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La sollevazione popolare in Libano

La sollevazione popolare in Libano dopo la drammatica esplosione al porto di Beirut ha costretto alle dimissioni il governo Diab. La stessa sorte toccata a suo tempo al governo Hariri, anch'esso disarcionato dalla prima ribellione di massa iniziata il 17 ottobre 2019.

Chi nutre una visione geopolitica e spesso complottistica della storia, secondo cui tutto ciò che avviene è deciso dietro le quinte da un pugno di burattinai (siano essi gli imperialismi, le multinazionali, Soros e Bill Gates...) che manovrerebbero le masse a proprio piacimento, avrà qualche difficoltà a interpretare la dinamica libanese. Perché l'intero corso politico dell'ultimo anno nel paese dei cedri ha come primo protagonista la rivolta di massa contro un intero sistema di potere, e di poteri: quello che gli imperialismi e le potenze regionali avevano architettato per i libanesi.


EREDITÀ COLONIALE E SPARTIZIONE CONFESSIONALE

La divisione confessionale dello stato libanese è in ultima analisi un'eredità coloniale. Dopo la disgregazione dell'impero ottomano seguito alla prima guerra mondiale, l'imperialismo francese e l'imperialismo inglese si spartirono le sue spoglie disegnando la geografia del Medio Oriente. Fu il trattato di Sykes Picot,
1916, rivelato e denunciato agli occhi del mondo dalla rivoluzione bolscevica. La Francia ottenne il mandato per Libano e Siria, creature artificiali del nuovo ordine stabilito con riga e compasso. La divisione confessionale del Libano fu la forma politica funzionale al suo controllo. La conquista dell'indipendenza nel 1943/'45 preservò questa eredità, dandole nuove forme. Il lungo periodo dei trent'anni gloriosi del secondo dopoguerra consentì al Libano risorse economiche sufficienti per sostenere il proprio equilibrio interno fondato sull'alleanza tra borghesia sunnita e cristiana. Ricchezza finanziaria ed estraneità alle guerre regionali sembrarono assegnare al Libano un insperato privilegio. Erano gli anni in cui il paese veniva chiamato, non a caso, la Svizzera del Medio Oriente.
Ma alla metà degli anni '70 questo equilibrio crollò. La Svizzera del Medio Oriente si trasformò in breve tempo nel paese di una spietata guerra civile confessionale, tra il fronte cristiano maronita e il fronte arabo musulmano, sostenuto dai palestinesi e dalla minoranza drusa (Jumblatt). Una guerra estenuante, che dal 1975 al 1990 trasformò il Libano in un cumulo di rovine, a partire da Beirut. L'equilibrio tra le confessioni religiose fu ristabilito solo dopo quindici anni col concorso decisivo delle potenze imperialiste, in primis USA, Francia, Italia, che dal 1982 – dopo l'aggressione sionista all'OLP e alla sua presenza libanese – investirono in Libano una propria presenza militare quale garante dello status quo.
Il sistema da allora vigente ha recuperato la vecchia spartizione delle funzioni istituzionali definita nel 1943 tra le minoranze etniche e religiose: la guida del governo ai sunniti, la presidenza della repubblica e la guida dell'esercito ai cristiano-maroniti, la presidenza del Parlamento agli sciiti. Il sistema di voto (proporzionale dal 2018) è blindato e distorto da questa spartizione corporativa, che ha retto nel tempo a prove difficili, come le guerre del Golfo, la nuova guerra libano-israeliana del 2006 e il contrasto tra USA e Iran. Persino la prima onda delle rivoluzioni arabe e la lunga guerra siriana sembrarono risparmiare gli equilibri libanesi, dove dal 2009 la nuova alleanza di governo tra una parte della comunità cristiano-maronita guidata dal generale Aoun e il “Partito di Dio” filoiraniano Hezbollah sancì una sorta di pacificazione nazionale. Con l'Arabia Saudita, nemica dell'Iran, nel ruolo di protettrice della borghesia sunnita (famiglia Hariri).


UN CAPITALISMO LIBANESE SUPERPARASSITARIO

La pace interna poggiava in realtà su basi fragili. Prima la crisi capitalistica internazionale, poi la seconda ondata delle rivoluzioni arabe hanno destrutturato il regime nelle sue fondamenta.

