20 Agosto 2020 - 80 anni fa, a Coyoacán, in Messico, il 20 agosto, Ramón Mercader, sicario al soldo di Stalin, colpiva a morte con una piccozza, Lev Trotsky. Se ne andava così (per la precisione il 21, dopo un giorno di agonia), quella che possiamo definire la quinta e ultima colonna degli “imprescindibili” del marxismo, dopo Marx, Engels, Rosa Luxemburg e Lenin.
La perdita è stata così grande e rovinosa che sono palpabili ancora oggi le conseguenze, non solo nel campo d’avanguardia del marxismo militante, ma anche e soprattutto nel movimento operaio, privo com’è da troppo tempo di una guida autorevole in grado di interrompere la sequela di sconfitte cui l’hanno portato riformisti e stalinisti di tutte le razze e le sfumature.
Se a Marx dobbiamo in particolare il nocciolo dell’analisi anatomica del capitalismo, a Engels l’approfondimento del rapporto tra il materialismo dialettico e le scienze naturali, a Rosa la definitiva codificazione che separa i rivoluzionari dai riformisti, a Lenin la teorizzazione della costruzione del partito e l’analisi della fase monopolistica del capitalismo, Trotsky è fondamentale per l’analisi materialista della degenerazione stalinista dello stato sovietico. Senza Trotsky non si può capire pienamente la dinamica che va dall’ascesa di Stalin alla caduta dell’Urss e quindi al disastro attuale. Ma prima di questo, Trotsky fu il brillante teorico della rivoluzione permanente, cioè del processo che portò alla rivoluzione socialista in Russia (come ricordava Gramsci nel 1924). E poi dello sviluppo diseguale e combinato del capitalismo e dei processi rivoluzionari.
Naturalmente, come Marx, Engels, Lenin e Rosa Luxemburg furono molto altro rispetto a quanto abbiamo sinteticamente ricordato, alla stessa maniera non vogliamo sminuire i tanti meriti di Lev. Trotsky fu oratore d’eccezione, così bravo da conquistarsi giovanissimo la guida del Soviet di Pietrogrado nel “prologo” rivoluzionario del 1905; fu in grado di guidare l’Armata Rossa nel 1917 come un “Napoleone bolscevico” portandola alla vittoria contro i bianchi nella guerra civile; fu una delle migliori penne (“Penna” era appunto uno dei suoi primi soprannomi), non solo del movimento operaio, ma anche della letteratura russa, e quindi mondiale, tanto che molti, per il suo stile, lo paragonano a Tolstòj. E se, non avendo scritto romanzi e racconti, la sua scrittura non può avere quella penetrazione psicologica a tutto tondo che ha reso eterna l’opera di Tolstòj, certo la lingua di Trotsky può fregiarsi di quella precisione scientifica che la filosofia della “non violenza” di Tolstòj si è solo sognata.
Anche se non dimentichiamo affatto tutte queste cose, è lo stesso Trotsky a scrivere, nel suo diario d’esilio, che per quanto fosse stato importante durante gli anni d’oro della Rivoluzione d’Ottobre, anche senza di lui in qualche modo le cose sarebbero andate come sono andate, a condizione che Lenin fosse stato presente. Trotsky si riteneva insostituibile solo per la fase successiva. Non c’era nessuno, oltre a lui, in grado di armare una nuova generazione con le idee più taglienti e affilate del marxismo. Creò la Quarta Internazionale per questo. Perché si potesse, nel più breve tempo possibile, tornare a vincere.
Trotsky fino alla morte aggiornò il marxismo mettendolo alla prova durissima dei fatti salienti della sua epoca. Eventi come il fascismo, il nazismo e lo stalinismo erano assolute novità nel panorama politico del tempo. Non era quindi facile fare un’analisi corretta di questi fenomeni. Eppure – e non lo diciamo per piaggeria verso il nostro ultimo grande maestro, non ne abbiamo bisogno né noi né lui – esiste una e una sola analisi precisa e corretta di tutti quegli eventi: la sua, quella del marxismo di Trotsky.
