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La confluenza dell'Opposizione Trotskista Internazionale nella Lega Internazionale Socialista

  Avanza l'unità dei marxisti rivoluzionari nel mondo 26 Maggio 2025 English version Il congresso dell'Opposizione Trotskista Intern...

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Sionismo e bolscevismo

 


«Compagni,


il Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista ha dato un fraterno benvenuto ai compagni da voi delegati al III Congresso Internazionale e con loro ha esaminato molto attentamente la questione dell’affiliazione della vostra organizzazione all’Internazionale Comunista. Il Comitato Esecutivo riconosce il fatto che avete iniziato a espellere dalle vostre file gli elementi apertamente riformisti e centristi. Riconosce che, in quasi tutti i paesi in cui avete organizzazioni, siete pronti a condurre la lotta contro la borghesia a fianco delle sezioni comuniste di quei paesi. Riconosce inoltre che, grazie ai vostri sforzi comuni, siete riusciti a gettare le basi di un movimento comunista in Palestina che, una volta ratificate tutte le condizioni stabilite dal Comitato Esecutivo, sarà idoneo a diventare la sezione nazionale dell’Internazionale Comunista.
Tuttavia, nel vostro movimento esistono tendenze in linea di principio incompatibili con quelle dell’Internazionale Comunista, che ci preoccupano molto. L’idea che la concentrazione delle masse proletarie, semiproletarie ed ebraiche in Palestina possa fornire una base per l’emancipazione sociale e nazionale della classe operaia ebraica è utopica e riformista e in realtà controrivoluzionaria nelle sue conseguenze pratiche, poiché equivale alla colonizzazione della Palestina, che, in ultima analisi, rafforzerebbe la posizione dell’imperialismo britannico in Palestina.
La completa liquidazione di tale ideologia è la condizione più importante che ci sentiamo in dovere di stabilire. Il Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista è consapevole del fatto che la forte emigrazione, che è un’espressione concreta delle peculiari condizioni industriali del proletariato ebraico, è un problema di cui le sezioni nazionali dell’Internazionale Comunista devono occuparsi nella misura in cui possono essere utilizzate nella lotta per la dittatura del proletariato e per l’adempimento delle rivendicazioni vitali concrete dei lavoratori. È dovere delle sezioni nazionali dell’Internazionale Comunista istituire gli organi appropriati per l’indagine e la soluzione di questa questione.
Il Comitato Esecutivo ha deciso di istituire un Ufficio Ebraico nel centro dell’attività ebraica, il cui compito sarà quello di portare avanti la propaganda comunista tra i proletari ebrei in tutto il mondo. Il Comitato Esecutivo invita il vostro Ufficio Centrale a convocare una conferenza internazionale di tutte le organizzazioni comuniste del Poale Zion entro sei mesi, allo scopo di sciogliere definitivamente la vostra organizzazione internazionale e di fondere le vostre organizzazioni nelle sezioni nazionali dell’Internazionale Comunista, entro un periodo non superiore a due mesi e alle condizioni sopra menzionate.
In conclusione, il Comitato Esecutivo fa appello a tutti i lavoratori comunisti ebrei affinché combattano contro le tendenze particolaristiche prevalenti nel movimento operaio comunista ebraico e si rendano conto che i lavoratori ebrei rivoluzionari possono diventare parte integrante della famiglia dei Grandi Lavoratori Comunisti solo all’interno dell’Internazionale Comunista.
Lunga vita all’Unione degli Operai Comunisti Ebrei nell’Internazionale Comunista!
Lunga vita alla Terza Internazionale che sola è in grado di guidare la lotta per l’emancipazione dei lavoratori di tutte le nazioni alla vittoria finale!»

Così il Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista rispondeva alla richiesta di adesione del Poale Zion, il 26 agosto 1921. Di fronte alle condizioni del Comintern, una parte del movimento sionista-socialista rinunciò al sionismo e si mise sulla strada dell’internazionalismo proletario. Nel Poale Zion divennero dominanti le tendenze sioniste e riformiste.

Era stata la ex bundista Maria «Esther» Jakovlevna Frumkina, a dichiarare al II congresso del Comintern:

«Un esempio mostrerà di quali menzogne siano state vittime le masse lavoratrici di una nazionalità oppressa, menzogne che rappresentano una grande risorsa per l’Intesa e per la borghesia delle nazioni in questione. È il caso dei sionisti in Palestina che, con il pretesto di fondare uno stato ebraico indipendente, reprimono la popolazione lavoratrice e gli arabi che vivono in Palestina sotto il giogo britannico, sebbene gli ebrei siano ancora una minoranza. Questa menzogna senza precedenti deve essere combattuta, e in modo molto energico, poiché i sionisti in ogni paese lavorano avvicinando tutte le masse arretrate di lavoratori ebrei e cercando di creare gruppi di lavoratori con tendenze sioniste (Poale Zion), che ultimamente si sforzano di adottare una versione comunista. Vorrei citare qui uno degli esempi più eclatanti del movimento sionista. In Palestina non abbiamo a che fare con una popolazione a maggioranza ebraica. Abbiamo a che fare con una mera minoranza che cerca di sottomettere la maggior parte dei lavoratori del Paese alla capitale dell’Intesa. Dobbiamo combattere questi tentativi con la massima energia. I sionisti cercano di conquistare sostenitori in ogni paese e, attraverso la loro agitazione e la loro propaganda, servono gli interessi della classe capitalista. L’Internazionale Comunista deve combattere questo movimento con la massima energia».

Nel 1943, morirà nei gulag staliniani.

