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Unione Popolare tra il cielo e la terra

 


Il cartello di De Magistris: una lista Ingroia 2.0

Il primo capitolo di una storia nuova o l'ultimo capitolo della storia vecchia?

Parte in tutta Italia l'Unione Popolare”. Roma, 9 luglio. Sfrondata della retorica d'occasione, si tratta dell'ennesimo nuovo nome dell'ennesima lista civica per le elezioni politiche del 2023, anticipate al 2022. È il tentativo del Partito della Rifondazione Comunista e di Potere al Popolo di salire in groppa al successo elettorale di Mélenchon in Francia per sbarcare in Parlamento in Italia. Ma soprattutto il tentativo dell'ex sindaco di Napoli di usare lo sgabello di PRC e PaP per costruire un proprio partito autocentrato. Ci provò Ingroia, ci riprova ora De Magistris. Tutto legittimo, beninteso. Basta chiamare le cose con il loro nome, senza farsi incantare dalle fiabe.


RIENTRARE IN PARLAMENTO IN FUNZIONE DI QUALE CLASSE?

Provare a rientrare in Parlamento è comprensibile. Ma in funzione di quale classe e per quale prospettiva?
Il PRC in Parlamento c'è stato per ben sedici anni (1992-2008), con percentuali ben più ragguardevoli di quelle oggi attese da De Magistris. Ma è finito col votare i programmi del capitale nei cinque anni dei due governi Prodi: lavoro interinale, privatizzazioni, missioni militari, la più grande detassazione dei profitti del dopoguerra (IRES dal 34% al 27% nel 2007!), sino a distruggere la propria riconoscibilità.
Si dirà che “tutti possono sbagliare” e che una seconda occasione non si nega a nessuno. Ma qui non si tratta di “errori” sulla via impervia del socialismo, bensì del sostegno alle peggiori misure del capitalismo, contro la classe lavoratrice. Senza che nessuno, tra dirigenti e ministri di quella stagione, con l'eccezione obbligata di Bertinotti, abbia sentito il bisogno di farsi da parte per ragioni di decenza.
Se Grillo, Salvini, Meloni, hanno sfondato uno dopo l'altro in ampi settori di salariati, lo si deve in ultima analisi anche al suicidio di Rifondazione, pagato a sinistra da tutti, anche da chi lo contrastò con coerenza.

Peraltro le “seconde occasioni” non sono certo mancate. Nei quattordici anni successivi all'estromissione dal Parlamento, la sinistra cosiddetta radicale ha provato a rientrarci sotto mentite spoglie, attraverso il ricorso a sigle fantasiose, ogni volta diverse, dietro cui nascondersi: dopo Sinistra Arcobaleno, Rivoluzione Civile, L'Altra Europa con Tsipras, Potere al Popolo, la Sinistra... L'elemento comune è stato l'arretramento culturale e persino di vocabolario. I lavoratori sono stati rimpiazzati dai “cittadini”. La lotta al capitalismo, fosse pure declamata, ha ceduto il passo alla critica del liberismo. Invece della (farlocca) “via italiana al socialismo”, di togliattiana memoria, una sorta di via mimetica al Parlamento (per tornare un domani ai lidi di governo). Ma l'operazione è fallita. E non solo. Proprio negli anni della grande crisi sociale ha contribuito a rimuovere anche culturalmente un elementare argine di classe all'intossicazione populista, mentre l'esperienza traumatica del governo Tsipras, sostenuto da tutta la sinistra italiana, ne ha confermato gli equivoci irrisolti e tarpato le ambizione di rilancio.

L'Unione Popolare non è dunque il primo capitolo di una storia nuova, ma l'ultimo capitolo della storia vecchia. Si dirà che questa volta il successo elettorale di Mélenchon fornisce un ancoraggio all'esperimento, e che la crisi verticale del grillismo apre uno spazio elettorale nuovo. Possibile, anche se è bene dire che Mélenchon ha capitalizzato in parte una dinamica di lotte che oggi ancora latita in Italia. Tuttavia il punto non è elettorale, è politico.


ALLA RICERCA DEL GRILLISMO PERDUTO

L'appello pubblico che promuove l'Unione Popolare è un elenco di valori democratici e progressisti, assieme all'immancabile richiamo alla Costituzione di Togliatti e De Gasperi. Chi cercasse un qualsivoglia riferimento alla lotta di classe rimarrebbe deluso. A maggior ragione chi pretendesse l'evocazione, fosse pure formale, del socialismo.
Non dipende solo dal fatto che le formazioni della sinistra radicale hanno da tempo dismesso la centralità di questi riferimenti, come peraltro ha fatto il patriottico Mélenchon. È che il senso stesso di Unione Popolare consiste nel rimuovere l'immagine della “sinistra radicale”, in ogni possibile declinazione. Non a caso Rifondazione Comunista e Potere al Popolo non hanno figurato in quanto tali nell'assemblea nazionale promotrice di Unione Popolare a Roma. Neppure sono intervenuti. La loro presenza è muta. Gli stessi nomi riconoscibili dei loro dirigenti di partito sono relegati in coda al lungo elenco di personalità firmatarie dell'appello, che è e deve apparire l'appello della società civile progressista, non di PaP e PRC. I loro militanti, come sempre, saranno chiamati alla manovalanza in campagna elettorale. Ma la loro identità di partito sarà anonima. Così vuole e ottiene De Magistris, alfa e omega dell'intera operazione. «Sgombriamo il campo da un equivoco: Unione Popolare non è una semplice proposta di sinistra radicale che tenta di riunire ciò che resta della sinistra estrema. Non ha nulla a che vedere con tutto questo...» dichiara Salvatore Pace, ex vicesindaco di Napoli, primo collaboratore di De Magistris. Non vi è ragione di dubitarne.

La ricerca insistita dell'accordo con il M5S, patrocinata in particolare da PRC e De Magistris, sta in questo quadro. Non è una sgrammaticatura casuale, o un errore. È il riflesso di un'impostazione politica. «Io sono come i 5S dei meetup» dichiara De Magistris al Fatto Quotidiano (28 luglio). E così vuole apparire.
L'accordo con Conte viene presentato come una convergenza naturale di istanze comuni, sociali, democratiche, ecologiche. Il fatto che il M5S sia stato il partito più governativo della legislatura, che Conte sia stato due volte Presidente del Consiglio, che abbia inondato il padronato di miliardi, che abbia promosso leggi forcaiole contro i migranti e i diritti di sciopero (decreti Salvini), che abbia aumentato in entrambi i governi le spese militari, che abbia sostenuto tutte le politiche di Draghi (taglio dell'IRAP incluso), appare un trascurabile dettaglio. Ciò che conta per De Magistris è rientrare in partita.
Purtroppo per lui, Conte non sembra sinora disposto a imbarcare Unione Popolare, preferisce salvaguardare il profilo istituzionale di ex Presidente del Consiglio, cerca di rivendere l'ennesima truffa a cinque stelle “soli contro tutti, a difesa dei deboli”. UP purtroppo con le sue profferte unitarie copre di fatto quella truffa, mentre la concorrenza del M5S sui temi sociali – non sbugiardata ma avallata da UP – limita lo spazio di De Magistris anche sul terreno elettorale.
Come sempre, l'opportunismo finisce con l'essere il peggior nemico di sé stesso.


