Potere al Popolo e del Rifondazione Comunista hanno presente qual è la composizione del nuovo governo Lula? Il PT si è alleato con partiti e personaggi della destra brasiliana, tra cui il famigerato Geraldo Alckmin nel ruolo di vicepresidente, e con otto partiti borghesi di centro legati alla tradizione liberale di Cardoso. Per di più in un contesto internazionale in cui Lula, a differenza che nei primi anni 2000, non potrà beneficiare della rendita energetica e dei flussi finanziari che essa assicurava. La politica economica e sociale annunciata porta non a caso il segno dell'austerità. Quanto all'apparato dello Stato cui Lula affida la “difesa della democrazia”, è infarcito di elementi reazionari. Non solo ai vertici militari e delle polizie, ma nello stesso potere giudiziario. Basti pensare che la repressione della destra bolsonarista è affidata al giudice Alexandre de Moraes, già ministro della destra, contrario all'aborto e all'eutanasia, fustigatore dei movimenti dei Sem Terra, grande fan della polizia brasiliana e delle sue scorribande nei quartieri poveri delle metropoli contro la popolazione di colore. Sarebbero questi gli esponenti dell'”avanzata progressista e antimperialista”? Suvvia, un po' di serietà.

La verità è che Lula si offre come garante dell'imperialismo e della borghesia brasiliana nel nome della stabilità contro il caos. Il divieto inaccettabile di manifestare per tutto gennaio mira a legare le mani al movimento operaio nella reazione ai golpisti. E favorirà le misure poliziesche contro l'estrema sinistra.
E allora sì, siamo contro Bolsonaro e i suoi squadristi. Ma non nel nome di Lula e della Borsa brasiliana. Bensì dal versante della classe operaia, dei contadini senza terra, della popolazione povera, delle popolazioni indigene, di tutti coloro che hanno diritto a un'alternativa di società e di potere, i soli che sul terreno della lotta di classe e coi metodi della lotta di classe possono davvero sbarrare la strada alla destra.

PaP e PRC si confermano incapaci una volta di più di un posizionamento di classe e indipendente nella politica internazionale. Con ciò confermando, se ve ne era bisogno, che la loro “alternativa” è tutta interna al bipolarismo tra centrodestra (sempre più a destra) e centrosinistra (sempre più liberale). Non senza sconfinamenti campisti. Per cui se l'imperialismo USA non è più l'unico poliziotto del mondo, gli altri candidati poliziotti (“multipolari”) svolgono allora una funzione progressiva. Magari nei panni dell'imperialismo russo che invade l'Ucraina o dell'imperialismo cinese che strangola l'Africa. Anche qui una visione binaria che cancella le classi e i popoli oppressi nel nome del confronto tra “reazione” (presente) e “progresso” (ahinoi inesistente). E se la ribellione eroica in Iran sconvolge lo schema, allora meglio tacere e occuparsi d'altro. Salvo alludere all'immancabile mano americana.

La fiducia politica enfatica nel governo Lula da parte del PRC e di PaP è solo il risvolto di un posizionamento globale opportunista, privo di un ancoraggio classista. Solo una sinistra rivoluzionaria, in Brasile e ovunque, può mettersi al passo del nuovo scenario mondiale e della sua radicalità. L'alternativa di prospettiva storica non è quella tra “reazione e progresso”, ma tra reazione e rivoluzione. Il resto è fumo.

Partito Comunista dei Lavoratori

Contro lo squadrismo bolsonarista

 


Nessuna fiducia nel governo Lula. Per una iniziativa indipendente del movimento operaio brasiliano

10 Gennaio 2023

English translation

A due anni esatti dall'assalto trumpiano alla sede del Congresso USA, una massa fascistoide ha attaccato e invaso a Brasilia i palazzi presidenziali, del Parlamento, della Suprema Corte.
Non mancano le differenze – di contesto e di dinamica – tra le due vicende.

Differenze di contesto innanzitutto. Gli USA sono la più grande potenza imperialista, il Brasile lo Stato più esteso tra i paesi dipendenti dell'America Latina. La democrazia borghese liberale americana ha secoli di storia alle proprie spalle. Il Brasile ha attraversato dittature militari sanguinose negli anni '60, e ha completato la transizione alla democrazia borghese in tempi recenti, alla fine degli anni '80.

Le differenze riguardano anche la dinamica concreta degli accadimenti. Negli USA l'operazione squadrista si produsse con un presidente Trump ancora formalmente in carica, seppure per poco; in Brasile Bolsonaro ha perso il ballottaggio presidenziale il 30 ottobre scorso, e il nuovo presidente Lula è già insediato e operante.

