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A sostegno della protesta pro Palestina nelle università

  Giù le mani dagli studenti! Palestina libera! Si diffonde la protesta nelle università italiane . Una protesta che unisce migliaia di stud...

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Coraggiosa?

Dopo la vittoria di Bonaccini in Emilia, sorge una nuova stella a sinistra del PD.
Il risultato riportato dalla lista "Emilia-Romagna Coraggiosa Ecologista Progressista” all'interno della coalizione di centrosinistra è diventato il nuovo irresistibile magnete. Norma Rangeri per Il Manifesto non ha perso tempo per rivendicare in tutta Italia la replica di "Coraggiosa": «Tra le nostre speranze c'è anche quella che altri, a sinistra, prendano esempio dalla lista Coraggiosa» (martedì 28 gennaio). Nicola Fratoianni per Sinistra Italiana si è prontamente accodato il giorno dopo in una lunga intervista sullo stesso giornale dal titolo “Ora una Coraggiosa nazionale, alleata con il centrosinistra”.
Inutile dire che i risultati elettorali riportati dalle tre liste indipendenti a sinistra del PD (1% sommate) sono stati esibiti a riprova dell'operazione, nel nome del realismo, dell'”empatia col popolo della sinistra” e di tutto il tradizionale vocabolario frontista.

Ora, noi abbiamo detto e scritto sui magrissimi risultati delle sinistre indipendenti in Emilia. Vittima, secondo ogni evidenza, della polarizzazione dello scontro con Salvini e del richiamo del voto utile. E non vogliamo soffermarci qui sulle ragioni della nostra critica alla politica di queste formazioni, che va ben al di là dei fatti contingenti e dell'ambito elettorale. Il punto ora è un altro. Fratoianni ripropone a sinistra, come se nulla fosse avvenuto, l'eterna soluzione dell'accordo di governo col PD, la stessa prospettiva che aveva solennemente escluso appena otto mesi fa nella campagna elettorale delle europee. E lo fa col candore di chi rimuove la memoria.

Non è bastato il primo governo Prodi, che col sostegno di Bertinotti, Ferrero e Rizzo, votò l'introduzione del lavoro interninale.
Non è bastato il governo D'Alema, che col sostegno di Cossutta, Diliberto, Rizzo, votò la parificazione tra scuola pubblica e scuola privata tra un bombardamento umanitario e un altro.
Non è bastato il secondo governo Prodi, che col sostegno di Ferrero e Diliberto, votò la più grande detassazione dei profitti del dopoguerra (Ires dal 34% al 27,5%).
Non è bastata, insomma, la distruzione del patrimonio di Rifondazione Comunista, che ha concimato il campo dell'ascesa populista, prima di Grillo e poi di Salvini.

No, ora si vuole replicare la stessa operazione, con forze infinitamente più esigue e in un contesto infinitamente peggiore... E a volerla replicare è quello stesso Nicola Fratoianni che in sodalizio con Gennaro Migliore sostenne in Rifondazione tutte le scelte governiste dei suoi segretari. Ogni volta nel nome del “realismo”, ogni volta per ripudio dell'”estremismo”.

Già, ma perché meravigliarsi? Sinistra Italiana al governo col PD c'è già, con lo strapuntino di un sottosegretario all'Istruzione, nello stesso ministero che non trova un euro per la scuola pubblica e per l'università. Forse spera che la prossima volta, con maggior peso negoziale, possa ottenere dal PD almeno un ministero. È una speranza fondata. Sempre che l'attuale governo non spiani la strada alla destra di Salvini e Meloni, un po' frettolosamente sepolti in Emilia. Come i governi di centrosinistra hanno fatto regolarmente in passato.

E tuttavia la tragica ironia della sorte vuole che nello stesso giorno – 29 gennaio – in cui si rilancia per il futuro semplicemente la continuità del presente, i fatti si incarichino di presentare la realtà. È ufficiale: la ministra degli interni comunica che restano in piedi gli accordi con la Libia presi da Salvini e da Minniti, col loro carico di orrori, torture e stupri; col governo PD-M5S-LeU-Renzi che continua a finanziare una guardia costiera di trafficanti corrotti per riportare nei lager chi cerca la fuga nel mare. Inoltre, nello stesso maledettissimo giorno, il ministero del tesoro annulla “obblighi e sanzioni” per le aziende che delocalizzano (Il Sole 24 Ore, 30/1), mentre gli operai Whirlpool sono gettati su una strada da una proprietà protetta dal governo.
Ora, vedete, governare col PD è legittimo. Ed è legittimo sperare di continuare a farlo negli anni. Ma definirla una scelta “coraggiosa” forse è un tantino azzardato. A meno che per coraggio si intenda la faccia di bronzo. In questo caso indubbiamente abbonda.
Partito Comunista dei Lavoratori

I palestinesi non si faranno né intimidire né comprare

La cosiddetta “soluzione per la Palestina” cucinata da Trump e Netanyahu è una provocazione per i palestinesi e la nazione araba. L'occupazione israeliana della Cisgiordania si trasforma in annessione diretta. Legittimazione definitiva degli insediamenti coloniali. Gerusalemme capitale d'Israele. Una entità palestinese senza controllo dei propri confini, senza esercito proprio, senza continuità territoriale. In conclusione un bantustan, una riserva coloniale sotto il tallone della potenza sionista. Altro che “Stato palestinese”!

L'imperialismo USA chiude così il lungo tragitto dei famosi accordi di Oslo del 1993 siglati da Clinton e Arafat. La promessa era quella di un futuro Stato palestinese nei territori di Gaza e Cisgiordania. Ad Arafat si concedeva l'amministrazione “autonoma” dei territori nella prospettiva di una futura indipendenza. Nei fatti la direzione di Al Fatah pattuiva con Israele la propria funzione di polizia nei territori occupati, in cambio di laute prebende. Tutta la sinistra internazionale applaudì all'epoca all'“accordo di pace”, incluso il neonato PRC. La parola d'ordine “due popoli due Stati” venne celebrata negli ambienti riformisti di tutto il mondo come la soluzione democratica finalmente scoperta per la Palestina; una soluzione che le stesse diplomazie imperialiste hanno a lungo recitato come un mantra.

In realtà quella promessa era semplicemente una truffa, come tale denunciata dalla sinistra palestinese e a maggior ragione dai marxisti rivoluzionari. Come potevano due minuscoli territori accerchiati da Israele rappresentare il luogo dell'autodeterminazione palestinese? Il diritto dei palestinesi a ritornare nella terra da cui furono cacciati era la prima vittima degli accordi di Oslo. La degenerazione di Al Fatah e del suo gruppo dirigente, sospinta dalla corruzione dilagante e dalla collaborazione con le forze di occupazione, fu il suo inevitabile risvolto. Hamas e il panislamismo reazionario capitalizzarono a Gaza la deriva di Al Fatah in Cisgiordania.

Ora Trump e Netanyahu forniscono agli accordi di Oslo la loro concreta traduzione politica. “Due popoli due Stati” diventano una enclave palestinese sotto la dominazione di Israele, una dominazione militare, politica, territoriale, accompagnata da una pioggia di miliardi per chi volesse vendersi. Una prigione a cielo aperto e senza vie d'uscita, benedetta dalle monarchie del Golfo. Un ultimatum provocatorio per le stesse direzioni palestinesi, alle quali si chiede semplicemente una resa definitiva e umiliante agli occhi del loro stesso popolo.

Trump e Netanyahu esibiscono la propria “soluzione” anche a fini di politica interna. Trump, oggetto di impeachment, punta alla propria rielezione a novembre. Netanyahu, sotto processo per corruzione, deve affrontare la terza competizione elettorale nel solo ultimo anno. La cancellazione della questione palestinese è solo merce di scambio nei loro calcoli cinici. Hanno scelto non a caso, per fare l'annuncio, il giorno internazionale della memoria della Shoah, per fornire al colonialismo sionista la maschera di un popolo oppresso. Come se il terribile sterminio degli ebrei da parte del mostro nazista potesse legittimare l'oppressione dei palestinesi. Come se l'ebraismo potesse essere arruolato nel sionismo.

Ma la questione palestinese non si farà cancellare da Trump. Nessuna oppressione nazionale può essere cancellata sulla carta nel momento stesso in cui è riproposta in tutta la sua brutalità materiale. Il popolo palestinese ha dimostrato nella propria storia l'eroismo di cui è capace un popolo oppresso. Non si farà né intimidire né comprare. Ma certo la provocazione dell'imperialismo e del sionismo sottrae ogni spazio alle illusioni. Il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese non troverà un proprio spazio all'ombra dello Stato di Israele, né ora né mai. Uno Stato che si regge sulla negazione del diritto al ritorno, sui privilegi confessionali, sulla potenza militare, sulla discriminazione della sua stessa minoranza araba, è incompatibile coi diritti dei palestinesi. Solo la dissoluzione dello Stato d'Israele può consentire il diritto al ritorno. Solo una sollevazione rivoluzionaria della popolazione palestinese ed araba, combinandosi con la migliore opposizione ebraica al sionismo, può dissolvere lo Stato d'Israele, aprendo la via all'unica possibile soluzione storicamente progressiva: quella di uno Stato nazionale palestinese, laico, democratico, socialista, rispettoso dei diritti nazionali della minoranza ebraica, dentro una federazione socialista della nazione araba e del Medio Oriente.

È una prospettiva terribilmente difficile, ma è l'unica reale. Ogni altra soluzione, negoziata con l'imperialismo e col sionismo, può essere solo un inganno. E dunque fonte di nuove tragedie e sofferenze.

Peraltro in larga parte del Medio Oriente e della nazione araba si è levato da tempo un vento nuovo. Le ribellioni democratiche e di massa di dieci anni fa in Tunisia, in Egitto, in Siria si sono risolte in drammatici rovesci, per responsabilità delle loro direzioni liberali e dell'imperialismo. Ma la rivoluzione ha rialzato la testa in Algeria, in Sudan, in Iraq, in Libano, mentre in Iran un nuovo movimento sfida l'oppressione del regime. Ovunque la giovane generazione si ribella alle divisioni confessionali, al dispotismo di regimi teocratici, alla presenza di forze di occupazione. Le ragioni del popolo palestinese possono dunque trovare nuove energie nelle masse oppresse della regione. Ma è necessaria una nuova direzione, all'altezza di un vero progetto di liberazione: una direzione rivoluzionaria e socialista.
Partito Comunista dei Lavoratori

Per chi suona il citofono

I risultati del voto regionale in Emilia-Romagna e Calabria hanno un profilo contraddittorio.

In Calabria lo sfondamento del blocco reazionario di centrodestra ha le proporzioni attese, capitalizzando l'autentico crollo del M5S, sullo sfondo dell'assenza sul piano elettorale di qualsiasi sinistra a sinistra del PD.

