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I comunisti rivoluzionari e la Siria


La Siria è oggi più che mai un crocevia di fronti di guerra intrecciati e sovrapposti tra loro.
Sul versante propriamente siriano:
_La guerra di Assad e del suo regime militare e poliziesco
_La guerra barbarica del fascismo islamico dell'ISIS - inizialmente favorita da Assad in funzione controrivoluzionaria - mirata alla costruzione di un regime totalitario integralista anti sciita, e pertanto diretta, coi metodi del terrore, contro ogni forma di resistenza alla propria avanzata.
_La guerra delle altre forze fondamentaliste reazionarie ( la sezione siriana di Al Qaeda Al Nusra, e la coalizione dell'”Esercito della Sunnah””), contrapposte sia ad Assad che all'ISIS.
_La guerra delle forze popolari kurde a difesa del Rojava, contro ISIS.
_La guerra di ciò che resta dell'Esercito Libero Siriano, nato da rotture e diserzioni dall'esercito di Assad nel momento della sollevazione popolare, e poi pesantemente colpito e smembrato dalla tenaglia militare del regime e delle forze reazionarie fondamentaliste complessivamente intese.
_La guerra di resistenza di alcune strutture popolari nelle realtà urbane e di villaggio, sopravvissute ai colpi del regime e dei tagliagola reazionari, e di fatto contrapposte a entrambi.

Su questo inestricabile ginepraio si innesta a sua volta il ruolo determinante delle potenze esterne mediorientali:
L'asse sciita a sostegno militare di Assad, composto dall'Iran, dagli Hezbollah, dall'Irak, col regime iraniano che cerca di capitalizzare lo sdoganamento ottenuto dagli USA per puntare ad una propria egemonia regionale.
L'asse sunnita delle potenze del Golfo a partire dall'Arabia Saudita, strategicamente contrapposta all'Iran e dunque ad Assad: la monarchia Saud, “tradita” dagli USA per via della pacificazione con Iran, sostiene ogni possibile via e strumento per contrastare il campo sciita, incluso il sostegno determinante al fondamentalismo reazionario e un gioco di sponda col sionismo.

La Turchia di Erdogan, apertamente contrapposta all'Iran perchè interessata a promuovere un proprio disegno di potenza neo ottomano nella regione attraverso l' espansione in Siria e la guerra ai kurdi.

Infine all'intero panorama delle forze regionali si sovrappone il gioco interessato delle potenze mondiali:
La vasta coalizione imperialista a guida USA, fondata sulla Nato, ancora impossibilitata per ragioni politiche a mandare significative truppe di terra ma impegnata nella guerra dei cieli, principalmente contro ISIS.
La Russia di Putin, che entra nella impasse della politica USA con proprie forze militari per salvaguardare le proprie basi sul Mediterraneo, e dunque a sostegno di Assad e del blocco sciita. Lo Stato sionista, spiazzato dalla legittimazione dell'Iran da parte degli Usa, che cerca dietro le quinte nuove sponde internazionali in tutte le direzioni, inclusa la Russia di Putin: uno Stato sionista che aveva da tempo normalizzato le relazioni di buon vicinato col regime di Assad e che vede nel rafforzamento dell'asse sciita ( Iran ed Hezbollah) la minaccia principale ai propri interessi.

Ognuno di questi attori si muove con duttilità e spregiudicatezza al solo fine di difendere e rafforzare il proprio peso politico in funzione dei futuri nuovi equilibri del Medio Oriente. Senza che nessuno di essi disponga oggi di una forza sufficientemente egemone per imporsi sulle forze avversarie o concorrenti.


PARTIRE DAI PRINCIPI. PER UNA SOLUZIONE SOCIALISTA IN MEDIO ORIENTE.

Quale posizione assumono i comunisti rivoluzionari in una situazione così complessa e intricata?

Da comunisti partiamo, come sempre, dai principi e dal programma generale di rivoluzione, al fianco della classe lavoratrice del medio oriente e delle ragioni storiche dei popoli oppressi. Non v'è soluzione storicamente progressiva della questione palestinese fuori dalla dissoluzione rivoluzionaria dello Stato sionista, nei suoi fondamenti giuridici, confessionali, militari: condizione decisiva per l'autodeterminazione del popolo palestinese, a partire dal diritto al ritorno.

Non vi è soluzione storicamente progressiva della questione kurda fuori dalla messa in discussione degli equilibri politici e confini statali disegnati un secolo fa dalle potenze coloniali: condizione decisiva dell'unificazione kurda attorno ad un Kurdistan indipendente. Solo una soluzione socialista, capace di realizzare una federazione socialista araba e medio orientale, può consentire il compimento di questi obiettivi storici democratici. Solo la classe lavoratrice del Medio Oriente, ponendosi alla testa delle ragioni dei popoli oppressi della regione, può realizzare questa prospettiva socialista. Certo questa prospettiva è difficile e apparentemente lontana, ma è l'unica possibile su un terreno storico progressivo. In alternativa, come i fatti dimostrano, non c'è la “salvaguardia” dell'attuale medio oriente. C'è la ridefinizione della sua carta geografica per mano dell'imperialismo, dell'Isis, del sionismo, del progetto neo ottomano turco.

NESSUN ALLEATO TRA LE POTENZE IN CONFLITTO

A partire da questo programma di rivoluzione e liberazione, antimperialista e socialista, abbiamo definito la nostra posizione rispetto agli accadimenti medio orientali.

Abbiamo sostenuto le sollevazioni popolari arabe nel 2010/2011 contro regimi dispotici, controllati dall'imperialismo (Ben Alì e Mubarak), o già da tempo riallineati all'imperialismo ( Gheddafi ed Assad): a differenza delle correnti staliniste schieratesi al fianco di quei regimi nel nome di un loro inesistente “progressismo”. Al tempo stesso, abbiamo da subito contrastato e denunciato il ruolo filo imperialista delle direzioni borghesi di quelle rivoluzioni popolari, e il tragico esito controrivoluzionario inscritto nella loro parabola: a differenza di quelle correnti politiche della sinistra che, infatuate dalla suggestione rivoluzionaria, hanno finito col sottovalutare il ruolo controrivoluzionario dell'imperialismo nel segnare l'esito degli avvenimenti ( la Lit in Libia). In ogni caso, proprio per questo, ci siamo sempre opposti ad ogni intervento militare o ingerenza politica dell'imperialismo sul corso delle rivoluzioni arabe. A partire da un programma di rivoluzione permanente che proprio l'esperienza di quelle rivoluzioni conferma una volta di più nel modo più clamoroso: solo una rivoluzione socialista guidata dalla classe lavoratrice può realizzare nei paesi arretrati i compiti democratici della rivoluzione (autonomia dall'imperialismo, autodeterminazione nazionale, riforma agraria radicale..). E viceversa: ogni direzione borghese dei processi rivoluzionari finisce col tradire le stesse aspirazioni democratiche delle rivoluzioni popolari spianando la strada alla peggiore controrivoluzione. La dittatura di Al Sisi in Egitto, lo straripamento dell'Isis in Siria ed Irak, ne sono la riprova.

