♠ in Conte,controllo fiscale,Di Maio,FCA,governo,governo dei lavoratori,Legge Fornero,Marchionne,migranti Salvini,movimento 5 stelle,razzismo,reddito di cittadinanza at 04:56
Tutte le ricette contro i lavoratori in salsa giallo-verde: dall'interclassismo alla chiusura dell'Ilva, dal silenzio sugli assassinii razzisti ai regali fiscali per i piccoli padroni
8 Giugno 2018
Luigi Di Maio, il nuovo leader carismatico del Movimento 5 Stelle e dell'affermazione di quell'organizzazione come garante degli interessi della borghesia e della stabilità dei capitali, alla faccia della retorica populisitca antisistema, si è insediato.
Il capo pentastellato ha concentrato nelle sue mani due ministeri chiave come quello del Lavoro e quello dello Sviluppo Economico, per compensare la propria sete di potere insoddisfatta per il mancato raggiungimento della poltrona di Presidente del consiglio.
Ci è voluto poco a far cadere la maschera di "cambiamento" delle politiche sul lavoro del movimento populista e reazionario, e già dalle sue prime parole da superministro si mettono in mostra gli ammorbidimenti rispetto alla campagna elettorale infuocata – ammorbidimento già messo in luce nei vari tentativi di dialogo falliti con le diverse forze politiche, e con i poteri forti italiani e stranieri, per ottenere il controllo del Governo prima del contratto con la Lega.
Non solo l'abolizione del Jobs Act, emblema delle politiche del PD di precarizzazione e aggressione dei diritti e delle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici, è diventata una "rivisitazione" delle politiche renziane, probabilmente con la reintroduzione dei vergognosi voucher, produttori di precarietà estrema ed escamotage di mascheramento del lavoro nero.
Non solo il reddito di cittadinanza tanto promesso, oltre a essere evidentemente insostenibile rimanendo nelle logiche di gestibilità del sistema capitalistico e di mercato, diventa sempre più un sussidio di povertà e precarizzazione, vincolando una piccola elemosina alla necessità di accettare qualsiasi lavoro venga proposto a qualsiasi condizione esso sia. In poche parole: se sei disoccupato, ancora grazie che ti permettiamo di diventare un eterno precario senza diritti e sotto ricatto perenne di perdere anche quei quattro soldi che prendiamo alla contribuzione generale.
Non solo l'abolizione della Legge Fornero si trasforma in un più gestibile ed accettabile "quota 100", dimenticando tutte le promesse sulle pensioni minime. Anche qui una proposta difficilmente applicabile, sommata alla promessa del reddito di povertà, se non si affronta il nodo della dittatura sistemica del capitale e della finanza e la sua aurea legge del profitto e della concorrenza.
Non solo di fronte alla vicenda strategica dell'Ilva, a cui son legate le vite di migliaia di lavoratori e quelle dei cittadini che ne subiscono l'inquinamento da decenni, sa rispondere con la meravigliosa ricetta, senza capo né coda, del «chiuderemo lo stabilimento di Taranto», magari regalando le tecnologie dismesse ad ArcelorMittal che così può ringraziare e delocalizzare levandosi una bella gatta da pelare, e garantendo una bella massa di disoccupati e l'impoverimento generale di un intero territorio.
Si spinge oltre Di Maio, mettendo in mostra chiaramente da che parte stia il suo schieramento e il suo comando.
Tra le prime cose che afferma, da Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, è la volontà di eliminare qualsiasi misura di controllo fiscale per piccole, medie e grandi imprese. Il tanto agognato tema delle tasse alle imprese deve essere tagliato con l'accetta semplicemente con un «lasciamo in pace gli imprenditori», carta bianca e basta con i controlli, perché d'altronde non sono problemi atavici il nero e l'evasione in un sistema incentrato proprio sulle piccole e medie imprese, le cui mancate entrate ricadono proprio sulla tassazione ai salariati e ai pensionati e colpiscono la sostenibilità di un welfare state in perenne smantellamento.