Trotsky ha avuto ragione in tutti i principali snodi della Storia. Il “socialismo in un solo paese” di Stalin, tanto realista e lungimirante come una talpa, si è trasformato nel 1989-91, nel “capitalismo permanente” come preannunciato dal presunto utopista fuori dal mondo, Trotsky: «La burocrazia stalinista non è altro che il primo stadio della restaurazione borghese», così scriveva in un’appendice del suo ultimo lavoro rimasto incompiuto, lo “Stalin” appunto. E del resto lo aveva scritto già tantissime volte in tantissimi altri articoli e libri: senza una rivoluzione politica che abbattesse la burocrazia staliniana, questa prima o poi, frenando e impantanando sempre di più l’economia sovietica, si sarebbe girata da un giorno all’altro verso il capitalismo. È quello che è avvenuto, con la burocrazia sovietica passata armi e bagagli nel campo della borghesia. Trotsky lo predisse 70 anni prima, non come un veggente, ma come un materialista che sa usare come nessuno quello strumento raffinatissimo dell’analisi storico-sociale che prende il nome di “marxismo”.
Ebbe così tanta ragione che l’ebbe pure contro i suoi biografi più brillanti, come il Deutscher (e quelli che nello stesso movimento trotskista erano in accordo con lui), che ai tempi della “destalinizzazione” di Chrušcëv convertì la sua immensa presunzione alle pretese dello stalinismo: «Può essere riformato, Lev si è sbagliato!», così andava ripetendo in giro lo storico famoso per la trilogia del “profeta armato”, dimostrando solo che il metodo marxista s’intende, molto più degli storici, di storia presente, passata e soprattutto futura.
Ha avuto ragione contro i borghesi che equiparano bolscevismo e stalinismo, non sapendo spiegare (neanche provandoci) perché la logica rivoluzionaria di Lenin debba finire in quella controrivoluzionaria di Stalin. Troppo complicata la dialettica per le menti logico-formali dei borghesi. Per mettere assieme Lenin e Stalin e ridurre tutto a una dittatura e a un colpo di stato come i tanti a cui la borghesia ci ha abituato, bisogna vedere, e pure distorcendolo, solo un aspetto del bolscevismo, la violenza, chiudendo un occhio sui “dettagli” più giganteschi che la Storia abbia mai prodotto: «l’abolizione della monarchia e della nobiltà, la restituzione della terra ai contadini, l’espropriazione del capitale, l’introduzione dell’economia pianificata, l’educazione atea, ecc.» (Bolscevismo e Stalinismo, 1937).
«Lo stalinismo non è la logica evoluzione del bolscevismo, bensì la sua negazione dialettica termidoriana», non tanto perché lo ha scritto Trotsky, ma soprattutto perché questa è stata la dinamica storica effettivamente verificatasi e conclusasi nel 1989-91. Una dinamica che la cecità borghese non può vedere, tanto più che una volta messi sullo stesso piano Lenin e Stalin, non troverete storico apparentemente antistalinista e ferocemente antibolscevico, che tra Stalin e Trotsky non si schieri dalla parte del primo, sempre visto come genio e grande stratega, di contro al secondo sempre liquidato come visionario e politicamente fesso però ugualmente macabro, se non peggio: la mediocrità degli storici borghesi si riflette sempre a meraviglia nella mediocrità di Stalin.
Trotsky ha avuto ragione nella rivoluzione cinese del 1925-27, quando scrisse in presa diretta che la politica di Bucharin e Stalin, che sottomettevano il Partito Comunista Cinese al Kuomitang borghese, ripristinando di fatto la rivoluzione a tappe menscevica, avrebbe portato al suicidio, puntualmente avvenuto a Shanghai, quando operai e comunisti furono massacrati dall’Esercito Rivoluzionario Nazionale che avevano contribuito ad armare.