MELENCHONISMO SENZA MÉLENCHON

Unione Popolare è un'operazione complicata. De Magistris non è Mélenchon, né per cultura politica né in fatto di organizzazione.
Mélenchon ha costruito negli anni un proprio soggetto politico (La France Insoumise) sulle rovine parallele del Partito Comunista Francese e del Partito Socialista, coi quali ha siglato l'intesa per le elezioni legislative da una posizione di forza. Il suo sovranismo di sinistra dispone di una base d'appoggio organizzata, che oggi fa da baricentro di NUPES.
De Magistris è solo un ex magistrato e un ex sindaco, che dispone unicamente del proprio nome. Il suo progetto DemA, non casualmente affidato al fratello, è rimasto una sigla vuota. L'unico vero punto di forza di De Magistris è la prostrazione della sinistra politica che si è sdraiata ai suoi piedi. Il suo fine è usare la generosità di PRC e PaP per costruire sulle loro rovine il partito di De Magistris, la sua Italia Insoumise.

Quanto al programma politico, sarà l'ultimo dei problemi di De Magistris. La sua Persona travalica ogni confine. Si presenta come “uomo delle Istituzioni ma contro il Sistema”. Rivendica rottura del sistema e affidabilità di governo. Evoca «onestà, libertà, autonomia, competenza, coraggio, amore, passione, la corazza con cui ho retto a molti tsunami istituzionali, sempre tra la gente e con la gente». Esalta la «testimonianza esplosiva del Papa». Promette che con Lui «l'umanità andrà al potere e sarà un potere di servizio». Insomma, il programma di De Magistris è De Magistris, e tanto basta. Come l'Uno di Nicolò Cusano, raccoglie in sé la totalità degli opposti. Ogni pretesa di definirlo sminuirebbe la sua infinità. Quanto all'Umanità, dovrà avere pazienza.


UNIONE POPOLARE DALLA POESIA ALLA PROSA

Disgraziatamente, nel mondo reale la poesia scolora nella prosa, e si vendica di tanta enfasi. Prima il sodalizio con Di Pietro nella famosa Italia dei Valori, ai tempi in cui si opponeva alla commissione d'inchiesta sul G8 di Genova a difesa dell'onore della polizia, e all'introduzione del reato di tortura. Poi i dieci anni di sindacatura a Napoli dentro le ordinarie compatibilità di un'amministrazione borghese: pagamento del debito pubblico alle banche, privatizzazione delle Terme di Agnano, tagli agli asili nido con relativi milioni ai privati, blocco della contrattazione in Comune, vendita delle quote comunali dell'aeroporto di Capodichino, affidamento ai privati della gestione dei cimiteri, denuncia dei lavoratori in sciopero nel trasporto cittadino, nel nome del “popolo utente”... Il tutto compensato dalle concessioni di spazio ai centri sociali della città, con questo assunti e arruolati quale guardia del corpo del sindaco, tra comizi roboanti e toni messianici. Insomma, una sorta di Chavez de' noantri, o se si vuole di zapatismo partenopeo, presentato (letteralmente) come “laboratorio mondiale dell'incontro tra potere e popolo”. In realtà una forma di subordinazione del popolo al potere.


DA PODEMOS A MÉLENCHON, UNA SINISTRA DI GOVERNO DEL CAPITALISMO

Oggi parlano per De Magistris i suoi riferimenti internazionali, pur esibiti come punti di forza.
Podemos, con ben quattro ministri, partecipa del governo dell'imperialismo spagnolo, quello che aumenta le spese militari, approva l'estensione della NATO, massacra i migranti in accordo col Marocco, rifiuta l'autodeterminazione della Catalogna.
Mélenchon, ex ministro del governo Jospin e bombardatore di Belgrado, ha appena rimosso la richiesta di uscita dalla NATO per accordarsi col Partito Socialista, non chiede né l'indipendenza per le colonie di Oltremare né il ritiro delle truppe francesi dal Sahel (limitandosi all'”apertura di un dibattito”), nel nome degli “interessi strategici della Francia”.
Peraltro Manon Aubry, presente all'assemblea di Roma di Unione Popolare in rappresentanza della France Insoumise, ha pensato bene di benedire anche la lista di Sinistra Italiana e dei Verdi, tutta interna al campo largo di Letta. Meglio evitare di compromettersi, e tenersi aperta ogni strada. Con buona pace di De Magistris e dei suoi reggicoda.

Non sappiamo quale sarà la risultante elettorale di Unione Popolare e dei calcoli incrociati che la sottendono. Sappiamo che l'esigenza di un partito indipendente della classe lavoratrice e di un programma di rivoluzione sociale non ha nulla a che spartire con la vecchia riproposizione di equivoci populisti attorno a personaggi in cerca di autore.

Partito Comunista dei Lavoratori

Sinistra Italiana va dove la porta il cuore

 


Il Cocomero è già marcio

«Non chiudo ad Azione» dichiara Nicola Fratoianni a La Repunblica (28 luglio). Più chiaro di così...

Era in Parlamento l'”opposizione di sinistra” al governo Draghi. Ora si allea con l'area Draghi sino a Calenda, nel momento stesso in cui il PD innalza il vessillo di Draghi come linea di demarcazione col resto del mondo. C'è del metodo in questa follia? Eccome se c'è. Il metodo è la subordinazione al PD, un cordone ombelicale di dipendenza dal partito-sistema della Seconda Repubblica, che si è rivelato inossidabile. SEL nacque nel 2008 da una scissione a destra di Rifondazione Comunista nel nome della continuità dell'accordo strategico col PD. Si alleò col PD di Bersani nelle politiche 2013 dopo che questi aveva sostenuto con Monti tutto il peggio delle politiche antioperaie, legge Fornero in testa. Come Sinistra Italiana ha perseguito alleanze organiche col PD nelle giunte di centrosinistra di tutta Italia, anche negli anni di Renzi, scambiando assessorati con tagli sociali. Chi può meravigliarsi se oggi capitola addirittura a Calenda nel momento in cui questi è il principale alleato del PD?

Certo, il fatto colpisce. Fratoianni si era costruito, immeritatamente, un'immagine di apparente coerenza sul terreno delle posizioni sociali e ambientaliste. In realtà un minimalismo progressista che nel deserto generale appariva (falsamente) radicale. Il nuovo Cocomero (alleanza "rosso-verde" fra Sinistra Italiana e Europa Verde) intendeva confezionare questo profilo rassicurante di “vero riformismo”. Ma cosa ha a che vedere tutto questo con l'iperliberismo di Calenda, più draghiano di Draghi, campione di privatizzazioni, moltiplicatore di trivelle, nuclearista ideologico, militarista atlantista come pochi? Più banalmente, cosa ha a che vedere col PD, tanto più nel momento in cui Enrico Letta assume l'agenda Draghi come bandiera elettorale, per ingraziarsi il grande capitale, le cancellerie europee, la domanda di conservazione di settori piccolo e medio borghesi del Nord?

Si dice: “Lo impone la legge elettorale e la necessità di sconfiggere le destre”. È l'argomento cui si è impiccata la sinistra cosiddetta radicale degli ultimi trent'anni. Prima con l'Alleanza dei Progressisti, poi con l'Ulivo, poi con l'Unione, poi con l'Italia Bene Comune... Il risultato è che Meloni, Salvini, Berlusconi hanno consolidato un blocco sociale reazionario ampiamente maggioritario portando dalla propria parte milioni di lavoratori e lavoratrici, colpiti dai liberali e traditi dalle sinistre alleate dei liberali. Il suicidio di Rifondazione si consumò nel nome dell'Unione col PD contro Berlusconi. Ora Bertinotti è ai giardinetti, mentre Berlusconi aspira alla presidenza del Senato, Salvini al ministero degli interni, Meloni alla presidenza del consiglio. L'alleanza coi liberali contro la destra ha nutrito la destra e distrutto la sinistra. Fratoianni non inventa nulla di nuovo, marcia sul solco tracciato da Bertinotti, suo mentore. Solo che la prima volta fu tragedia e la seconda una farsa.