Con questa stessa impostazione di metodo, ci posizioniamo oggi nella intricata crisi siriana.

A differenza delle impostazioni “campiste”, non abbiamo amici e alleati in nessun blocco di potenze in conflitto, a nessun livello. Ci opponiamo all'imperialismo e al suo intervento militare, denunciando l'ipocrisia dei suoi argomenti “democratici”. L'imperialismo e le sue guerre in Medio Oriente negli ultimi 20 anni sono i principali responsabili delle indicibili sofferenze imposte ai popoli della regione, e di fatto dello stesso sviluppo dell'Isis. Oltretutto l'obiettivo dell'intervento militare a guida Usa è riconquistare un proprio controllo politico sulla regione dopo la destabilizzazione seguita alla rivoluzioni del 2010 e al loro esito, a vantaggio dei propri clienti regionali. Per questo siamo contro l'intervento imperialista e a maggior ragione contro una sua possibile escalation, perfino nel caso affrettasse la sconfitta dell'Isis: perchè ogni vittoria dell'imperialismo, in qualunque forma, preparerebbe altre mostruosità reazionarie. Da questo punto di vista denunciamo l'ennesima capitolazione all'imperialismo “democratico” da parte di correnti pacifiste della sinistra riformista, in Italia e in Europa.

Al tempo stesso non parteggiamo per Assad, la Russia di Putin, il regime iraniano. Sono forze oppressive della classe operaia, della popolazione povera, e dei loro diritti democratici e sindacali più elementari entro i propri confini. E sono interessate unicamente a negoziare con gli imperialismi occidentali e con la Turchia la nuova spartizione del Medio Oriente. I mercanteggiamenti del regime di Putin col sionismo (interessato a sostenere Assad contro Iran ed Hezbollah) sono un pessimo avviso per il popolo palestinese. Così come, parallelamente, i mercanteggiamenti dell'imperialismo Usa col regime di Erdogan, in funzione di bilanciamento dell'intervento russo, sono un attacco al popolo kurdo e alla sua lotta. Putin vuole negoziare con Obama una soluzione politica in Siria che preservi i propri interessi geostrategici. Gli Usa sono oggi costretti dalle proprie difficoltà a negoziare con Putin: con l'obiettivo se possibile di spodestare Assad, ma anche di conservare la continuità di potere della sua struttura militare( per non ripetere l'errore fatale commesso in Irak con lo scioglimento dell 'esercito di Saddam). Assad e il suo bunker militar poliziesco sperano di ricavare dal possibile negoziato o il proprio salvataggio diretto o una “transizione” che garantisca in ogni caso immunità personali e leve di potere. I popoli oppressi della nazione araba e del Medio Oriente non hanno nulla da guadagnare da questo negoziato condotto sulla loro pelle. Non hanno amici tra i regimi attuali e le potenze esterne che li sostengono o li contrastano. Per questo denunciamo il ruolo subalterno del campismo, in ogni sua forma e variante.

Contrastiamo l'Isis, il suo progetto totalitario fondamentalista di grande Califfato, le pratiche sanguinarie di terrore che esso pratica verso ogni opposizione e resistenza. La sconfitta dell'Isis, e di tutte le forze fondamentaliste e reazionarie, è oggi un obiettivo centrale dei popoli oppressi della regione e del movimento operaio internazionale. Per questo denunciamo ogni posizione, oggi fortunatamente marginale, di abbellimento o sottovalutazione del fenomeno Isis nel nome della contrapposizione all'imperialismo. Al tempo stesso la sconfitta dell'Isis va perseguita dal versante dei popoli oppressi e non dal versante dell'imperialismo. Tanto più in un contesto in cui i fatti dimostrano il fallimento dell'imperialismo nel contrasto dell'Isis, sia in Irak che in Siria.


DALLA PARTE DEI POPOLI OPPRESSI, PER UN'ALTERNATIVA DI DIREZIONE.

Stiamo dalla parte di tutte le forze e i soggetti che nella regione e in Siria, sui più diversi fronti, esprimono ragioni storiche progressive.
Stiamo dalla parte del popolo palestinese, a partire dai palestinesi di Yarmuk, che resistono alla tenaglia terribile tra regime, Al Qaeda ed Isis, a difesa innanzitutto della propria vita.

Stiamo dalla parte dei kurdi e della loro lotta eroica, armi alla mano, contro le forze dell'Isis e le aggressioni di Erdogan: l'unica forza che non a caso ha saputo sconfiggere i taglia gola in campo aperto sul fronte militare (Kobane).
Siamo dalla parte di quelle forze della resistenza siriana (comitati popolari, brigate locali..), oggi molto limitate ma reali, che ancora si battono in diverse città e villaggi per gli obiettivi democratici originari della rivoluzione popolare.
Al tempo stesso siamo su questi fronti con un programma marxista di rivoluzione, senza nessun adattamento alle loro leadership attuali .
Stiamo dalla parte dei palestinesi per una loro Terza Intifada: contro le leadership di Abu Mazen, asservita al sionismo, e contro Hamas e il suo regime oppressivo a Gaza, per una direzione alternativa del movimento di liberazione della Palestina.
Siamo incondizionatamente dalla parte dei kurdi e della loro lotta: ma contro i progetti di pacificazione con Erdogan ancora coltivati da una parte del PKK (Ocalan) e significativamente contrastati dall'ala giovanile di quel partito. Per una direzione alternativa del movimento di liberazione kurdo attorno ad un progetto di Kurdistan unito e indipendente.
Siamo dalla parte delle forze residue della rivoluzione siriana, ma contro le aperture all'imperialismo e la politica di collaborazione con l'imperialismo della cosiddetta “Coalizione nazionale siriana”.
Siamo su ogni versante per lo sviluppo di un punto di vista classista indipendente in Medio Oriente, in funzione della prospettiva socialista. E dunque per la costruzione di partiti marxisti rivoluzionari basati su questo programma. È la lotta che il Partito Operaio rivoluzionario di Turchia ( Dip) oggi conduce nel proprio paese, e che ha tutto il nostro sostegno.
Partito Comunista dei Lavoratori