Molto si è discusso sugli errori di Lenin e Trotsky e dei bolscevichi che avrebbero spianato la strada a Stalin, dalla proibizione delle frazioni al X Congresso del Partito, alla repressione di Kronštadt mai messa in discussione da Trotsky, se non nella forse ineluttabile necessità, almeno nella modalità, specialmente l’inutile massacro di molti dei prigionieri a rivolta già completamente domata, alla esclusione dai soviet dei partiti socialisti a vittoria ottenuta.
Sarebbe sciocco negare che tutto questo abbia pesato nel corso dell’involuzione staliniana della Rivoluzione, ma poiché tutti questi sono fattori sostanzialmente interni e secondari, e noi con Trotsky riteniamo che il fattore decisivo sia stato all’interno lo sviluppo, in un quadro di arretratezza economica e sociale di un nuovo ceto privilegiato e all’esterno, nel quadro della lotta di classe su scala internazionale, la sostanziale non comprensione dei bolscevichi, eccetto Lenin e Trotsky e pochi altri, della teoria della rivoluzione in permanenza, cioè della rivoluzione borghese che “trascresce” in socialista senza soluzione di continuità e senza tappe. Questa tesi di Trotsky, fu compresa per il rotto della cuffia da Lenin con le famose Tesi d’Aprile del 1917, ma non fu mai assimilata nel profondo dal resto dei bolscevichi. Stalin usò scientemente i fronti popolari con la borghesia e la rivoluzione a tappe per far fallire le rivoluzioni socialiste, ma questo si può dire solo dall’ascesa di Hitler in avanti, prima non ne fu del tutto cosciente, fu più il retaggio di una concezione che i bolscevichi avevano tenuto dal febbraio del 1917 fino all’arrivo di Lenin, per poi accettarne le tesi senza esserne troppo convinti. L’incomprensione delle tesi di Trotsky sulla rivoluzione in permanenza e delle sue implicazioni a livello internazionale, pesò più di cento Kronštadt nell’involuzione politica dell’Internazionale Comunista, riflesso di quella sociale del regime sovietico stalinizzato.
Trotsky ebbe ragione quando scrisse che il fascismo era una reazione che si appoggiava sulla piccola borghesia inferocita e resa isterica dalla crisi capitalistica, ma che una volta al potere era tutto tranne che la piccola borghesia al potere. Quanto è ancora attuale questa lezione!
Ebbe ragione contro la teoria del “socialfascismo” che equiparava i riformisti socialdemocratici ai nazisti, anzi temendo più i primi e incoraggiando i secondi: «Scagliamoci contro i riformisti, lasciamo che i nazisti vadano al potere, dopo di loro toccherà a noi». Così arringava gli stalinisti il capostipite degli stalinisti, l’ottuso Stalin e il suo rappresentante in Germania Thalmann, che infatti… morì in un campo di sterminio nazista. Invano Trotsky disse di far fronte unico comune coi riformisti contro i nazisti, perché dopo i nazisti non sarebbe arrivato nessuno, tanto meno i comunisti, i primi ad essere fatti fuori dai nazisti, prima di stalinisti e riformisti subito dopo. Stalin e gli stalinisti irrisero questi avvertimenti, ma più di loro risero Hitler e la borghesia. E con loro la Storia che ride ancora adesso di una simile, strampalata teoria, forse la più cretina che sia mai circolata nel movimento operaio.
Fu di una lucidità che ha dell’incredibile per chi non comprenda la grandezza inarrivabile del marxismo, quando nel 1931, praticamente un decennio prima, scriveva: «Una vittoria del nazismo in Germania significherebbe una guerra inevitabile contro l’Urss […] Oggi nessuno dei “normali” governi parlamentari borghesi può rischiare una guerra contro l’Urss perché comporterebbe la minaccia di immense complicazioni interne. Ma se Hitler arrivasse al potere e annientasse l’avanguardia degli operai tedeschi, polverizzando e demoralizzando l’intero proletariato, il governo fascista sarà il solo in grado di ingaggiare una guerra contro l’Urss […] In questa impresa, il governo di Hitler sarebbe soltanto l’organo esecutivo del capitalismo mondiale nel suo insieme» (La chiave della situazione è in Germania - 1931). In queste poche righe la spiegazione scientifica dell’Operazione Barbarossa che per molti borghesi resta qualcosa che solo la testa di Hitler, ormai più vuota della loro, saprebbe spiegare.