Peraltro, come in passato, l'alleanza contro la destra non è solo elettorale, come si vuol far credere. Prevede un comune sbocco di governo in caso di vittoria, sulla base di un programma comune. «Non mi troverete mai in un governo di larghe intese» dichiara Fratoianni a La Repubblica del 28 luglio, con l'aria di chi intende rassicurare la propria base. Ma un governo di larghe intese tra liberali e destre non avrebbe bisogno di Fratoianni, come ha dimostrato il governo Draghi. Ne avrebbe invece bisogno, come copertura a sinistra, un governo Letta-Calenda. In quel governo siederebbe anche Fratoianni. Questo è il portato del "patto repubblicano".

Ai militanti e agli iscritti di Sinistra Italiana una domanda sincera: fino a quando vi subordinerete a un partito che è organicamente subalterno al PD?

Partito Comunista dei Lavoratori

Per una presenza di classe, anticapitalista e internazionalista alle elezioni politiche

 


Una proposta pubblica a: Fronte Comunista / Fronte della Gioventù Comunista, Sinistra Anticapitalista, Sinistra Classe Rivoluzione, Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria

Le elezioni politiche sono alle porte.

Il governo confindustriale di Mario Draghi è caduto sotto il peso delle contraddizioni dell’ampia maggioranza su cui si reggeva, enfatizzate dalla prossimità della scadenza elettorale e dall’approfondirsi della crisi mondiale.

I partiti borghesi si presentano al voto in uno stato di difficoltà. La principale forza parlamentare emersa dalle elezioni del 2018 (M5S) è in agonia. Il campo largo del PD si è sfarinato. Enrico Letta rivendica la figura di Draghi e la sua agenda padronale per consolidare il proprio ruolo di partito di sistema e polarizzare la domanda di stabilità di settori piccolo-medio borghesi. Ma Draghi non fa il testimonial dell’operazione e i bizzosi interlocutori di “centro” (da Renzi a Calenda), gli uni contro gli altri armati, si combattono a colpi di veto. A destra sale la stella di Giorgia Meloni, in competizione con Salvini e Berlusconi per la premiership, in una lotta interna furibonda per la spartizione dei collegi e con le peggiori posture reazionarie. È la coalizione favorita, ma non cavalca più un’onda populista montante come quella che premiò prima il grillismo e poi il salvinismo.

Manca insomma ad oggi un centro di gravitazione della politica borghese. Mentre la speranza di una rapida e forte ripresa capitalista, per effetto del Recovery Fund, cede il passo a nuove tendenze recessive, per effetto delle dinamiche di guerra, dell’impennata dell’inflazione internazionale e della svolta di tutte le banche centrali. Ciò che ipoteca la prossima legge di stabilità, appesantendo in ogni caso il suo contenuto antioperaio. Qualunque sia il polo o partito borghese elettoralmente vincente.

In estrema sintesi: il capitale domina nei luoghi di lavoro e nella società ma non trova una forma di stabilità politico-istituzionale. Non accade solamente in Italia, ma in Italia ha un carattere più marcato che altrove.

In questo quadro generale il vero punto di forza della borghesia italiana sta nella debolezza del movimento operaio. Nell’arretramento profondo che esso ha conosciuto, senza punti di paragone tra i paesi imperialisti. Un arretramento dei livelli di mobilitazione, di coscienza politica, di rappresentanza. Lo stesso scenario dell’attuale crisi politica è emblematico. L’intero confronto pubblico si svolge nel campo della borghesia. Senza alcuna iniziativa indipendente del movimento operaio a livello di massa, né in termini di azione, né anche solo di proposta di mobilitazione e piattaforma. La supplica da parte di Landini di “un governo nel pieno delle sue funzioni”, nei fatti a difesa di una unità nazionale defunta, dà la misura della totale subalternità dell’apparato CGIL, che ha persino rinviato il proprio congresso per non disturbare i lavori in corso della borghesia.

La crisi della sinistra politica è da tempo effetto e concausa di questo scenario. Lo scenario è desolante, anche sul piano elettorale. Sinistra Italiana, che è stata formalmente all’“opposizione” di Draghi, sembra candidarsi a ultima ruota di scorta dello schieramento draghiano, in cambio di una manciata di seggi sicuri. Il PC di Rizzo completa il proprio corso rossobruno alleandosi con forze sovraniste reazionarie di destra ed estrema destra, no vax, complottiste, putiniane. Quanto a PRC e PaP, si prostrano ai piedi di De Magistris, che cerca di costruire il proprio partito personale usando la loro manovalanza. L’Unione Popolare è il vecchio canovaccio delle liste civiche di tradizione Ingroia: con una sinistra di classe che si nasconde ancor più di ieri dietro le insegne di un candidato progressista, possibilmente “istituzionale” e “costituzionale”, portavoce dei “cittadini” democratici. La stessa proposta avanzata insistentemente da Unione Popolare di una alleanza politica col M5S – che ha governato contro i lavoratori per tutta la legislatura – è indicativa. Non è un suo errore, al di là dell’esito, ma il riflesso di una impostazione fondata sulla rimozione di ogni centralità di classe e prospettiva socialista.

La necessità di una voce autonoma della classe lavoratrice e di un programma anticapitalista ci pare dunque riproposta con grande forza dalla crisi italiana. Questa necessità si pone innanzitutto sul terreno della lotta di classe, in aperta contrapposizione all’economia di guerra. La rivendicazione del blocco immediato delle bollette e dei prezzi alimentari, di un aumento generale e consistente dei salari e di una loro scala mobile, della requisizione integrale dei sovraprofitti dei monopoli energetici e di una loro nazionalizzazione senza indennizzo, di una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco, della cancellazione del debito pubblico verso le banche e della loro nazionalizzazione, può e deve indicare la bandiera di una possibile ribellione di classe e di massa in autunno. L’unico spettro che spaventa realmente la borghesia.

Far emergere questa proposta anche nell’arena elettorale ci pare una opportunità importante.

Le elezioni borghesi sono un terreno della battaglia di classe anticapitalista. Come sapete il nostro partito, molto impegnato nell’unità d’azione sul terreno delle lotte, ha sempre perseguito la presentazione indipendente sul terreno elettorale, secondo la vecchia tradizione leninista. Ma le regole truccate della democrazia borghese – soprattutto in termini di raccolta delle firme necessarie alla presentazione con tempi brevissimi – possono ostacolare pesantemente questa scelta, a noi come eventualmente anche a voi.

Per questo vi proponiamo pubblicamente, nell’interesse comune, un possibile blocco elettorale delle nostre organizzazioni in occasione delle prossime elezioni politiche.

Le nostre organizzazioni registrano certo divergenze non secondarie, a seconda dei casi, in fatto di strategia politica, impostazione programmatica, forme di intervento, richiami internazionali. Ciò che spiega l’esistenza di formazioni distinte, e anche in molti casi l’aperta polemica pubblica. Tuttavia, queste divergenze convivono con alcuni elementi comuni: la centralità del riferimento di classe, l’anticapitalismo e non il semplice “antiliberismo”, il richiamo all’internazionalismo contro ogni forma di sovranismo. Sono proprio gli elementi che oggi segnano una comune linea di demarcazione rispetto ai poli liberali, reazionari, populisti, e ad ogni forma di subordinazione ad essi. Sono gli elementi che non a caso hanno favorito, in questi anni difficili, pratiche di unità d’azione tra le nostre organizzazioni: o sul terreno dell’azione sindacale (pur nella distinzione delle posizioni) o in esperienze di fronte unitario di iniziativa politica (Patto d’azione anticapitalista - per un fronte unico di classe). E che rendono plausibile, in questa situazione straordinaria, un’ipotesi di blocco elettorale.