IL PCL ADERISCE ALLA MANIFESTAZIONE PER IL DIRITTO ALLA CASA E CONTRO LO SGOMBERO EX TELECOM

I militanti del Partito Comunista dei Lavoratori parteciperanno alla manifestazione indetta per protestare contro lo sgombero violento dello stabile Ex-Telecom di via Fioravanti e per il diritto alla casa.
Di seguito il testo del volantino che verrà distribuito:

DIRITTO ALLA CASA:
VINCERE CON LA LOTTA!
La barbarie dello sgombero di via Fioravanti parla da sé: comune di Bologna, questura e governo nazionale sono di fatto uniti contro chi lotta per avere un tetto sopra la testa. Una questione che le classi dominanti non hanno interesse a risolvere. Moltissimi lavoratori, italiani e immigrati, non hanno un tetto sicuro sotto la testa e sono costretti a pagare affitti e bollette che non si possono permettere, mentre pochi gruppi immobiliari (per prima la chiesa cattolica, che possiede gran parte degli immobili in Italia e non paga l’IMU come tutti gli altri) possiedono gran parte degli edifici di Bologna e ne tengono molti vuoti per non far abbassare i loro prezzi. Anche l'ACER, l'azienda statale per la casa, non agisce a favore, ma contro chi perde il lavoro o non ha un reddito sufficiente per pagare gli aumenti delle bollette,
I grandi proprietari di case, privati o statali, non vogliono offrire soluzioni reali per i lavoratori e le loro famiglie, ma al contrario vogliono continuare a sfruttarli selvaggiamente.
Solo la lotta ai padroni e ai loro servi al governo paga!
Nessuna illusione di riforme di uno Stato che è capace solo di tagli per la “austerità” e di precarizzare sempre di più le condizioni dei lavoratori attraverso sfratti e licenziamenti!
Ai lavoratori servono misure che lo Stato degli industriali e dei banchieri non può adottare!
 ESPROPRIARE GLI APPARTAMENTI SFITTI di proprietà dei gruppi immobiliari, banche, assicurazione e chiesa, sotto il controllo dei lavoratori e dei comitati degli inquilini!
STOP AGLI SFRATTI E A NUOVE COSTRUZIONI E SPECULAZIONI, BASTA CASE VUOTE!
BASTA CONTRATTI PROVVISORI! AFFITTO E BOLLETTE A PREZZI PROLETARI!
 I nostri bisogni, la lotta contro un’esistenza precaria, non possono essere soddisfatti da questo sistema capitalista! L’unica soluzione può arrivare solo da una ROTTURA RIVOLUZIONARIA, solo dall’organizzazione politica degli sfruttati contro i padroni e contro il loro governo Renzi.

ORGANIZZARE E COORDINARE COMITATI DI LOTTA DEGLI INQUILINI!
LOTTARE INSIEME: STUDENTI, OPERAI, DISOCCUPATI!
PER UN UNICO MOVIMENTO DI LOTTA CONTRO I PADRONI E CONTRO IL GOVERNO!
PER UN GOVERNO DEI LAVORATORI! 

Il Partito Comunista dei Lavoratori (PCL) continuerà a stare al fianco dei lavoratori e degli oppressi per la costruzione di un movimento di massa della lotta di classe e per un partito rivoluzionario dei lavoratori!

SGOMBERO EX TELECOM: IL PCL ESPRIME PIENA SOLIDARIETA’ AGLI OCCUPANTI CHE RESISTONO

I compagni del PCL, attivi da mesi nella partecipazione a picchetti antisfratto in vari punti della città esprimono tutta la propria solidarietà agli occupanti dello stabile ex Telecom che stanno resistendo allo sgombero.
Capita di vedere nell'anno 2° del regime renziano che da una parte si detassino le abitazioni di lusso possedute a migliaia da speculatori immobiliari dall’altra si sfrattino le famiglie proletarie e si caccino per la strada chi con un occupazione, abusiva solo per le leggi borghesi dello Stato, cerca di riaffermare il diritto umano alla casa.
È quello a cui stiamo assistendo in queste ore in via Fioravanti presso lo stabile ex Telecom occupato da mesi da centinaia di famiglie indigenti con i loro bambini.
La giunta bolognese non rappresenta altro che l’articolazione locale del forsennato attacco ai diritti della classe lavoratrice e alle condizioni di vita della masse popolari portato avanti dal governo Renzi che come un novello bonaparte cerca di restringere gli spazi di democrazia a tutto vantaggio della dittatura di imprese, padronato, banchieri, proprietari immobiliari, evasori fiscali, insomma della classe dominante.
Si dimostra ancora una volta che chi si allea al PD renziano, come SEL, è destinato ad essere subalterno alle sue politiche di attacco sociale e a subire una emorragia di amministratori, eletti nelle proprie file, attirati dalle generose sponde del partito di governo.
Torna in mente un vecchio slogan sempre attuale: a chi chiede diritti si risponde con decine di camionette della polizia.
È necessario reagire e dire basta!
È necessario e urgente il più vasto fronte di classe e di massa, contrapposto al fronte comune tra padroni e governo. È necessario e urgente opporre alla radicalità straordinaria di padroni e governo una radicalità straordinaria, uguale e contraria, dei lavoratori e delle lavoratrici e delle classi popolari loro naturali alleate.

Sciopero nazionale del settore trasporti e logistica! Il PCL con i lavoratori e le lavoratrici in lotta.

Il PCL aderisce e sostiene l'iniziativa di sciopero generale del 29 Ottobre nel settore della logistica promossa dal sindacato Si Cobas.
Le ragioni sono semplici: condividiamo l'impostazione della piattaforma; riconosciamo al SiCobas un ruolo positivo nel settore logistica per le esperienze e pratiche di lotta che ha costruito e per la reale rappresentatività che ha conquistato; rileviamo l'importanza particolare dell'azione di organizzazione di classe dei lavoratori immigrati che questa organizzazione sta conducendo nel settore, e che assume di fatto una valenza politica più generale, non solo sindacale, a fronte delle attuali politiche e campagne xenofobe.
Al tempo stesso, nel sostenere lo sciopero generale Si Cobas del 29 Ottobre - come ogni altra azione di lotta, per quanto parziale, che abbia valenza progressiva - continueremo a batterci, tra i lavoratori e in ogni sindacato di classe, per una ricomposizione generale del fronte di massa contro padroni e governo, attorno ad una vertenza generale unificante. Una necessità tanto più pressante a fronte della crisi capitalista e di un governo reazionario a ispirazione bonapartista come il governo Renzi.