Il sionismo non è una creatura atavica, come millanta la mistica delle élite ebraiche. È artefatto tutto contemporaneo, figlio della decadenza capitalistica. L’avaria del sistema classista manifesta con forza la necessità del suo superamento. Chi non vuol concedersi a questo superamento si ritrova costretto a conservare il sistema oltre i suoi limiti razionali, indicando la responsabilità dei suoi guasti in cause fantasiose, col risultato di protrarre e aggravare ogni guasto. La borghesia nazista creerà il mito del giudeo parassita dell’economia, cospiratore filostraniero e filocomunista, principale ragione della sconfitta nazionale della Prima Guerra mondiale.

La borghesia ebraica risponderà non con la confutazione della mistica, ma col suo rovesciamento: l’ebreo che da millenni aspira al ritorno alla primordiale patria di Sionne, per sfuggire all’antisemitismo strutturale del mondo intero. La verità è che, dall’esilio babilonese e dalla dispersione romana lungo tutto il medioevo fino alla storia recente, gli ebrei hanno vissuto in altre terre e, se poté in essi conservarsi un sentimento religioso, caratteristiche culturali e una memoria più o meno condivisa a identificarli come popolo, non è vero che questo popolo ambì al ritorno a una terra perduta millenni addietro. I problemi del popolo ebraico contemporaneo sono i problemi della contemporaneità, risolvibili solo nel suo quadro, non col ricorso a leggende. Di questo avviso furono gli stessi ebrei che, per secoli, pretesero un posto nelle società in cui vivevano e mai invece guardarono a tali società come un luogo di passaggio, in attesa che il Messia ponesse fine alla diaspora.

Dirà Abraham Léon: «il sionismo è un movimento recente e il più giovane dei movimenti nazionali europei, ma ciò non gli impedisce di pretendere – ancor più degli altri nazionalismi – (oggi, anzi, diremmo “ferocemente contro gli altri nazionalismi”) di avere le sue radici nel lontano passato».

La genesi del sionismo, ideologia rovesciata dell’antisemitismo, si annida nella patria dei pogrom, l’impero zarista. Fu il pamphlet Autoemancipazione! (1882) del medico ebreo russo Leo Pinsker, il primo a parlare della fobia secolare e irrazionale per gli ebrei, una «malattia della mente delle nazioni non ebraiche», un pregiudizio insuperabile in qualunque modo non fosse la formazione di una colonia «in America o in una terra adatta in Oriente» (il fondatore dell’Hibbat Zion puntava già alla Palestina). Che il massimo esponente del sionismo politico, Theodor Herzl, lo abbia letto o meno, spiccheranno le analogie col suo Lo Stato degli ebrei. Quando Herzl elabora la sua ideologia si trova a Parigi, scenario dell’affare Dreyfus, il processo a un ufficiale ebreo dell’esercito francese ingiustamente accusato di tradimento, e dell’esplosione di antisemitismo che ne seguì. Si ribadisce: la metafisica sionista venne generandosi come risposta piccolo-borghese alla metafisica della borghesia imperialista, russa, francese, più tardi tedesca.

Nel 1897 Herzl, raccogliendo l’appello di Pinsker per un Congresso Ebraico, ideerà, convocherà e presiederà a Basilea il primo Congresso Sionista. Al cospetto di 17 delegati, fonderà l’Organizzazione Sionista Mondiale (WZO). Quanto mai eloquente il suo manifesto: «Formiamo una parte del baluardo per l’Europa contro l’Asia, saremo la sentinella avanzata della civiltà contro la barbarie». Nasceva ufficialmente un nuovo movimento, il quale tuttavia si trovava inevitabilmente a misurarsi col panorama politico del secolo, venendone alternamente condizionato. Il sionismo conobbe diverse articolazioni, tutte costitutive di un medesimo progetto coloniale. Tra le più importanti: il sionismo politico di Herzl, la cui cifra distintiva era una insistenza sull’aspetto diplomatico del progetto, l’importanza del riconoscimento internazionale e di un mandato legale per l’insediamento in Palestina. Costola tattica di questa articolazione ideologica fu il sionismo sintetico di Chaim Weizmann, che nell’Italia fascista giocò un ruolo diplomatico di rilievo. Col motto «Conquista o muori!», seguì il sionismo-revisionista, la variante ultramilitarista e parafascista di Vladimir Ze’ev Jabotinsky, fondatore del Betar per la «Grande Israele», ispiratore delle squadracce punitive del Brit HaBirionim in Palestina, comandante in capo delle milizie dell’Igrun. Dal Partito Revisionista Sionista (Hatzohar) discende l’Herut (1948-1988) da cui discende l’attuale Likud di Benjamin Netanyahu.

Ma il grande fermento rivoluzionario che agitava il mondo non poteva esimere dal rapporto col socialismo quella parte di popolo ebraico variamente interessato al sionismo. Dal rifiuto del Bund ebraico di integrare l’ideologia sionista, nacque il Poale Zion (Operai di Sion), prima come movimento e nel 1906, per impulso di Ber Borochov, costituitosi in partito.

Il Bund sosteneva che la lotta del proletariato ebraico avrebbe dovuto svilupparsi all’interno della diaspora, nei Paesi in cui viveva, senza la necessità di un’emigrazione di massa o della creazione di uno Stato ebraico. Sul piano ideologico, considerava la proposta sionista come una fuga dalla lotta di classe. Circa le ricadute materiali, il Bund, che nel 1921 si scioglieva in maggioranza nel Partito Comunista Russo, maturò una lettura del sionismo in tutto combaciante col Comintern dopo l’inizio della Prima guerra mondiale e del mandato britannico in Palestina: il progetto sionista come manovra della borghesia occidentale, quinta colonna dell’imperialismo britannico in Medio Oriente.