Naturalmente un blocco elettorale deve preservare l’autonomia e la riconoscibilità di ogni soggetto. Ma usare insieme la tribuna elettorale per valorizzare una comune proposta generale di classe, anticapitalista, antimperialista, può offrire una cassa di risonanza pubblica e amplificata alla battaglia che sviluppiamo ogni giorno. E concorrere allo sviluppo della coscienza politica dell’avanguardia di classe, al di là della dimensione elettorale. Come dice una vecchia scuola, i rivoluzionari sono tali se cercano di utilizzare ogni tribuna per parlare alle masse. Uno sforzo congiunto delle nostre organizzazioni nella raccolta delle firme potrebbe certamente guadagnare questa tribuna nazionale in poche settimane.

Dati i tempi imposti, estremamente precipitati, della raccolta firme, vi chiediamo una risposta rapida in termini di concreta disponibilità unitaria. Vi contatteremo direttamente in questi giorni. In caso contrario, il PCL attiverà naturalmente la propria presentazione di partito nei collegi del Senato ovunque risulti possibile.

Saluti comunisti,

Segreteria Nazionale del Partito Comunista dei Lavoratori (PCL)

Giù le mani dal sindacalismo combattivo!

 


Testo del volantino distribuito oggi a Piacenza durante la manifestazione per i sindacalisti arrestati

23 Luglio 2022

La violenta azione giudiziaria e repressiva contro gli otto dirigenti e militanti del SI C0BAS e dell’USB perpetrata dalla procura di Piacenza è un ulteriore feroce attacco a un combattivo settore della classe lavoratrice, quello della logistica, e a tutto il sindacalismo conflittuale e di classe. E un monito per milioni di salariati e sfruttati.

La posta in gioco è la criminalizzazione delle lotte, la repressione di chi alza la testa contro l’abuso padronale e l’oppressione dello Stato, mettendo in discussione la pace sociale, cioè la guerra quotidiana contro le condizioni di lavoro e di vita della classe lavoratrice e delle masse popolari.

In questi giorni, in queste ore, si approfondisce il solco tra chi è pronto a dare una risposta di classe al teorema giudiziario in corso con scioperi, picchetti, presidi davanti alle prefetture, e chi, come i sindacati di categoria di CGIL, CISL e UIL, dichiarano piena fiducia alla magistratura, avallando l’operazione repressiva dello Stato.

A fronte di questo attacco e dello scandalo della totale subalternità delle burocrazie sindacali alle ragioni dei capitalisti e del potere statale che ne cura gli interessi, secondo il principio di stabilità e governabilità, bisogna dare una risposta immediata e adeguata: le lotte non si processano; Aldo, Arafat, Bruno, Carlo, Fisal, Issa, Riadh e Roberto liberi subito!

Allo stesso tempo tutto il movimento sindacale e politico di classe deve lanciare la proposta di un ampio fronte e una piattaforma generale di lotta che punti a unificare tutte le vertenze in campo nell’ottica di coinvolgere milioni di salariati, ad aggregare attorno ad essi la maggioranza della società.

Perché solo l'irruzione dell'azione di massa, che metta al centro le ragioni dei salariati e delle masse popolari contro il carovita, le politiche economiche del governo e la militarizzazione in corso, aprirebbe dal basso un nuovo scenario politico. È lo spettro della ribellione sociale d'autunno, quella che i padroni temono, assieme a tutti i loro partiti; quella che le burocrazie sindacali in modo truffaldino evocano per vendere ai padroni il proprio ruolo di pompieri; quella che purtroppo le sinistre riformiste rimuovono, per non contrapporsi alle burocrazie sindacali limitandosi a criticare i padroni.

No alla repressione antioperaia!
Facciamo fronte unico contro la dittatura padronale e dello Stato borghese!

• Giù le mani dal sindacalismo combattivo e di classe: unifichiamo tutte le vertenze in un solo blocco!
• Contro l’economia di guerra, contro il caro prezzi e bollette: No ai piani di riarmo, blocco immediato delle tariffe di gas, luce, benzina, Controllo operaio sui prezzi, forti aumenti salariali e reintroduzione della scala mobile dei salari,
• Blocco dei licenziamenti e riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario.
• Salario medio garantito a tutti i proletari occupati e disoccupati, eliminando contratti precari e paghe da fame.
• Patrimoniale sulle grandi ricchezze per far pagare la crisi ai padroni.
• Eliminazione del razzismo istituzionale a partire dall’abolizione delle attuali leggi sull’immigrazione e da una regolarizzazione di massa slegata dal ricatto del lavoro.
• Via le leggi di precarizzazione del lavoro; basta appalti e sub-appalti!
• Istituzione di una cassa nazionale di resistenza per sostenere le lotte.
• Occupazione delle aziende che licenziano, battersi per la loro nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio.

Come Partito Comunista dei Lavoratori ci impegneremo nelle lotte per il completo ritiro di tutte le misure giudiziarie e contro ogni forma di repressione padronale e istituzionale. Altrettanto ci impegneremo in ogni fronte unitario di avanguardia per sostenere la proposta del fronte unico di classe e di massa nella prospettiva di una alternativa anticapitalista. L’unica alternativa vera.

Partito Comunista dei Lavoratori

Solidarietà ai sindacalisti arrestati!

 


Comunicato sugli arresti SI COBAS e USB

19 Luglio 2022

Il Partito Comunista dei Lavoratori esprime la propria indignazione per la raffica di arresti domiciliari decisa dalla procura di Piacenza contro dirigenti sindacali locali e nazionali del SiCobas e della USB. Esprime ad essi la sua totale solidarietà.

Questa operazione rappresenta l'ennesima assurda provocazione della procuratrice capo Grazia Pradella. Questo magistrato pare ritenere, contraddicendo leggi e Costituzione, che qualsiasi lotta sindacale per migliorare le condizioni previste da un contratto nazionale sia illegale e costituisca addirittura un reato di estorsione. Questo facendosi strumento di un padronato particolarmente reazionario come quello di Piacenza.

Già l’anno scorso la Pradella aveva tentato una operazione analoga, addirittura concionando su quanto sarebbe stato il massimo giusto di salario oltre il quale ogni richiesta sarebbe appunto estorsiva. Con questo ponendo in discussione, con concezioni alla regime cinese, un diritto esercitato dai lavoratori italiani da quasi 200 anni fa e conquistato legalmente dal 1889.

Fortunatamente i livelli superiori della magistratura hanno assolto pienamente i compagni.

C’è da dire che il curriculum personale della Pradella non rivela bizzarrie solo riguardo alle lotte sindacali. Come sostituto procuratore a Milano si rese nota per una "graguignolesca" denuncia di un attentato nei suoi confronti, avendo “visto” un'ombra alla finestra del palazzo di fronte al suo che “forse” imbracciava un fucile. Va da sé che di questo “attentato” non si sia trovato il minimo indizio.

Poi la Pradella ha tentato (in nome di sue fantasiose ricostruzioni ) di insabbiare, senza riuscirci, la inchiesta del giudice Salvini che è riuscito finalmente dopo decenni, a individuare i veri colpevoli della strage di Piazza Fontana, giungendo fianco a denunciare Salvini, con motivazioni risibili, al consiglio superiore della magistratura.

Fatto questo a Milano, promossa incredibilmente a capo della procura di Piacenza, è passata ad attaccare lavoratori e sindacati combattivi. Certo in questa sua azione è stata presumibilmente spinta e facilitata dal clima
generale di azione antioperaia di tutti i governi degli ultimi decenni, e in particolare di quello dei Cinque stelle con la Lega (primo governo Conte) con i cosiddetti “decreti Salvini”.

