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2 Luglio 2020
Pubblichiamo un estratto dall'opuscolo L'antifascismo genovese ieri, oggi e domani, a cura della sezione di Genova del PCL. L'opuscolo è allegato in fondo a questa pagina
Tutta la storia dell'antifascismo genovese durante il fascismo e nella Resistenza inevitabilmente lasciò un segno indelebile nell’identità collettiva e politica della classe operaia e lavoratrice genovese. Questa coscienza politica radicata in anni di lotte, clandestinità, deportazioni e morti si riaccenderà con tutto il suo vigore quando Genova divenne l’epicentro di un’operazione politica del Movimento Sociale Italiano, che nel dopoguerra fu il partito in cui si riciclarono, entro la cornice “democratica”, la gran parte delle anime del Partito Nazionale Fascista e del Partito Fascista Repubblicano.
Gli antefatti sono importanti per comprendere il portato dell’operazione del MSI. Il 21 marzo il democristiano Fernando Tambroni, esponente dell’ala sinistra della DC, venne incaricato dal Presidente della Repubblica Gronchi di costituire un nuovo governo. Al momento della votazione della fiducia alla Camera, il governo, monocolore della DC, passò con i voti dei parlamentari del MSI senza i quali non avrebbe potuto avere la necessaria maggioranza.
Di fronte a questo, gli esponenti della sinistra della DC di quel Governo – Bo, Pastore e Sullo – dichiararono le loro dimissioni e, sotto le pressioni generali, anche lo stesso Tambroni li seguì. Dopo due tentativi di Amintore Fanfani di costituire un governo su maggioranze differenti, Gronchi decise di respingere le dimissioni di Tambroni, che il 29 aprile ottenne la maggioranza anche al Senato, di nuovo con i voti favorevoli dei senatori del MSI.
Questa operazione fece montare la protesta di tutti i partiti della sinistra, che accusarono Tambroni di favorire la legittimazione politica nazionale e di governo degli eredi del fascismo, considerato che già in circa 30 amministrazioni comunali – Roma compresa – le giunte democristiane si reggevano con l’appoggio anche di esponenti del MSI.
Il primo atto del MSI di fronte alle dimissioni di Tambroni, che ostacolavano e indebolivano l’operazione politica di legittimazione e di propria trasformazione in ago della bilancia degli equilibri istituzionali nazionali, fu il ritiro dell’appoggio alle giunte comunali democristiane di tutti i propri consiglieri.
Il 14 maggio 1960 il Movimento Sociale Italiano compì l’ennesima provocazione, dichiarando l’intenzione di organizzare il VI Congresso del MSI a Genova, al Teatro Margherita, in Via XX Settembre.
Da qui cominciò un’operazione, da parte del PCI e della sinistra, di propaganda e agitazione dei genovesi e dei lavoratori della città, che quindici anni prima furono i protagonisti dell’insurrezione, della liberazione e della resa dei nazisti.
Il 2 giugno Umberto Terracini, senatore e membro della ex Assemblea Costituente per il PCI, in un discorso a Lumarzo – in Val Fontanabuona – incitò alla chiamata di una riunione per organizzare una risposta alla provocazione missina.
Il 5 giugno, su L’Unità, organo del PCI, venne pubblicata una lettera-appello di un operaio che incitava ad una reazione di massa contro il congresso.
Il giorno dopo venne prodotto un manifestino in cui si definiva una “grave provocazione” il congresso fascista, su iniziativa del PSI locale, a cui aderirono il PCI, il Partito Radicale, il Partito Socialista Democratico Italiano e il Partito Repubblicano.
Il 13 giugno si unì al coro di chi condannava il congresso del MSI anche la Camera del Lavoro.
Il 15 giugno ci fu il primo corteo, indetto sulla base della richiesta del divieto ai lavori del congresso fascista. Parteciparono circa 20.000 persone, con i primi scontri tra il servizio d’ordine e alcuni manifestanti contro un gruppo di fascisti che osarono provocare la manifestazione in Via San Lorenzo, sedati poi dall’intervento in soccorso del gruppetto di fascisti dei Carabinieri.