Prima della Nakba, i marxisti-rivoluzionari che si espressero sul sionismo non poterono prevedere l’immane carneficina cui Israele avrebbe dato corso nei decenni, ma diffusamente si ritrovano preziose intuizioni. Nell’intervista rilasciata ai corrispondenti della stampa ebraica al suo arrivo in Messico (gennaio 1937), Trotskij affermava già che «il conflitto tra ebrei e arabi in Palestina assume un carattere sempre più tragico e minaccioso» e che, in regime capitalistico, ogni tentativo di risoluzione del problema ebraico «non può che essere un palliativo e spesso persino un’arma a doppio taglio, come dimostra l’esempio della Palestina», avendo in mente le prime sollevazioni arabe contro gli ebrei.

La Prima Guerra mondiale si conclude con la sconfitta dell’Impero Ottomano e la sua perdita della regione palestinese. La Rivolta Araba esplosa nel 1916, prima dell’arrivo delle truppe britanniche, aveva cominciato una lotta su vasta scala contro l’oppressione turca finalizzata alla creazione di uno stato arabo indipendente. Strumentalmente, il Regno Unito supportò l’insurrezione; poi si unì militarmente al conflitto. La corrispondenza Hussein-McMahon (1915-1916), con la quale la Gran Bretagna, tramite il suo alto commissario in Egitto Henry McMahon, prometteva allo Sharif Hussein della Mecca, leader della Rivolta, il riconoscimento di un grande regno arabo in cambio del suo aiuto militare contro l’Impero Ottomano, portò dapprincipio una parte dell’insurrezione a battersi a fianco delle truppe inglesi, credendo sincere le promesse.

Le illusioni si sgretolarono quando, nel 1917, gli arabi scoprirono che, con l’accordo di Sykes-Picot, stipulato un anno prima, inglesi e francesi programmavano la spartizione del Medio Oriente in zone di influenza, contraddicendo apertamente la promessa di un regno arabo unito e indipendente; e soprattutto che, con la Dichiarazione Balfour, il Regno Unito s’impegnava a sostenere la creazione di una «patria nazionale per il popolo ebraico» nella Palestina che gli arabi consideravano parte del loro futuro Stato.

Da quel momento, fu un prosieguo ininterrotto di sollevazioni popolari contro l’occupazione britannica e i sionisti suoi protetti, che compravano terreni dagli effendi residenti in altri stati e ne cacciavano gli arabi che li abitavano e li coltivavano. Da parte araba, nasceva un nazionalismo che portava a una inedita lotta anche contro ebrei non sionisti, in una regione in cui da sempre arabi ed ebrei avevano convissuto. Da parte inglese e sionista, massacri di migliaia di arabi. I moti di Gerusalemme (1920) e il massacro di Hebron (1929), centinaia di morti. La seconda Grande Rivolta Araba (1936-1939), seimila arabi uccisi. L’ultimo dei capitoli prima della fondazione di Israele e della Nakba, ma che naturalmente le comprende, fu la guerra civile del 1947-1948, quando l’ONU sancisce di fatto la nascita dello Stato Ebraico e le truppe inglesi si ritireranno. Dopo averla aggiogata, l’Inghilterra lascerà la Palestina in dote all’ONU e, col declinare progressivo del proprio primato imperialista, perderà la supremazia della sua partnership con Israele in favore degli USA, emergenti dalla Seconda Guerra Mondiale come nuova superpotenza.

Nel frattempo, lo stalinismo aveva vinto nel mondo e anche dell’antisionismo genetico del bolscevismo si apprestava a far strame. Credendo di poter istituire un’alleanza con Israele e di farsene strumento di pressione contro l’imperialismo, in sede ONU anche il Cremlino votava a favore della fondazione di Israele. Il veto dell’Unione Sovietica, potenza temuta e decisiva per gli equilibri internazionali, avrebbe fatto saltare il progetto. Ma Stalin non si fermò a ignorare la natura sociale di uno Stato che si fondava sulla soppressione più efferata del diritto di autodeterminazione dei popoli, lui che, del resto, georgiano, era stato il primo a negarlo alla Georgia. Fece di più. Fu il primo a rifornire di armi Israele.

Data l’escalation preoccupante del conflitto in Palestina, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU impose un embargo sulle armi a tutti i paesi della regione coinvolti nel conflitto. Ma l’embargo penalizzava soprattutto Israele, che si ritrovò ad affrontare gli eserciti di diversi Stati arabi con una quantità molto limitata di armamenti. Tradotto in parole semplici, l’operazione equivaleva a dire "ci abbiamo provato! Ma se il rischio è di trovarci nuovamente trascinati in un conflitto mondiale, non intendiamo correrlo per Israele". Fu Stalin a salvare Israele, ripetendo la mossa del Molotov-Ribbentrop quando aggirò l’embargo e armò Hitler. Egli vide nella violazione dell'embargo un’opportunità per indebolire l’influenza occidentale in Medio Oriente e per creare un potenziale alleato. Decise quindi di fornire armi a Israele attraverso la Cecoslovacchia, divenuta stato satellite il febbraio 1948.

Le forniture, organizzate nell’ambito dell’«Operazione Balak», furono decisive per le sorti del conflitto. Tra il 1948 e il 1949, la Cecoslovacchia vendette a Israele un’enorme quantità di armi, tra cui fucili, munizioni, mitragliatrici e persino aerei da caccia come gli Avia S-199, una versione cecoslovacca dei Messerschmitt Bf 109 tedeschi. Queste armi, trasportate con ponti aerei clandestini, furono fondamentali per permettere a Israele di resistere all’attacco e di riportare la vittoria nella sua guerra coloniale.