Tuttavia speriamo che anche oggi, come l’anno scorso, tutto si concluda in un nulla di fatto. Auspichiamo anche, pur nella nostra diffidenza nelle istituzioni dello stato borghese, che un membro del Consiglio superiore della magistratura ponga in quella sede la questione, se non di cacciare Grazia Pradella dalla magistratura, come
sarebbe logico, perlomeno di mutarla di sede per incompatibilità ambientale.

In ogni caso è evidente per noi che la risoluzione positiva di questo fatto sarà certo legata allo sviluppo immediato di mobilitazioni e azioni di protesta che come PCL sosterremo pienamente. Tutte!

Partito Comunista dei Lavoratori

Fuori l’imperialismo russo dall’Ucraina!


 Pubblichiamo qui di seguito una dichiarazione internazionale sulla guerra in Ucraina firmata da noi (Comitato provvisorio internazionale di ricostituzione dell’OTI/PCL) e dal Collettivo Rivoluzione Permanente (CoReP). Il CoReP è una piccola tendenza trotskista internazionale presente in Francia, Austria, Spagna e Turchia. Prima di due mesi fa conoscevamo appena la sua esistenza. Sono i compagni che, vedendo le nostre dichiarazioni sull’Ucraina e constatando la totale somiglianza di esse con le loro, ci hanno proposto di firmare una dichiarazione comune, qui pubblicata. Naturalmente, data l’importanza di queste posizioni comuni (che riguardano anche la visione del mondo, con, in particolare, la considerazione di Cina e Russia come potenze neoimperialiste) abbiamo anche iniziato un confronto generale sulle posizioni programmatiche e politiche rispettive. Questo confronto sta facendo i primi passi ed è prematuro ipotizzarne la conclusione. Tuttavia, resta l’importanza di posizioni comuni su una questione centrale come quella della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina.




La guerra imperversa in Ucraina dal 24 febbraio, causando la fuga di milioni di profughi e decine di migliaia di morti e feriti tra i civili e i militari. L’esercito russo non è riuscito a prendere la capitale. Ora sta cercando di conquistare l’intero Donbass bombardando, una per una, le città che resistono, come ha fatto in Cecenia e in Siria. Questa guerra in Europa, come quella condotta in Yemen dall’Arabia Saudita con l’accordo delle potenze occidentali, ricorda ai proletari di tutto il mondo che il capitalismo, giunto alla fase imperialista, genera inevitabilmente guerre e distruzioni nell’incessante lotta per la spartizione e la ri-spartizione del mondo tra gli Stati più potenti.

L’Ucraina è una questione importante tra gli imperialismi occidentali e l’imperialismo russo. Nel 2014, l’Ucraina ha presentato domanda di adesione all’UE e alla NATO, a scapito delle precedenti relazioni con la Russia. Ma l’imperialismo russo, con l’annessione della Crimea e il controllo di parte del Donbass, aveva già dimostrato che questa situazione era insostenibile.

Per lo Stato russo, la priorità accordata dallo Stato americano alla lotta contro il capitalismo cinese in espansione, il suo parziale disimpegno dai Paesi dell’Europa e dell’Asia occidentale e il suo ritiro disordinato dall’Afghanistan hanno offerto l’opportunità di allentare la morsa economica e militare dell’imperialismo occidentale. Avendo questi ultimi fatto sapere che non sarebbero intervenuti militarmente, Putin ha lanciato le sue truppe con l’obiettivo di annettere completamente l’Ucraina o di installare un governo fantoccio ai suoi ordini. Putin ha dichiarato il 21 febbraio: “L’Ucraina non è una nazione, ma un’invenzione di Lenin e dei bolscevichi. Stalin ha tentato di porre rimedio a questa folle invenzione, ma ha fallito”.

I comunisti internazionalisti sono risolutamente dalla parte del paese dominato contro l’aggressione di una potenza imperialista, come Lenin e Trotsky hanno sempre sostenuto. Il rafforzamento della pressione della NATO sulla Russia attraverso lo sviluppo delle sue basi militari è indiscutibile, ma le rivalità tra le potenze non giustificano in alcun modo la messa in discussione dell’esistenza stessa dell’Ucraina. Il compito del proletariato ucraino come del proletariato mondiale consiste nel difendere, su una base di indipendenza di classe, questo diritto all’indipendenza lottando per la rivoluzione socialista in Ucraina, per l’internazionalismo, per la federazione degli Stati Uniti Socialisti d’Europa.

Il governo ucraino è un governo borghese notoriamente corrotto, l’esercito ucraino è un esercito borghese che ha integrato battaglioni fascisti, ma i comunisti internazionalisti difendono incondizionatamente l’Ucraina contro l’aggressione imperialista russa, come hanno difeso l’Iraq o la Serbia in mano ai nazionalisti borghesi contro le aggressioni della coalizione di imperialismi guidata dagli USA, così come hanno sostenuto il popolo arabo di Palestina contro la colonizzazione sionista nonostante il carattere borghese della leadership del movimento nazionale palestinese (Fatah, Hamas), così come condannano la guerra condotta in Yemen dall’Arabia monarchica e antisemita alleata degli imperialismi “democratici”. Oggi più di ieri, il sostegno alla vittima dell’oppressione imperialista non è il sostegno al suo regime, al suo governo, non è il sostegno a Zelensky.


Per una prospettiva rivoluzionaria in difesa dell’Ucraina

Lo Stato russo giustifica la sua aggressione con il pretesto del “genocidio” della minoranza russofona che vive in Ucraina, soprattutto nel Donbass. In realtà, i diritti e le libertà delle minoranze sono utilizzati dai diversi imperialismi in base ai loro interessi. Nel 2014, il governo ucraino perseguita la minoranza “russa” e lavora per rafforzare i suoi legami con l’imperialismo europeo e statunitense. L’imperialismo russo, a sua volta, utilizza questa oppressione nel 2014 per annettere la Crimea da un lato e per spingere alla secessione, anche attraverso un massiccio sostegno militare, le regioni di Donetsk e Lugansk nel Donbass. I diritti delle minoranze “ucraine” e tatare non sono rispettati.

Con Lenin, sosteniamo il rispetto del multilinguismo e l’uguaglianza dei diritti di tutte le minoranze nazionali, compreso il diritto all’autonomia o alla separazione. Ma in nessun caso questo richiamo ai diritti intangibili delle minoranze può portare a giustificare l’invasione imperialista russa.

I comunisti internazionalisti sono per la sconfitta dell’imperialismo russo in Ucraina. L’Ucraina ha il diritto di ottenere armi per difendersi, anche se gli imperialismi statunitense ed europeo che le forniscono perseguono i loro obiettivi, che sono almeno quelli di mantenere l’Ucraina sotto la loro influenza. La sconfitta dell’Ucraina significherà lo schiacciamento del proletariato ucraino, il rafforzamento dell’imperialismo russo e della dittatura di Putin sul proletariato russo. Al contrario, la sconfitta dell’imperialismo russo aprirebbe la strada all’insurrezione del proletariato russo, permettendo al proletariato ucraino di organizzarsi e lottare per proprio conto! Questa è la nostra prospettiva!

Gli imperialismi statunitense ed europeo hanno scatenato una serie di sanzioni contro la Russia, senza arrivare a privarsi delle forniture di gas e petrolio che restano indispensabili per i capitalismi europei. Si fa molto rumore sul congelamento dei beni degli oligarchi russi, ma da un lato questo congelamento non è certo un esproprio da parte del proletariato russo; dall’altro è abbastanza facilmente aggirabile grazie alla benevolenza dei vari paradisi fiscali verso le grandi fortune. D’altra parte, le sanzioni economiche, come l’embargo su alcune importazioni o esportazioni russe, colpiscono in primo luogo la popolazione russa, portando ad esempio alla disoccupazione di migliaia di lavoratori nelle fabbriche di automobili. E minacciano anche i lavoratori di tutto il mondo.