In fondo il benessere e il profitto di padroni e padroncini, inevitabilmente, porterà ad un maggior benessere anche per i lavoratori e per gli strati più deboli. Dati che vengono ovviamente confermati dagli annuali rapporti sull'aumento dei dividendi, sull'aumento dei profitti, sulla sempre maggior concentrazione di capitali, sul perenne aumento delle forbici di ricchezza tra strati sempre minori di super-ricchi e ricchi, e un enorme massa di lavoratori poveri e in fase di impoverimento. Dati dimostrati anche dai bilanci annuali di tutte le imprese e dalle riorganizzazioni lacrime e sangue, dove amministratori delegati, azionisti e padroni aumentano i loro profitti e dividendi al costo di licenziamenti, casse integrazioni, salari di solidarietà, delocalizzazioni, rinnovi contrattuali che non permettono nemmeno il recupero degli aumenti reali del costo della vita, aumenti dei ritmi a parità di salario, etc.
Il tutto, infatti, si inserisce nel corporativo, e del tutto "nuovo", concetto secondo cui «datore di lavoro e dipendente sono sullo stesso piano. Non devono essere nemici, non devono essere due realtà staccate». Lo vada a dire a tutti i lavoratori di FCA, dell'azienda di quel Marchionne a cui ha teso la mano e che ha idolatrato per i 9 miliardi di investimenti nell'auto elettrica (quando tutti i competitors dell'automotive spendono regolarmente molto di più), colpiti dalle delocalizzazioni, dai salari di solidarietà e dalle casse integrazioni, da un modello contrattuale che li priva di qualsiasi garanzia e da piani industriali che hanno dimezzato i posti di lavoro in Italia in quel settore. Lo vada a dire a tutti i lavoratori e le lavoratrici che sono regolarmente sotto ricatto nel loro posto di lavoro, perché precari o perché vengono loro imposte condizioni di lavoro prive di sicurezza e prive di dignità sotto la minaccia di chiudere baracca e burattini e spostarsi dove tutto costa meno o di assumere chi è messo peggio – con tutto l'esercito di riserva di disoccupati che c'è. Lo vada a dire a tutti i lavoratori delle piccole e medie imprese legate al turismo, alla ristorazione, ai servizi sociali e all'assistenza, che quando hanno un contratto di lavoro sono già fortunati. Lo vada a dire a tutti i lavoratori e le lavoratrici morti o infortunati gravemente perché i loro padroni devono risparmiare sui costi per garantirsi profitti competitivi.
Lavoratori e lavoratrici hanno per necessità interessi contrastanti e opposti a quelle dei loro padroni e dei loro capetti.
Lavoratori e lavoratrici non hanno bisogno di elemosine e di frasi fatte sul "non essere nemici" con chi ogni giorno li sfrutta fino all'ultima goccia di sudore e fino all'ultimo anno in cui le gambe li possono reggere in piedi.
Lavoratori e lavoratrici non hanno bisogno di nuovi imbroglioni per rendersi conto che per garantire profitti e dividendi a chi sta sopra di loro è necessario che a pagare i costi delle crisi economiche, dell'anarchia del libero mercato e della competizione tra padroni siano loro, le proprie famiglie, la propria salute e i propri diritti.
E ora non può più reggere la favola dei sacrifici comuni e dell'unità di intenti nel nome della bandiera italiana e di un nuovo interclassismo a spese della classe lavoratrice e degli oppressi.
Intanto il superministro e vice-premier, nonostante le sue pompose promesse da eterna campagna elettorale, non ha saputo dire una parola sull'omicidio del militante sindacale Soumayla Sacko, giovane ventinovenne ucciso a sangue freddo mentre cercava di recuperare lamiere per i tetti delle baracche in cui sono costretti a vivere i braccianti immigrati sotto il ricatto di 'ndrangheta, caporali, padroni e multinazionali. Non una parola sulla tragica vicenda che si consuma nel clima di odio e caccia all'immigrato alimentata tanto dalla Lega di Salvini quanto dal suo partito e da Di Maio stesso, i principali mandanti. Non una parola sulle condizioni di lavoro e di vita di migliaia di lavoratori come lui nel settore dell'agricoltura, dell'ediliza, del commercio abusivo, del caporalato sempre più diffuso anche in settori come la siderurgia e la cantieristica.