Il Partito Comunista di Palestina guidato da Radwan Hassan al Hilou (Musa), sezione palestinese dell’Internazionale Comunista, veniva lacerato da una crisi irreversibile. La componente araba, nella quale spiccava Najati Sidqi, abbondonò in massa il partito. Il PCP perse quasi completamente la sua credibilità e la sua influenza all’interno della comunità araba palestinese. La spaccatura rese il partito un’organizzazione prevalentemente ebraica e lo isolò dal movimento nazionalista palestinese e dalle masse arabe. La rottura sancì il fallimento del progetto di un partito misto, arabo-ebraico, che secondo la tradizione bolscevica saldava la lotta di classe e l’anticolonialismo in un’unica organizzazione.

Israele, oggi, è tra le mostruosità più sanguinose che la degenerazione del socialismo su scala internazionale, la controrivoluzione stalinista, ha lasciato in eredità al ventunesimo secolo.

La storia presenta sempre il conto. Non è un caso che i marxisti-rivoluzionari siano arrivati al nuovo secolo anche sulla base della rottura con la tradizione stalinista su Israele e sull’autodeterminazione dei popoli. Progetto Comunista, l’area embrionale del Partito Comunista dei Lavoratori, rompeva dal Partito della Rifondazione Comunista proprio per la sua denuncia del ruolo imperialista giocato dalle truppe italiane in Iraq e sul rifiuto della soluzione "due popoli, due stati" per la Palestina. In Palestina, lo stato sionista nasce proprio contro la nascita di uno o più stati arabi. Nasce come avamposto dell’imperialismo occidentale in Medio Oriente. Qualunque sia la forma di governo di cui possa dotarsi, lo Stato sionista è la pallottola che la prima terribile guerra globale tra le potenze imperialiste ha lasciato nel cuore del Medio Oriente e lo sta uccidendo per avvelenamento.

Dal socialdemocratico Ben Gurion all’ultranazionalista Netanyahu, Israele non ha fatto altro che sfruttare e rubare, espellere e sterminare. Non ha mai conosciuto eccezioni a questa politica. Perché altra politica non può avere il colonialismo. Il sionismo era ieri e tanto più lo è oggi una vergognosa copertura ideologica di un’impresa criminale. Con la sua strumentalizzazione dell’Olocausto per riprodurre lo stesso crimine contro altri popoli, è la più grande offesa che abbia mai conosciuto il popolo ebraico. Solo la rivoluzione saprà far sì che sia l’ultima.

Salvo Lo Galbo

No all'occupazione di Gaza! Fuori i sionisti dalla Palestina!

 


21 Agosto 2025

Alle proteste in Israele e alla disponibilità di Hamas a negoziare, Netanyahu ha risposto con un'escalation criminale che porterà all'occupazione totale di Gaza. L'offensiva genocida del sionismo richiede una risposta internazionale di forte mobilitazione, e una soluzione di fondo: una Palestina libera dal fiume al mare

PROTESTE IN ISRAELE

Il 17 agosto Israele è stato paralizzato da una mobilitazione che ha riunito tra le 200.000 e le 500.000 persone, che hanno invaso le strade di Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa, oltre a concentrarsi davanti alla residenza di Netanyahu. Gli slogan erano: “Cessate il fuoco subito, restituite gli ostaggi! Le vite prima della guerra!”. Le famiglie degli ostaggi, insieme a migliaia di lavoratori e giovani, sono state il motore di una giornata che ha approfondito le crepe interne al regime israeliano.

Hamas ha risposto con disponibilità a negoziare un cessate il fuoco. Netanyahu ha accusato i manifestanti di essere “traditori” e ha risposto con la repressione e gli arresti, come preludio a una nuova fuga in avanti con l'approvazione dell'occupazione totale di Gaza.


IL VARO DEL PIANO DI OCCUPAZIONE DI GAZA

Il 20 agosto 2025, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha approvato un piano militare su larga scala per conquistare Gaza City, autorizzando la mobilitazione di circa 60.000 riservisti e la proroga del servizio di altri 70.000 per un periodo aggiuntivo di 30-40 giorni.

L'operazione, nota come “Carri di Gedeone II”, prevede l'evacuazione forzata di quasi un milione di abitanti di Gaza, per lo più civili già sfollati in precedenza, e l'intensificazione dei bombardamenti in quartieri densamente popolati come Zeitoun e Jabalia. Le forze armate israeliane stanno già operando nei dintorni della città in quella che si preannuncia come un'offensiva terrestre graduale e devastante.


ANCORA PIÙ BARBARIE E COLONIALISMO

L'approvazione del piano israeliano per occupare Gaza segna una nuova fase di orrore per il popolo palestinese. La mobilitazione di decine di migliaia di riservisti non è solo una manovra militare: implica l'intensificazione del genocidio in corso, con ulteriori bombardamenti su quartieri densamente popolati, l'espulsione forzata di centinaia di migliaia di persone e l'aggravarsi della carestia e delle epidemie in condizioni di assedio totale. Questa offensiva mira a consolidare la colonizzazione e la pulizia etnica. È un piano di sterminio e conquista che non ha nulla da invidiare a quelli messi in atto dai nazisti.