Dopo che il 24 giugno la Questura vietò l’autorizzazione per un comizio della Camera del Lavoro e dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) con la scusa del mancato preavviso – il vero motivo fu il timore di nuovi scontri e la volontà di impedire che gli animi venissero ulteriormente fomentati – il 25 venne convocato un corteo da parte delle federazioni giovanili dei partiti della sinistra (PCI, PSI, PRI, PSDI e radicali) a cui si unirono anche i portuali. La manifestazione diede vita a ulteriori scontri, questa volta con la polizia, in Via XX Settembre.
Questa escalation di agitazione e mobilitazioni da una parte spinge una componente del MSI a fare pressioni sul governo Tambroni per aumentare l’attenzione e fornire misure di garanzia viste le minacce di disordini e di una forte conflittualità che rischiava di scatenarsi contro il VI congresso; dall’altra i fascisti minacciarono l’organizzazione di “almeno un centinaio di attivisti romani, scelti tra i più pronti a menar le mani”, e annunciarono la partecipazione al congresso sia di Junio Valerio Borghese, celebre capo della X Flottiglia Mas utilizzata nei rastrellamenti contro i partigiani, sia di Carlo Emanuele Basile, il prefetto che nell’estate del 1944 ordinò e organizzò le deportazioni dei lavoratori e delle lavoratrici in Germania e nei campi di concentramento.
Il 28 giugno ANPI e Camera del Lavoro, assieme a tutti i partiti della sinistra, convocarono un corteo contro l’ormai prossimo congresso, a cui il governo della Democrazia Cristiana aveva ormai dato piena legittimità garantendone la protezione attraverso le Forze dell’Ordine. A questo corteo parteciparono oltre 30.000 persone, e si concluse con il celebre discorso di Sandro Pertini, che venne definito “u brichettu” (il fiammifero, in genovese), perché diede l’accensione alla miccia che avrebbe fatto esplodere la bomba della rabbia della classe lavoratrice e del proletariato genovese contro la provocazione fascista protetta dalle istituzioni democristiane:
«La polizia sta cercando i sobillatori di queste manifestazioni, non abbiamo nessuna difficoltà ad indicarglieli. Sono i fucilati del Turchino, di Cravasco, della Benedicta, i torturati della casa dello studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori (…) Oggi le provocazioni fasciste sono possibili e sono protette perché in seguito al baratto di quei 24 voti, i fascisti sono nuovamente al governo, si sentono partito di governo, si sentono nuovamente sfiorati dalla gloria del potere, mentre nessuno tra i responsabili, mostra di ricordare che se non vi fosse stata la lotta di Liberazione, l’Italia, prostrata, venduta, soggetta all’invasione, patirebbe ancora oggi delle conseguenze di una guerra infame e di una sconfitta senza attenuanti, mentre fu proprio la Resistenza a recuperare al Paese una posizione dignitosa e libera tra le nazioni. (…) Noi, in questa rinnovata unità, siamo decisi a difendere la Resistenza, ad impedire che ad essa si rechi oltraggio. Questo lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei nostri morti, e per l’avvenire dei nostri vivi, lo compiremo fino in fondo, costi quello che costi».
Il 29 giugno la Camera del Lavoro indisse uno sciopero generale politico per tutta la giornata del 30 giugno esteso a tutta la provincia, per permettere ai lavoratori e alle lavoratrici di portare tutta la loro forza d’impatto nelle strade di Genova, assieme alle organizzazioni della sinistra e ai militanti politici.
Il corteo fu una mastodontica prova di forza di massa e di classe contro cui nulla potevano le misure repressive che il governo Tambroni aveva sperimentato in altri contesti cittadini: 100.000 antifascisti e antifasciste scesero nelle piazze di Genova. A nulla servì, quindi, l’invio della tristemente celebre celere di Padova, famosa per le sue tattiche antiguerriglia urbana, l’ispezione della città del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri e la sostituzione del questore di Genova con Giuseppe Lutri, noto per l’attività antipartigiana a Torino durante la dittatura fascista.