Partito Comunista dei Lavoratori


La guerra della Turchia contro i curdi: una questione di sopravvivenza personale per Recep Tayyip Erdogan

Pubblichiamo questo articolo dal compagno Sungur Savran, segretario del DIP, Partito Rivoluzionario dei Lavoratori di Turchia, a ridosso della terribile strage di Ankara. Di fronte alla prospettiva di svolta reazionaria contro i kurdi e il movimento operaio turco, si afferma con assoluta attualità la necessità di una prospettiva rivoluzionaria per continuare la lotta contro Erdogan e instaurare un governo dei lavoratori in Turchia e in tutto il Medio Oriente. Solo l'abbattimento della dittatura di banchieri, industriali, petrolieri può garantire la pace e la fine delle stragi in Medio Oriente.


La città curda di Cizre, un insediamento con una popolazione di circa 150.000 anime nella Turchia sud-orientale, si trova per la seconda volta sotto assedio delle forze armate turche e delle cosiddette "forze operative speciali" della polizia, dopo che il precedente assedio era stato revocato per una tregua di due giorni. Oltre al coprifuoco ci sono tagli all'erogazione di elettricità, e vige l'interruzione di tutti i mezzi di comunicazione, compresi i cellulari ed internet. Dopo il primo assedio è venuta fuori tutta l'evidenza del terribile dramma umano. Uccisi oltre 30 civili, di età compresa fra i 35 giorni di vita di un bambino ed i 75 anni di un anziano. Prima che l'assedio fosse tolto, fonti governative dichiaravano che le forze di sicurezza avevano ucciso più di una dozzina di combattenti del PKK, negando vittime civili. Come un neonato ed un vecchio possano aver contribuito alla lotta del PKK, secondo i portavoce governativi, rimane un mistero irrisolto, di fronte all'evidenza del fatti.

La situazione critica di Cizre non è che l'ultimo e più drammatico episodio in una guerra che lo Stato turco ha scatenato contro i suoi cittadini nelle regioni curde a partire dallo scorso luglio. Col pretesto del massacro di Suruç del 20 luglio, in cui rimasero uccisi - da un attentato suicida con tutta probabilità opera dell'ISIS - 32 giovani attivisti di sinistra turchi che stavano partecipando ad una conferenza di solidarietà con il popolo della città curda di Kobane, il governo turco guidato dall'AKP, il partito di Recep Tayyip Erdogan, ha dato inizio ad una guerra... non contro l'ISIS ma contro il PKK ed il popolo curdo! È vero che il governo dell'AKP aveva concesso agli Stati Uniti l'uso della base aerea di Incirlik per bombardare l'ISIS ed aveva accettato di partecipare ai raid aerei. Ma questa era solo una manovra dissimulatoria mentre in realtà la Turchia si stava imbarcando in un attacco su ampia scala al movimento curdo, evitando tensioni con gli Stati Uniti alle prese con una difficile operazione militare.

La guerra della Turchia non è solo contro il PKK, ma contro il popolo curdo intero. Ed ha almeno tre diversi aspetti. Il primo è il conflitto militare tra le forze armate turche ed il PKK, che finora ha assunto la forma dei bombardamenti aerei turchi sui campi del PKK nell'Iraq settentrionale, nel territorio del Governo Regionale Curdo, presieduto da Barzani, stretto alleato degli americani e della Turchia. Il PKK per ritorsione ha iniziato ad uccidere soldati e poliziotti turchi, compiendo ai primi di settembre nel giro di 48 ore due spettacolari incursioni in cui sono caduti 16 soldati turchi nel sud-est del paese e 13 poliziotti turchi nel nord-ovest. La grande distanza geografica tra le due località, così come le pesanti perdite subite dalle forze turche, dimostrano come il PKK disponga di una forza formidabile.

Il secondo aspetto della guerra è quello del tentativo da parte dello Stato di pacificare i focolai nei centri del Kurdistan turco. I negoziati tra il governo turco ed il PKK per un "processo risolutivo" sono in corso dal 2013. Tuttavia, non a tutti nel Kurdistan è andato a genio questo processo. Abdullah Ocalan, lo storico dirigente del PKK, chiuso in prigione dal 1999, è l'architetto di questo processo. Ma ci sono altri attori in scena. Quelli ufficiali sono il PKK con base nell'Iraq del nord, e l'HDP, il Partito Democratico del Popolo, una sorta di avatar del movimento parlamentare curdo che ha unito le sue forze ad una coalizione di partiti e movimenti socialisti turchi. Tra questi tre attori, Ocalan è il più possibilista, mentre il PKK iracheno proietta un'immagine più intransigente. Ma c'è un quarto attore sulla scena: sono i giovani del YDG-H, ala radicale del PKK, che ultimamente si sono mossi come una forza quasi indipendente. Si collocano all'estrema sinistra del movimento curdo e nonostante il giuramento di fedeltà incrollabile verso Ocalan, sono apertamente critici rispetto al "processo risolutivo". Sono loro che organizzano i quartieri in molte centri curdi rendendoli inattaccabili dalle forze di sicurezza turche, scavando fossati e trincee e prendendo le armi laddove necessario. La popolazione può non essere d'accordo con i loro metodi, ma sta con loro e contro le forze governative durante i periodi di conflitto, quando arrivano i momenti critici.

Ecco il perché degli attacchi ad una serie di città curde, a centri come Silopi, Varto, Yuksekova, Silvan, ed ora, con maggiore drammaticità, a Cizre, la più importante roccaforte del YDG-H (questi ed altri insediamenti nel Kurdistan turco hanno nomi originari curdi che sono stati sostituiti con questi nomi turchi imposti agli inizi del periodo repubblicano). In contraddizione col primo aspetto della guerra, che vede due forze armate scontrarsi, quest'altro assume le forme di una guerra condotta contro la popolazione civile. Dal momento che quasi tutta la popolazione sta con i suoi giovani, quello che può sembrare un attacco ad una milizia viene necessariamente trasformato in un attacco a tutta la popolazione. Chi scrive è stato di recente, in una missione di solidarietà, a Silvan, vicino Diyarbakir, immediatamente dopo un assalto delle forze di sicurezza, ed è possibile prendere cognizione diretta della devastazione operata sull'intera città.