LA COMPLICITÀ DEI GOVERNI BORGHESI

Le grandi potenze imperialiste, i governi borghesi di diversi paesi e gli organismi internazionali al servizio dell'imperialismo hanno espresso alcune critiche e hanno persino minacciato di prendere provvedimenti. Tuttavia, la portata della loro ipocrisia cresce di pari passo con i crimini di Israele, poiché mantengono intatte le relazioni diplomatiche e commerciali, oltre a continuare a inviare armi agli assassini sionisti. Anche i governi dei paesi imperialisti hanno le mani sporche di sangue per ogni palestinese che muore sotto i bombardamenti criminali e l'occupazione, o che deve fuggire dalla propria casa e dalla propria terra per salvarsi la vita.


FERMARE I CRIMINI SIONISTI

In tutto il mondo è necessario promuovere la più ampia unità d'azione nelle mobilitazioni. No all'occupazione di Gaza! Cessate il fuoco! Fuori i sionisti dalla Palestina! Fine del blocco degli aiuti umanitari! Per la rottura delle relazioni dei governi con Israele! Boicottaggio degli interessi colonialisti di Israele e dell'imperialismo nordamericano!

Non c'è via d'uscita dalla situazione attuale senza sconfiggere lo Stato di Israele e tornare ai confini precedenti al 1948, anno in cui è iniziato il martirio del popolo palestinese. È falso che ci possa essere una qualche soluzione nel riprendere la fallimentare e ingannevole politica dei “due stati” o nell'accettare gli Accordi di Abramo firmati nel 2020 per normalizzare le relazioni tra Israele, i governi borghesi e le monarchie arabe.

La soluzione non è nemmeno un regime teocratico e improntato al settarismo religioso come quello proposto da Hamas. La sconfitta dello Stato di Israele deve portare alla creazione di una Palestina unica, laica, democratica e socialista, libera dal fiume al mare, con il diritto al ritorno di tutti i palestinesi espulsi e aperta a decidere come convivere con la minoranza israeliana.

Questa prospettiva può concretizzarsi solo nel quadro della rivoluzione socialista in Medio Oriente e di una Federazione delle repubbliche socialiste arabe.

Rubén Tzanoff

No allo sgombero del Leoncavallo!

 


21 Agosto 2025

Al fianco degli spazi occupati, contro palazzinari e speculazione immobiliare

Nella mattinata di oggi più di 130 carabinieri hanno sgomberato, dalla storica sede di via Watteau dove si trovava da 31 anni, il centro sociale Leoncavallo, luogo storico del movimento milanese, nato proprio cinquant’anni fa nell’omonima via.

Le dichiarazioni trionfalistiche del ministro Piantedosi inseriscono quello del Leonkavallo nell’ambito dei quattromila sgomberi attuati dalle forze dell’ordine durante il governo Meloni, e invocano la tolleranza zero verso le occupazioni, sociali e abitative.
Lo sgombero in pieno agosto del Leoncavallo si pone in decisa coerenza con il Decreto Legge sulla Sicurezza 2025 (D.L. 48/2025), convertito in legge il 9 giugno 2025. Un decreto che penalizza ulteriormente le occupazioni abitative e sociali, oltre che le lotte dei lavoratori e dei militanti ambientalisti.

E non possiamo dimenticare l’odissea giudiziaria dei militanti palestinesi in Italia Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh, in carcere dal marzo 2024 con l’accusa di terrorismo, come anche la carcerazione di Tarek, arrestato durante la manifestazione dello scorso 5 ottobre a Roma per la Palestina.

Contro ogni repressione, per un fronte unico di classe: è questa la parola d’ordine con la quale il PCL ed i suoi militanti esprimono la loro solidarietà, attiva e militante, allo sgombero del Leoncavallo e ad ogni repressione delle avanguardie.

Partito Comunista dei Lavoratori

Gran Bretagna. Giù le mani da Palestine Action!


 Nel quadro di una grave intensificazione della repressione imperialista, lo Stato britannico ha messo al bando l'organizzazione Palestine Action ai sensi del Terrorism Act. Questa misura, sostenuta dai guerrafondai sia laburisti che conservatori, segna un inasprimento qualitativo della guerra della borghesia contro il dissenso. Deve essere osteggiata incondizionatamente da ogni lavoratore cosciente, da ogni comunista e da ogni oppositore dell'imperialismo britannico.


Il crimine di Palestine Action? Azioni dirette contro i trafficanti d'armi britannici, in particolare Elbit Systems, il produttore di armi israeliano complice del massacro dei palestinesi. Prendendo di mira le fabbriche Elbit, le basi della Royal Air Force e le aziende complici del terrore sionista, Palestine Action ha smascherato la macchina insanguinata dell'imperialismo britannico e il suo sostegno allo Stato sionista genocida. Per questo sono stati bollati come “terroristi”, mentre i veri terroristi siedono in Parlamento, indossano uniformi e sganciano bombe.

Siamo chiari: non si tratta di “violenza”. Si tratta dello Stato capitalista che difende il suo sacro diritto di trarre profitto dal massacro imperialista. Come insegnava Lenin, lo Stato borghese non è altro che “un corpo speciale di uomini armati” finalizzato alla repressione della classe operaia. Questo divieto dimostra ancora una volta che la classe dirigente britannica non si fermerà davanti a nulla per mettere a tacere la resistenza ai suoi crimini imperialisti.

Più di 500 persone sono già state arrestate, tra cui pensionati e manifestanti disabili, per il “reato” di aver esposto cartelli o indossato i distintivi del gruppo. La legge prevede fino a 14 anni di carcere per chiunque sia semplicemente ritenuto “sostenitore” del gruppo. Questo è il volto della democrazia capitalista: un sorriso ai ricchi, le manganellate per tutti gli altri.

