I fatti di Gerusalemme riportano all'attenzione la questione palestinese
Come sempre, sono piccoli episodi a innescare grandi avvenimenti.
Israele intendeva tenere l'annuale Marcia delle bandiere nella città vecchia di Gerusalemme per celebrare la propria conquista. A tal fine il governo di Tel Aviv ha transennato la piazza antistante la Porta di Damasco per impedire che potesse diventare un luogo di concentrazione della protesta palestinese contro la marcia. Ma il blocco degli accessi alla Spianata delle moschee è apparso un affronto alla popolazione araba, tanto più dopo il lungo periodo di limitazioni imposto dalla pandemia. La ribellione palestinese, al prezzo di 278 feriti, ha costretto le autorità sioniste a cambiare il percorso della marcia. Una piccola vittoria.
Negli stessi giorni nel quartiere arabo di Gerusalemme, Sheikh Jarrah, il piano di demolizione delle case palestinesi, spaventosamente incrementato sotto la pressione dei coloni, è inciampato nella volontà di resistenza di ventotto famiglie palestinesi che rivendicano i propri diritti di proprietà sulle case abitate e rifiutano di sloggiare. Una piccola resistenza che diventa il simbolo della volontà di ribellione al sionismo. La Corte suprema israeliana ha dovuto sospendere la sentenza per evitare di dar fuoco alle polveri, ma così ha confermato le difficoltà di Israele.
I NODI AL PETTINE
In realtà molti nodi stanno venendo al pettine. Gli “accordi di Abramo” tra Stato sionista e Stati Uniti, che sanciscono l'annessione della Cisgiordania e fanno di Gerusalemme la capitale d'Israele, sono stati celebrati troppo presto dalle potenze imperialiste.
Trump ha pensato di risolvere una questione storica incoronando l'onnipotenza di Israele in cambio di una manciata di soldi ai “vinti”. Biden non sembra avere intenzione di modificare gli accordi. Le borghesie arabe di diversi paesi si sono strette alla corte del sionismo incassando la contropartita di concessioni finanziarie e commerciali. Gli imperialismi europei hanno avallato il tutto col proprio silenzio, cercando di ricavarne un utile per i propri interessi.
Ma il quadro si va complicando in fretta su ogni versante.
Lo Stato d'Israele sta conoscendo una crisi politica interna senza precedenti. Quattro elezioni politiche in due anni misurano la difficoltà di trovare una stabilizzazione di governo. Il premier Netanyahu non riesce a trovare una maggioranza parlamentare nel mentre è inseguito da scandali finanziari e processi. Il rafforzamento delle organizzazioni di estrema destra sionista, incoraggiate dagli accordi di Abramo e dunque dallo stesso premier israeliano, complica ogni soluzione politica. Il fatto che oggi la ricerca di una maggioranza alternativa al Likud debba affidarsi ad un tentativo di accordo tra un'organizzazione reazionaria di coloni ipersionisti e un partito arabo israeliano dà la misura delle difficoltà. Netanyahu cerca di drammatizzare lo scontro militare con Hamas con tanto di bombardamenti su Gaza per restare in sella nel nome dell'emergenza nazionale contro “il nemico”. Ma è un gioco troppo ripetuto, in un contesto troppo logorato, per funzionare come in passato.
Problemi non meno gravi si pongono per la politica palestinese.
Il governo corrotto dell'ANP ha voluto rinviare le elezioni palestinesi nei territori occupati per timore di un esito catastrofico per al-Fatah, ma così perpetua una situazione di manifesta illegalità. Il mandato di Mahmoud Abbas è infatti scaduto nel 2009. Questa situazione sta disgregando l'unità interna di al-Fatah. La candidatura di Mohammed Dahlan, ex capo dei servizi segreti dell'ANP, da dieci anni in esilio, ha l'appoggio degli Emirati e di al-Sisi. Al polo opposto la candidatura di Marwan Barghouti, prigioniero da anni nelle carceri sioniste, richiama agli occhi dei palestinesi la domanda di rottura con le politiche collaborazioniste di Abbas. Il rinvio delle elezioni a data da destinarsi è il tentativo di sottrarsi all'esplosione interna di al-Fatah, ma contribuisce di fatto a radicalizzarla.
Quanto ad Hamas, l'unico vero obiettivo è preservare il proprio controllo su Gaza, costi quel che costi, coi metodi dell'integralismo confessionale e del dispotismo. La polarizzazione dello scontro con Israele serve solo a intestarsi il primato simbolico della contrapposizione al sionismo in funzione dello status quo.
UNA PROSPETTIVA DI LIBERAZIONE
Di certo nessuna delle componenti del gruppo dirigente palestinese avanza una prospettiva di liberazione del proprio popolo. Ciò proprio nel momento in cui si stringe la morsa degli accordi di Abramo e al tempo stesso si moltiplicano le difficoltà della loro attuazione.
In queste condizioni, uno spettro si aggira nella Spianata delle Moschee e per i vicoli di Gerusalemme: quello di una terza intifada. Fu nel miglio sacro di Gerusalemme che presero slancio l'intifada degli anni '80, e quella degli anni 2000, quando una grande massa di palestinesi si sollevò contro l'occupazione per chiedere la liberazione della propria terra. Questa è oggi la vera preoccupazione dei circoli sionisti e delle potenze imperialiste. Non temono né al-Fatah né Hamas, temono la sollevazione della giovane generazione palestinese. Un timore che percorre le élite al potere nei paesi arabi, asservite all'imperialismo, perché sanno che una sollevazione palestinese potrebbe richiamare, come già in passato, la mobilitazione della popolazione araba e scuotere di conseguenza il loro potere.
Certo proprio l'esperienza delle grandi intifade mostra la necessità di una prospettiva strategica verso cui indirizzarle. Non c'è possibile soluzione storica della questione palestinese senza il diritto al ritorno nella propria terra. Non c'è diritto al ritorno nella propria terra senza la dissoluzione rivoluzionaria dello stato d'Israele, con la distruzione delle sue basi confessionali, giuridiche, militari. L'idea dei “due popoli, due Stati” su cui si sono abbarbicate le sinistre riformiste di tutto il mondo, ha rappresentato per lungo tempo una mistificazione insostenibile: l'idea della possibile soluzione della questione palestinese all'ombra del sionismo. Oggi è morta la stessa credibilità di quella illusione.
Non c'è soluzione della questione palestinese fuori da una prospettiva di rivoluzione, che unisca la ribellione delle masse palestinesi e delle popolazioni arabe con la mobilitazione antisionista della parte migliore della popolazione ebraica. Per una Palestina unita e socialista, dentro una federazione socialista araba, nel rispetto dei diritti della minoranza ebraica: la prospettiva strategica della Terza Internazionale comunista dei suoi anni rivoluzionari. La prospettiva della Quarta Internazionale delle origini.
La storia reale riporta le cose ai fondamentali. Senza ripartire da lì, senza ricostruire una direzione rivoluzionaria del popolo palestinese e della nazione araba che sappia battersi per la grande causa della liberazione dall'oppressione sionista e dall'imperialismo, la storia della Palestina e del Medio Oriente resterà segnata dalla barbarie.