Diverso il caso dell'Emilia-Romagna, dove si è concentrato uno scontro politico di immediata valenza nazionale. Qui la Lega ha cercato lo sfondamento puntando a un effetto domino su scala generale. L'obiettivo era quello di conquistare il governo della regione per accelerare elezioni anticipate e rivincita politica nazionale.
Il piano è fallito.

Diversi sono i fattori che hanno sospinto la vittoria di Bonaccini.
Lo scarto tra Bonaccini e Borgonzoni in fatto di immagine e “credibilità istituzionale”, come mostra il successo della lista personale Bonaccini (5,76%) a fronte del fallimento della lista Borgonzoni (1,73%).
La capitalizzazione di un voto disgiunto proveniente da elettori del M5S, di Forza Italia, delle tre liste di sinistra, unito per ragioni diverse dalla repulsione per Salvini: chi da un versante sociale e democratico, chi da un versante borghese liberale.
La rimotivazione al voto di un settore significativo di elettorato di sinistra e democratico che in precedenza si era astenuto e che in questo caso ha fatto la fila ai seggi. Qui ha svolto un ruolo il movimento delle sardine, che non ha ricollocato l'elettorato popolare che votava a destra ma certo ha trascinato al voto una parte di elettorato di sinistra passivizzato e deluso.

La sconfitta di Salvini sta qui. Le dimensioni della sconfitta politica sono superiori a quella della sconfitta elettorale. Elettoralmente il blocco reazionario del centrodestra tiene la propria base di massa, particolarmente concentrata nelle campagne, nella provincia profonda, nelle periferie. Ma politicamente non poteva esserci sconfitta più netta.
Salvini ha puntato sulla massima politicizzazione dello scontro e insieme sulla sua estremizzazione reazionaria. Bibbiano e il citofono ne sono stati l'emblema. L'obiettivo era impugnare la bandiera del cambiamento contro quella della conservazione – con tutto il peggiore armamentario bigotto e xenofobo – per polarizzare a destra in chiave anti-PD il crollo annunciato del M5S. La politicizzazione dello scontro è riuscita, ma ha prodotto prevalentemente (e paradossalmente) una dinamica opposta: prima il movimento delle sardine, nato non a caso in Emilia proprio in opposizione a Salvini; poi la crescita della partecipazione al voto, maggiore soprattutto nelle città, per sbarrare la strada a Salvini. Ha vinto dunque l'eterogenesi dei fini. Salvini ha suonato il citofono sbagliato. All'interno del centrodestra, l'arretramento della Lega a vantaggio di Fratelli d'Italia, che supera l'8%, è un ulteriore smacco per il suo segretario.

Il PD liberal-borghese capitalizza elettoralmente la sconfitta del Capitano, come dimostra la crescita della sua lista (34,69%) rispetto allo stesso risultato delle elezioni europee, nonostante il successo della lista personale di Bonaccini. Da un lato il PD ha spartito con la lista Bonaccini il voto di settori piccolo e medio-borghesi moderati, desiderosi di tranquillità, dunque appagati dalla “buona amministrazione” del Presidente uscente; dall'altro ha capitalizzato la spinta prevalente di un elettorato di sinistra legato alla tradizione democratica e antifascista, e spaventato dall'ex ministro degli interni in permanente divisa di polizia. Il 3,77% riportato dalla lista Emilia-Romagna Coraggiosa Ecologista Progressista, interna alla coalizione di Bonaccini, ha anch'esso raccolto questa pulsione, cui le sardine non sono certo estranee.
Dunque il referendum su Salvini voluto da Salvini ha punito chi lo ha invocato. Mentre un governatore borghese come Bonaccini, eletto contro Salvini ma garante del padronato, potrà continuare a gestire la normale amministrazione degli interessi capitalistici in regione, non ultimo il progetto di autonomia differenziata ai danni di istruzione, sanità, servizi, contro i lavoratori, le lavoratrici e la popolazione povera. Ciò che in assenza di un'opposizione di classe, e col tacito consenso della CGIL, continuerà a consegnare al blocco sociale reazionario un ampio settore di salariati.

A sinistra del PD, il richiamo del voto utile ha fortemente penalizzato le liste presenti. Il risultato d'insieme delle tre liste (complessivamente l'1,3%, un 1% tra i candidati presidente) è obiettivamente marginale, e nessuna di esse emerge come polo attrattivo rispetto alle altre. Il PC di Rizzo (0,48%) dimezza i voti rispetto alle elezioni europee anche nei collegi in cui era presente. Potere al Popolo (0,37%) disperde larga parte dell'elettorato conquistato nelle elezioni politiche del 2018. Ma è soprattutto la lista L'Altra Emilia-Romagna a conoscere il risultato peggiore: l'unica lista delle tre ad essere presente in tutta la Regione – e che per questo aveva rivendicato il voto utile per sé a scapito delle altre – è quella che ha raccolto meno voti in assoluto e in percentuale. Rifondazione Comunista, che ne è stata il perno, paga una volta di più il mimetismo della propria politica.

Il PCL non ha potuto essere presente per via di una legge elettorale antidemocratica. Abbiamo dunque dato indicazione di voto a sinistra del PD, senza illusioni. Ma al tempo stesso diciamo forte e chiaro che non c'è possibilità di risalire la china a sinistra, sullo stesso terreno elettorale, senza la ripresa di una opposizione di classe e di massa. Chi pensa che la soluzione a sinistra sia questo o quell'altro cartello elettorale continua a pestare l'acqua nel mortaio. Le elezioni riflettono in modo distorto ciò che si muove, o non si muove, sul terreno sociale. Se si smarrisce il confine di classe nell'immaginario sociale quotidiano, perché quel confine dovrebbe apparire nel giorno del voto? Se la lotta di classe rifluisce, se con essa arretra la coscienza politica di massa e spesso della sua stessa avanguardia, nessuna alchimia elettoralista invertirà la condizione della sinistra politica. Semmai produrrà nuovi danni.

Il coordinamento nazionale unitario delle sinistre di opposizione, fuori da ogni logica elettorale, è nato il 7 dicembre per unificare le lotte di resistenza e rilanciare l'opposizione sociale. Le campagne unitarie che sono partite in tutta Italia hanno esattamente questo scopo. Il PCL, che ha contribuito in modo determinante al coordinamento dell'unità d'azione, continuerà a lavorare per il suo allargamento, nazionale e locale, politico e sindacale, contro ogni settarismo e preclusione. E al tempo stesso porta e porterà in esso il proprio programma di rivoluzione per lo sviluppo della coscienza anticapitalista, contro ogni illusione riformista.

Senza unire l'azione di avanguardia non si può lavorare alla ripresa di massa né incidere sullo scenario politico. Senza un programma di rivoluzione non si può dare all'avanguardia una prospettiva vera di alternativa al capitale.

Per questo saremo come PCL i più unitari e i più radicali. Per questo costruiamo il Partito Comunista dei Lavoratori.
Partito Comunista dei Lavoratori

Perché Rifondazione dice no al coordinamento delle sinistre di opposizione?

La risoluzione della Direzione Nazionale di Rifondazione Comunista del 19 gennaio ha dato una risposta negativa alla proposta di unità d'azione che le è stata rivolta dall'assemblea nazionale del 7 dicembre a Roma e dal coordinamento che da essa è nato.

Come PCL ne prendiamo atto. Ma gli argomenti che l'accompagnano non reggono alla prova della logica.

La risoluzione votata dalla Direzione Nazionale del PRC propone «alle forze promotrici dell’assemblea del 7 dicembre scorso di individuare obiettivi concreti su cui sviluppare campagne politiche e mobilitazioni comuni» ma respinge «cartelli di sigle» e «sommatoria di partitini».

È una contorsione incomprensibile.
Il coordinamento nazionale delle sinistre di opposizione non è affatto “un cartello di sigle”. È un coordinamento dell'unità d'azione su cinque temi concreti: la riduzione generale dell'orario di lavoro; la nazionalizzazione senza indennizzo delle aziende che licenziano, inquinano, delocalizzano; l'abolizione dei decreti sicurezza e degli accordi stipulati con la Libia; l'abolizione della legge Fornero; l'opposizione a ogni disegno di autonomia differenziata; il no alla guerra, la rottura con la NATO, il ritiro delle truppe italiane da tutte le missioni.
Su ognuna di queste campagne, com'è ovvio, possono realizzarsi convergenze e pratiche d'azione, nazionali e locali, che vanno al di là del coordinamento. Ma il coordinamento nazionale delle campagne è essenziale per dare ad esse una cornice d'insieme e definire i loro contenuti. Sull'insieme delle campagne, e su ciascuna di esse, il coordinamento nazionale ha discusso nel modo più aperto e con un metodo inclusivo, cercando il coinvolgimento più largo di tutte le organizzazioni disponibili, secondo le decisioni dell'assemblea del 7 dicembre. E infine ha prodotto i materiali delle campagne unitarie – un volantone di impostazione generale e cinque testi tematici – proprio per dare il via all'azione comune. Che senso ha dire che si è disponibili all'azione comune ma non al suo coordinamento unitario perché sarebbe un «cartello di sigle»!?

L'obiezione è tanto più curiosa perché il PRC, dopo il successo del 7 dicembre, ha partecipato alle riunioni del coordinamento con una rappresentanza della propria Segreteria nazionale. Ha dunque partecipato per un mese a un... cartello di sigle? È stato chiarissimo sin dall'inizio che le firme d'organizzazione attorno al volantone non prefigurano alcun nuovo soggetto, non alludono a sbocchi elettorali, tanto meno a un partito comune. Indicano semplicemente, in piena trasparenza, la paternità politica delle campagne unitarie e dell'indirizzo di merito proposto. Ogni organizzazione doveva scegliere se promuovere nazionalmente le campagne oppure no, se condividere i loro contenuti oppure no, se aderire al loro coordinamento oppure no. Una scelta libera, rispettosa dell'autonomia di ogni soggetto, e persino dei suoi tempi di decisione. Al punto di lasciare aperta, anche nazionalmente, la possibilità di aderire al coordinamento in un momento successivo al varo dei testi.

La Direzione Nazionale del PRC, dopo lunghe oscillazioni, ha scelto il no. È legittimo. Ma perché giustificare questo no evocando cartelli inesistenti o mascherandolo dietro finti rilanci unitari proprio nel momento in cui si respinge il coordinamento dell'unità d'azione?

La vera ragione del no sta, a nostro avviso, in altro. Sta nel fatto che la maggioranza dirigente di Rifondazione non condivide, com'è suo diritto, l'impostazione programmatica che è stata data alle campagne. Non vuole problemi con i vertici della CGIL. Non vuole rompere i ponti con la sinistra di governo (Sinistra Italiana). Continua a cercare di legittimarsi come sinistra “radicale” ma “responsabile”, a futura memoria, come mostra per ultimo la firma all'appello pacifista che difende l'Unione Europea e persino la NATO, o il plauso alla subordinazione di Podemos al governo della socialdemocrazia spagnola con la benedizione della monarchia. Un plauso su cui si chiude, non a caso, la risoluzione della Direzione Nazionale.

