Una legge finanziaria «al fianco di Confindustria» e delle banche
Contro la legge di stabilità del governo Meloni, per una vertenza generale. Dare agli studenti un riferimento operaio
«Questo governo è fieramente produttivista... Con Confindustria c'è sempre stato un dialogo franco e nel merito, e devo ringraziare di questo il presidente Orsini che è un combattente ma anche una persona pragmatica... Sono convinta che nel mondo produttivo italiano vi sia la piena consapevolezza di poter contare su un governo che è al loro fianco» (Giorgia Meloni, Il Sole 24 Ore, 18 ottobre).
«Bene che il governo abbia messo al centro della manovra le imprese e l'industria. Noi abbiamo sempre pensato a misure pensate su tre anni, perché è fondamentale avere una visione del Paese» (Emanuele Orsini, all'Assemblea degli industriali a Torino, 17 ottobre).
Le due dichiarazioni parallele non lasciano spazio al dubbio sulla natura della nuova Legge di Stabilità. Sulla sua impronta di classe.
Le imprese incassano otto miliardi di ulteriori agevolazioni fiscali dopo un'enorme abbuffata di profitti. Che si aggiungono alle passate regalie sull'IRES, e ai nuovi sussidi per la ZES (Zona Economica Speciale). Le banche, che hanno incassato nell'ultimo biennio più di cinquanta miliardi di utili netti, hanno la possibilità di scegliere se e quanto pagare allo Stato. Nel caso optino per sbloccare le proprie riserve patrimoniali a favore degli azionisti, pagheranno un'aliquota del 27,5% una tantum invece del 40%, con uno sgravio fiscale enorme. Nel caso non sblocchino le proprie riserve patrimoniali non pagheranno nulla, al di là di una minuscola aliquota IRAP maggiorata del 2% (dal 4,65% al 6,65%).
“Nessuna tassa sugli extraprofitti, il contributo è volontario” si è affrettato a rassicurare il governo. E così è. Una tassazione à la carte.
Gli undici miliardi di entrate da banche e assicurazioni indicate come copertura a bilancio sono dunque virtuali. Una variabile dipendente di scelte e calcoli dei banchieri. Che naturalmente scaricheranno sui correntisti i propri eventuali contributi fiscali “volontari”. E se per caso i contribuenti “volontari” non verseranno? Ci penserà il governo a colmare il buco con nuovi tagli sociali, a spese dei salariati e della popolazione povera.
Che il capitale finanziario sia la bussola di riferimento del governo emerge dall'impianto di fondo dell'intera manovra.
La manovra ruota infatti attorno all'obiettivo del rientro delle finanze pubbliche entro la soglia del 3% di deficit.
Perché la centralità di tale obiettivo? Perché è la condizione per superare la cosiddetta procedura d'infrazione dell'Unione Europea. E perché è fondamentale archiviare la procedura? Per due ragioni tra loro combinate. La prima, di natura generale, è garantire a futura memoria la piena solvibilità del debito pubblico italiano agli occhi degli acquirenti dei titoli di Stato (in larga misura banche, compagnie di assicurazione, fondi finanziari...): rassicurandoli sul fatto che potranno contare sulla regolarità del rimborso statale con relativi interessi (quasi cento miliardi ogni anno). Naturalmente con risorse pubbliche, e a carico dei salariati.
La seconda ragione è che solo archiviando la procedura d'infrazione il governo potrà ricorrere ai prestiti europei per investire in armamenti. Un 1,5% del PIL in più, totalmente a debito (che andrà ripagato), fuori bilancio. Una clausola pattuita dai governi imperialisti dell'Unione Europea nel quadro della grande corsa al riarmo, sotto la pressione di Donald Trump.
È la clausola che consentirà al governo italiano di aumentare la spesa militare di 15-20 miliardi nel prossimo triennio, di cui quasi quattro nel solo 2026: l'unica vera spesa pubblica in espansione della Legge di Stabilità dei patrioti. Per garantirla il governo ha applicato una rigorosa politica di austerità, tutta incentrata sull'inseguimento del record in fatto di avanzo primario (lo scarto fra entrate e uscite al netto del pagamento degli interessi sul debito). I complimenti a Meloni e Giorgetti da parte delle agenzie di rating e persino del Fondo Monetario sono dunque del tutto meritati.
Il governo sbandiera misure a vantaggio del ceto medio, di lavoratori dipendenti e di pensionati. Ma è una truffa in piena regola. La riduzione dell'aliquota IRPEF dal 35% al 33% nella soglia compresa fra i 28000 euro e i 50000 euro si traduce in cifre irrisorie: 20 euro annui per chi ha 29000 euro di reddito (1,70 euro al mese) e 440 euro annui per chi guadagna 50000 (36,70 euro mensili). Il nulla.
La cedolare secca tra il 5% e il 10% sugli aumenti contrattuali per i salariati del privato si traduce in circa 15 euro mensili per uno stipendio netto di 1600 euro: nemmeno il 10% della pesante riduzione generale del potere d'acquisto dei salari italiani (-9% sul 2021).
Un salasso senza paragoni in Europa, alimentato anche dalla gigantesca rapina dello Stato sul lavoro dipendente attraverso il meccanismo del fiscal drag: 25 miliardi pagati dai salari alle casse pubbliche per via degli effetti fiscali dell'inflazione, usati per sussidiare i padroni e pagare i banchieri.
Quanto alle pensioni, le minime sono maggiorate di 20 euro mensili (poco più di 10 euro netti), un insulto alla loro miseria. Mentre l'aumento dell'età pensionabile oltre la soglia dei 67 anni, e verso ormai i 70 anni, dimostra una volta di più che il sistema pensionistico continua a fare da bancomat per tutelare il debito pubblico da pagare al capitale finanziario.
Erano quelli che dovevano “abolire la Fornero”. I tagli ai ministeri (8 miliardi nel triennio) vanno nella stessa direzione, e completano il quadro.
Contro il governo e il padronato è necessaria e urgente una mobilitazione vera. Non serve l'eterna carta di doglianze di Maurizio Landini. È necessaria una piattaforma di rivendicazioni unificanti, a partire dalla richiesta di un forte aumento generale dei salari per tutti i lavoratori e le lavoratrici, privati e pubblici.
La subordinazione sindacale alle richieste di Confindustria in tema di salari (cuneo fiscale, detassazione degli aumenti, ecc.) è servita in questi anni solamente a scaricare sulla fiscalità generale il tema del salario, a scassare la progressività dell'IRPEF, a risparmiare i profitti padronali.
È ora di voltare pagina. Una piattaforma di lotta generale che parta dalla centralità della rivendicazione salariale a carico dei profitti, dalla cancellazione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro, da una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco, è il passo necessario di una grande riscossa del lavoro. E anche di una svolta sociale più generale.
Milioni di giovani e giovanissimi nelle ultime settimane hanno invaso strade e piazze come non avveniva da un quarto di secolo. L'hanno fatto per la Palestina. Ma anche per segnalare la propria disponibilità alla ribellione contro l'ingiustizia della propria condizione e contro l'assenza di futuro. La classe operaia e le sue organizzazioni debbono prendere la testa di questo moto di indignazione e dare ad esso una prospettiva. Una vertenza generale del mondo del lavoro, dei precari, dei disoccupati diventerebbe il riferimento centrale per milioni di studenti in movimento, un volano della loro coscienza politica, la leva di un cambio generale di scenario.
È il caso di dire: se non ora, quando?