Inoltre, gli imperialismi occidentali stanno approfittando della situazione per aumentare il loro budget militare e rafforzare le basi militari della NATO intorno alla Russia, gli Stati Uniti hanno inviato 20.000 soldati in più in Europa, l’imperialismo francese ha inviato contingenti di soldati in Romania, etc.


La continuazione dell’imperialismo è un flagello per l’umanità

La guerra in Ucraina è un punto di svolta nella situazione mondiale. L’imperialismo russo, che ha cercato il sostegno dell’imperialismo cinese, è contrapposto all’imperialismo statunitense e ai principali imperialismi europei. Questi ultimi sono molto attenti a non oltrepassare la linea sottile che li tiene lontani da un coinvolgimento diretto nel conflitto, ma questa guerra potrebbe trasformarsi in una guerra interimperialista. Lo stallo dell’esercito russo in Ucraina, intollerabile per Putin, può portare a un’escalation militare e far precipitare una guerra interimperialista.

L’invasione aumenta il già enorme numero di sfollati nel mondo, oltre 90 milioni. La guerra in Ucraina sta già avendo conseguenze economiche drammatiche in molti dei paesi dominati, ma anche per i proletari e tutti gli strati impoveriti dei paesi sviluppati. L’interruzione delle forniture di cereali dall’Ucraina e dalla Russia, ma anche di fertilizzanti, di vari minerali come il nichel, etc., sta facendo impennare i prezzi, alimentati dalla speculazione. Ad esempio, in molti Paesi dell’Asia occidentale e del Nord Africa il pane sta finendo o sta diventando inaccessibile. Il prezzo del gas e del petrolio, di cui la Russia è uno dei principali esportatori, continua a salire. L’inflazione sta accelerando, raggiungendo l’8,5% negli Stati Uniti, quasi il 10% in Spagna, più del 61% in Turchia, più del 55% in Argentina e più del 20% in Algeria... causando la fusione dei salari, delle pensioni, dei benefici e degli aiuti, laddove esistono. Diverse banche centrali stanno già aumentando i tassi di interesse sui loro prestiti alle banche, la crescita sta rallentando e si stanno accumulando i segnali di una possibile nuova crisi capitalistica globale.

Questo rafforza le contraddizioni tra gli Stati imperialisti, tra le potenze regionali. Il peso del militarismo ricade sempre più sui produttori con l’aumento generale delle spese militari. La classe capitalista, mentre trascina inesorabilmente il pianeta in una catastrofe ecologica e climatica, intende sempre salvaguardare il proprio tasso di profitto scaricando sui lavoratori, sulle popolazioni dei paesi dominati il conto della guerra e delle sue crisi. La discriminazione religiosa, la xenofobia, il razzismo, le persecuzioni contro i rifugiati e i migranti sono usati apertamente dai governi borghesi che rafforzano le polizie e gli eserciti, riducono le libertà e criminalizzano la protesta sociale.


Per un’Internazionale operaia rivoluzionaria

I burocrati sindacali ucraini dell’UPF e del KVPU sostengono Zelensky nello stesso modo in cui il Partito “Comunista” della Federazione Russa (KPRF) sostiene Putin. Altrove, l’allineamento dei principali leader sindacali e dei partiti riformisti (SPD, PD, Partito del Lavoro, PS, PCF, PSOE, DSA...) con la NATO, il sostegno diretto o indiretto dato da altri partiti riformisti (PT brasiliano, vari partiti “comunisti”) all’imperialismo russo lascia la classe operaia mondiale paralizzata, senza una propria prospettiva contro la guerra in Ucraina. Si limita a un sostegno al proprio imperialismo o a una semplice solidarietà con le vittime della guerra.

Eppure, la mobilitazione del proletariato mondiale potrebbe porre fine alla guerra, potrebbe aprire la strada al proletariato russo. In Russia, le manifestazioni contro la guerra sono state violentemente represse, ma non sono state fermate, i giovani hanno perfino attaccato gli uffici di reclutamento dell’esercito. In Ucraina, lo sciovinista Zelensky ha messo al bando i partiti di opposizione, il Parlamento ha sospeso le leggi a tutela dei lavoratori e vietato gli scioperi.

Un partito rivoluzionario dei lavoratori ucraini si rivolgerebbe ai soldati dell’esercito russo e li metterebbe contro il loro governo e il loro Stato.

Contro la collaborazione di classe delle burocrazie operaie corrotte, i comunisti internazionalisti chiedono che le direzioni sindacali e i partiti riformisti rompano con la borghesia. Per sconfiggere l’imperialismo e le sue guerre, i lavoratori devono esigere il fronte unico delle loro organizzazioni di massa su queste parole d’ordine:

• Fuori l’imperialismo russo dall’Ucraina!
• Nessun sostegno alla NATO o all’imperialismo europeo o statunitense!
• Ritiro delle truppe degli imperialismi occidentali dall’Europa centrale!
• Ritiro delle truppe statunitensi da tutta l’Europa!
• Scioglimento della NATO! Abbasso le sanzioni economiche che colpiscono prima il proletariato russo!
• Per la rivoluzione socialista in Ucraina come in Russia!


Per gli Stati Uniti Socialisti d’Europa da Lisbona a Vladivostok!

I lavoratori di tutto il mondo hanno bisogno di un’Internazionale operaia rivoluzionaria che li liberi dalla morsa dei leader dei partiti riformisti e dei burocrati sindacali che seminano il veleno delle illusioni parlamentari, dello sciovinismo, del compromesso con la borghesia o con l’imperialismo.

• Indicizzazione dei salari all’inflazione!
• Controllo dei lavoratori sull’attività dei servizi e delle imprese essenziali e chiusura di quelli che non lo sono!
• Espropriazione dei gruppi capitalistici!
• Piano di produzione deciso dal popolo per soddisfare i bisogni sociali preservando l’ambiente e il futuro dell’umanità!
• Governo operaio basato su consigli operai, distruzione dello Stato borghese e dissoluzione dell’esercito professionale, dei corpi di repressione della polizia e delle bande fasciste da parte dei lavoratori in armi!
• Federazione Socialista Mondiale!

Collettivo Rivoluzione Permanente (Austria, Spagna, Francia, Turchia)

Comitato provvisorio internazionale di ricostituzione dell’Opposizione Trotskista Internationale (OTI)

Partito Comunista dei Lavoratori (Italia)

Landini per Draghi

 


ll Segretario della CGIL si allinea al coro padronale a sostegno di Draghi

Abbiamo bisogno di un governo nel pieno delle sue funzioni” dichiara Maurizio Landini. Sul quotidiano La Repubblica che gli chiede se questo significa una difesa di Draghi, il segretario si schermisce dicendo che non è suo compito entrare nel merito della crisi politica. Ma ci tiene a ribadire ripetutamente lo stesso concetto per evitare che non venga inteso: “Occorre un governo nel pieno delle sue funzioni”. È il mantra di Landini in queste ore. Chiunque non sia scemo o ipocrita capisce che il suo significato è uno solo: la burocrazia CGIL offre sponda al governo (tuttora) in carica e al suo Presidente del Consiglio nel momento stesso in cui tutte le organizzazioni dei capitalisti stanno facendo campagna a sua difesa.