Sì, è vero, il nostro è un giudizio severo. Ma è il nostro giudizio. Esso non muta di una virgola la piena disponibilità del PCL all'unità d'azione col PRC come con altri soggetti riformisti. Perché il fronte unico non lo si fa con se stessi (come vuole Rizzo). Lo si fa tra forze diverse che scelgono di unire la propria azione su obiettivi comuni al servizio del proprio campo sociale, riconoscendosi al tempo stesso reciproca autonomia, compreso il diritto di critica. Questo è, per noi, il coordinamento unitario delle sinistre di opposizione. Né più, né meno.

Il rifiuto del PRC di farne parte è negativo, ma certo non disarma il lavoro del coordinamento su scala nazionale e sui territori attorno alle campagne decise. E forse costituisce un'occasione di riflessione e di bilancio politico per tante/i comuniste/i del PRC, a partire dai tanti/e che in molte parti d'Italia sono e restano parte integrante dei coordinamenti unitari, nonostante le scelte della propria Direzione Nazionale.


Partito Comunista dei Lavoratori

Fermiamo l'ondata reazionaria! Nessun sostegno a Bonaccini e al PD e alle loro politiche filopadronali! Vota a sinistra

Il voto in Emilia Romagna può costituire uno spartiacque per la caduta del governo e l’avvento al potere della Lega e di Fratelli d’Italia. Bonaccini e il PD non sono un argine a alla destra reazionaria. Tutt’altro: gli hanno aperto la strada.
Il Partito Comunista dei lavoratori non si sottrae alla responsabilità di dare un’indicazione per fermare la destra. Diamo indicazione ai compagni militanti, aderenti e simpatizzanti di votare a sinistra del PD, ma il nostro sarà un voto necessariamente critico, perché nessuna lista presente alle elezioni rappresenta le ragioni del rilancio del movimento operaio e dei bisogni delle classi popolari
.

Il mondo politico e quello dei mass media hanno messo ormai da mesi sotto osservazione le prossime elezioni regionali dell’Emilia Romagna del 26 gennaio 2020. Queste elezioni vengono rappresentate come lo snodo politico decisivo per le sorti del governo e il precipitare della dinamica politica italiana verso le elezioni anticipate, che con tutta probabilità darebbero la vittoria alla destra e al suo progetto neoautoritario.

Non ci possiamo nascondere il pericolo: bisogna fermare l’ondata reazionaria cavalcata da Salvini e Meloni.

Un’ondata reazionaria che cerca di dirottare la rabbia sociale contro gli immigrati, con misure forcaiole, per impedire che si rivolga contro i capitalisti, quelli che loro proteggono, mentre rilancia la crociata contro i diritti delle donne e legittima le organizzazioni fasciste, che si avvalgono della copertura e degli ammiccamenti di Salvini per allargare e moltiplicare le proprie provocazioni e aggressioni squadriste.

Il primo dovere è opporsi alla reazione e ai suoi partiti.

Ma il governo di PD-M5S-LeU non rappresenta in alcun modo un argine alla destra.

Il governo che si annunciava di svolta è in realtà il governo della continuità, di manutenzione degli interessi capitalistici. Continuità non solo di un Presidente del Consiglio buono per ogni stagione, ma soprattutto delle politiche dominanti. Tutte le peggiori misure antioperaie dell'ultimo decennio, dal Jobs Acts alla legge Fornero, restano intatte, ed anzi si preannuncia il de profundis di "quota 100". Restano intatti nella loro sostanza i famigerati decreti sicurezza, usati come clava contro gli immigrati, ma anche contro i picchetti e i blocchi stradali di chi difende il posto di lavoro. Si salvaguarda l'accordo infame col governo libico, che finanzia i carcerieri di carne umana ammassata in luoghi di tortura e di stupri. Si rivendica la continuità di tutte le missioni militari ed anzi si amplia l'acquisto a suon di miliardi dei famosi F-35, mentre si assicura alla NATO l'aumento richiesto del bilancio della Difesa. Si rilancia ed anzi si accelera un progetto di “autonomia differenziata”, a vantaggio delle imprese del Nord e a carico della popolazione povera del Sud e di tutti i lavoratori del Sud e del Nord.

Questo non solo non ferma la destra, ma ne aumenta il consenso fra le masse popolari.

Bonaccini, il governatore dell’Emilia Romagna, è invocato dalle forze del governo e soprattutto dal PD come un “salvatore della patria”.

Bonaccini è indubbiamente un eminente campione delle politiche antisociali dei governi targati PD. Il fatto che oggi preferisca un profilo di parziale autonomizzazione dal PD, da decenni alla guida dell’amministrazione della regione, e che venga investito da parte dell’opinione pubblica del ruolo di argine all'avanzata salviniana, non ne sminuisce le responsabilità. Tutt’altro.

L’Emilia Romagna di Bonaccini insieme a Veneto e Lombardia è tra le regioni che pretendono l’autonomia differenziata.
L’autonomia differenziata è, come abbiamo già spiegato, la secessione dei ricchi. Ossia la pretesa di trattenere sul proprio territorio il gettito fiscale più ricco prodotto da queste regioni, perché sede di una borghesia più ricca, a scapito delle popolazioni povere del Sud, con un aumento del già vertiginoso differenziale tra Nord e Sud. Inoltre a pagare sarebbero anche i salariati del Nord, perché le regioni ad autonomia differenziata, potendo trattenere tutti gli aumenti di gettito fiscale, aumenterebbero le tasse locali (le addizionali sul’IRPEF). Il risultato sarebbe che, poiché l'entità stessa dei fabbisogni in termini di servizi sociali viene col tempo rapportata al gettito fiscale della regione, le regioni più ricche offrirebbero i servizi migliori, quelle più povere i peggiori. Come se i diritti sociali alla salute o all'istruzione dipendessero dal luogo di residenza, e non dalla eguale natura dei bisogni.

Insomma sappiamo chi pagherà: i poveri e i lavoratori salariati.
Se da un lato si incassano maggiori risorse vuol dire che dall'altro c'è qualcuno che paga.

La popolazione povera del meridione è la prima vittima dell'autonomia regionale, ma non la sola.

Lo spostamento di risorse verso le tre regioni che insieme fanno quasi il 40% del Pil nazionale non sarà tutto caricato sulle regioni del Sud (perché data l'entità del trasferimento sarebbe socialmente e politicamente ingestibile). Sarà in parte caricato sul bilancio pubblico nazionale. Per un verso sulla fiscalità generale, e siccome l'80% del carico fiscale ricade sulle spalle di lavoratori e lavoratrici (e pensionati), saranno loro a pagare, inclusi i lavoratori lombardi, veneti, emiliani. Per altro verso sarà finanziato dal taglio della spesa pubblica, che in larga parte è spesa sociale.
Ancora una volta, dunque, pagheranno i lavoratori e le famiglie povere, senza confini geografici.

L'obiezione secondo cui “nelle regioni ricche vi saranno vantaggi sociali per i lavoratori” è una truffa bella e buona. Qual è la destinazione sociale del surplus fiscale che Lombardia, Veneto ed Emilia richiedono? Basta ascoltare la voce dei governatori interessati: riduzione delle tasse per le imprese del territorio, sostegno alle esportazioni e investimenti esteri delle proprie imprese, maggiore finanziamento pubblico alle scuole private e alla sanità privata, secondo il modello sociale già largamente sperimentato in particolare proprio in quelle regioni.

La verità viene a galla: nella regione in cui il PCI costruì la sua fortuna in termini di qualità e quantità dei servizi sociali, lodati anche all'estero, il PD ha dovuto subire lo smacco di essere imputato proprio del contrario, cioè di una sanità che non tiene conto affatto delle esigenze dei malati ma della redditività dei posti letto (chiusura di pronti soccorso o di reparti di ostetricia in zone di montagna, nelle quali le alternative più vicine si trovano a 30-40 km di distanza).

Una verità così imbarazzante per Bonaccini, che, in vista del possibile disastro elettorale, ha avuto bisogno del soccorso del ministro della sanità che glia ha promesso stanziamenti nazionali per nuovi reparti di ostetricia in zone impervie.

L’uomo che si incarica di gestire le politiche filopadronali del PD sul territorio dell’Emilia Romagna, che una volta almeno in parte aveva un’amministrazione influenzata da politiche solidaristiche vesso i lavoratori e i settori più svantaggiati della società, non fermerà la Lega. Al contrario, le sta già spianando la strada.

Per questo il Partito Comunista dei Lavoratori dà indicazione di voto a sinistra, contro le destre e contro Bonaccini.

Invitiamo le compagne e i compagni a dare un voto a sinistra del PD ma senza illusioni.

La lista “L’Altra Emilia Romagna” è composta da partiti che hanno ciclicamente sostenuto le politiche antioperaie dei governi di centrosinistra, anche nei governi locali (precarizzazione del lavoro, detassazione dei profitti, tagli sociali, campi di detenzione per gli immigrati...). Quegli stessi partiti che dopo aver assunto a riferimento europeo il partito Syriza, che con Tsipras ha gestito le politiche di lacrime e sangue per conto e col plauso del capitale finanziario, oggi plaudono al governo Sanchez in Spagna, che lascia praticamente intatte le politiche antioperaie dei governi PPE, omaggia la UE e le sue politiche disumane contro i migranti, difende la NATO in un contesto di revanscismo imperialista, e continua a tenere in galera gli indipendentisti catalani negando il diritto di autodeterminazione al popolo della Catalogna.

La lista di Potere al Popolo, dietro una propaganda roboante di solidarietà con la classe lavoratrice e le masse popolari, si limita a proporre misure mutualistiche e solidali invece di porre la questione del governo dei lavoratori.

La lista del PC, un partito che è guidato da un camaleonte (Rizzo) che non solo ha sostenuto i due governi Prodi, ma persino il governo D'Alema che bombardò la Serbia, parla di anticapitalismo, di diritti dei lavoratori e dei ceti poveri e dice di volere il socialismo. Ma il “socialismo” di riferimento è il regime nordcoreano, e quindi avverso alla democrazia operaia. E la cultura staliniana non promette nulla di buono: basta vedere le ambiguità calcolate del PC sui diritti civili, sulle rivendicazioni delle donne, sulla difesa dei migranti.
È una sinistra che ammicca al sovranismo nazionalista, e proprio in ragione di questa politica di raggiro degli interessi della classe operaia sfocia in un atteggiamento ultrasettario, tanto da rifiutarsi di aderire al coordinamento unitario delle sinistre di opposizione che ha preso il via con la partecipatissima assemblea del 7 dicembre a Roma e che vede il Partito Comunista dei Lavoratori tra i suoi principali promotori.