Il terzo aspetto è la potenziale minaccia di una vera e propria guerra civile che coinvolga entrambe le parti. Questa minaccia alberga nel continuo richiamare quei sentimenti nazionalisti e persino sciovinisti che esistono all'interno di ampi settori della popolazione turca, di forze non solo vicine a Erdogan ed all'AKP, ma anche alcune note in Occidente come i "Lupi Grigi" del Partito d'Azione Nazionale, il movimento più tradizionalmente fascista del paese, nonché il terzo maggiore partito della borghesia turca (dopo il Partito Popolare Repubblicano, CHP, di origine kemalista, che ora passa per socialdemocratico). Sono stati i "Lupi Grigi" a scendere in strada nella notte dell'8 settembre per rispondere alle due spettacolari azioni del PKK di cui sopra. Più di 140 sedi dell'HDP attaccate, molte date alle fiamme, aggressioni a civili curdi nelle strade dei centri controllati da turchi nella parte occidentale del paese, pullman intercity fermati e presi a sassate, lavoratori stagionali curdi aggrediti collettivamente, bruciate le loro case e lo loro auto ed allontanati in massa. Ora, anche se i curdi sono minoritari nelle città dell'ovest, sono pur sempre una minoranza di una certa dimensione, ed inoltre si tratta di comunità molto politicizzate con notevoli capacità di lotta. Se non hanno reagito, non è stato che per autocontrollo. Il che vuol dire che in futuro la situazione può sfuggire di mano e degenerare in una guerra civile etnica che può assumere forme molto sanguinarie.



LE DINAMICHE DIETRO LA GUERRA

Per fermare questa guerra, occorre individuare le dinamiche che ne sottendono lo scoppio. Purtroppo, il movimento curdo, a lungo influenzato da una intellighenzia liberale, continua a ripetere che è necessario tornare allo status quo ante, vale a dire al punto in cui si erano fermati i negoziati del "processo risolutivo". Questa posizione ignora il fatto che ci sono forze molto ben definite in gioco che hanno portato a questa guerra e che dovrebbero essere contrastate e sconfitte prima di poter ristabilire la pace o almeno un cessate-il-fuoco. Queste forze sono molto diverse tra loro: alcune relative alla congiuntura politica, altre sono più strutturali.

La ragione predominante, che fa scomparire per importanza tutte le altre, è quella che ha che fare con gli interessi politici di Tayyip Erdogan. In un altro articolo (“Una sconfitta strategica per Erdogan” - pubblicato in questo sito il 17 giugno, ndt) in occasione delle elezioni turche del 7 giugno, avevamo messo in evidenza che il penoso risultato elettorale del partito di Erdogan, l'AKP, che aveva perso ben 10 punti del voto popolare insieme alla maggioranza parlamentare che deteneva dal 2002, era la semplice ratifica di una precedente sconfitta strategica già inflitta ad Erdogan dalle masse turche, prima con la rivolta popolare innescata dagli incidenti di Gezi Park nel giugno 2013 e successivamente dalla serhildan (intifada) dell'ottobre 2014 scatenata dal popolo curdo in reazione all'atteggiamento di indifferenza dimostrato da Erdogan di fronte alla tragedia di Kobane quando era stata attaccata dall'ISIS. Il risultato elettorale è stato una doppia catastrofe per Erdogan. Da un lato, ha bisogno dei 2/3 della maggioranza parlamentare se vuole emendare la Costituzione al fine di trasformare il sistema politico turco in un sistema presidenziale, dando a se stesso il potere di controllare l'intero processo politico, quel potere che ora egli non ha, stante l'attuale sistema che dà alla sua carica di Presidente della Repubblica una veste cerimoniale. Dall'altro lato, il fatto che l'AKP non ha più la maggioranza parlamentare può aprire le porte ad inchieste sui gravissimi e provati casi di corruzione in cui sono coinvolti Erdogan stesso ed i suoi ministri. Molti analisti si dilungano sulle ambizioni di Erdogan riguardo alla carica di presidente esecutivo. Ma forse la sua necessità più urgente è quella di evitare che si aprano le inchieste sui casi di corruzione che riguardano l'AKP, il quale si trova ora in minoranza all'interno del parlamento. Se gli altri partiti trovassero l'unità per aprire queste inchieste, Erdogan potrebbe trovarsi sull'orlo del precipizio, col rischio di essere condannato.

Dopo il successo elettorale dell'HDP, che avendo superato l'altissima soglia di sbarramento del 10% ha così fatto perdere all'AKP la maggioranza parlamentare, Erdogan ed i suoi accoliti puntano ora tutte le loro speranze nell'opera di sobillamento dello sciovinismo turco e nel presentare l'HDP non come messaggero di pace, bensì come forza che appoggia il "terrorismo" del PKK, allo scopo di far scendere l'HDP al di sotto della soglia critica del 10% nelle elezioni dell'1 novembre. Ecco perché questa guerra è per prima cosa e soprattutto una guerra di sopravvivenza per Erdogan. Nella storia ci sono state guerre imperialiste e guerre anticolonali. Questo è il primo caso di guerra egoista!

Dopo le elezioni del 7 giugno scrivevamo:

“Gli errori politici della sinistra hanno finito per dare respiro ad Erdogan, permettendogli di salire alla presidenza della repubblica. Ora l'AKP non è in grado di formare un suo governo autonomo, ma Erdogan ha ancora le redini del potere. Utilizzerà ogni centimetro di spazio per mantenersi al potere, e a questo scopo potrebbe perfino ricorrere alla guerra contro i curdi o in Medio Oriente. In politica, ogni errore ha un prezzo.”


Non c'è bisogno di rilevare che la previsione di cui sopra si è purtroppo rivelata fondata. Per quanto riguarda gli errori della sinistra, ci si riferisce al fatto che non ha cercato di far cadere Erdogan quando era possibile farlo. E qui le responsabilità maggiori le ha il movimento curdo. Se si fosse mosso in tandem con la rivolta popolare di Gezi Park nel 2013, Erdogan sarebbe certamente caduto, tanto è forte la capacità del movimento curdo di organizzare le masse specialmente a Diyarbakir. È triste notare come le sofferenze del popolo curdo sotto gli attacchi atroci delle forze di sicurezza turche sono dovute, almeno parzialmente, agli errori dello stesso movimento curdo.