Mentre Di Maio tace, il Presidente del consiglio Conte nei suoi discorsi al parlamento continua a ripetere a pappagallo le promesse scritte sul contratto tra cui la guerra ai migranti e il rinvigorimento delle espulsioni, e Salvini continua a proferire parole di odio e di morte inneggiando a nuovi e maggiori campi di concentramento per chi deve essere espulso o è irregolare. Nella fascia nera della clandestinità, dell'assenza di diritti, del perenne ricatto delle espulsioni e delle retate delle forze dell'ordine, dei permessi di soggiorno fluttuanti, della miseria e dell'emarginazione, prendono vita proprio queste nuove forme di schiavitù in cui la vita di un lavoratore vale meno di una cassetta di pomodori o di una vecchia lamiera abbandonata. Ma il ministro dal sorrisino di bambolotto e dal tweet facile con incerto congiuntivo ha altro a cui pensare.
Alle prime prove questo governo, e il suo superministro Di Maio, farà cadere in maniera sempre più evidente la propria maschera di ennesimo comitato d'affari di padroni e banchieri, con un occhio di riguardo per i piccoli padroncini impauriti dalla globalizzazione e pronti a menare il bastone contro chi sta sotto di loro, sbraitando contro chi sta sopra.
Al governo del cambiamento bisogna contrapporre la rivendicazione del governo dei lavoratori e delle lavoratrici, il solo che possa incarnare incondizionatamente gli interessi delle classi sfruttate e oppresse.
Il solo governo che possa cambiare radicalmente e con una vera rivoluzione le regole del sistema economico e sociale, ponendo al centro le necessità e i bisogni di chi è sempre stato sfruttato, requisendo senza indennizzo tutte le leve dell'economia e della finanza, ponendole sotto il controllo della classe lavoratrice; ridistribuendo il lavoro esistente tra tutti a parità di salario e programmando un piano generale per il rilancio della produzione, della distribuzione equa delle risorse e dei beni, e della fornitura dei servizi essenziali.
Per fare questo è necessario costruire il partito rivoluzionario e comunista, con cui diffondere questa consapevolezza e organizzare la risposta attraverso un fronte unico di classe e di massa che unisca tutti coloro che da questo sistema non hanno che da perdere, e che con la rivoluzione comunista non hanno da perdere che le loro catene.
Il capo pentastellato ha concentrato nelle sue mani due ministeri chiave come quello del Lavoro e quello dello Sviluppo Economico, per compensare la propria sete di potere insoddisfatta per il mancato raggiungimento della poltrona di Presidente del consiglio.
Ci è voluto poco a far cadere la maschera di "cambiamento" delle politiche sul lavoro del movimento populista e reazionario, e già dalle sue prime parole da superministro si mettono in mostra gli ammorbidimenti rispetto alla campagna elettorale infuocata – ammorbidimento già messo in luce nei vari tentativi di dialogo falliti con le diverse forze politiche, e con i poteri forti italiani e stranieri, per ottenere il controllo del Governo prima del contratto con la Lega.
Non solo l'abolizione del Jobs Act, emblema delle politiche del PD di precarizzazione e aggressione dei diritti e delle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici, è diventata una "rivisitazione" delle politiche renziane, probabilmente con la reintroduzione dei vergognosi voucher, produttori di precarietà estrema ed escamotage di mascheramento del lavoro nero.
Non solo il reddito di cittadinanza tanto promesso, oltre a essere evidentemente insostenibile rimanendo nelle logiche di gestibilità del sistema capitalistico e di mercato, diventa sempre più un sussidio di povertà e precarizzazione, vincolando una piccola elemosina alla necessità di accettare qualsiasi lavoro venga proposto a qualsiasi condizione esso sia. In poche parole: se sei disoccupato, ancora grazie che ti permettiamo di diventare un eterno precario senza diritti e sotto ricatto perenne di perdere anche quei quattro soldi che prendiamo alla contribuzione generale.