Nessuna di queste compagini può rappresentare l’esigenza di una vera alternativa anticapitalista su scala nazionale così come su scala locale.

Un’alternativa che declini sul territorio il programma di svolta unitaria e radicale del movimento operaio sul terreno dell'unificazione delle lotte.

Un programma che traduca nei territori la necessità di una vertenza unificante del mondo del lavoro e del suo incontro con i movimenti che si coagulano intorno alle rivendicazioni democratiche: dai diritti dei migranti a quelli delle donne e di tutti i settori oppressi della società.

Perché anche a partire dal territorio dell’Emilia Romagna ci si può battere contro il governo dei padroni avanzando la rivendicazione di un grande piano di nuovo lavoro, a partire dalla riconversione ambientale e la lotta all'inquinamento, finanziato dalla tassazione progressiva dei grandi patrimoni, rendite e profitti; l’abolizione del debito pubblico verso le banche nazionalizzandole senza alcun indennizzo per i grandi azionisti; l’esproprio delle aziende che licenziano o che inquinano, a tutela di lavoro e salute, e sotto il controllo dei lavoratori; l’azzeramento delle vecchie e nuove misure di precarizzazione del lavoro (dai precari della scuola, alla pubblica amministrazione, ai riders); il rilancio della sanità pubblica contro il parassitismo di quella privata; il diritto alla mobilità pubblica; l’accoglienza dei migranti; il contrasto all'autonomia differenziata.

Il nostro partito non ha potuto presentare questo programma alle regionali dell’Emilia Romagna, per via di assurde barriere antidemocratiche che alterano la rappresentanza democratica, a danno soprattutto dei lavoratori e delle classi povere. Ma questo programma lo portiamo in ogni lotta dei lavoratori e degli oppressi.

Attorno a questo programma lavoriamo a costruire il partito rivoluzionario, un partito che lotti controcorrente per elevare la coscienza politica degli sfruttati.
Perché solo una rivoluzione può cambiare le cose.
Partito Comunista dei Lavoratori - Emilia Romagna

Solidarietà a Yassin

Atmosfera nazi-populista al Pilastro. Matteo Salvini, ex Ministro dell'Interno, ideologo dei decreti sicurezza e Senatore della Repubblica, forse in un bagliore di goliardia che richiama i rastrellamenti degli anni '30, citofona ad una casa abitata da una famiglia tunisina per chiedere, dinnanzi ad una folla armata di cellulari, se il malcapitato "fosse uno spacciatore".

È successo realmente nella rossa Bologna, in piena campagna elettorale. A rispondere al citofono uno studente diciassettenne di origini tunisine figlio di un operaio di Bartolini e di una pensionata. Una famiglia normale salita agli onori della cronaca per la propaganda elettorale della Lega.

Riteniamo scandalosa la tacita complicità che la sinistra "politically correct" dedica a questo fatto, certamente troppo occupata a conservare lo scranno regionale. Rivendichiamo un'opposizione di classe alle nuove destre.

È un triste assaggio del clima che in Emilia Romagna si instaurerà se alle elezioni regionali vincerà la Lega, o se questi infelici barbari riusciranno a governare il paese. Barbari ai quali è il centrosinistra, locale e nazionale, a spianare la strada e concimare il terreno da decenni.

Con pieno spirito rivoluzionario, diamo piena solidarietà a Yassin, contro ogni forma di razzismo e fascismo.
Partito Comunista dei Lavoratori

Per la democrazia nell’opposizione CGIL-Il sindacato è un'altra cosa

Una lettera censurata

21 Gennaio 2020
È purtroppo necessario indicare ai compagne e alle compagne che seguono il nostro sito che nell'ultima fase, in seno all’area di opposizione CGIL-Il sindacato è un'altra cosa (Riconquistiamo tutto!) si è aperto un grave problema di democrazia. Senza entrare nei dettagli, cosa che non è lo scopo di questa breve introduzione alla lettera che segue, possiamo riassumere il tutto dicendo che si è aperta una polemica esasperata, fatta di mancanza di rispetto e atteggiamento insofferente nei confronti di ogni elemento di critica, ad esempio anche nei confronti di semplici emendamenti a documenti dell’area, visti come fossero inaccettabili elementi distruttivi.
In questo quadro si è sviluppata la situazione descritta nella lettera che pubblichiamo, sottoscritta dalla compagna Giusi Di Pietro, delegata metalmeccanica e dirigente dell'opposizione CGIL in Toscana. I compagni e le compagne potranno vedere i fatti leggendo il testo della lettera. Diciamo solo che un gruppo di operai combattivi, ma estremamente settario, presente con un ruolo importante alla Piaggio di Pontedera, ha sviluppato un'azione di gestione totalmente antidemocratica nella FIOM di Pisa, cercando non solo di marginalizzare, ma addirittura di annullare, con trucchi formalistici del tutto irregolari, il ruolo e la presenza di chi non era d’accordo con loro, come appunto la compagna Di Pietro e i/le compagni/e a lei più vicini. Ciò in aperto contrasto con la stragrande maggioranza del Coordinamento regionale toscano dell'area di opposizione CGIL, ma con una sostanziale copertura o almeno passività politica del nucleo dirigente centrale dell’area, a partire della sua coordinatrice nazionale.
Alla fine è stato lo stesso organismo statutario nazionale della CGIL a dover ripristinare, almeno in parte, le regole – formalmente democratiche – dell'organizzazione. Da qui il titolo, volutamente ironico-provocatorio, della lettera della compagna Di Pietro. La compagna ha chiesto che la lettera venisse pubblicata sul sito dell'opposizione; cosa logica, visto che così si era fatto nel passato, anche per le discussioni interne, e visto che l’opposizione CGIL
non dispone di nessuna forma di bollettino interno.
L’esecutivo dell’area sindacale ha respinto a larga maggioranza la richiesta. Una censura antidemocratica che ha obbligato il nostro compagno Luca Scacchi, uno dei due gestori del sito, ad autosospendersi da tale ruolo.
Segnalando la gravità del tutto e il suo inserirsi in un quadro di limiti democratici più generali, per rendere finalmente pubblico quanto avvenuto abbiamo quindi deciso di pubblicare sul nostro sito la lettera della compagna Di Pietro.

FG, FD






È LA BUROCRAZIA CGIL A GARANTIRE LA RAPPRESENTANZA A PISA

La scorsa settimana siamo entrati nel Comitato Direttivo Provinciale della FIOM di Pisa.
Ci è voluto oltre un anno – e quasi 1 Kg di incartamenti – affinché la CGIL, tramite il Collegio Statutario Nazionale, rimediasse (non completamente) alla nostra esclusione avvenuta a opera dei compagni del documento “Riconquistiamo tutto!” che hanno gestito il Congresso a Pisa.

Ricordiamo in sintesi i fatti che si collocano nella situazione dell’area pisana, che vede la componente delle compagne e dei compagni FIOM presenti in Piaggio contrapporsi al resto delle compagne e dei compagni dell’area della FIOM e delle altre categorie.

Nella fase precongressuale, nel comitato direttivo CGIL Pisa erano presenti quattro compagni dell’area, 2 afferenti a una parte e 2 all’altra.
Per risolvere la questione del congresso imminente, pur informati dal coordinamento regionale circa tutti i risvolti della situazione a Pisa, la prima firmataria del documento "Riconquistiamo tutto" in via unilaterale dà la gestione del congresso alla componente Piaggio nonostante le scorrettezze da questi praticate verso gli altri compagni e compagne di Pisa e la loro scarsissima partecipazione sia alla vita dell’area provinciale e Toscana, che a qualunque vertenza esterna alla propria fabbrica.
Visti tali pregressi e non ritenendosi in alcun modo garantiti, il resto dei compagni e delle compagne dell’area si vede quindi costretto a non partecipare al congresso di Pisa pur rendendosi disponibile a fare assemblee nelle altre province.

Fermo restando quanto sopra, come compagne e compagni di 3 aziende metalmeccaniche pisane decidiamo di presentare una lista del 3% in appoggio a “Riconquistiamo tutto!” nei nostri luoghi di lavoro, lista che ottiene complessivamente il 5,21% dei voti FIOM su Pisa, corrispondenti al 18,46% dei voti ottenuti in FIOM a Pisa dal documento 2.
La componente Piaggio, presente con un proprio esponente in CGT-Pisa – nonostante la presa di posizione di compagne e compagni dell’area della Toscana inviata anche al coordinamento nazionale – si attribuisce i resti della lista del 3%, e ci troviamo quindi a partecipare al congresso provinciale FIOM con un numero di delegati insufficiente per poter presentare una nostra lista.
Nonostante il 18,46% dei voti ottenuti dal documento 2 derivi dalla lista del 3%, la componente Piaggio non inserisce nessuno di noi nell’elenco del documento 2 per il direttivo provinciale FIOM, appropriandosi dell’intera nostra quota e di fatto cancellando la nostra rappresentanza nell’organismo.
Questo a riprova del fatto che assegnare la rappresentanza del documento congressuale alla corrente Piaggio non avrebbe dato garanzie al resto delle compagne e dei compagni qualora si fossero impegnati nel congresso a Pisa.
(Tra l’altro, il 2 novembre 2018 è stato inviato agli organismi nazionali dell’area un documento firmato da 40 compagne e compagni dell’area della Toscana, poi diffuso in cartaceo al coordinamento nazionale di dicembre, in cui si mettono in fila fatti che evidenziano dati congressuali anomali per il
documento 2, riferiti al congresso pisano).

Nella riunione dell’esecutivo nazionale dell’area del 20 ottobre, un compagno e una compagna della Toscana relazionano sulla questione e i compagni Grisolia e Scacchi presentano una risoluzione che, senza entrare nel merito della spaccatura pisana, pone la questione democratica della rappresentanza; tale risoluzione viene messa in votazione e respinta a larga maggioranza dall’esecutivo, perseverando così nel non riconoscere legittimità ad una parte delle compagne e dei compagni dell’area di Pisa.

Parallelamente, presentiamo ricorsi alle varie istanze di garanzia congressuali (la CGT di Pisa rigetta il ricorso all’unanimità!) e successivamente, dato che la commissione nazionale di garanzia congressuale aveva concluso il proprio mandato lasciando in sospeso il nostro ricorso, alle istanze di garanzia ordinarie.

Con la delibera del CSN del 16/09/2019 è la burocrazia della CGIL che riconosce il diritto di rappresentanza alla lista del 3%, seppur ci assegni meno di quanto ci spetti. Diritto che ci è stato negato dagli organismi nazionali della nostra area che su Pisa, da tempo, attuano nei confronti della parte “non Piaggio” i metodi che con tanta veemenza criticano alla maggioranza.

Sottolineiamo anche che, per via della scelta fatta dal nazionale a inizio congresso, solo la corrente Piaggio è presente nel direttivo CGIL di Pisa, col rischio che si usi questo risultato distorto a pretesto di ulteriori “conferimenti” di ruoli.