Ci sono, naturalmente, fattori strutturali di fondo che spingono la Turchia alla guerra contro il movimento curdo. Abbiamo già visto come l'ala radicale del movimento curdo, rappresentata dai giovani, si sia espressa contro il "processo risolutivo" senza la liberazione di Ocalan (un impressionante striscione dei giovani durante una gigantesca manifestazione nel 2013 diceva: "Una pace col serok (titolo di Ocalan nel movimento) ancora in prigione è una pace sconclusionata”). I giovani possono contare su molti sostenitori, anche se meno focosi, e quasi tutta la popolazione tende verso quelle stesse loro posizioni intransigenti quando il gioco si fa duro. La serhildan dell'ottobre 2014 aveva spaventato immensamente i circoli dominanti del governo e messo in agenda la liquidazione di queste sacche di resistenza urbana (armata) che, diversamente dalla guerriglia rurale, costituisce una minaccia immediata nel caso dello scoppio di una nuova serhildan. Per cui la guerra in corso può essere considerata come il tentativo da parte dello Stato turco di farla finita con queste sacche di resistenza.

L'altro importante fattore che produce frizioni tra lo Stato turco ed il PKK è, a causa della semplice sua esistenza, il Rojava, l'entità autonoma curda a sud del confine turco-siriano. L'autonomia curda o, a fortiori, l'indipendenza in altre parti del Kurdistan, come in Iraq o in Siria, è sempre stata vista come una minaccia dalle classi dominanti turche, anche solo per il fatto che potevano essere d'esempio per i curdi in Turchia. Nei primi quindici anni del XXI secolo, prima i curdi dell'Iraq, poi i curdi in Siria hanno raggiunto l'autonomia. Inizialmente contrariata per la creazione del Kurdistan iracheno di Barzani come regione autonoma, la Turchia ha poi raggiunto degli accordi con Barzani diventando la forza dominante sia a livello economico che politico sul Governo Regionale Curdo. La borghesia turca ripone molte attese nei vantaggi derivanti dal petrolio della regione di Kirkuk. Ma il Rojava è ben altra questione. Se Barzani è un fedele alleato, persino un protetto, degli Stati Uniti e poi della stessa Turchia, il Rojava invece è stato istituito con una leadership organicamente collegata al PKK! Il governo dell'AKP ha sempre detto chiaramente che non avrebbe mai fatto accordi con un'entità controllata politicamente dal PKK a sud dei suoi confini. Ecco perché il Rojava è stato, in questi tre anni della sua esistenza, una spina nel fianco del "processo risolutivo".



TURCHIA E QUESTIONE CURDA INSEPARABILI?


Quest'ultimo aspetto relativo al Rojava suggerisce che il futuro della questione curda in Turchia e, di fatto, della stessa Turchia sono strettamente collegati alle prospettive in Siria. Come molti ben sanno, Erdogan ed il suo AKP sono attori importanti nel calvario che la Siria sta vivendo dal 2011. Erdogan, insieme all'Arabia Saudita ed al Qatar, ha alimentato le fiamme dell'odio e della guerra in Siria tra i sunniti e gli alawiti (minoranza più vicina agli Sciiti che ai Sunniti). Ciò fa parte di un disegno più ampio, in cui Erdogan punta ad assumere la guida delle masse sunnite del Medio Oriente per tornare ai fasti dell'Impero ottomano che fu. Questa è una delle ragioni per cui il governo dell'AKP ha appoggiato l'ISIS fino a poco tempo fa e continua ad appoggiare altri gruppi islamisti che combattono contro il regime di Assad.

La situazione nata dall'accordo tra gli USA e la Turchia alla fine di luglio, per cui la Turchia ha concesso la base di Incirlik per gli attacchi aerei degli USA sull'ISIS in cambio del via libera degli USA agli attacchi al PKK, porta con sé una contraddizione dialettica che può nel tempo risucchiare la Turchia nella guerra in Siria. Nell'intervento militare contro l'ISIS, gli USA contano, fra le altre, sulle forze armate del Rojava quali truppe di terra. I tentativi della Turchia, dall'altro lato, puntano a tenere queste truppe del Rojava fuori da certe regioni a sud del confine turco-siriano, che la Turchia vuole trasformare in "zone di sicurezza". Ma gli Stati Uniti hanno bisogno delle forze di terra del Rojava per combattere l'ISIS. Sembra che l'unico modo con cui la Turchia possa indurre gli USA a non chiedere più la collaborazione militare del Rojava sia quello di inviare essa stessa le sue truppe di terra per istituire quelle zone di sicurezza a cui mira.

Questa prospettiva, che deriva dalle contraddizioni dell'alleanza militare tra USA e Turchia, è complementare alla logica infernale della questione di sopravvivenza di Erdogan: dovesse l'AKP mancare l'obiettivo di conquistare la maggioranza parlamentare con le prossime elezioni, Erdogan potrebbe aver bisogno di sospendere il normale funzionamento del sistema, cosa che potrebbe riuscirgli portando il paese in guerra in Siria o persino nello scenario più ampio del Medio Oriente. Avevamo previsto che Erdogan avrebbe attaccato i curdi, non dovrebbe sorprendere se si verificasse anche la seconda previsione.

Ci sono, naturalmente, certe controtendenze che possono produrre degli effetti. C'è la possibilità che uno degli attori più importanti, Ocalan, rimasto in silenzio dalle elezioni fino allo scoppio dell'attuale guerra, parli di una sorta di disgelo. L'imminente Eid al-Adha, la grande festività religiosa del mondo islamico, può essere un'occasione opportuna per lui per aprire un nuovo capitolo nel "processo risolutivo". Non va dimenticato che nonostante la ferocia della guerra, né da parte dell'AKP né da parte di Erdogan e nemmeno da parte curda è stata totalmente esclusa la possibilità di un nuovo inizio. Erdogan stesso ha esplicitamente dichiarato che il "processo risolutivo" è congelato (e non morto, come la guerra in corso potrebbe far pensare). È ovvio che appena si sentirà più sicuro possa tornare volentieri allo status quo ante. Ma questo sarebbe un esito reazionario dell'attuale situazione di impasse. Erdogan è una maledizione per la Turchia e per il Medio Oriente, e più rimane al potere nel suo paese, maggiori saranno i danni che porterà ai popoli della regione.

Un esito progressivo richiederebbe ovviamente la sconfitta di Erdogan, con la sua fuoriuscita dalla politica e la sua condanna per i crimini commessi. Le condizioni perché questo accada si stanno verificando. Già il recente succedersi di lotte di massa nel paese, dalla rivolta popolare di Gezi Park (2013), alla serhildan di Kobane (2014), allo sciopero dei metalmeccanici (2015), nel giro di soli due anni, dimostra che c'è una società piena di gruppi sociali pronti a dichiarare la loro rabbia. È su questo che Erdogan ha perso credibilità sia agli occhi dei suoi alleati del passato (USA ed UE) sia agli occhi dei liberali turchi, della confraternita Gulen e di molti settori della classe capitalista. Ed ora sta perdendo sempre più l'appoggio di ampi settori del suo partito. L'ex presidente della repubblica, Abdullah Gul, un altro fondatore e leader dell'AKP, attende dietro le quinte di riprendersi il partito al momento giusto. Il congresso del partito che si terrà nei prossimi giorni non farà emergere le profonde fratture interne, ma le contraddizioni stanno maturando.