Il capitalismo libanese ha assunto nel lungo periodo una natura particolarmente parassitaria. Beirut ha operato per decenni come deposito di grandi investimenti immobiliari e finanziari. La ricostruzione degli anni '90 dopo la guerra civile è stato un volano di tali investimenti, provenienti dai paesi imperialisti e dalle monarchie del Golfo. Una ristretta oligarchia finanziaria – cristiana, sunnita, sciita – si è smisuratamente arricchita in un rapporto osmotico col grande capitale internazionale. Oggi il 5% della società libanese concentra nelle proprie mani il 70% della ricchezza nazionale. Lo Stato confessionale opera come intermediario e agenzia del capitale finanziario: prende a prestito dalle sessanta banche private del paese a tassi di interessi altissimi, indebitandosi a dismisura, mentre l'estrema debolezza della produzione industriale costringe il Libano a importare ogni bene di prima necessità, dagli alimenti ai medicinali, con un deficit strutturale della bilancia dei pagamenti (3,7 miliardi di esportazioni e 20 miliardi di importazioni) e un ulteriore incremento del debito pubblico. L'evasione fiscale delle grandi ricchezze e il peso della corruzione endemica hanno fatto il resto. Intanto molte banche hanno chiuso i battenti, ma solo dopo aver portato all'estero 6 miliardi di dollari, i risparmi dei cittadini libanesi. Il default dello Stato nel marzo 2020, il crollo della lira libanese, lo sviluppo di una inflazione annua del 60% sui beni primari, sono lo sbocco di questa spirale rovinosa.


“ANDATEVENE TUTTI, E TUTTI VUOL DIRE TUTTI”.
CARATTERI E DINAMICA DI UNA RIVOLUZIONE


L'ascesa di massa dell'ottobre 2019 è inseparabile da tale contesto.
L'innesco della rivolta, come spesso accade, è stato casuale: l'aumento della tassa sulle comunicazioni Whatsapp. Ma le sue radici erano e sono profonde. Da un lato, la mobilitazione ha raccolto la nuova spinta della seconda fase delle rivoluzione arabe e medio-orientali (Algeria, Iraq, Sudan), a partire dalle loro rivendicazioni democratiche. Dall'altro, si è rivolta contro l'insieme della classe dirigente libanese in tutte le sue espressioni politiche e istituzionali, quale responsabile del crollo del paese.

Il tratto caratterizzante della ribellione di massa in Libano (come del resto in Iraq) è il suo carattere aconfessionale. È la rottura dei vecchi recinti etnici, religiosi, settari che per un lungo periodo storico hanno diviso e frantumato il proletariato libanese e le classi subalterne a vantaggio della borghesia, dell'imperialismo, delle diverse potenze regionali. La parola d'ordine “non siamo né sunniti né cristiani né sciiti, siamo libanesi” è divenuta una parola d'ordine di massa, in una dinamica di movimento che ha investito il Nord sunnita e cristiano e il Sud sciita, e che per questo si è posta in rotta di collisione con i diversi partiti confessionali della borghesia. È una parola d'ordine democratica che rivendica l'eguaglianza e la laicità dello Stato contro la sua spartizione. Non è un caso che sia la giovane generazione la protagonista della ribellione. Una giovane generazione che non ha vissuto la guerra civile degli anni '70 e '80, che non è stata irregimentata dalle diverse confessioni, ma che ha vissuto sulla propria pelle la comune condizione di miseria, di disoccupazione, di privazione di futuro.

Per la stessa ragione è molto significativa la partecipazione delle donne alla rivoluzione. Il patto tra i clan confessionali, il profilo reazionario delle loro leadership, ha comportato la sistematica negazione dei diritti democratici delle donne libanesi, su ogni terreno. L'unità di governo tra reazionari maroniti e reazionari sciiti si è consumata in primo luogo contro di loro. La sollevazione anticonfessionale ha dunque trovato le donne in prima fila, a partire dalle giovanissime, con lo sviluppo di un imponente movimento femminista nazionale organizzato, a Nord e a Sud.