E tuttavia l'analogia è profonda. In entrambi i casi un blocco sociale reazionario, prodotto di una estrema polarizzazione politica, si è espresso attraverso l'azione diretta, scavalcando ogni canale istituzionale, in contrapposizione al governo dello Stato.

Intendiamoci. Contrariamente alle leggende metropolitane secondo cui tutto si svolge sempre secondo scenari prestabiliti dall'alto, in nessuno dei due casi l'azione diretta è stata guidata dai grandi capi reazionari. Trump ha sicuramente aizzato con la sua demagogia chi ha attaccato Capitol Hill, ma non ha ordinato l'irruzione di massa nel palazzo del Congresso, che semmai lo ha politicamente indebolito. Così l'ultrareazionario Bolsonaro è sicuramente la bandiera e il nume tutelare di chi ha assalito il palazzo presidenziale a Brasilia, ma non è stato il comandante in capo dell'operazione. Non a caso ha pensato bene di dissociarsi, dalla lontana Florida.

E tuttavia limitarsi a queste osservazioni sarebbe oltremodo superficiale e consolatorio. Bolsonaro ha perso le elezioni di ottobre per appena due milioni di voti. Il suo blocco sociale è rimasto sostanzialmente intatto. Si tratta della metà del Brasile. Un blocco nazional-popolare estremamente variopinto, presente nelle città e nelle campagne. Un impasto assortito di nazionalismo, integralismo religioso, xenofobia, gang giovanili e curve calcistiche, latifondismo agrario e business commerciale, piccola e grande criminalità e insieme domanda popolare di polizia e “sicurezza”. Non è un caso se tutto questo ha trovato espressione in Bolsonaro, un populista fanatico no vax che rivendica il peggior militarismo reazionario della recente storia brasiliana. Né è un caso che Bolsonaro abbia cercato appoggi e sponde proprio nelle gerarchie militari .

Ciò che è accaduto ha qui la sua radice. Larga parte della militanza attiva del bolsonarismo non è affatto rassegnata al risultato elettorale del 30 ottobre. Di più: rifiuta la legittimità del risultato gridando all'inganno dei brogli, esattamente come fece a suo tempo il trumpismo USA.
Per due mesi gli ambienti più radicali del bolsonarismo hanno attivato proteste di piazza, blocchi stradali, presidi, per opporsi alla caduta del loro Capo, e dunque al passaggio istituzionale di consegne tra Bolsonaro e Lula. Non solo: hanno sperato che Bolsonaro in persona facesse appello alle Forze Armate brasiliane perché impedissero con un'azione di forza l'insediamento di Lula. Bolsonaro non li ha assecondati. Non ha riconosciuto la vittoria elettorale di Lula, non si è presentato al suo insediamento, ma non ha fatto appello a rovesciarlo. L'invasione dei palazzi del potere da parte dello squadrismo bolsonarista è sicuramente la risultante della spinta reazionaria di Bolsonaro, è stata incoraggiata dalla sua politica, è stata consentita dalla sua macchina organizzativa e finanziaria (a partire dai pullman), è stata coperta dalle compiacenze e complicità di polizia ed esercito. Al tempo stesso non ha trovato direzione e sbocco.

Ma il monito di quanto accaduto va ben al di là del suo esito. Dimostra che il livello di scontro politico è esondato dai binari della democrazia borghese. Interroga da un lato il nuovo governo Lula, dall'altro il movimento operaio brasiliano.

Lula si è affrettato a capitalizzare lo scampato pericolo, ha incassato il sostegno unanime delle diplomazie imperialistiche mondiali, da Biden a Putin, ha deciso la destituzione del governatore regionale di Brasilia e nuove nomine ai vertici della polizia, ha infine decretato il divieto di manifestazioni in tutto il Brasile sino al 31 gennaio, ciò che significa affidarsi all'apparato statale e militare brasiliano, chiamandolo a “difendere la democrazia”, e soprattutto a bloccare ogni iniziativa indipendente del movimento operaio contro la reazione e la destra.