Fu proprio l’ascesa di Hitler senza colpo ferire degli stalinisti (e dei socialdemocratici, pronti ad usare la violenza contro la rivoluzione proletaria, come nel 1919, ma non contro la reazione fascista) che portò Trotsky a concludere che fossero necessari nuovi partiti comunisti e un’Internazionale nuova di zecca, la Quarta appunto, perché la Terza si stava trasformando in controrivoluzionaria. Ci vollero ancora cinque anni prima che la Quarta fosse varata ufficialmente, nel 1938 col ben noto Programma di Transizione. C’è chi ha visto questa scelta come troppo in ritardo o, invece, troppo in anticipo. Quello che conta sul piano storico, è che nei brevissimi anni che provò a costruirla, Trotsky fece ancora in tempo ad avere ragione al suo interno, nelle dispute feroci che l’accompagnarono sulla natura dell’Urss.
Non è secondario alla luce del crollo dell’Urss, che le teorie che volevano l’Unione Sovietica come un “capitalismo di stato” o come il primo stadio di un “collettivismo burocratico” che avrebbe pian piano coinvolto tutto il mondo, si siano rivelate errate, di contro a quella di Trotsky che la riteneva uno “stato operaio deformato” dalla burocrazia e poi degenerato. Per Trotsky, la pianificazione sovietica differiva profondamente dalla semi-statalizzazione dei fascismi o del New-Deal di Roosevelt: primo perché la pianificazione sovietica sviluppava come mai prima di allora le forze produttive, New-Deal e fascismi le imbrigliavano; secondo nessun stato capitalistico si sarebbe mai spinto, come pensava Bruno Rizzi, principale teorico della “burocratizzazione del mondo”, alla pianificazione integrale. Quanto al "capitalismo di stato", tra le varie contraddizioni a cui una simile teoria andava incontro, Trotsky segnalava che un capitalismo in qualunque salsa si fosse presentato, avrebbe sempre avuto bisogno di una classe che lo esprimesse, e la burocrazia non era una classe; inoltre, un capitalismo, anche di stato, sempre capitalismo era, pertanto non poteva eliminare le sue caratteristiche naturali, espansione, boom, recessione e cicliche crisi di sovrapproduzione.
Il crollo dell’Urss nel 1989-91 ha messo la parola fine anche queste dispute. Crollata l’Urss, il capitalismo mondiale si è avviato verso il più grande periodo di privatizzazioni che si ricordi, l’opposto di quanto teorizzato da Rizzi; inoltre le tristi immagini dei negozi vuoti in Russia, dimostrano come la crisi che portò alla dissoluzione dell’Urss fu una crisi di penuria, l’opposto di quello che viviamo dal 2008 in avanti, da quando il capitalismo è entrato nella sua più grande crisi da sovrapproduzione. Infine non si è mai visto il crollo di un capitalismo di stato che copre mezzo mondo, che non comporti anche un avanzamento per quanto parziale della classe operaia. Il fatto che in soli 30 anni la classe operaia su scala mondiale, sembri ricacciata indietro di secoli, la dice lunga su quale teoria sulla natura dell’Urss abbia avuto ragione. In effetti, sulle macerie dello stato sovietico, dal punto di vista teorico, troneggia l’analisi di Trotsky, troneggia cioè il marxismo. La ragione di Trotsky è la dimostrazione pratica di quanto ancora sia valido e brillante come metodo.