La UIL, con il suo solito operato opportunista, si oppose allo sciopero ma nulla ottenne di fronte alla coscienza di un movimento dei lavoratori in cui era ancora fervida la memoria delle lotte contro l’occupazione. La CISL non si sbilanciò, lasciando libertà di scelta ai propri iscritti, da una parte per non perdere consensi e dall’altra per non mettere in difficoltà la propria cinghia di trasmissione con la Democrazia Cristiana, di cui era espressione.
I lavoratori e le lavoratrici genovesi, inoltre, venivano da un periodo di fortissima conflittualità contro la deindustrializzazione che era in corso da circa un decennio nonostante il cosiddetto “boom economico” italiano. Celebri furono le 82 giornate di occupazione della San Giorgio e le 72 giornate di occupazione degli stabilimenti Ansaldo nel 1950; l’occupazione di 9 mesi dell’ILVA tra il 1950 e il 1951; le 120 giornate di mobilitazione del porto a cui aderirono anche i metalmeccanici, sommando 4.537.033 ore di sciopero del 1955; le mobilitazioni a cavallo tra il 1957 e il 1958 per la riduzione dell’orario di lavoro e per fermare la chiusura dell’Ansaldo Fossati e dell’Ansaldo San Giorgio; gli scioperi generali dell’estate del 1959 per la difesa dei posti di lavoro e l’enorme conflittualità espressa proprio nel periodo di giugno-luglio del 1960 da parte dei marittimi, non solo con rivendicazioni salariali ma anche con rivendicazioni legate alla libertà e alla dignità sul lavoro, contro i soprusi e le angherie degli ufficiali. Tutta la rabbia e l’organizzazione che aveva rinsaldato la coscienza di classe con le celebri mobilitazioni di quegli anni ebbe un’occasione per esprimersi politicamente e per saldare due anime del movimento operaio: quella dei metalmeccanici e dei portuali professionalizzati che avevano lottato per dimostrare che si poteva lavorare senza padrone, e quella dei ragazzi delle “magliette a righe”, una giovane generazione che si vedeva colpita dalla contrazione delle possibilità occupazionali. I 100.000 antifascisti e antifasciste in piazza quel giorno erano espressione di questa grande mobilitazione generale rilanciata su basi politiche.
Quel giorno la manifestazione vera e propria fluì senza incidenti fino a che non venne conclusa in Piazza De Ferrari, ma il fermento era molto e la rabbia dei lavoratori continuava a non spegnersi. Molti manifestanti cominciarono a intonare canti partigiani e slogan contro la polizia, ai margini della piazza, e contro i Carabinieri, schierati a difesa del Teatro dove il 2 luglio avrebbe dovuto tenersi il VI Congresso del MSI.
A quel punto la polizia e il reparto della Celere risposero alle provocazioni dei manifestanti con lacrimogeni e manganellate. Fu l’inizio della battaglia. In poco tempo gli operai ritornarono in Piazza De Ferrari, furono oltre 5000 quelli che parteciparono fin da subito agli scontri con la polizia, armandosi di tutto ciò che potevano trovare. Molte camionette vengono rovesciate, i poliziotti vengono disarmati, il comandante della Celere viene gettato dagli operai nella fontana della piazza, alcune camionette vengono incendiate e gli operai, facendosi inseguire nei “caruggi” del centro storico, attirano le forze dell’ordine in una trappola, con gli abitanti che lanciano sulle loro teste vasi, bottiglie e tutto ciò che possa provocare dei danni. Alla fine la polizia si ritirò, e solo allora ebbero effetto gli annunci e i proclami di ritorno alla calma dei vertici della CGIL e dell’ANPI. Durante gli scontri furono sparati anche dei colpi di arma da fuoco, ma solo un lavoratore risultò ufficialmente ferito da un proiettile. Il bilancio fu incredibilmente favorevole: 162 feriti tra gli agenti e solo una quarantina tra i manifestanti.
Il movimento di massa e di classe di quella giornata aveva dimostrato che nessun dispositivo di repressione può nulla di fronte alla forza della mobilitazione generale, né tantomeno servono a nulla i tentativi di controllare e imbrigliare la rabbia di classe da parte delle dirigenze moderate e riformiste, più preoccupate delle istituzioni borghesi della possibilità che i disordini possano sfociare in un moto insurrezionale canalizzando il malcontento generale.