Se Erdogan cadrà, sarà ben diverso se cadrà per mano di una opposizione borghese guidata da Gul e dai due partiti della borghesia, i "socialdemocratici" ed i fascisti, o persino per mano dell'esercito, o se invece saranno le masse a farlo cadere, guidate si spera dalla classe operaia, che sembra essere tornata attiva dopo un lungo sonno.


C'è stato un confronto incessante fra due linee, nella sinistra, fin dagli eventi di Gezi Park. Una linea è quella della minor resistenza, che spera in un rimescolamento dei partiti borghesi, scommettendo per il successo, all'interno del campo borghese, di forze ostili ad Erdogan. Forze che verrebbero guidate da Abdullah Gul e dai suoi seguaci all'interno dell'AKP, e dal CHP, il principale partito dell'opposizione, sedicente socialdemocratico. La confraternita islamica di Gulen, ex partner di Erdogan ma ora suo principale bersaglio, sarebbe organicamente collegata a queste forze. Se queste forze comprenderanno anche i fascisti è da verificare, ma vi sarebbero comunque coinvolte altre minori formazioni borghesi. Questa coalizione di forze fu inizialmente definita alla fine del 2013 dall'allora ambasciatore degli USA in Turchia, Frank Ricciardone. Sebbene possa sembrare un'esagerazione, è esattamente il modo in cui le cose si svilupparono nella concreta realtà: subito dopo la ribellione di Gezi Park, Ricciardone ebbe un incontro segreto con il leader del CHP, il quale successivamente si recò negli Stati Uniti per incontrare uomini di Gulen, per poi tornare a casa e seguire una linea di alleanza con con ogni tipo di organizzazione della destra borghese. Resta da vedere se questa politica sarà in grado di registrare successi contro Erdogan. Dipende tutto dall'equilibrio delle forze all'interno dell'AKP, difficile da discernere.

L'HDP sta ultimamente aprendo a questa coalizione. L'atteggiamento di completa passività che ha adottato dopo le elezioni del 7 giugno è stato nei fatti una conseguenza di ciò. Dalla fine di luglio, quando il governo AKP ha rilanciato la guerra ai curdi, ha combattuto con sacrificio quest'odiosa azione. Al polo opposto, anche il cosiddetto "Blocco di Giugno", variegato gruppo che mantiene le distanze dal movimento curdo, comprendente diversi partiti socialisti ma dominato da associazioni alevite, fornisce un sostegno indiretto a questa linea attraverso il suo malcelato appoggio al CHP. Fra loro, queste due aree formano la stragrande maggioranza della sinistra socialista in Turchia, vale a dire della sinistra che non confina la sua azione sottoterra.

Il nostro partito, il Partito Rivoluzionario dei Lavoratori (DIP), si trova quasi da solo nel proporre un'altra linea: in solidarietà attiva con il popolo e il movimento curdo, mette tuttavia in guardia contro i pericoli che derivano dall'alleanza che il movimento curdo sembra aperto a stabilire con l'imperialismo, e dall'orientamento sia dell'HDP che del "Blocco di Giugno" verso il CHP. Lottiamo per costruire il partito all'interno della classe operaia - durante lo sciopero selvaggio di decine di migliaia di metalmeccanici nei mesi di maggio e giugno di quest'anno abbiamo guadagnando un visibile successo - con l'obiettivo del potere del proletariato. L'alleanza che la sinistra ha bisogno di costruire è quella della classe operaia con il popolo curdo in lotta e con le ampie masse popolari politicizzate dalla ribellione di Gezi Park, di cui quella degli aleviti è la componente più importante. Quest'alleanza rappresenterebbe una forza formidabile, e il suo peso scuoterebbe non solo le strutture del potere turco e del Kurdistan turco, ma dell'intero Medioriente e del Nord Africa. È questo l'obiettivo per cui lottiamo.

Sungur Savran

Operai, studenti, ADL Cobas e Partito Comunista dei Lavoratori bloccano di nuovo lo stabilimento Artoni: basta licenziamenti, generalizzare la lotta!


Continua la vertenza Coop Stemi (appaltatrice Artoni), la lotta degli operai cassaintegrati non si arresta.
Anche stamattina operai, studenti, Adl Cobas e la delegazione dei militanti del Partito Comunista dei Lavoratori sezione Romagna hanno fatto sì che il padrone non avesse un buon risveglio.
Per più di 2 ore sono stati bloccati i camion in entrata ed uscita allo stabilimento Artoni di Cesena, blocco merci tolto solo all’arrivo della notizia della convocazione del tavolo di contrattazione nelle modalità richieste dall'ADL Cobas, previsto per venerdì 9 nella mattinata.
Ma la lotta si sta generalizzando: anche a Padova gli operai ADL Cobas hanno provveduto al blocco merci ed anche lì i militanti del Partito Comunista dei Lavoratori hanno cooperato alla lotta.
A Padova è da segnalare che anche operai dell'ADL Cobas di altri stabilimenti limitrofi, finito il turno di notte, hanno dato man forte ai loro compagni impegnati nel blocco merci.
Inoltre, il PCL ha effettuato un volantinaggio di solidarietà davanti agli stabilimenti Artoni di Milano e Bologna.
Rilanciamo la nostra proposta di fronte unico di lotta tra tutte le organizzazioni politiche e di movimento che vogliono difendere i lavoratori ed il lavoro.
Unificare tutte le vertenze in una unica nazionale lotta per il lavoro!
Generalizzare la lotta in tutti gli stabilimenti Artoni! Reintegro immediato di tutti gli operai! 

A LA GUERRE COM'A LA GUERRE - E' ora del fronte unico di classe

Siamo a un passaggio inedito della vicenda sindacale italiana. Confindustria ha di fatto dichiarato la “serrata contrattuale”, dopo aver preteso la rinuncia preventiva ad ogni aumento salariale ed anzi aver chiesto indietro, in più settori, 80 euro dai lavoratori. Il Governo non ha stanziato risorse per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego nella legge di stabilità, visto che lo stanziamento previsto di 400 milioni corrisponde grosso modo ad un aumento di 20 euro per dipendente. E questo dopo un blocco contrattuale di sette anni e la sentenza della Consulta. Intanto lo stesso governo che ha cancellato l'articolo 18 e che diserta i propri doveri contrattuali si riserva di intervenire d'autorità sulla struttura stessa del contratto nazionale, con un colpo di mano senza precedenti.