La pandemia ha frenato e interrotto questa mobilitazione multiforme negli ultimi mesi. L'immane tragedia dell'esplosione di Beirut, fotografia perfetta del fallimento di un regime, l'ha oggi rilanciata e radicalizzata. L'assalto ai palazzi del potere di sabato 8 agosto, l'occupazione e devastazione della sede associativa delle banche, hanno espresso la radicale volontà di rottura della gioventù libanese con la propria classe dominante. Il tentativo di quest'ultima di dirottare la crisi politica verso nuove elezioni è al momento fallito, perché privo di credibilità. Nuove elezioni con le vecchie regole sarebbero non solo un salvacondotto per i partiti dominanti ma la riproduzione del loro sistema spartitorio. “Andatevene tutti, e tutti vuol dire tutti!” è la replica di massa a questa profferta.


LA DEBOLEZZA DEL MOVIMENTO OPERAIO LIBANESE

L'esplosione di massa dell'ultimo anno ha scavalcato il movimento operaio organizzato. Il movimento operaio libanese è stato fortemente indebolito nella sua lunga storia dalla divisione confessionale del paese. I partiti confessionali hanno lavorato sistematicamente per la sua frantumazione. In particolare la Confederazione Generale dei Lavoratori Libanesi (CGTL) è stata terreno di spartizione tra i partiti dominanti. Ogni partito settario ha costruito il proprio sindacato di categoria per pesare maggiormente nella Confederazione, col risultato di dividere le forze e paralizzarne l'azione.

La Commissione di Coordinamento dei Sindacati (UCC), quale sindacato alternativo, ha svolto invece un ruolo importante nel ciclo di lotte operaie dal 2011 al 2014 attorno a rivendicazioni economiche elementari (aumenti salariali, diritti di contrattazione, rifiuto dell'austerità). Un ciclo di lotte che ha visto la crescita dei livelli di sindacalizzazione nei diversi settori: tra i portuali (baricentro storico del proletariato libanese), fra gli insegnanti (per lo più dipendenti di scuole private religiose), nel personale sanitario (in particolare fra le infermiere). Ma contro questo processo di sindacalizzazione ha lavorato l'intero fronte dei partiti dominanti, con l'obiettivo di spezzarne la dinamica e disinnescare il contagio. Nel 2015 il blocco dei partiti confessionali ha recuperato il proprio controllo sull'UCC impedendo l'elezione ai suoi vertici di una candidatura "di sinistra", Hanna Gharil. L'indebolimento di UCC ha favorito l'arretramento della classe lavoratrice e del suo livello di organizzazione proprio alla vigilia dell'esplosione rivoluzionaria e della crisi verticale del regime.

La politica del Partito Comunista Libanese, di estrazione stalinista, legato strettamente al Partito Comunista Siriano filo-assadista, è stata subalterna, al di là dei proclami, a questa dinamica generale. La partecipazione del Partito Comunista Libanese a partire dal 2008 ad un blocco politico con Hezbollah e con forze borghesi confessionali, la cosiddetta “Alleanza dell'8 marzo”, lo ha di fatto subordinato al bipolarismo dominante, privandolo di un possibile ruolo alternativo.
La debolezza del movimento operaio rappresenta a sua volta un punto debole della rivoluzione libanese.


LE MANOVRE DELLA REAZIONE E DELL'IMPERIALISMO, FRANCIA IN TESTA

La coscienza politica della ribellione è più arretrata della sua azione, come accade frequentemente nelle dinamiche di massa.
Il movimento si articola in una miriade di comitati di scopo e di associazioni ( “movimento contro il caro prezzi”, “comitato contro il pagamento del debito pubblico”, “osservatorio popolare per la lotta alla corruzione”, “comitato sui rifiuti urbani”, ecc.), ma manca di ogni centralizzazione e direzione politica unificante, mentre la disperazione sociale e letteralmente la fame allargano il proprio raggio ogni giorno di più, in un paese in cui tra quindici giorni rischia di mancare la farina e il pane, mentre la pandemia moltiplica contagi e morti. E a fronte di un sistema sanitario costosissimo, largamente privato, e in buona parte crollato, come denuncia Medici Senza Frontiere.