Oggi la democrazia in CGIL fa un piccolo passo avanti. Sarebbe importante che lo facesse anche all’interno della nostra area.


Pisa, 10 novembre 2019

Giusi Di Pietro
(RSU FIOM Scienzia e Fabrica Machinale)



P.S. Cogliamo l’occasione per ringraziare le compagne e i compagni dell’area che ci hanno sostenuto, a cominciare dai nostri compagni presenti negli organismi confederali nazionali di garanzia.

P.P.S. Siamo disponibili a fornire ulteriori documenti nonché chiarimenti e delucidazioni riguardanti l’intera questione (e-mail: giusi.dipietro@yahoo.it).

Imperialismo democratico europeista

Cosa c'entra la NATO con la pace? Cosa c'entra l'UE con i diritti dei popoli?

Perché Rifondazione firma un simile appello?

L'iniziativa contro la guerra è sempre centrale. Ma se si accompagna alla difesa dell'imperialismo può solo risolversi in un inganno, anche se quella difesa si circonda di argomenti democratici e umanitari. È il caso dell'appello “Spegniamo la guerra, accendiamo la pace”, promosso da un ampio arco di soggetti associativi, ed anche da Sinistra Italiana e (purtroppo) da Rifondazione Comunista.

Tralasciamo l'esaltazione della «drammatica attualità e il vero realismo dei ripetuti ma inascoltati appelli di Papa Francesco per l'avvio di un processo di disarmo internazionale equilibrato». Le preghiere dei papi non hanno mai impedito le guerre, semmai ne hanno benedette molte. Oggi tutti i paesi imperialisti, vecchi e nuovi, aumentano i bilanci militari (gli USA, l'Unione Europea, la Cina, la Russia) senza che la Chiesa abbia mai denunciato il bilancio nazionale di alcun paese, anche perché incassa, specie in Italia, regalie pubbliche e donazioni. Del resto, le banche cattoliche partecipano con propri pacchetti azionari ai colossi dell'industria bellica (vedi Banca Intesa Sanpaolo), verso cui spesso è rotolato peraltro persino l'obolo di San Pietro. Il «realismo» del Papa esiste, dunque, ma solo nel senso dell'accettazione della realtà. Nulla di più lontano dall'afflato mistico dell'appello.


L'UNIONE EUROPEA “NATA PER LA PACE”?
Ma il punto vero è un altro. L'appello presenta l'Unione Europea, cioè l'Unione degli imperialismi europei, come possibile fattore di pace. L'Unione sarebbe «nata per difendere la pace», e dovrebbe «assumere una forte iniziativa che – con azioni diplomatiche, economiche, commerciali e di sicurezza – miri ad interrompere la spirale di tensione e costruisca una soluzione politica, rispettosa dei diritti dei popoli, dell’insieme dei conflitti in corso in Medio Oriente e avviare una rapida implementazione del Piano Europeo per l’Africa (Africa Plan) accompagnandolo da un patto per una gestione condivisa dei flussi migratori».

Non c'è una riga di verità in tutto questo. C'è piuttosto il suo esatto capovolgimento.

L'Unione Europea non è affatto «nata per difendere la pace». È nata dopo il crollo dell'URSS per partecipare alla spartizione del bottino. Ha esteso ad est le frontiere militari della NATO, ha innescato la guerra in Jugoslavia, ha partecipato ai bombardamenti umanitari su Belgrado, ha preso parte alla guerre afghane e in Medio Oriente (Iraq, Libia, Siria). La UE nata “per la pace”? Non potrebbe esserci menzogna più grande.

Si chiedono a questa Unione imperialista «azioni diplomatiche, economiche, commerciali, di sicurezza» per «una soluzione politica rispettosa dei diritti dei popoli». Ma si può chiedere a dei briganti il rispetto dei rapinati? Il Piano Europeo per l'Africa è un piano di investimenti privati agevolato da risorse pubbliche che mira a contendere l'Africa ai concorrenti cinesi. Una massa di soldi offerti ai governi corrotti del continente perché aprano al capitale europeo materie prime (litio e cobalto in primis), manodopera a prezzi stracciati, nuove zone di influenza, ingrassando il debito pubblico degli Stati coinvolti e impiccandoli per decenni al suo pagamento con tanto di interessi. Le spese umanitarie per qualche ospedale sono solo la cartolina umanitaria che si affianca a questo sfruttamento, come in tutta la storia del colonialismo europeo.

La «gestione condivisa dei flussi migratori» che l'appello rivendica è solo un risvolto di questa politica di rapina. Si offrono prestiti a debito agli Stati del Sahel in cambio della gestione del blocco delle partenze (come in Niger) e dell'accettazione dei rimpatri degli immigrati “che non hanno diritto”... a cercare una vita migliore in Europa. La cosiddetta gestione “condivisa” è estorta con la corruzione e col ricatto. I “diritti dei popoli” che l'appello rivendica ne sono le vittime.


LA UE E L'ITALIA NELLA SPARTIZIONE DELLA LIBIA
Ma c'è di più. L'Unione Europea è in questi giorni impegnata a gestire la spartizione delle zone di influenza in Libia, assieme al macellaio Erdogan, fresco del massacro dei curdi siriani (e non solo), al boia al-Sisi, cui si è venduta persino la verità su Regeni, al bonaparte Putin che copre sia Erdogan che al-Sisi, cercando di ricavarne un utile sul Mediterraneo. Al-Sarraj e Haftar sono solo figuranti (in particolare il primo) di una guerra per procura, e ora di una spartizione per procura. Se un accordo tra questi banditi sarà trovato, l'Unione ci metterà il sigillo con una missione militare per poter partecipare alla divisione della torta, non senza sgomitamenti tra Francia, Italia, Germania sulla spartizione di questa quota del bottino. Dove sarebbe, di grazia, il diritto del popolo libico in questo mercimonio tra delinquenti? Il silenzio dell'appello su tutto questo è una copertura della politica di rapina.

L'appello chiede al governo italiano di «porre all’interno dell’Unione Europea la questione dei rapporti USA-UE nella NATO». Ma nella NATO è già in corso il negoziato sui rapporti tra UE e USA. Gli USA chiedono ai paesi UE di allargare le proprie spese militari, sino al 4% del Pil, mentre alcuni ambienti UE sventolano l'idea di un passo avanti verso l'esercito integrato europeo. Altro che politiche di pace! In una banda internazionale dedita al brigantaggio, i soci fondatori discutono della distribuzione delle armi. In ogni caso lavorano per lo sviluppo del militarismo.
Rivendicare un negoziato immaginario di pace all'interno della NATO significa coprire il reale negoziato militare che si sta svolgendo. Cosa c'entrano i popoli con tutto questo? Cosa c'entra la NATO con la pace?

Infine l'appello tace splendidamente sul governo italiano, sul consiglio di amministrazione dell'imperialismo di casa nostra. E tace proprio nel momento in cui il ministro degli esteri e il Presidente del Consiglio annunciano la partecipazione italiana a una possibile missione in Libia, antica colonia tricolore, sotto la pressione dell'ENI, la più grande impresa che opera in Africa.
In compenso l'appello rivendica la «sicurezza del contingente italiano e internazionale in missione UNIFIL in Libano». Cioè la continuità della presenza militare dell'Italia a difesa dei confini della potenza sionista e di un regime confessionale libanese oggetto di una rivolta di massa. Insomma, se c'è il marchio UNIFIL l'imperialismo cessa di essere tale e diventa peacekeeping, a maggior ragione se tricolore. La stessa missione peacekeeping che non a caso l'appello rivendica per Iraq e Afghanistan.


IL 25 GENNAIO IN PIAZZA NELLA CHIAREZZA
Proprio perché rispettiamo i genuini sentimenti democratici e pacifisti di tanta parte del mondo cattolico, diciamo che il contenuto obiettivo di questo appello ha poco da spartire con essi. Il rilancio di un movimento unitario di massa contro la guerra non passa per la subordinazione all'imperialismo democratico. Passa per il rilancio di una denuncia dell'imperialismo e dei suoi governi, a partire dal proprio. Capiamo che Sinistra Italiana, oggi al governo, abbia firmato un appello che copre l'imperialismo italiano ed europeo. Ma Rifondazione Comunista non ci aveva detto che si era collocata all'opposizione?

La campagna del coordinamento delle sinistre di opposizione muove in ogni caso dalla chiarezza. No alla guerra, via le truppe italiane da tutte le missioni, rottura con la NATO. Queste sono le parole d'ordine che animeranno la giornata di mobilitazione del 24/25 gennaio promossa dal coordinamento unitario. È la forma con cui il coordinamento aderisce all'iniziativa internazionale promossa dal movimento pacifista americano. Il Partito Comunista dei Lavoratori, pienamente impegnato nel coordinamento unitario, ricorderà in queste iniziative la vecchia parola d'ordine internazionalista e anticapitalista: “Se vuoi la pace prepara la rivoluzione”.
Partito Comunista dei Lavoratori

I marxisti rivoluzionari e i movimenti democratici

A proposito del dibattito sulle sardine

Il rapporto del marxismo rivoluzionario con i movimenti non direttamente classisti è questione antica come il movimento operaio.

Già Marx ed Engels si occuparono in forme diverse del tema. Ad esempio criticando l'impostazione “operaista” di Lassalle, che vedeva al di là degli operai solo una indistinta massa reazionaria, sottolineando la valenza strategica del rapporto tra movimento di classe e la “guerra dei contadini” (Engels); definendo un approccio anticapitalista sul tema dell'ambiente (Il Capitale); elaborando la relazione tra rivoluzione socialista e movimento di liberazione delle donne, a partire dal riconoscimento della oppressione femminile come oppressione di genere non riducibile alla sola oppressione di classe (L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato). Questo già basterebbe per smentire ogni scuola teorica che nel nome del marxismo pretenda di occuparsi esclusivamente delle lotte economiche dei salariati.


LENIN E IL RIFIUTO DELL'ECONOMICISMO

Ma furono soprattutto il bolscevismo e la Terza Internazionale dei suoi anni rivoluzionari a sviluppare un approfondimento decisivo sul tema strategico dell'egemonia e della costruzione di quello che Gramsci chiamò “blocco storico” alternativo. Il concetto di egemonia non fu un'invenzione di Gramsci, ma una elaborazione di Lenin, e proprio contro ogni deformazione economicistica del marxismo. Il Che fare? in particolare – da molti ritualmente citato ma in proporzione inversa al suo studio – chiarì che il compito dei rivoluzionari non era dare un significato politico alle lotte economiche, non era accodarsi alla spontaneità di quelle lotte, ma quello di portare in ogni lotta la coscienza politica rivoluzionaria. E non solo in ogni lotta operaia, ma in ogni movimento di massa contro l'autocrazia, fosse pure il più arretrato e immaturo. Valeva per il movimento degli studenti, per il movimento dei contadini, per i movimenti delle nazionalità oppresse dallo zarismo, persino per i movimenti municipali degli zemstvoIl problema non era separare la classe operaia e la sua avanguardia dai movimenti popolari e democratici non classisti, ma portare in ognuno di essi il punto di vista di classe e rivoluzionario, lottare in ognuno di essi per l'egemonia della classe operaia e del programma anticapitalista. È appena il caso di ricordare che la Rivoluzione di ottobre ebbe successo anche per la capacità del bolscevismo di costruire l'egemonia di classe sulla massa contadina, nel movimento delle donne, nei movimenti per l'autodeterminazione nazionale.