Perché le organizzazioni padronali si stiano spendendo per Draghi è sin troppo chiaro: difendono il nuovo pacchetto di miliardi targati PNRR in arrivo nelle loro tasche, l’impegno a tagliare il cuneo fiscale a carico dell’erario pubblico (cioè delle lavoratrici e dei lavoratori) per scongiurare rivendicazioni salariali, una delega fiscale che promette la cancellazione definitiva dell’IRAP (che oggi finanzia la sanità pubblica), un DDL Concorrenza che estende liberalizzazione e privatizzazione dei servizi, l’aumento annunciato delle spese militari con tanto di laute commesse per l’industria di guerra tricolore... Draghi è il più autorevole garante di tutto questo, in Italia e in Europa. Perché non dovrebbe riscuotere il plauso corale del capitale?

La ragione invece per cui la CGIL senta il bisogno di associarsi alla campagna dei capitalisti si può spiegare solo in un modo: la subalternità della burocrazia sindacale alla classe dominante e ai suoi interessi di stabilità e governabilità. Che determina non solo l’assenza di una piattaforma di lotta generale attorno alle ragioni del lavoro (assieme alla convergenza su rivendicazioni centrali della piattaforma confindustriale, come sul cuneo fiscale), ma anche l’allineamento della CGIL alla santificazione di Draghi come uomo della “salvezza nazionale”. Nonostante il fatto (oltretutto) che l’attuale governo, come e più dei governi borghesi precedenti, abbia relegato le burocrazie sindacali in anticamera, privandole di uno spazio reale di concertazione, e prendendole regolarmente a schiaffi. Evidentemente la governabilità del sistema capitalista per Maurizio Landini è un valore superiore allo stesso prestigio della burocrazia sindacale.

È il caso di dire che ciò che manca alle lavoratrici e ai lavoratori non è il governo dell’avversario, ma un proprio sindacato. Un sindacato che stia dalla parte del lavoro, in contrapposizione a ogni governo padronale (sia esso Conte o Draghi). “Un sindacato nel pieno delle sue funzioni”, innanzitutto quelle più elementari.

Partito Comunista dei Lavoratori

La crisi del governo Draghi

 


15 Luglio 2022

L'instabilità politica italiana smentisce le teorie di “un regime di Draghi”, e ripropone la necessità di un'alternativa di classe

Avremo modo di seguire nei prossimi giorni lo svolgimento della crisi politica italiana. Ma il fatto centrale è il crollo dell'equilibrio di unità nazionale attorno all'attuale Presidenza del Consiglio. La principale forza parlamentare emersa dalle elezioni politiche del 2018, il M5S, versava da tempo in crisi profonda, priva ormai di una ragione pubblica riconoscibile e di un asse di comando interno stabilizzato. La scissione di Di Maio, effetto e concausa di questa crisi, ha sospinto come riflesso condizionato una reazione autoconservativa del M5S “contro” Draghi e a sostegno di Conte, a sua volta sempre più incerto fra la difesa di una propria immagine istituzionale di ex premier e la pressione maggioritaria delle truppe parlamentari residue per la ricollocazione all'opposizione; tra un consolidamento del polo di centrosinistra attorno al PD (il “campo largo” di Letta), e la tentazione di uno scavalco del PD a “sinistra” nella rappresentanza (recitata) delle ragioni del lavoro.

La “non fiducia” al governo Draghi al Senato sul Decreto Aiuti, combinata con la dichiarazione di una immutata disponibilità alla fiducia futura, mirava a un bizantino punto di equilibrio tra smarcamento politico e continuità di governo. Ma con riserve e intenzioni di segno diverso. Conte puntava a conservare il consenso interno dei gruppi parlamentari con un atto simbolico di differenziazione ma senza rompere con l'esecutivo. Una parte importante dei gruppi parlamentari puntava invece ad una dissociazione dal governo che desse via libera alla campagna elettorale del M5S nel presupposto che Draghi restasse in ogni caso in carica, disponendo di una sua maggioranza alle Camere.

Ma i calcoli si sono rivelati sbagliati, e la crisi è finita in un vicolo cieco.
Già frustrato per la mancata ascesa alla Presidenza della Repubblica, Mario Draghi aveva da tempo accumulato una manifesta insofferenza per la maggioranza che lo sosteneva, i suoi crescenti conflitti interni, le impuntature negoziali incrociate, l'annuncio di possibili rotture sulla prossima Legge di stabilità. Una insofferenza marcata in particolare verso il M5S e verso la Lega.
Parallelamente l'intero scenario mondiale riduceva su ogni versante lo spazio negoziale e di mediazione: con l'irruzione della guerra in Ucraina, l'arresto della ripresa economica continentale, l'esplodere dell'inflazione, il cambio di rotta di tutte le banche centrali, l'impossibilità di ricorrere a nuovi scostamenti di bilancio per finanziare le misure emergenziali.

Il combinarsi del nuovo quadro mondiale con il logoramento dell'unità nazionale ha innescato la miccia della deflagrazione. Il M5S ha esibito il proprio cahier de doléance, cambiando di volta in volta il terreno del contendere. Prima indossando i panni di un'improbabile pacifismo (dopo aver accresciuto le spese militari nei due governi Conte); poi rivendicando l'intangibilità del reddito di cittadinanza (di cui già aveva accettato l'ulteriore peggioramento); poi sollevando la richiesta del salario minimo per legge (in realtà depositata già da tre anni, con disponibilità negoziali al ribasso.); infine impugnando il termovalorizzatore di Roma (ma chiedendo di scorporarlo dal Decreto Aiuti per farlo passare senza vincolarlo alla fiducia). Draghi ha prima mimato una disponibilità all'ascolto, senza prendere alcun impegno, poi ha rifiutato lo scorporo del Decreto. La richiesta del voto di fiducia al Senato ha nei fatti sfidato il M5S chiedendogli un gesto di subordinazione, ciò che Conte non poteva offrirgli se non al prezzo di una sconfessione dei gruppi e del proprio suicidio.

Draghi ha ottenuto il voto scontato della maggioranza parlamentare. La stessa defezione del M5S nel voto di fiducia sul Decreto non è (ancora) una rottura della maggioranza politica di governo, secondo le stesse dichiarazioni formali dei pentastellati.

Il punto è che Draghi non sembra disponibile a continuare, sottoponendosi ad un ulteriore logoramento. Avallare la demarcazione del M5S significherebbe incoraggiare quella speculare della Lega su cartelle esattoriali, scostamenti di bilancio... Come gestire in questo quadro una legge di stabilità già di per sé particolarmente impervia? Da qui la sentenza di morte della maggioranza (“la maggioranza di governo di unità nazionale non c'è più”) e l'annuncio delle proprie dimissioni. Né Draghi appare disponibile a maggioranze diverse da quella di unità nazionale, con M5S o Lega all'opposizione in campagna elettorale contro di lui.

Il Presidente della Repubblica, da lord protettore del governo, supplica Draghi di restare e di provare a ricomporre i cocci, nel nome dell'immancabile interesse superiore del Paese. Il PD, e le forze politiche più organicamente legate al capitale finanziario, agiscono e agiranno nella medesima direzione. Nella Lega i governatori del Nord non fanno mistero del proprio sostegno a Draghi contro il cosiddetto salto nel buio, anche perché il progetto di autonomia differenziata è sulla rotta d'arrivo, e non vogliono rinunciare a un sostanzioso malloppo. Di certo gli chiede di restare Confindustria, che attende un taglio del cuneo fiscale, a carico dell'erario pubblico (cioè del lavoro) per disinnescare le rivendicazioni salariali, e che non vuole mettere a rischio la prossima tranche del PNRR con la relativa pioggia di miliardi ai padroni. Naturalmente la Conferenza Episcopale Italiana non fa mancare la propria preghiera devota.