I riformisti e le ONG progressiste si lamentano della “libertà di parola” e delle “libertà civili”, ma non offrono alcun programma per combattere la repressione statale. La risposta non sta nei tribunali o nelle petizioni, ma nella lotta di classe di massa. La classe lavoratrice britannica deve rompere con il Partito Laburista filoimperialista e costruire un nuovo partito dei lavoratori armato di un programma anticapitalista per guidare la lotta contro il capitalismo, l'imperialismo e il sionismo.

Rivendichiamo:

- No alla messa al bando di Palestine Action!
- Ritiro di tutte le accuse contro i manifestanti: libertà per tutti i prigionieri politici!
- Un'azione dei lavoratori per boicottare e punire tutti gli scambi e le relazioni con lo Stato sionista!
- Truppe e armi britanniche fuori dal Medio Oriente. Distruggiamo l'imperialismo con la rivoluzione operaia!

Solo la rivoluzione socialista può portare giustizia agli oppressi e porre fine allo spargimento di sangue imperialista. La vittoria della Palestina non richiede proteste liberali, ma la sconfitta dell'imperialismo britannico in patria e all'estero attraverso la rivoluzione socialista internazionale!

KD Tait

Trump e Putin in Alaska. Si stringe il cappio attorno al collo dell'Ucraina

 


17 Agosto 2025

English version

Scriveremo più ampiamente nei prossimi giorni sugli sviluppi delle relazioni mondiali. Non tutto è già chiaro e definito circa l'esito dell'incontro fra Trump e Putin. Ma è possibile un primo giudizio di fondo: il vertice USA-Russia in Alaska ha seguito lo spartito dei più classici negoziati tra potenze imperialiste sulla pelle e sui diritti di altri paesi e di altri popoli. “Chi non è parte dell'incontro è parte del menù” dice il vecchio adagio della diplomazia imperialista. Così è stato. L'Ucraina non era presente in Alaska perché l'oggetto dell'incontro era ed è la sua spartizione. Quanto agli imperialismi europei, non erano presenti per la volontà congiunta di Putin e di Trump di cucinare in proprio l'accordo da sottoporre loro. L'indirizzo della nuova amministrazione americana è infatti quello di ridisegnare gli equilibri mondiali sulla base della propria relazione diretta con le altre due grandi potenze, Russia e Cina, tagliando fuori gli imperialismi alleati.

È un fatto. La stessa amministrazione americana che tributa i massimi onori al criminale Netanyahu ha riservato al criminale Putin la medesima accoglienza. La stessa amministrazione americana che copre il disegno della Grande Israele sulla pelle dei palestinesi avalla la ricostruzione putiniana di un proprio spazio imperiale in Ucraina. Le potenze imperialiste vecchie e nuove si riconoscono l'una con l'altra nello specchio del proprio comune cinismo.

L'intero cerimoniale dell'incontro in Alaska è stato un tappeto rosso per Putin. Ma ancor più i termini sostanziali dell'accordo annunciato, in base a tutte le anticipazioni disponibili.

Innanzitutto l'imperialismo USA “concede” all'imperialismo russo di continuare a bombardare l'Ucraina e a procedere nel suo tentativo di sfondamento al fronte. Le famose richieste di cessate il fuoco, i ripetuti ultimatum, prima di cinquanta giorni, poi addirittura di otto, pena lo sfracello di sanzioni dirette o indirette «senza precedenti» contro la Russia, si sono rivelati per quello che erano: un bluff propagandistico, una recita ipocrita e ridicola che serviva solamente a prendere tempo, e dare tempo, per cucinare una prospettiva opposta.

Certo, non tutte le contraddizioni sono svanite. Trump ha bisogno che Putin gli consenta di salvare la faccia, anche agli occhi dell'elettorato americano. E non è detto che Putin gli conceda tutto lo spazio di manovra richiesto ed atteso. Ma l'incontro in Alaska sposta in ogni caso il quadro del confronto. La vecchia condizione del cessate il fuoco è rimossa. Dire che “ora si tratta direttamente la pace invece di limitarsi al cessate il fuoco” significa semplicemente abbellire con parole ipocrite la concreta continuità della guerra. E la continuità della guerra d'invasione è (anche) la più potente arma negoziale della Russia contro l'Ucraina.

In secondo luogo, l'imperialismo USA avalla la rivendicazione russa non solo dei territori già conquistati militarmente e annessi dopo l'invasione del febbraio 2022, ma anche della parte del Donbass non conquistato, inclusa la città di Kramatorsk: il cuore di ciò che resta della grande produzione industriale dell'Ucraina e delle sue riserve minerarie.

In altri termini, l'Ucraina invasa dovrebbe non solo rinunciare ai territori occupati dall'imperialismo invasore ma anche concedergli il bottino che questi non è ancora riuscito a strapparle dopo tre anni, nonostante l'enorme superiorità militare delle proprie forze.

Una soluzione umiliante. Che oltretutto sposterebbe ulteriormente i rapporti di forza in Ucraina a vantaggio della Russia, la quale un domani potrebbe riprendere la marcia verso Kiev da una posizione strategica ben più avanzata. Perché oggi la linea del fronte a difesa di Kramatorsk è il cuore della difesa ucraina. Abbandonare quella linea è ben più che concedere a Putin altri 100 chilometri di terra: è porre un'ipoteca sullo Stato ucraino.

Inutile aggiungere che ogni diritto di autodeterminazione del Donbass sarebbe escluso per definizione dalla sua completa annessione alla Russia e da un accordo internazionale che la sancisca.