La preoccupazione principale di Lula è che il fallimento del tentativo golpista faccia da stura a una risposta di classe e di massa, in una dinamica di scontro aperto con la reazione.
È facile prevedere che il divieto di manifestare e lo stato di emergenza verrà applicato contro il movimento operaio, a partire dalla sua avanguardia. Lula chiede “ordine”, come la stampa borghese brasiliana, la Borsa, le organizzazioni padronali. Nessuna di queste è affiliata a Bolsonaro. Ognuna teme ora come la peste il rischio di un conflitto sociale e politico ingovernabile. Il governo Lula raccoglie questa domanda d'ordine. La stessa composizione del governo, che coinvolge anche ambienti e personalità della destra, è indicativa del suo corso politico liberale. È il governo più a destra tra quelli diretti dal PT negli ultimi vent'anni.
Ora l'azione sovversiva abortita dell'8 gennaio consolida una volta di più il suo corso liberale. Lula fa leva sugli avvenimenti per rafforzare la propria legittimazione agli occhi della borghesia quale unico possibile argine al caos. Fermare ogni possibile risposta di classe ai golpisti diventa la misura della propria credibilità.

Il movimento operaio ha l'esigenza esattamente opposta: quella di mobilitare unitariamente le proprie forze contro la reazione bolsonarista, in piena autonomia dal governo Lula e dall'apparato dello Stato. È l'ora dello sciopero generale, delle manifestazioni di massa, della organizzazione diretta dell'autodifesa. È l'ora della contrapposizione attiva della classe operaia a questa ondata squadrista.
Al di là del loro esito immediato, i fatti dell'8 gennaio dimostrano le potenzialità del blocco sociale reazionario e la radicalità delle forze organizzate che lo compongono. Solo un movimento indipendente dell'enorme classe operaia brasiliana può disgregare quel blocco sociale e aprire dal basso uno scenario nuovo. Opporre alla reazione una prospettiva anticapitalista è la via più sicura per sbarrarle la strada. Per l'oggi e per il domani.

Partito Comunista dei Lavoratori

Comunicato di adesione al PCL

 


Giuseppe Caretta, Massimo Lega e Francesco Scura, militanti del Collettivo politico “Guevara” presente e operante nelle province di Brindisi, Bari, Taranto e Lecce, costituito da compagni provenienti da una comune militanza politica a partire dai primi anni ’90 nella tendenza politica Bandiera Rossa, con incarichi e ruoli di primo piano nella componente giovanile del PRC e nei collettivi studenteschi universitari, hanno deciso di aderire al Partito Comunista dei Lavoratori, per operare da un lato una scelta in controtendenza rispetto al quadro odierno di atomizzazione, frammentazione e dispersione delle organizzazioni politico-sindacali della sinistra di classe e rivoluzionaria, dall’altro in continuità con l’attività del Collettivo di contribuire a favorire processi di aggregazione e ricomposizione dei soggetti politici di classe presenti sul territorio.


In questi ultimi anni la nostra militanza in un collettivo politico territoriale, conclusa di fatto l’esperienza del PRC e verificata l’inconsistenza programmatica di quanto rimaneva della vecchia Bandiera Rossa, si è rivelata condizione necessaria per mantenere e preservare un posizionamento politico di classe, ma non sufficiente ad una elaborazione politica più strutturata. Ci è sembrato quindi utile un passaggio qualitativo, cioè l’adesione ad un partito anticapitalista e rivoluzionario come il PCL, con un parziale radicamento in settori dell’avanguardia di classe, con l’intento di partecipare e contribuire ad un processo di ricomposizione dei quadri e militanti rivoluzionari e i settori più coscienti e politicizzati della classe lavoratrice. Crediamo altresì che la nostra adesione possa servire a elevare e stimolare il livello di dibattito politico all’interno del Collettivo su questioni teoriche, sulle dinamiche politiche attuali e quindi sulla necessità di operare in un partito strutturato.

A livello internazionale, come Collettivo Guevara abbiamo contribuito, aderendo al documento della sinistra interna, durante l’ultimo congresso mondiale della Quarta Internazionale, alla costituzione e al consolidamento della TIR, vale a dire la Tendenza per un’Internazionale Rivoluzionaria, che come raggruppamento internazionale si pone l’arduo compito di lavorare politicamente alla formazione di soggettività politiche anticapitaliste e rivoluzionarie più ampie e in grado di intercettare e di interconnettersi con i processi di radicalizzazione politica giovanile e le lotte di classe. Allo stesso tempo esprimendo un giudizio e una presa di posizione rispetto al recente congresso dell’NPA francese riteniamo esiziale la dinamica di subordinazione alle forze politiche neoriformiste e gradualiste come La France Insoumise di Mélenchon, voluta dai settori centristi di Besancenot e Poutou che hanno determinato l’implosione di questa organizzazione politica, mentre consideriamo condivisibile e auspicabile la determinazione delle tendenze di sinistra interna, tra cui “Anticapitalisme & Revolution”, di preservare e al contempo rilanciare, su basi classiste e anticapitaliste, l’azione dei settori di avanguardia rivoluzionaria.