Ma ricomporre i cocci appare difficile. Draghi non sembra disponibile a immolarsi, avendo a disposizione altri possibili incarichi risarcitori di natura internazionale (in sede UE o NATO), e forse volendosi preservare come riserva della Repubblica per il dopo voto anche sul piano interno. Salvini è sotto la pressione di Meloni, che nell'ultimo anno è cresciuta quasi interamente a sue spese. Di certo vuole scrollarsi di dosso la memoria disastrosa (per lui) del Papeete Beach del 2019, ma non al prezzo della rinuncia a una propria campagna elettorale sulla legge finanziaria, una rinuncia che di fatto gli sarebbe richiesta, dopo quanto è successo, nel caso di una ricomposizione della maggioranza di unità nazionale attorno a Draghi. Quanto al M5S, è ancora lontano dall'aver concluso le proprie convulsioni.

Molte sono dunque le incognite e variabili immediate. In caso di dimissioni irrevocabili di Draghi, Mattarella potrebbe tentare la soluzione di un governo tecnico (Massimo Franco?) per fare la prossima legge di stabilità e mettere al sicuro il PNRR. Ma si tratterebbe di un governo di fine legislatura o di un governo di traghettamento per elezioni in autunno? In ogni caso, il governo dovrebbe disporre di una maggioranza parlamentare. Quale, se l'unità nazionale è in frantumi? E in alternativa quali forze politiche a pochi mesi dal voto si caricherebbero sulle spalle gli oneri della legge finanziaria lasciando ai rivali il ruolo di opposizione? Elezioni politiche a fine settembre/ottobre sono dunque ad oggi il possibile sbocco obbligato di un gioco sfuggito di mano. Con ulteriori incognite. Quale legge elettorale le incardinerebbe? Quale governo farebbe la nuova finanziaria, e in quali tempi? Il rischio di un esercizio provvisorio diverrebbe a quel punto concreto. Peraltro già nei prossimi giorni una nuova eventuale caduta delle Borse e impennata dei tassi di interesse potrebbe introdurre una ulteriore drammatizzazione della crisi politica in corso.

L'intero scenario dimostra in ogni caso una volta di più la cronicità di fondo della crisi politica italiana. Molti a sinistra nell'ultimo anno e mezzo (PRC e PaP in testa) avevano presentato il governo Draghi come l'avvento di un “regime”. Un regime durevole sostanzialmente bonapartista, imposto dall'alto (o dalla BCE, o dagli USA, o dalla finanza mondiale, a seconda delle più fantasiose versioni), in ogni caso capace di subordinare a sé un quadro politico parlamentare ormai disciplinato e asservito.

Cosa resta di questa rappresentazione immaginifica e antimarxista? Nulla. I fatti dimostrano uno scenario opposto. L'assenza di un baricentro politico e istituzionale della borghesia, la crisi verticale dei vecchi poli borghesi di alternanza di centrosinistra e centrodestra a partire dal 2011-2013, la crisi dei successivi soggetti populisti emersi dalle elezioni del 2018, a partire dalla decomposizione politica e parlamentare del grillismo, il susseguirsi di formule politiche e di governo instabili e di breve durata.

Il governo Draghi, nato come effetto di questa crisi generale, aveva il compito di tamponarla: innanzitutto gestendo la ripresa capitalista, grazie ai fondi del Recovery fund, e in secondo luogo dando tempo ai partiti borghesi di riorganizzare il sistema politico istituzionale in vista delle elezioni del 2023. Ma il risultato è stato fallimentare su entrambi i versanti. La ripresa capitalista ha ceduto il passo a una nuova crisi, e soprattutto il sistema politico continua a versare in uno stato caotico. Tanto più dopo la resa di Draghi, che prima ha fallito la scalata al Quirinale e poi si è dimesso da Presidente del Consiglio. Altro che “regime draghiano”!

In questa rappresentazione ingigantita e caricaturale dell'avversario non si esprime solamente un errore d'analisi, ma una forma di apologia capovolta del capitalismo, un feticismo involontario della politica borghese, sempre dipinta tendenzialmente come onnipotente, capace di organici disegni orditi da entità superiori. Per cui l'unico ruolo della sinistra è o fare diga di opposizione democratica (spesso rimuovendo la centralità di classe) e/o cercare di contenere il danno con cicliche compromissioni di governo (Prodi, Tsipras, Sanchez, Boric...), che in realtà sono contro i lavoratori e procurano disastri. Mai di ricondurre l'opposizione di classe a una prospettiva di (“impossibile”) rivoluzione.

In realtà proprio la crisi italiana dimostra quanto sia fragile la politica borghese e i suoi assetti. Il vero problema, tanto più oggi, non è la forza della borghesia, ma la debolezza del movimento operaio. Più precisamente, la debolezza del movimento operaio è il vero punto di forza della borghesia. Ciò che davvero fa scandalo nello scenario italiano è la funzione scendiletto delle burocrazie sindacali, che fanno anticamera di fronte a ogni governo, offrendo a ognuno il proprio ruolo “responsabile” di pacificatore sociale, per di più prendendo schiaffi da tutti. Ciò che davvero fa scandalo è l'assenza di una piattaforma generale di lotta che punti a unificare milioni di salariati, ad aggregare attorno ad essi la maggioranza della società, a indicare l'unica vera alternativa possibile: quella di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici.

Eppure, un'irruzione dell'azione di massa contro l'economia di guerra, per il blocco delle bollette e dei prezzi alimentari; per un forte aumento generale dei salari di almeno 300 euro netti mensili; per una scala mobile dei salari; per la requisizione integrale dei sovraprofitti dei grandi monopoli energetici e la loro nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio; per una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco, per investire nella sanità, nelle energie rinnovabili, nella rete idrica, nel risanamento ambientale... traccerebbe la vera linea di confine tra blocchi sociali contrapposti, metterebbe a nudo le finzioni populiste, aprirebbe dal basso un nuovo scenario politico. È lo spettro della ribellione sociale d'autunno, quella che i padroni temono, assieme a tutti i loro partiti; quella che le burocrazie sindacali evocano per vendere ai padroni il proprio ruolo di pompieri; quella che le sinistre rimuovono, per non contrapporsi alle burocrazie sindacali limitandosi a criticare i padroni.

Eppure questa è l'unica possibile ventata di aria fresca.
Come riconosceva Rino Formica, ministro PSI della Prima Repubblica, la politica borghese “è sangue e merda”. Solo la classe operaia può spazzarla via con un'azione rivoluzionaria. Non solo è necessario, è anche possibile. Costruire controcorrente questa consapevolezza è la nostra politica quotidiana.

Marco Ferrando

 

La svolta ecologica del PNRR si ferma di fronte al diktat della corporazione dei concessionari delle licenze relative alla gestione degli impianti balneari, corporazione protetta ferocemente, fra l’altro, dal plumbeo mantello di Giorgia Meloni che si dichiara, in più, insoddisfatta del livello di tenuta dei privilegi previsto dalla nuova normativa impostata da Mario Draghi sotto la spinta dell’UE.

Bandiere blu o bandiere nere?

Le coste italiane, purtroppo, lungi da essere un bene comune, soprattutto nel Sud, sono da tempo lunghissimo una preda accaparrata da famelici speculatori che cancellano interessi collettivi e calpestano equilibri ambientali.

Il PCL protesta fermamente contro questo vergognoso andazzo e chiede, pertanto, una vera svolta ecologica che ponga le coste sotto la piena proprietà e il controllo pubblico.
Solo un capovolgimento radicale dello spartito politico, solo un governo dei lavoratori potrà realizzare compiutamente questa svolta.

Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione meridionale