I primi quattro congressi dell'Internazionale comunista (1919-1922) ripresero ed elaborarono nella direzione sua propria questa tradizione del bolscevismo, sia in relazione ai movimenti di liberazione nazionali antimperialisti nei paesi coloniali e semicoloniali, sia in rapporto alla complessità della rivoluzione in Occidente. Il pensiero autentico di Gramsci (non del Gramsci reinterpretato da Togliatti) si mosse nel solco di questa impostazione leninista, come dimostrano le tesi di Lione nel 1926.

Perché questo lungo richiamo storico in premessa? Perché quel patrimonio è andato in larga misura disperso, prima per mano della socialdemocrazia e dello stalinismo, poi in varia forma dalle ideologie del riflusso. Ed oggi in particolare, il ritorno di mitologie ideologiche staliniane, sovrapponendosi ai sedimenti culturali del riflusso, tende a riproporre in alcuni ambienti di avanguardia proprio le posizioni economiciste che Lenin combatté. Manifestazioni di massa per l'ambiente? Movimento democratico delle sardine? Nel migliore dei casi sono movimenti che non si occupano della condizione operaia, e di cui dunque gli operai non si devono occupare. Nel peggiore dei casi, ma non infrequente, sono "movimenti creati dal nemico", di volta in volta individuato nella UE, o nelle multinazionali, o negli Stati Uniti, o nella globalizzazione, confondendo l'ovvio interessamento della borghesia per questi fenomeni di massa nel tentativo di lisciar loro il pelo e addomesticarli con la natura e le domande dei movimenti in questione. Da qui il rifiuto di ogni impostazione che ponga l'esigenza di un intervento di classe all'interno di quei movimenti in una logica di contrasto dell'egemonia borghese liberale e di costruzione di una egemonia di classe alternativa. Si è distinto in tutto questo Marco Rizzo (non il FGC, ad essere onesti), ma anche una galassia di sigle minori dell'arcipelago classista, che a volte mettono in un unico calderone movimenti democratici e movimenti reazionari rappresentando entrambi come “movimenti del sistema” da distinguere dai “movimenti antisistema”.


MOVIMENTI DEMOCRATICI E MOVIMENTI REAZIONARI

La distinzione tra i movimenti democratici e i movimenti reazionari è invece di importanza decisiva.

Naturalmente, non tutti i movimenti di massa sono progressivi per il solo fatto di essere di massa. Non c'è bisogno di scomodare al riguardo l'analisi del fascismo e del nazismo. È sufficiente leggere alcune dinamiche dell'ultimo decennio. La sollevazione di Piazza Maidan in Ucraina nel 2013 fu una sollevazione sicuramente di massa, dominata dalle pulsioni vandeane della campagna sotto la direzione di piazza di organizzazioni reazionarie (Svoboda) o apertamente fasciste. Le manifestazioni di massa della MUD in Venezuela contro Maduro tra il 2016 e il 2018 conobbero una vasta partecipazione popolare, ma ebbero in forma diversa una natura controrivoluzionaria. Su scala ben più ridotta, anche l'Italia ha conosciuto nel secondo dopoguerra movimenti reazionari con base di massa: dalla rivolta del “boia chi molla!” di Reggio Calabria nel 1970, direttamente guidata dai fascisti, alle manifestazioni anticomuniste della “maggioranza silenziosa” a Milano degli anni '70 a base piccolo-borghese/popolare, sino ad arrivare in anni recenti al movimento dei forconi, diretto da forze sociali piccolo-borghesi proprietarie e scalato da ambienti fascistoidi.

Se un movimento, al di là delle sue dimensioni e composizione, è dominato da una pulsione reazionaria riconoscibile è naturale che le avanguardie classiste non solo si tengano fuori da questi movimenti, ma ne denuncino la natura e cerchino di promuovere nelle forme possibili una contromobilitazione. Il fatto che vi siano al mondo e in Italia organizzazioni rivoluzionarie che hanno sostenuto questi movimenti o addirittura li hanno salutati come l'inizio della rivoluzione socialista non cambia di una virgola questa realtà. Semmai dimostra la confusione ideologica che si è fatta largo anche in ambienti insospettabili. La stessa confusione, peraltro, che si registrò a sinistra sulla natura del grillismo.


LE RIVOLUZIONI ARABE: BATTAGLIA PER L'EGEMONIA CONTRO LE DIREZIONI LIBERALI O DISERZIONE CONTRO LE RIVOLUZIONI?

Ma il cuore della discussione vera ha ruotato attorno alla posizione da assumere verso grandi movimenti di massa sospinti da pulsioni democratiche e progressive, al di là della natura delle loro direzioni. Movimenti che talvolta hanno conosciuto una radicalizzazione rivoluzionaria.

È il caso in tempi recenti delle rivoluzioni arabe, nella loro dinamica sussultoria e contraddittoria (Tunisia, Egitto, Siria, Libia nella prima ondata; Algeria, Sudan, Libano, Iraq nella seconda ondata, ancora in pieno corso). Sollevazioni popolari contro regimi dittatoriali che da molto tempo avevano disperso ogni connotazione antimperialista, per quanto distorta. Sollevazioni sospinte in primo luogo da rivendicazioni democratiche elementari, ma egemonizzate da direzioni liberali e filoimperialiste che le hanno portate alla disfatta, a volte combinandosi con l'intervento militare diretto dell'imperialismo (Libia, Siria). In questo quadro il posizionamento doveroso dei leninisti era quello di sostenere apertamente le sollevazioni democratiche e legare le rivendicazioni democratiche a una prospettiva di classe anticapitalista, in aperto contrasto con le direzioni liberali e filoimperialiste di quelle sollevazioni. Perché solo una direzione alternativa, classista e rivoluzionaria, avrebbe potuto dare una prospettiva vincente alle loro stesse aspirazioni democratiche. Invece abbiamo assistito in ambienti ideologici stalinisti ad un posizionamento opposto: l'appoggio imperialista alle direzioni liberali è stato assunto a “prova” dell'assenza di rivoluzioni, e l'inevitabile deriva controrivoluzionaria della loro parabola è stata esibita a conferma retrospettiva della propria analisi. Secondo questa teoria, le rivoluzioni o nascono “comuniste” o non sono rivoluzioni. E siccome nel mondo reale le rivoluzioni non nascono “comuniste”, al diavolo le rivoluzioni.

Secondo questa logica i bolscevichi avrebbero dovuto disertare le prime grandi manifestazioni democratiche di massa del 1905 guidate dall'ambiguo prete Georgij Gapon e dalla sua petizione allo Zar, per poi giustificare a sconfitta avvenuta la propria diserzione. Inutile dire che la politica di Lenin fu opposta: inserimento pieno e da subito nella sollevazione di massa nonostante il carattere equivoco ed ultraarretrato della sua prima leadership, e battaglia per la conquista della direzione del movimento. Peraltro la stessa Rivoluzione d'ottobre non a caso portò a compimento una rivoluzione iniziata a febbraio attorno a rivendicazioni democratiche. Il capolavoro del bolscevismo fu quello di affermare l'egemonia di classe nel vivo del movimento reale, non certo il separarsi da questo. Perché la politica dei rivoluzionari è sempre quella di entrare con entrambi i piedi in tutti i movimenti di carattere progressivo, anche i più spuri, per affermare l'egemonia del proprio programma, non quella di tenersi al di fuori per commentare il programma degli altri.


NO GLOBAL, GIROTONDI, POPOLO VIOLA... UNA DISCUSSIONE CHE HA VENT'ANNI

In Italia la discussione sul posizionamento verso movimenti democratici non direttamente classisti ha investito a più riprese il dibattito di avanguardia degli ultimi vent'anni.
Penso alla discussione sul movimento "no global" dei primissimi anni 2000, antiliberista ma non classista, egemonizzato da ambienti intellettuali piccolo-borghesi, pacifisti, umanitari, che ebbe nella Rifondazione di Bertinotti la propria sponda politica.
Penso al movimento dei cosiddetti girotondi nel 2002, antiberlusconiano e di pressione critica verso i Democratici di Sinistra (“Con questi dirigenti non vinceremo mai!”).
Penso al "popolo viola" del 2009/2011, radicalmente antiberlusconiano, che aveva in Antonio Di Pietro la principale figura di riferimento.

Verso questi movimenti – tra loro diversi ma animati da una pulsione progressiva – si manifestò ogni volta una duplice posizione: da un lato la posizione ingenuamente entusiasta di chi vedeva in essi il nuovo e l'avvenire (spesso in alternativa al “vecchio” movimento operaio), e dunque si sdraiava sulla loro spontaneità (cioè sulle loro direzioni); dall'altro la posizione di chi in ragione del carattere non classista dei movimenti se ne teneva fuori, smarcandosi in apparenza da sinistra, in realtà disertando la battaglia per l'egemonia. Il brillante risultato di queste due posizioni, nel loro combinato disposto, fu abbandonare i movimenti alle loro direzioni riformiste governiste (PRC) o liberalprogressiste (DS), o giustizialiste manettare (Italia dei Valori), direzioni che proprio in quanto borghesi li usarono prima per i propri scopi politico-elettorali e poi diedero loro il ben servito.

Non è il caso di trar lezione dall'esperienza?


IL MOVIMENTO DELLE SARDINE TRA AUTORAPPRESENTAZIONE E REALTÀ

L'attuale discussione sul movimento delle “sardine” dispone dunque di un ampio retroterra. La discussione è ampia, ed è un bene. Ma colpisce, in un vasto commentario, l'approccio idealistico al tema. Un approccio che invece di leggere e indagare la natura obiettiva di questo movimento lo confonde con la sua autorappresentazione ideologica. Che poi, come per ogni movimento, è quella espressa dalle sue leadership, strutturate o informali che siano. Da qui un curioso paradosso: proprio i liquidatori più sprezzanti delle “sardine” finiscono con l'essere gli involontari apologeti dei loro leader; nel senso di assumere comunicati, posizioni, posture di Mattia Santori e dei suoi amici come il paradigma interpretativo del movimento. Le cose sono invece assai più complicate. Lo sono per ogni dinamica di movimento, a maggior ragione per un movimento così informe e fluido come quello in questione.