Quanto alle ipotesi di compensazioni offerte all'Ucraina sotto forma di “garanzie” a futura memoria non valgono più di un pezzo di carta, peraltro neppure scontato. Putin (forse) scriverebbe che si impegna a non riprendere la guerra. Come si era solennemente impegnato a non invadere l'Ucraina sino a tre giorni prima dell'invasione del 2022. Come si era impegnato del 1996 a cessare la guerra in Cecenia, salvo riprenderla nel 1999 con la completa distruzione di Grozny.

Un regime fondato tanto più oggi sull'economia di guerra e sulla propria proiezione neoimperiale intende sicuramente incassare i vantaggi di un accordo con Trump e dei relativi riconoscimenti, ma non per questo dismetterà le proprie ambizioni. E anzi la grande vittoria politica e di immagine che Putin riscuote oggi in patria semmai le rafforza. Quanto alle “garanzie” di protezione dell'Ucraina offerte da Trump, hanno la stessa credibilità del personaggio e delle sue passate promesse. Una difesa dell'Ucraina affidata all'imperialismo USA vale la difesa di un pollaio affidata alla volpe, o meglio a un complice patentato della volpe.

La verità è che Trump vuole venir via dall'Ucraina, sia per risparmiare risorse con cui detassare i capitalisti USA sia per concentrare maggiori forze ed energie sui mari del Pacifico nel confronto strategico con l'imperialismo cinese. Cedere il passo a Putin in Ucraina significa questo. Se poi significasse anche ottenere... il Nobel per la pace, tanto meglio per l'insaziabile vanità dell'uomo.

Quanto a noi, in ogni caso, non chiameremo “pace” un'annessione, quale che sarà il posizionamento in merito del governo Zelensky. A dispetto dell'esaltazione della «pace sporca» da parte della rivista Limes o di un qualsiasi Travaglio.

L'incontro in Alaska ha spaziato peraltro ben al di là dell'Ucraina. Ha riguardato gli equilibri globali in fatto di armamenti nucleari, la gestione delle grandi ricchezze dell'Artico, le relazioni di potenza in Medio Oriente. Trump concede all'imperialismo russo il ruolo di grande potenza negoziale su scala mondiale: il semaforo verde in Ucraina è solo un segno di questa più ampia apertura. Putin in cambio assicura all'imperialismo americano un proprio ruolo “responsabile” in Medio Oriente, ciò che significa garantire il disarmo nucleare iraniano e la non belligeranza russa sul genocidio sionista in Palestina.

Quanto agli imperialismi europei – costretti ai margini del grande gioco della spartizione mondiale – sperano un domani di poter ritornare in partita, grazie ai propri piani di riarmo. Intanto prenotano un posto a tavola nel business della ricostruzione dell'Ucraina e continuano, al di là delle chiacchiere, a sostenere militarmente lo Stato sionista, riconoscendo al più lo “Stato palestinese” mentre collaborano di fatto allo sterminio dei palestinesi.

Di certo né il popolo palestinese né il popolo ucraino hanno qualcosa da attendersi dalle potenze imperialiste, vecchie e nuove, e dai loro cinici mercanteggiamenti. Solo una rivoluzione socialista internazionale, solo una grande alleanza tra la classe operaia e i popoli oppressi può liberare il mondo dai briganti che lo controllano.

Partito Comunista dei Lavoratori

Condanniamo il nuovo attacco alla minoranza slovena nella Carinzia austriaca

 


Un attacco al movimento antifascista

Il 27 luglio scorso la polizia austriaca ha effettuato un vergognoso raid all'Antifa Camp Koroška/Carinthia, iniziativa antifascista che si è tenuta tra il 27 e il 29 luglio e organizzata dal Klub slovenskih študentk*študentov na Dunaju (KSŠŠD).

Il dispiegamento delle forze repressive è stato impressionante se consideriamo la natura dell'evento (i convenuti erano in larga misura studenti, e vedeva anche il coinvolgimento diretto del locale museo Peršmanhof): droni, decine di agenti (provenienti anche da unità "antiterroristiche"), elicotteri, unità cinofile.
Ça va sans dire, identificazioni a tappeto, fermi e arresti hanno completato il quadro dell'operazione: chissà, magari temevano lo scoppio di un'insurrezione da parte della minoranza slovena in Carinzia? Magari fosse sufficiente un campus studentesco a provocare una rivolta!

Se consideriamo che quest'anno ricorreva l'ottantesimo di un'orribile strage nazista a danno di alcune famiglie slovene (consumatasi il 25 aprile 1945, ha visto tra le sue vittime anche bambini) ricordata dalla struttura commemorativa in loco, e che questo è uno dei luoghi più simbolici della lotta antifascista in Austria, non può che aumentare il livello di bile verso un atto intimidatorio che perfino le autorità borghesi faticano a giustificare (suscitando anche la viva riprovazione di quelle dello Stato sloveno), menzionando problemi legati all'ambiente e affermando che non si trattava di un evento adatto a un memoriale. Curiosamente, di questi aspetti "problematici" se ne sono accorti proprio mentre si teneva l'iniziativa stessa. Un'incursione sbirresca è forse più adatta a stazionare in un memoriale antinazista di alcune decine di studentesse e studenti?

Per fortuna, il caso ha scatenato la rapida mobilitazione di centinaia di persone. Ma allo stesso tempo evidenzia l'acuirsi delle intimidazioni nei confronti delle iniziative antifasciste e delle minoranze nazionali su scala europea. Tanto per fare un paio di esempi vicini, qualche tempo fa si è verificata l'assurda presenza di numerosi agenti (in borghese e non) e militarizzazione a un'iniziativa sull'eccidio di Schio organizzata dalla sezione vicentina del Partito Comunista dei Lavoratori, che vedeva come protagonista lo storico Ugo De Grandis, e la silenziosa (ma ugualmente notata per fortuna dagli attivisti delle minoranze della regione) rimozione della segnalatica bi/trilingue (a Cividale si trovavano le indicazioni in italiano, friulano e sloveno) in alcune stazioni ferroviarie del Friuli.