I giorni successivi furono, infatti, emblematici. Da una parte la dirigenza del PCI si confrontava con il governo e i vertici della DC nella ricerca di un compromesso per poter depotenziare la rabbia di militanti e lavoratori, disposti a continuare la battaglia anche nei giorni successivi qualora non fosse stata ritirata la concessione allo svolgimento del congresso del 2 luglio. Alla fine le burocrazie del “grande” Partito Comunista Italiano considerarono un “giusto” compromesso che il VI congresso del MSI si potesse svolgere a Nervi anziché in centro città. La CGIL invece non accettò il compromesso, sotto la sferzante pressione della sua base, riconoscendo il rischio di perdere ulteriormente la propria credibilità di fronte ad un movimento di massa combattivo e radicale. Vennero preparati trattori per sfondare le recinzioni della polizia, molotov, e issate barricate. Alcuni ex combattenti partigiani disotterrarono anche le loro armi nascoste per prepararsi alla guerriglia urbana verso cui pareva volersi dirigere l’azione delle forze dell’ordine, che militarizzarono le zone sensibili della città in tenuta da guerra, con filo spinato e grate.
Oltre mezzo milione di lavoratori e cittadini si mobilitano per lo scontro finale, il cui esito avrebbe potuto essere realmente insurrezionale e rivoluzionario, ma ciò che mancò, come sempre, fu la volontà delle dirigenze politiche e sindacali di assecondare questa potenza. Anzi, entrambe le dirigenze giocarono tutte le loro carte diplomatiche per calmare gli animi e trovare una soluzione con le istituzioni.
Tambroni, sotto la pressione della stessa borghesia intimorita dal potenziale insurrezionale della città e del movimento antifascista genovese, che stava ottenendo solidarietà anche in altre zone d’Italia – Roma, Milano, Torino, Livorno, Ferrara – in cui si erano tenuti cortei in supporto all’azione del 30 giugno, continuò a far pressioni sulle dirigenze MSI per lo spostamento del VI congresso a Nervi, al Teatro Ambra. I dirigenti del MSI chiesero in cambio il divieto di far sfilare gli antifascisti in centro città. Alla fine di questo braccio di ferro furono i dirigenti del Movimento Sociale Italiano a rinunciare al congresso e a ritirarsi di fronte alla sproporzione delle forze e al timore di finire spazzati via da una mobilitazione che si sarebbe fatta un baffo tanto delle forze dell’ordine quanto dei “cento militanti” fascisti disposti a menar le mani.
Di fronte a ciò, immediatamente la CGIL ritirò la convocazione dello sciopero e le dirigenze del PCI esultarono per la vittoria. Il vero scopo fu uno solo: gettare acqua sul fuoco di una rabbia sociale che avrebbe sorpassato qualsiasi velleità riformista e moderata di quelle dirigenze.
Nei giorni seguenti, sull’onda dei fatti di Genova, si scatenarono proteste e manifestazioni legate all’antifascismo in tutta Italia, in cui la polizia spesso aprì il fuoco tra i manifestanti, ferendo e ammazzando, per disperdere le forze di una pericolosa onda rossa. Il governo Tambroni e l’apparato statale borghese misero in mostra tutte le loro funzioni di garanzia del sistema socio-economico, di protezione della legittimità delle organizzazioni fasciste e, soprattutto, di difesa degli interessi delle borghesie contro la minaccia di un movimento radicale che potesse spingersi verso prospettive insurrezionali e rivoluzionarie. Le dirigenze riformiste del PCI e della CGIL, invece, cercarono di direzionare quella rabbia e quel malcontento verso soluzioni interne alle logiche democratico-borghesi, accontentandosi della caduta del governo Tambroni del 19 luglio e dell’apertura della fase dei governi di centrosinistra con il coinvolgimento del PSI al fianco della Democrazia Cristiana.
I processati per le giornate di Genova furono 43, per la maggior parte lavoratori. I condannati saranno praticamente tutti, 41, con pene fino a 4 anni e 5 mesi. A parte il supporto economico fornito dall’ANPI, divennero sostanzialmente la contropartita delle dirigenze riformiste per lo “sfogo” della piazza.
Una vittoria della mobilitazione di massa e di classe, sì, ma a metà.