Non solo l'abolizione della Legge Fornero si trasforma in un più gestibile ed accettabile "quota 100", dimenticando tutte le promesse sulle pensioni minime. Anche qui una proposta difficilmente applicabile, sommata alla promessa del reddito di povertà, se non si affronta il nodo della dittatura sistemica del capitale e della finanza e la sua aurea legge del profitto e della concorrenza.
Non solo di fronte alla vicenda strategica dell'Ilva, a cui son legate le vite di migliaia di lavoratori e quelle dei cittadini che ne subiscono l'inquinamento da decenni, sa rispondere con la meravigliosa ricetta, senza capo né coda, del «chiuderemo lo stabilimento di Taranto», magari regalando le tecnologie dismesse ad ArcelorMittal che così può ringraziare e delocalizzare levandosi una bella gatta da pelare, e garantendo una bella massa di disoccupati e l'impoverimento generale di un intero territorio.
Si spinge oltre Di Maio, mettendo in mostra chiaramente da che parte stia il suo schieramento e il suo comando.
Tra le prime cose che afferma, da Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, è la volontà di eliminare qualsiasi misura di controllo fiscale per piccole, medie e grandi imprese. Il tanto agognato tema delle tasse alle imprese deve essere tagliato con l'accetta semplicemente con un «lasciamo in pace gli imprenditori», carta bianca e basta con i controlli, perché d'altronde non sono problemi atavici il nero e l'evasione in un sistema incentrato proprio sulle piccole e medie imprese, le cui mancate entrate ricadono proprio sulla tassazione ai salariati e ai pensionati e colpiscono la sostenibilità di un welfare state in perenne smantellamento.
In fondo il benessere e il profitto di padroni e padroncini, inevitabilmente, porterà ad un maggior benessere anche per i lavoratori e per gli strati più deboli. Dati che vengono ovviamente confermati dagli annuali rapporti sull'aumento dei dividendi, sull'aumento dei profitti, sulla sempre maggior concentrazione di capitali, sul perenne aumento delle forbici di ricchezza tra strati sempre minori di super-ricchi e ricchi, e un enorme massa di lavoratori poveri e in fase di impoverimento. Dati dimostrati anche dai bilanci annuali di tutte le imprese e dalle riorganizzazioni lacrime e sangue, dove amministratori delegati, azionisti e padroni aumentano i loro profitti e dividendi al costo di licenziamenti, casse integrazioni, salari di solidarietà, delocalizzazioni, rinnovi contrattuali che non permettono nemmeno il recupero degli aumenti reali del costo della vita, aumenti dei ritmi a parità di salario, etc.
Il tutto, infatti, si inserisce nel corporativo, e del tutto "nuovo", concetto secondo cui «datore di lavoro e dipendente sono sullo stesso piano. Non devono essere nemici, non devono essere due realtà staccate». Lo vada a dire a tutti i lavoratori di FCA, dell'azienda di quel Marchionne a cui ha teso la mano e che ha idolatrato per i 9 miliardi di investimenti nell'auto elettrica (quando tutti i competitors dell'automotive spendono regolarmente molto di più), colpiti dalle delocalizzazioni, dai salari di solidarietà e dalle casse integrazioni, da un modello contrattuale che li priva di qualsiasi garanzia e da piani industriali che hanno dimezzato i posti di lavoro in Italia in quel settore. Lo vada a dire a tutti i lavoratori e le lavoratrici che sono regolarmente sotto ricatto nel loro posto di lavoro, perché precari o perché vengono loro imposte condizioni di lavoro prive di sicurezza e prive di dignità sotto la minaccia di chiudere baracca e burattini e spostarsi dove tutto costa meno o di assumere chi è messo peggio – con tutto l'esercito di riserva di disoccupati che c'è. Lo vada a dire a tutti i lavoratori delle piccole e medie imprese legate al turismo, alla ristorazione, ai servizi sociali e all'assistenza, che quando hanno un contratto di lavoro sono già fortunati. Lo vada a dire a tutti i lavoratori e le lavoratrici morti o infortunati gravemente perché i loro padroni devono risparmiare sui costi per garantirsi profitti competitivi.