Mentre discuteva coi “suoi” sulla natura dell’Urss, Trotsky continuò ad aver ragione quando denunciò che il Patto Hitler-Stalin era il viatico della Seconda Guerra mondiale, non solo perché fu usato da Stalin per spartirsi la Polonia e fornire l’“amico” Hitler di armi e petrolio, al contrario di quello che vuole la vulgata stalinista che vede nella firma la necessità di prendere tempo (perdendolo!), ma anche perché giunse al termine di un altro disastro senza il quale la Seconda Guerra mondiale non sarebbe manco scoppiata: la sconfitta della guerra civile in Spagna. Nel 1936, con i contadini che a differenza della Russia del 1917, non volevano la terra per sé, ma formavano già da loro comuni, Stalin riuscì nell’impresa di riconsegnarla ai borghesi con la scusa di combattere Franco. Fu il “capolavoro” dei fronti popolari e della rivoluzione a tappe oggi appeso per sempre nel museo degli orrori controrivoluzionari. Il tutto condito dai soliti massacri di operai e comunisti.
Trotsky di fronte alla provocazioni staliniste che domandavano sofisticamente ai troskisti perché mai non difendessero la repubblica borghese quando la sua vittoria era per loro un passo avanti del progresso contro la reazione, sorrideva amaro e rispondeva così: «Senza rivoluzione proletaria, la vittoria della democrazia significa soltanto un giro a vuoto, per poi sfociare esattamente nel fascismo» (È possibile la vittoria? - 1937). Quel che avvenne puntualmente, anzi Franco non ebbe nemmeno bisogno del giro a vuoto della vittoria a tappe della impossibile rivoluzione borghese. La sconfisse subito grazie agli stalinisti e ai loro alleati/avversari anarchici, repubblicani e socialisti.
Trotsky era lontano, in Messico, si scusava incredibilmente per non poter essere più preciso, quando ancora oggi nessuno è stato più preciso di lui. Criticò aspramente il Poum di Andrés Nin, il partito “trostkisteggiante” più vicino se non alle sue posizioni, almeno alla sua sensibilità. Ma quando questo partito entrò nel fronte popolare subordinato ai borghesi, non lesinò parole di fuoco che portarono alla totale rottura. La critica a Nin e ai suoi fu così spietata che pure suo figlio, Lev Sedov, scrisse in una lettera amareggiata che così scoraggiava anche coloro che tutto sommato erano dalla sua parte.
Anche in questo caso sarebbe sciocco idealizzare Trotsky e negare che nelle parole del figlio non ci fosse qualcosa di vero sui limiti del carattere del padre. Ma non si può nemmeno dimenticare che per quanto fosse stata dura e implacabile la critica di Trotsky, se Nin e i suoi l’avessero ascoltata, avrebbero certo avuto le orecchie più lunghe di dieci centimetri e più rosse per le tremende tirate del “vecchio”, ma forse avrebbero avuto anche salva la vita. E con loro il proletariato spagnolo e mondiale.
Invece 80 anni dopo questa sequela interminabile di sconfitte e di vere e proprie batoste, l’obbiettivo che già allora, a causa dello sterminio di tutta la vecchia guardia bolscevica, era qualcosa di molto difficile, pare ora ancor più lontano. La Quarta resta divisa in mille rivoli e la strada per la sua ricostruzione sembra interminabile. Oggi i trotskisti sono pochi, ma se ieri facevano così paura che gli stalinisti li sterminavano e i borghesi gli rifiutavano il diritto di asilo politico, ora ai più, (almeno in Italia, perché in altri paesi, come in Argentina, non è così) come a Matteo Pucciarelli su La Repubblica, fanno sorridere.
Noi che abbiamo più sense of humor di lui, sappiamo da dove viene questo “sorrisino” di sufficienza: dalla superficialità e dal pressappochismo borghese e piccolo borghese. Solo a questo livello, infatti, si può credere che il trotskismo sia ridotto com’è ridotto per le “baruffe chiozzotte” sulle virgole. Infatti, senza voler assolutamente negare i nostri errori e le nostre insufficienze, noi trotskisti sappiamo bene che siamo ridotti come siamo ridotti per le sconfitte ormai secolari del proletariato, intervallate da un’unica grande vittoria che ha permesso anche le poche altre vittorie sempre mutilate da stalinisti e riformisti. Senza vittorie significative del proletariato, difficilmente il trotskismo potrà crescere, anche se ha sempre avuto ragione. E in fondo quando Pucciarelli ride della nostra “insignificanza” infischiandosene delle vittorie della classe operaia, dimostra che il problema non sta nelle virgole, ma nel suo linguaggio che non va più in là della sinistra, cioè del carrozzone del centro-sinistra, il carrozzone borghese della Repubblica, il quotidiano di “cretinismo parlamentare” per cui scrive. Se come a noi, gli stessero a cuore più le sorti del proletariato che del suo ombelico, capirebbe che le cose sono molto più complesse. Non possiamo sperare di crescere e basta come sperano gli altri partiti, altrimenti saremmo delle nullità intellettuali come i loro profeti sulla carta stampata.