Le posizioni e posture dei leader delle sardine sono chiare nella loro evanescenza. Ignorano i riferimenti di classe, e più in generale la dimensione sociale dei problemi. Sono indeterminati ed evasivi persino sul terreno delle rivendicazioni democratiche. Manifestano una evidente subalternità al PD, a una visione bipolare dello scontro politico, ad una rappresentazione liberalprogressista dell'Unione capitalistica Europea, di conseguenza all'attuale governo padronale. I legami col PD sono iscritti peraltro nella biografia professionale di Mattia Santori, a partire dalla collaborazione con istituti di ricerca di impronta prodiana. La stessa genesi emiliana del fenomeno è inseparabile anche dall'azione di supporto elettorale al centrosinistra nella partita delle elezioni regionali (kermesse a sostegno di Bonaccini) su una linea di frontiera obiettivamente strategica per il PD. L'apertura di Santori al progetto di nuovo PD non ha bisogno di interpretazioni sofisticate, né francamente ha bisogno di interpretazione l'ampia sponsorizzazione mediatica del fenomeno sardine da parte della stampa borghese liberale e dei gruppi dirigenti del centrosinistra. È naturale. I politici borghesi fanno il loro mestiere, cercano di sussumere nella propria orbita tutto ciò che si muove nella società. Perché non dovrebbero farlo nei confronti di un personale dirigente del movimento che è uscito culturalmente dalle sue scuderie, che fiancheggia elettoralmente il PD, che porta e diffonde una visione del mondo “pace e amore” estranea alla dimensione stessa del conflitto?

Tuttavia meraviglia che spesso l'analisi si concluda qui invece di partire da qui.
Perché un gruppo di amici al bar, più o meno fiancheggiatore del PD, riesce a trascinare in pochissimi giorni una presenza di piazza di centinaia di migliaia di persone, spesso giovani o giovanissimi, con una dinamica di propagazione e partecipazione infinitamente superiore a quella di ogni altra iniziativa della sinistra politica, o sindacale, o di movimento?
Pensare che tutto questo sia organizzato dal PD significa ignorare la natura stessa del PD, oltre che la sua condizione: quella di un partito liberal-borghese privo da tempo di strutture collaterali di massa capaci di ampia mobilitazione, e per di più in crisi progressiva di credibilità e di fascinazione presso la sua stessa base elettorale. Davvero c'è chi pensa che Nicola Zingaretti possa trascinare la partecipazione entusiasta e di piazza di masse di giovani? Lo stesso vale per l'Unione Europea, più volte additata in queste letture come la mano nascosta che tira le fila di tutto. Una Unione Europea del capitale finanziario dilaniata da mille contraddizioni interimperialiste, priva persino di una maggioranza parlamentare definita, da quindici anni incapace di issare una qualsivoglia bandiera popolare minimamente attrattiva, sarebbe capace di orchestrare dietro le quinte, in due settimane, una mobilitazione di centinaia di migliaia di giovani in Italia? Suvvia.

Sono interpretazioni grottesche che non reggono la prova della logica, oltre che della evidenza. A volte nascono da un retroterra culturale di destra, l'eterno fantasma del complotto pluto-giudaico-massonico vestito ogni volta di panni diversi (basta fare un giro sui social per trovarne tracce riconoscibili). A volte nascono invece da un retroterra ideologico di matrice stalinista, portato a vedere l'occulta mano del nemico in ogni movimento che non si controlla, e dal quale difendere il proprio partito; una visione poliziesca della storia che non ha nulla da spartire né con la storia reale né soprattutto con la politica rivoluzionaria. L'elemento comune è la rimozione della realtà e della fatica stessa di comprenderla.


LE DOMANDE E IL CONTESTO DEL MOVIMENTO

Vediamo allora di mettere un po' d'ordine nel ragionamento.

Il movimento delle sardine è la risultante di una domanda e di un contesto, che vanno visti nella loro relazione dialettica.

La domanda è, in primo luogo, la confusa volontà di contrapposizione alla destra reazionaria di Salvini, alla sua realtà e alla sua minaccia. Questa destra è all'opposizione in Parlamento ma è largamente egemone nel senso comune popolare, per responsabilità del centrosinistra, del PD, e delle sinistre che hanno fatto negli anni i suoi reggicoda. La sua parabola non è declinante ma ascendente, e per di più è segnata nella sua composizione interna dalla rapida crescita della sua componente estrema, di matrice fascistoide (Giorgia Meloni). Le manifestazioni delle sardine, al di là del loro rivestimento ideologico, sono un atto di rifiuto e di ribellione a questa destra e alla sua ascesa. Si può non vedere in questo elemento un fattore in sé positivo?

In secondo luogo, la volontà di contrapposizione alla destra non resta confinata nello spazio virtuale di facebook, ma invade materialmente centinaia di piazze. Di più: la ricerca della proiezione di piazza, della relazione fisica delle persone, muove proprio dal rifiuto della passività della rete, della solitudine di mille atomi dispersi e dunque privi di una volontà collettiva. In un certo senso la celebrazione della piazza come luogo di incontro e relazione è la principale espressione del movimento, la sua cifra. Se centinaia di migliaia di giovani escono dalla propria passività e per contrapporsi alla destra reazionaria, ritrovano le piazze e spesso le scoprono per la prima volta, siamo in presenza di un fatto progressivo inequivocabile.

In terzo luogo, la volontà di contrapposizione alla destra non si affida passivamente al PD, non si risolve solamente in un'indicazione di voto, si esprime anche nell'invasione di campo di un proprio diretto protagonismo. L'invasione delle piazze è anche questo. È la manifestazione in nuce di una critica del PD e del centrosinistra, dell'incapacità dei loro partiti di far da argine alla destra: da qui l'evocazione di una mobilitazione diretta capace di erigere finalmente questa barriera e segnare una svolta. Non cogliere questa contraddizione significa non solo fare un regalo al PD e al suo disegno di controllo del movimento, ma ignorare uno dei fattori propulsivi di quest'ultimo.

Questi elementi nel loro insieme rivelano una pulsione democratica come spinta dominante del movimento delle sardine. Non riconoscere questa pulsione democratica, limitandosi alla critica del manifesto ideologico di Mattia Santori, o addirittura assumere quel manifesto come prova della natura reazionaria del movimento – perché pure questo è accaduto, anche in ambienti rivoluzionari – significa rimpiazzare il metodo marxista con un metodo idealista: dedurre l'essere dalla coscienza che ha di sé, invece che indagare questa coscienza nei suoi fondamenti materiali e sociali.


LE SARDINE E LA CRISI DEL MOVIMENTO OPERAIO ITALIANO

Naturalmente, la coscienza che un movimento ha di sé è tutt'altro che un fatto secondario. L'egemonia ideologica liberal-borghese sul movimento delle sardine è anzi un fatto di massima rilevanza. Anzi, dal punto di vista di una politica rivoluzionaria è l'elemento centrale di analisi e soprattutto di battaglia politica. Ma capire le ragioni di questa egemonia, il rapporto di queste ragioni con lo scenario politico e storico generale, è decisivo proprio per impostare la battaglia.

Qui entra in gioco l'elemento del contesto. Il contesto che fa da sfondo alle sardine, influenza il loro immaginario, aiuta le rappresentazioni ideologiche dei loro leader, è la crisi profonda del movimento operaio italiano, la crisi più acuta e prolungata tra tutti i maggiori paesi capitalistici del continente; una crisi di mobilitazione, di coscienza, di rappresentanza. Non considerare questo elemento significa privarsi di una chiave di lettura decisiva.

I movimenti democratici non possono mai essere letti fuori dal riferimento alla lotta di classe e alla sua dinamica. In una fase di ascesa e radicalizzazione della lotta di classe, il movimento operaio e le sue ragioni sociali tendono ad emergere come riferimento egemone dei movimenti democratici, portandovi la propria simbologia e richiamo. I movimenti democratici degli anni '70 in Italia su divorzio, aborto, rivendicazioni di genere, antimilitarismo, antifascismo, erano attraversati in forme diverse da richiami di classe perché il movimento di classe e di massa dominava la scena politica. In una fase di arretramento del movimento operaio, tanto più se prolungato e profondo, accade invece il contrario. L'irriconoscibilità delle ragioni di classe, o il loro capovolgimento di segno nella torsione dei populismi reazionari, produce un arretramento del senso comune che lascia il segno in ogni movimento. I movimenti non sono come noi li vorremmo né come sarebbe giusto che fossero. Riflettono in varie forme il contesto oggettivo entro cui si muovono. Coloro che rimproverano alle sardine di non avere riferimenti sociali vedono l'effetto senza risalire alla causa.

Le sardine non nuotano in un mare indistinto, nuotano in un mare ricoperto di rifiuti tossici depositati nella lunga stagione del riflusso: emarginazione delle ragioni del lavoro e dei suoi diritti, rappresentazione del precariato come condizione naturale, dissoluzione ideologica delle classi in un "popolo" indistinto, polarizzazione tra europeismo e sovranismo, rigetto post-ideologico delle culture “novecentesche” (quelle a sinistra, perché a destra è un altro discorso), crollo di riconoscibilità della sinistra politica, rifiuto o diffidenza verso i partiti in quanto tali... Questo contesto prolungato di fase non impedisce il sorgere di movimenti democratici, né sminuisce la loro importanza, anzi in un certo senso l'accresce. Ma sicuramente non può non influire sui caratteri di questi movimenti, sul loro immaginario, vocabolario, simbologia. Così è stato in parte per i movimenti democratici di avanguardia della precedente stagione antisalviniana (movimenti antirazzisti, femministi, antifascisti), così è in particolare per il movimento delle sardine, sicuramente il più arretrato nella sua coscienza tra i movimenti democratici degli anni recenti, e tuttavia non casualmente il più ampio come bacino di massa, dunque il più esposto per le sue stesse dimensioni alla pressione negativa della situazione generale.

Il movimento esprime la contrapposizione alla destra col vocabolario che trova sul mercato corrente, con tutte le confusioni ed aporie: "Bella ciao" assieme all'inno di Mameli, generico civismo contro xenofobia, bandiera europea contro sovranismo, rifiuto delle bandiere di partito a difesa della propria unità, non riconoscibilità della bandiera rossa in quanto “bandiera di parte”. L'egemonia liberale nel movimento delle sardine si nutre di questi ingredienti, a loro volta portato dell'arretramento di classe. Mattia Santori è, se vogliamo, lo specchio antropologico di tutto questo. Il PD fa leva su questa egemonia per ridurre le sardine a terreno di pascolo elettorale, a partire dall'Emilia. La proposta di Nicola Zingaretti mira esplicitamente a incorporare il movimento al PD. L'apertura di Santori a Zingaretti, e l'annunciata scadenza paracongressuale del movimento, porranno il rapporto col PD come tema centrale di confronto.