Le due cose, com'è noto – o come dovrebbe – vanno di pari passo. La lotta contro il fascismo (prodotto scatologico del capitalismo e della reazione) e per i diritti e l’autodeterminazione delle minoranze – e ricordiamo che quelle nazionali sono perlomeno dodici nello Stato italiano, anche se è scomodo doversene occupare – non possono che ancorarsi alla lotta di classe per raggiungere una soluzione reale, definitiva e positiva, perché soltanto la distruzione del capitalismo può decontaminare una volta per tutte l'umanità dalle forme di discriminazione che questo regime moltiplica ininterrottamente come bubboni sulla pelle di un ammorbato.

Alessio Ecoretti, Partito Comunista dei Lavoratori - Friuli-Venezia Giulia

Cassa di resistenza per i lavoratori Sofalegname di PCL Romagna · Agosto 3, 2025 Invitiamo tutti i compagn3 a contribuire alla raccolta fondi per i lavoratori in lotta!

 


DONATE QUI!

Il PCL Romagna ha contribuito e contribuirà alla cassa di resistenza per i lavoratori in lotta. Invitiamo tutti i compagni e le compagne a sostenere la raccolta fondi e a prestare solidarietà militante ai picchetti.
Siamo accanto a Sudd Cobas e ai lavoratori Sofalegname contro lo sfruttamento di un capitale senza scrupoli e senza vergogna, che non vuole operai, ma schiavi, e che scappa altrove invece di rispettare i diritti dei lavoratori.

Per conquistare i diritti! Per rovesciare lo sfruttamento! Solidarietà operaia nella lotta! Per durare un minuto in più del padrone!


Ps.: un contributo è già venuto anche dal PCL Nazionale e dalla sez. di Bologna

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Da Sudd Cobas

I lavoratori della filiera Gruppo 8 di Forlì stanno scioperando e hanno bisogno del nostro aiuto!

Dopo 17 giorni di sciopero nel mese di Luglio, dal 1 agosto i lavoratori sono di nuovo in sciopero ad oltranza, con due presidi permanenti!

Inoltre non hanno ricevuto lo stipendio di Giugno, e chiaramente sono in difficoltà per le spese di affitto e di sussistenza. Quanto più i lavoratori possono resistere in sciopero tanto più sono le possibilità di vincere questa battaglia, ma per farlo hanno bisogno di essere sicuri di poter pagare le spese necessarie. Sappiamo quanto può essere duro scioperare per i propri diritti e stare giorno e notte davanti alla fabbrica, ma è ancora più difficile farlo se non sai come pagare le bollette.

Per questo motivo chiediamo il sostegno di tutte le persone che hanno a cuore la loro lotta e che pensano sia necessario battersi per mettere un freno a multinazionali senza scrupoli, che sfruttano territori e persone e poi provano a scappare via, lasciando i lavoratori senza lavoro e senza stipendio.

Gli scioperi di questo tipo in italia sfortunatamente non sono molti, ma è un motivo in più per sostenere chi li porta avanti, sperando che possano essere di esempio ai molti che ancora lavorano sfruttati.

I lavoratori della filiera Gruppo 8 hanno scioperato, dal 3 Luglio, per 17 giorni contro la delocalizzazione dello stabilimento. Gruppo 8 produce divani di lusso, ma non è mai stata disposta a pagare i lavoratori in modo corretto.

Questo di Luglio era già il secondo sciopero. Prima a Dicembre hanno scioperato una settimana contro le condizioni disumane cui erano costretti: turni di 12 ore al giorno, costretti a dormire in un capannone ad una temperatura di 4°!

Con la prima mobilitazione hanno ottenuto contratti regolari e il rispetto dei loro diritti fondamentali, ma dopo soli 7 mesi l’azienda ha provato a delocalizzare, per liberarsi di chi pretendeva di essere pagato correttamente.

A Luglio dopo 17 giorni di sciopero era stato siglato un accordo dove l’azienda garantiva la riapertura dello stabilimento. Dopo una settimana però,l’accordo non è stato rispettato e l’azienda ha riprovato a spostare la produzione. Il picchetto è ricominciato, ma ad oggi mancano anche gli stipendi di Giugno.

Il mancato rispetto dell’accordo, firmato con la Prefettura di Forlì e in presenza anche della Regione Emilia Romagna è un affronto a tutto il territorio. Multinazionali che si sentono impunite pensando di poter sfruttare persone e risorse, per poi andarsene quando gli fa più comodo. Per questo motivo lo sciopero è ricominciato il 1 Agosto, per pretendere il rispetto dell’accordo e per dare un messaggio chiaro a queste multinazionali: non rimarremo a guardare, difenderemo i posti di lavoro dignitosi e non permetteremo che la produzione ancora un volta venga fatta dove i diritti minimi non ci sono.

Facciamo appello quindi a tutte le cittadine e cittadini, le associazioni, i collettivi di sostenere la mobilitazione e partecipare alla raccolta fondi essenziale per la continuazione di questa battaglia.

Per gli aggiornamenti potete seguire il nostro sito www.suddcobas.it o le nostre pagine sui social.

Condividete la raccolta fondi e donate!

I fondi andranno alla COM Soccorso Attivo, Società di Mutuo Soccorso che distribuirà la raccolta tra i lavoratori in sciopero.