Di fronte a questa valanga annunciata la burocrazia sindacale balbetta impaurita, in una paralisi totale di iniziativa reale. La CISL cerca di salire da sola sul carro del vincitore chiedendo in cambio una qualche foglia di fico, ma invano. La burocrazia CGIL, come un pugile suonato, si limita a ripetere parole di “critica” verso Squinzi e verso il governo, che non servono a nulla e non contano nulla. Maurizio Landini copre con la evocazione verbale di una '”occupazione delle fabbriche” che ovunque ha sempre evitato , la propria sostanziale passività. La risultante è semplice: mentre governo e padronato sparano cannonate contro i lavoratori, i dirigenti sindacali abbandonano di fatto il movimento operaio, coprendosi dietro il paravento di frasi vuote. Questo è ciò che sta accadendo.

E' necessario reagire. Basta balbettii. E' necessario e urgente il più vasto fronte di classe e di massa, contrapposto al fronte comune tra padroni e governo. E' necessario e urgente opporre alla radicalità straordinaria di padroni e governo una radicalità straordinaria, uguale e contraria, dei lavoratori e delle lavoratrici. Va preparato uno sciopero generale vero capace di bloccare l'Italia sino a quando la resistenza di padroni e governo non sarà piegata. Va predisposta una cassa di resistenza nazionale a sostegno di questo sciopero. Va organizzato in tutto il paese un piano d'azione di massa che accompagni lo sciopero e lo sostenga ( blocco delle merci, occupazione delle aziende che ignorano i diritti sindacali, ecc.). Non si dica che “non vi sono le forze”. Gli otto milioni di lavoratori , privati e pubblici, interessati ai contratti sono una grande forza. Cui si possono unire milioni di precari, di disoccupati, di popolazione povera del Nord e del Sud, colpiti parallelamente da una legge di stabilità che taglia le prestazioni sanitarie per finanziare la detassazione delle ville e nuovi regali fiscali ai profitti . Questa forza complessiva deve essere semplicemente motivata, organizzata, e resa cosciente di sé. Se questa forza sarà dispiegata davvero tutto diventerà possibile . Se questa forza, come in passato, verrà ignorata e dispersa, padroni e governo avranno la vittoria in tasca. Con un nuovo effetto di demoralizzazione e passivizzazione di milioni di lavoratori. A beneficio dei Grillo e dei Salvini.

Facciamo appello a tutte le avanguardie di lotta ovunque collocate perchè uniscano la propria azione attorno alla parola d'ordine di uno sciopero generale vero, unitario e di massa. Perchè facciano di questa parola d'ordine uno strumento di battaglia politica tra i lavoratori e nei propri sindacati. Perchè si apra il varco di un movimento unitario reale di lotta . Perchè emerga ovunque l'esigenza di una direzione alternativa ad una burocrazia sindacale fallimentare.
PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

Contro la "Buona scuola" continuiamo la lotta! Studenti e insegnanti uniti!

Il movimento degli insegnanti che ha lottato contro la cosiddetta "Buonascuola” è stato un grande episodio di lotta, il più grande contro il governo Renzi e uno dei più significativi da decenni (sciopero del 5 maggio). Si è trattato di una lotta coraggiosa, spinta e sostenuta dal protagonismo di lavoratori e lavoratrici. Un grande movimento costruito su obbiettivi chiari, che non solo ha respinto questa odiosa controriforma (differenziazione di stipendi, preside-padrone, svalutazione della figura dell'insegnante...), ma ha prospettato un’alternativa alla deriva aziendalista ed elitaria della scuola.

La riforma è infine stata approvata, per via della chiusura delle scuole (con la lotta partita in ritardo) e dell'incapacità dei sindacati di raccogliere la spinta di quel grande movimento e di portarla avanti.

La riforma è stata approvata, ma con grossa fatica da parte del governo. È il segno che la forza della mobilitazione e dell'autorganizzazione possono muovere le cose e fare la differenza.

Ma questa lotta non si è chiusa! Bisogna ripartire da dove il movimento della scorsa primavera si è fermato, riprendere in mano la lotta contro chi vuole distruggere definitivamente la scuola pubblica.

La lotta riguarda anche noi studenti, tanto quanto riguarda gli insegnanti! Ciò che oggi viene fatto nelle suole (e nei luoghi di lavoro) sta per essere fatto anche nelle università. Il nostro coinvolgimento, che è mancato a maggio e giugno (per via di esami e scuole chiuse), è stato uno dei fattori che ha isolato gli insegnanti e ha impedito alla mobilitazione di svilupparsi.

Possiamo e dobbiamo continuare la battaglia, contrastare questa devastante controriforma nelle scuole e nelle piazze! Non bisogna semplicemente risparmiare alla scuola gli effetti più deleteri della legge, bisogna mettere in discussione l'intera legge e l'idea di istruzione che esprime, cioè quella di una scuola "modello catena di montaggio", con insegnanti supersfruttati (e sottopagati), con un'organizzazione da caserma, sempre più legata ai privati e ai ricchi e sempre più priva di libertà di insegnamento. Insomma: una scuola sempre più autoritaria e sempre meno libera.

Bisogna riprendere, insegnanti e studenti, la battaglia scuola per scuola, istituto per istituto, comune per comune! Ma non basta. Come abbiamo visto nella primavera, non si vince solo nella scuola. Questo governo autoritario può esser sconfitto solo da un movimento generale.

Bisogna isolare Renzi. Questo governo, infatti, non colpisce solo la scuola: impone il Jobs Act (licenziamenti, sfruttamenti e controllo); limita il diritto di sciopero e assemblea; vuole disfare i contratti nazionali, per abbassare i salari e controllare senza limiti il lavoro (orari, ritmi, turni).

Per questo dal movimento della scuola, e quindi anche da noi studenti, deve partire un appello a tutto il mondo del lavoro, a tutte le organizzazioni sindacali, per la costruzione di un fronte generale di lotta che sia in grado di esprimere, attraverso una mobilitazione continua e uno sciopero generale, una vera opposizione contro tutte le politiche antipopolari e autoritarie del governo.

CONTRO LA “BUONA SCUOLA”! CONTRO IL GOVERNO RENZI!
SOLO LA LOTTA PAGA! COSTRUIAMO L'OPPOSIZIONE!

Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione Scuola e Università