Lavoratori e lavoratrici hanno per necessità interessi contrastanti e opposti a quelle dei loro padroni e dei loro capetti.
Lavoratori e lavoratrici non hanno bisogno di elemosine e di frasi fatte sul "non essere nemici" con chi ogni giorno li sfrutta fino all'ultima goccia di sudore e fino all'ultimo anno in cui le gambe li possono reggere in piedi.
Lavoratori e lavoratrici non hanno bisogno di nuovi imbroglioni per rendersi conto che per garantire profitti e dividendi a chi sta sopra di loro è necessario che a pagare i costi delle crisi economiche, dell'anarchia del libero mercato e della competizione tra padroni siano loro, le proprie famiglie, la propria salute e i propri diritti.
E ora non può più reggere la favola dei sacrifici comuni e dell'unità di intenti nel nome della bandiera italiana e di un nuovo interclassismo a spese della classe lavoratrice e degli oppressi.
Intanto il superministro e vice-premier, nonostante le sue pompose promesse da eterna campagna elettorale, non ha saputo dire una parola sull'omicidio del militante sindacale Soumayla Sacko, giovane ventinovenne ucciso a sangue freddo mentre cercava di recuperare lamiere per i tetti delle baracche in cui sono costretti a vivere i braccianti immigrati sotto il ricatto di 'ndrangheta, caporali, padroni e multinazionali. Non una parola sulla tragica vicenda che si consuma nel clima di odio e caccia all'immigrato alimentata tanto dalla Lega di Salvini quanto dal suo partito e da Di Maio stesso, i principali mandanti. Non una parola sulle condizioni di lavoro e di vita di migliaia di lavoratori come lui nel settore dell'agricoltura, dell'ediliza, del commercio abusivo, del caporalato sempre più diffuso anche in settori come la siderurgia e la cantieristica.
Mentre Di Maio tace, il Presidente del consiglio Conte nei suoi discorsi al parlamento continua a ripetere a pappagallo le promesse scritte sul contratto tra cui la guerra ai migranti e il rinvigorimento delle espulsioni, e Salvini continua a proferire parole di odio e di morte inneggiando a nuovi e maggiori campi di concentramento per chi deve essere espulso o è irregolare. Nella fascia nera della clandestinità, dell'assenza di diritti, del perenne ricatto delle espulsioni e delle retate delle forze dell'ordine, dei permessi di soggiorno fluttuanti, della miseria e dell'emarginazione, prendono vita proprio queste nuove forme di schiavitù in cui la vita di un lavoratore vale meno di una cassetta di pomodori o di una vecchia lamiera abbandonata. Ma il ministro dal sorrisino di bambolotto e dal tweet facile con incerto congiuntivo ha altro a cui pensare.
Alle prime prove questo governo, e il suo superministro Di Maio, farà cadere in maniera sempre più evidente la propria maschera di ennesimo comitato d'affari di padroni e banchieri, con un occhio di riguardo per i piccoli padroncini impauriti dalla globalizzazione e pronti a menare il bastone contro chi sta sotto di loro, sbraitando contro chi sta sopra.
Al governo del cambiamento bisogna contrapporre la rivendicazione del governo dei lavoratori e delle lavoratrici, il solo che possa incarnare incondizionatamente gli interessi delle classi sfruttate e oppresse.
Il solo governo che possa cambiare radicalmente e con una vera rivoluzione le regole del sistema economico e sociale, ponendo al centro le necessità e i bisogni di chi è sempre stato sfruttato, requisendo senza indennizzo tutte le leve dell'economia e della finanza, ponendole sotto il controllo della classe lavoratrice; ridistribuendo il lavoro esistente tra tutti a parità di salario e programmando un piano generale per il rilancio della produzione, della distribuzione equa delle risorse e dei beni, e della fornitura dei servizi essenziali.
Per fare questo è necessario costruire il partito rivoluzionario e comunista, con cui diffondere questa consapevolezza e organizzare la risposta attraverso un fronte unico di classe e di massa che unisca tutti coloro che da questo sistema non hanno che da perdere, e che con la rivoluzione comunista non hanno da perdere che le loro catene.