COMBATTERE L'EGEMONIA DEL PD. L'ESEMPIO DI PIAZZA SAN GIOVANNI A ROMA

Ma se il PD fa leva sugli elementi di arretratezza del movimento e sulle ambizioni dei suoi dirigenti, i rivoluzionari debbono far leva sulla sua pulsione democratica per contrastare l'egemonia del PD, perché pulsione democratica ed egemonia del PD misurano una contraddizione. Si può non vederlo?

Roma, 14 dicembre, Piazza San Giovanni. In una piazza di 40000 sardine pigiate, tra molti “Bella ciao” e uno sgradevole inno di Mameli, Mattia Santori legge il proprio decalogo all'insegna del bon ton istituzionale contro i “toni gridati” di Salvini. Il nulla. Ma non può non toccare il tema migranti, centrale nel sentimento democratico della piazza. «Modificare i decreti sicurezza» esclama cercando l'applauso. Ma in un frammento di secondo la piazza plaudente lo interrompe gridando in coro: «Cancellare, non modificare!». L'urlo inaspettato costringe Santori alla rettifica istantanea: «Va be', cancellare... d'accordo». Ecco, nella cruna dell'ago di questo piccolo episodio di cronaca si esprime un fatto politico di fondo: la contraddizione plateale tra la pulsione democratica del movimento e la politica del PD, tra la rivendicazione democratica più elementare – la cancellazione delle misure odiose di Salvini – e una politica che le preserva.

È una contraddizione oggettiva e soggettiva al tempo stesso.
Una contraddizione oggettiva, perché il PD non vuole e non può cancellare i decreti sicurezza, al di là di operazioni maquillage. Perché il PD è anche l'eredità di Minniti che il M5S custodisce e blinda. La conferenza stampa del Presidente del Consiglio il 28 dicembre è stata peraltro inequivoca: i decreti sicurezza rimangono.
Ma è anche una contraddizione soggettiva: nonostante l'arretratezza profonda della coscienza politica del movimento, la sua sensibilità democratica urta con la politica liberale e reazionaria del PD. E pone problemi alla leadership. L'episodio di Piazza San Giovanni è rivelatore, come lo sono i risvolti del giorno successivo, nell'incontro dei 150 “coordinatori” locali, dove il problema della democrazia del movimento contro la centralizzazione bolognese non è solo un problema di democrazia, è l'espressione della diffidenza verso il PD, e verso una leadership subalterna al PD. Si tratta allora di entrare in questa contraddizione con una politica attiva, che costruisca coscienza: se vuoi contrapporti a Salvini devi opporti a un governo che difende le sue peggiori misure. Punto. Piazza San Giovanni ha dimostrato che questa contraddizione può essere terreno di battaglia all'interno delle piazze stesse. Se un gruppo di cinquanta "sardine nere" animato da Potere al Popolo (assieme ai compagni e compagne di Città Futura, Sinistra Anticapitalista, PCL) ha fatto da detonatore del pronunciamento di piazza sui decreti sicurezza, quale effetto potrebbe produrre un intervento concentrato, diffuso, metodico, in tante piazze di tutte le organizzazioni di classe?


PORTARE TRA I GIOVANI IL RIFERIMENTO DI CLASSE

Peraltro, non c'è solo la questione democratica. Anche nel più arretrato dei movimenti democratici con base di massa non può non affacciarsi, in forme diverse, la questione sociale.

La leadership del movimento riflette una composizione piccolo-borghese, relativamente benestante, di elevata scolarizzazione, priva in apparenza di preoccupazioni sociali rilevanti. Ma lo spaccato di gioventù che popola le piazze è fatto anche di giovani precari supersfruttati, di studenti che non reggono il caro affitti, di lavoratori condannati ad una faticosa sopravvivenza dalla realtà quotidiana del capitalismo e dalla sua crisi. Le leggi votate dal PD, e ciclicamente dalla sinistra cosiddetta radicale, hanno scolpito la vita di questa massa di giovani, ne siano essi coscienti o meno (a partire dal pacchetto Treu del 1997). Introdurre in quelle piazze la questione sociale è anche sviluppare la loro coscienza politica. La stessa domanda democratica va ricondotta, col linguaggio dovuto, ad una prospettiva di classe anticapitalista. “Siamo tutti uniti contro Salvini. Ma chi ha regalato alla demagogia reazionaria di Salvini il consenso di milioni di operai, se non le politiche del PD e della sinistra che si è prostrata ai suoi piedi? Non è possibile far argine a Salvini senza rompere col PD e le sue politiche”. Questa verità elementare nuota oggi controcorrente rispetto alla coscienza arretrata della maggioranza del movimento, ma una minoranza può comprenderla e farla propria. Conquistare quella minoranza, piccola o grande che sia, e avvicinarla al movimento operaio, è parte della battaglia per una egemonia alternativa nella gioventù.

I movimenti non sono mai una realtà uniforme, sono sempre una realtà stratificata. Non solo in termini sociali, ma anche in termini di coscienza, radicalità, disponibilità alla lotta. L'interrogativo retorico se sarà possibile o meno egemonizzare un movimento di giovani così moderato è obiettivamente mal posto. Ogni previsione non solo è impossibile ma rimuove il problema. Il problema è quale politica le avanguardie di classe debbono sviluppare tra i giovani e nei loro movimenti. Se si persegue realmente una prospettiva anticapitalista e rivoluzionaria reale, e non la custodia conservativa del proprio orticello, occorre muoversi sempre in una logica maggioritaria, cioè nella logica della conquista della massa. È una questione di metodo, non di previsione. E la conquista della massa muove sempre dalla conquista dell'avanguardia. Puntare a conquistare l'avanguardia è anche puntare a conquistare la parte più avanzata dei movimenti democratici come il movimento delle sardine, non abbandonandolo al PD e/o a Mattia Santori ma lavorando ad una egemonia alternativa.

Non ci interessa il futuro delle “sardine” in quanto tali (probabilmente destinate alla dissoluzione come ogni bolla democratica di movimento), ci interessa il futuro di una prospettiva anticapitalista. E dunque la conquista ad una prospettiva anticapitalista di ciò che si muove nella società e nei movimenti da un versante progressivo. L'esatto opposto di quel che fa la borghesia.


INTERVENTO NELLA CLASSE E NEI MOVIMENTI DEMOCRATICI, LA CONQUISTA DELLA GIOVENTÙ, LA COSTRUZIONE DELL'ORGANIZZAZIONE RIVOLUZIONARIA

“Dedichiamoci al coordinamento unitario delle sinistre di opposizione piuttosto che alle sardine” si sente in diversi commenti. Ma perché mettere in contraddizione compiti diversi e complementari dell'avanguardia?

Il coordinamento delle sinistre di opposizione attorno a campagne unitarie classiste è un terreno importante di impegno del nostro partito, che ha dato e dà un contributo decisivo in questa direzione, perché la classe lavoratrice è e resta il soggetto centrale di una prospettiva rivoluzionaria capace di successo – contro tutte le tesi disfattiste che sono circolate negli ultimi trent'anni – e perché solo una ripresa di lotta della classe lavoratrice potrà aprire uno scenario politico e culturale nuovo capace di riverberarsi sul senso comune maggioritario della società, e dunque su ogni dinamica di movimento. E tuttavia per quale ragione un fronte di unità d'azione sul terreno dell'opposizione di classe non dovrebbe porsi il compito di intervenire anche su movimenti democratici che di classe non sono per costruire egemonia alternativa? Peraltro una delle campagne promosse dalla assemblea nazionale del 7 dicembre rivendica l'abolizione dei decreti sicurezza. Perché non investire questa campagna anche in un movimento che formalmente avanza la medesima richiesta, salvo subordinarsi alle pressioni del PD?

La questione va posta inoltre anche da un altro lato.

Non tutto si riduce alla ripresa del movimento di massa della classe, a differenza di quanto pensano i cultori dei movimentismo. La questione cruciale in ultima analisi è sempre quella della direzione politica dei movimenti. Il biennio rosso, la sollevazione partigiana, la grande ascesa del 1969/'76, furono tutti grandi movimenti di classe e di massa, capaci di polarizzare spontaneamente blocchi sociali alternativi più o meno estesi. Ma furono dispersi ogni volta dalle loro direzioni maggioritarie: dall'intesa tra CGL e Giolitti, dall'unità nazionale tra Togliatti e De Gasperi, dal compromesso storico tra Berlinguer e Andreotti. Ogni volta l'assenza di una egemonia alternativa fu la tomba dei movimenti di massa.

A sua volta la costruzione di una direzione alternativa passa per la selezione che si compie nell'avanguardia prima della svolta di massa, perché poi è troppo tardi. Una selezione che è innanzitutto la formazione di avanguardie politiche complessive capaci di padroneggiare l'intera tastiera della politica rivoluzionaria, che comprende anche la capacità di relazione con tutti i temi e le istanze poste da movimenti non direttamente classisti. Movimenti a volte di portata strategica per una prospettiva di rivoluzione, come il movimento di liberazione della donna e il movimento contro la devastazione ambientale, ma anche movimenti, più o meno arretrati, di carattere democratico. Gli uni e gli altri, guarda caso, movimenti oggi prevalentemente di giovani.

Conquistare l'avanguardia della gioventù, sviluppare la sua coscienza, formare i suoi elementi migliori è lavorare non solo per una direzione alternativa dei movimenti giovanili, ma anche indirettamente per una direzione alternativa della classe. La storia dei partiti rivoluzionari di classe è spesso passata per un'accumulazione preventiva tra le file dei giovani, in particolare studenti. Fu così per i rivoluzionari russi, che polarizzarono a fine Ottocento migliaia di giovani intellettuali e studenti provenienti dalla vecchia tradizione populista, che si avvicinarono alla classe e al marxismo. La stessa estrema sinistra (centrista) dei primi anni '70 in Italia si costruì innanzitutto sulla giovane generazione studentesca del '68, che fu centrale per la sua proiezione nella classe. Ciò che allora mancò fu un'organizzazione marxista rivoluzionaria capace di dare a quei giovani i necessari strumenti teorici, politici, programmatici della politica rivoluzionaria, con un effetto di inevitabile dispersione di un enorme patrimonio di energie nei mille rivoli dello spontaneismo e del neostalinismo (maoismo).

Costruire l'organizzazione marxista rivoluzionaria d'avanguardia tra i lavoratori e i giovani è l'obiettivo centrale del PCL. Per questo vogliamo intervenire su ogni movimento progressivo dei giovani, fosse pure il movimento delle sardine, evitando la sua celebrazione – tipica di chi vede ogni volta in ciò che si muove il nuovo treno della storia – come anche la postura settaria di chi si tiene fuori dalla mischia perché non è di suo gradimento.

Sempre che il problema sia di trasformare il mondo, non di commentarlo. Che certo è infinitamente più semplice.
Marco Ferrando