Le baruffe con gli stalinisti e gli altri sedicenti comunisti – non lo scriviamo per Pucciarelli che non se lo merita – ma per quelli che ancora sinceramente lo credono, non sono affatto roba del passato. Anzi, come speriamo di aver mostrato, è roba più attuale che mai. Di più: la contrapposizione tra Trotsky e Stalin è il nodo cruciale per l’avanguardia del proletariato. Le baruffe sono necessarie perché la lotta allo stalinismo e ai suoi sottoprodotti, è la lotta tra chi vuole dare davvero al proletariato la possibilità di vincere, e chi lo vuole invece eternamente sconfitto.
Noi non possiamo vincere senza il proletariato perché le armi della critica non possono sostituire la critica delle armi. Senza farsi carne e sangue nella gran massa dei proletari, le idee del marxismo non possono vincere. Ma la condizione perché prima o poi si possano riallacciare alle masse, è che abbiano ragione almeno in via teorica. Col torto marcio che hanno avuto tutte le altre idee, si possono riallacciare solo altre sconfitte. Come in effetti avviene da 90 anni a questa parte.
Trotsky con la Quarta ha potuto solo arare il terreno. In 80 anni i frutti non sono stati dei migliori, eppure la pianta era e resta buona. Nonostante gli errori, il profumo di trotskismo è stato sufficiente per i migliori elementi per non smarrire il filo del bolscevismo. La pianta quindi può rinascere forte e rigogliosa.
Il trotskismo ha avuto ragione praticamente su tutto nella Storia recente. E anche noi nel nostro piccolo, abbiamo avuto ragione, nell’ultimo capitolo importante della Storia del movimento operaio italiano, quello relativo a Rifondazione Comunista. Come scrive Andrea Furlan ne I Forchettoni Rossi (Massari Editore, 2007) che ricostruisce la storia della fine ingloriosa di Rifondazione in parlamento, i trotskisti (racchiusi allora in Progetto Comunista) «sono stati gli unici nel Prc che hanno saputo formulare un’analisi esatta del bertinottismo e gli unici che lo hanno contrastato realmente, denunciando volta a volta i reali obbiettivi politici del Segretario».
Aver avuto ragione anche in Rifondazione ci dà la forza e la voglia di continuare. 80 anni fa, poco prima di essere colpito a tradimento, Trotsky guardava fuori dalla finestra colpito dalla meravigliosa limpidezza del cielo azzurro: «La vita è bella. Possano le generazioni future a purificarla da ogni male, oppressione e violenza e a goderla a pieno». Questo scriveva nel suo testamento. E noi che siamo proprio quelle “sue generazioni future” lo raccogliamo. Oggi il cielo è azzurro come allora, solo velato dall’ulteriore imminente disastro ambientale prodotto dall’inquinamento. Mai come oggi, di fronte al capitalismo incapace di risolvere uno solo dei problemi dell'umanità, ribadiamo la nostra sacrosanta verità: o socialismo o barbarie.
Non siamo ancora riusciti, compagno Trotsky, a portare a termine il tuo stesso compito. Ma siamo felici di stare ancora nella tua stessa barca, perché non abbiamo trovato niente di più bello e affascinante del nostro marxismo. Il marxismo è più azzurro del cielo e assieme alle tue idee e al proletariato vincerà. Non avevamo dubbi allora, non abbiamo dubbi oggi.
Per Trotsky!
Per la Quarta Internazionale!
Per la Rivoluzione Mondiale!
Viva il bolscevismo!