In questo quadro giudichiamo positivamente lo sforzo unitario del PCL e accogliamo l’invito all’adesione, auspicando che questa scelta scongiuri per noi del Collettivo il rischio di auto-ghettizzazione e isolamento, e impedisca la dispersione delle esperienze politiche accumulate.

Aderiamo ad un partito che attraverso il dibattito e la formazione politica, la partecipazione alle esperienze di lotta più avanzate e radicali della classe lavoratrice, contribuisce a sviluppare una coscienza di classe in settori di avanguardia indispensabile per poter resistere all’offensiva padronale e governativa e per costruire i presupposti per una controffensiva e un rilancio del protagonismo e dell’autorganizzazione operaia.

Saluti rivoluzionari.

Giuseppe Caretta, Massimo Lega, Francesco Scura

Il caso Tempest e la corsa alle armi

 


L'imperialismo tricolore in prima fila

La nuova corsa agli armamenti attraversa il mondo. USA, Russia, Cina battono ogni record precedente in fatto incidenza della propria spesa militare sul PIL. La Germania “riarma”, con 100 miliardi di nuovi investimenti nella difesa. Il Giappone addirittura raddoppia il proprio bilancio militare.

La corsa alle armi travalica le vecchie frontiere tecnologiche, nel mentre ripropone le contraddizioni tra potenze persino all'interno dello stesso campo internazionale. L'industria militare aeronautica è sotto questo profilo esemplare, con un ruolo di primo piano dell'imperialismo italiano. Si tratta del progetto di velivolo militare “di sesta generazione” mirato all'abbattimento degli aerei nemici. Una sorta di macchina militare volante dotata di straordinarie capacità distruttive, con tanto di piattaforme elettroniche onnicomprensive e possibile guida artificiale.

Due cordate rivali si contendono la sua costruzione e i relativi spazi di mercato. Da un lato la cordata Gran Bretagna, Italia, Giappone attorno al cosiddetto progetto Tempest. Dall'altro la cordata di Francia e Germania attorno al cosiddetto progetto FCAS (Future Combat Air System). Due progetti concorrenziali tra loro, che naturalmente sospingono anche per questo il raddoppio delle spese, a carico dei salariati, della sanità, dell'istruzione. Si calcola che il progetto Tempest, che conta di essere operativo nel 2035, avrà una spesa complessiva di 25 miliardi di cui 8 miliardi per la sola fase di sviluppo. Il gruppo italiano Leonardo, controllato dalla stato italiano, collabora con la BAE Systems britannica nell'operazione. Se avrà successo, Tempest supererà in fatto di capacità militare i livelli raggiunti da USA, Russia, Cina.

Non si tratta di un risvolto indiretto dell'invasione russa dell'Ucraina. Tanto meno degli aiuti militari a Kiev, più che mai scoperta oltretutto proprio nei cieli. Il calendario stesso è rivelatore. In Italia il progetto Tempest venne intrapreso dal governo Conte uno (2018) e poi confermato dal Conte due (2020), per essere infine ereditato dal governo Draghi. Meloni ovviamente segue la pratica. La verità è che tutti i governi e tutti i partiti borghesi ovunque schierati sostengono attivamente il militarismo italiano, cercando di assicurargli le migliori fortune.

Lo sguardo non è sull'Ucraina ma sulle guerre del futuro. «Cosa dovrà fare un aereo di combattimento fra trent'anni?» si chiede La Repubblica (19 dicembre) nell'esaltare Tempest. Non senza aggiungere: «La forza lavoro impiegata nel supercaccia diventa sempre più giovane, il 40% sono trentenni e il 20% ventenni, sottolineano alla BAE. Speriamo che l'Italia si allinei, permettendo di far decollare una nuova leva di costruttori di futuro».
Dunque la costruzione del futuro da affidare ai giovani è la corsa alla guerra. Leonardo non a caso è terreno di carriera degli ex ministri degli interni, come Minniti. Mentre il nuovo ministro Crosetto viene direttamente dal lobbismo militare tricolore.

Opporsi alla guerra e alla corsa agli armamenti significa per noi opporci innanzitutto all'imperialismo di casa nostra, alle sue spese militari, e a tutti i soggetti che le sostengono. Inclusi quelli che parlano di pace dopo aver varato progetti di guerra, magari nelle vesti di Presidenti del Consiglio.

Partito Comunista dei Lavoratori