È in questo spazio che si sviluppano le manovre politiche per indebolire e dividere la mobilitazione. Settori di destra cristiana reazionaria legati al partito falangista dei Gemayel, ad esempio il gruppo di ex ufficiali che chiedono l'aumento delle proprie pensioni, cercano di inserirsi nella rivolta per indirizzarla unilateralmente contro Hezbollah e Amal, in una logica di richiamo della foresta della vecchia pulsione settaria. Specularmente, il Partito di Dio fa leva sulla campagna di Gemayel per recuperare consenso presso la gioventù sciita che gli è sfuggita di mano, e richiamarla all'unità confessionale.

Ma è soprattutto l'imperialismo che bussa alla porta di un Libano collassato. La Francia di Macron si offre nelle vesti di salvatrice del Libano, e addirittura della sua rivoluzione: 250 milioni di euro come primo obolo «direttamente destinato al popolo, non ai suoi governanti», recita il Presidente francese, chiedendo in cambio riforme economiche risolutrici. Quali? Ad esempio un drastico taglio delle spese sociali per rendere solvibile il Libano presso il capitale finanziario, anche francese. E chi dovrebbe realizzare queste riforme? Un nuovo governo selezionato dai creditori, sotto il loro controllo. Il plauso di alcuni settori popolari all'offerta francese riflette ad un tempo ingenuità e disperazione.
Non mancano peraltro le contraddizioni d'interesse tra gli imperialismi. La Francia, per ingraziarsi il senso comune popolare, chiede una inchiesta internazionale sull'esplosione al porto di Beirut, perché “non è possibile aver fiducia in una commissione d'inchiesta gestita dai governanti libanesi”. Ma gli USA si oppongono, perché temono che la commissione offra alla Francia un palcoscenico troppo ampio. Quanto all'Italia, il ministro degli esteri Luigi Di Maio non vuole essere emarginato dall'iniziativa francese e si affretta a dichiarare che il Libano è per l'Italia «una seconda casa» (!), e che per questo dirige la missione militare UNIFIL nel Sud Libano, una missione che proprio il 31 agosto dovrà rinnovare il proprio mandato.
Di certo la seconda ricostruzione del Libano è un boccone ghiotto per gli imperialismi. E non solo in termini economici, ma anche come postazione strategica nel rimescolamento degli equilibri generali in Medio Oriente.


PROGRAMMA DI EMERGENZA E PROSPETTIVA RIVOLUZIONARIA

Ma non sarà l'imperialismo a salvare il Libano. Il colonialismo francese è la radice storica del dramma, non può essere la sua soluzione. In ogni caso non può esserlo per la classe lavoratrice, i disoccupati, la popolazione povera del paese. Al contrario, non può esservi alcuna soluzione progressiva della crisi politica, economica, sociale, istituzionale, sanitaria senza una rottura drastica con l'imperialismo, a partire dalla cancellazione del gigantesco debito pubblico. I cosiddetti aiuti dell'imperialismo servono solo a garantire laute commesse per la ricostruzione e a pagare gli strozzini del capitale finanziario. Senza recidere la dipendenza economica dall'imperialismo, innanzitutto europeo, e dalle potenze regionali – Arabia Saudita e Iran in primis – non è possibile alcun controllo sulla ricostruzione e alcuna prospettiva di emancipazione sociale. Cancellare il debito pubblico con l'imperialismo, nazionalizzare senza indennizzo per i grandi azionisti l'intero sistema bancario, sono la prima voce di un programma di emergenza, assieme all'esproprio dei capitalisti libanesi e alla cacciata di tutti i loro partiti.

Questo programma è inseparabile dall'unificazione di un fronte di massa che raccolga tutte le domande di liberazione: le domande di emancipazione della classe lavoratrice, dell'industria, del commercio, dell'amministrazione pubblica, a partire da una scala mobile dei salari contro il carovita, un controllo popolare sui prezzi, un piano di investimenti pubblici nella sanità (che va interamente nazionalizzata), nei trasporti, nel risanamento ecologico, che offra lavoro all'enorme massa dei giovani disoccupati, mettendola al servizio della ricostruzione. Ma anche le domande e i diritti dei rifugiati siriani, spesso usati come manovalanza ricattabile e al tempo stesso bersaglio di campagne xenofobe; e del mezzo milione di palestinesi, costretti da decenni a vivere nei campi, senza servizi e senza tetto, in una condizione ignobile di degrado.

Questo programma di lotta salda le ragioni dell'emergenza libanese con la prospettiva della rivoluzione araba e medio orientale, che va ben al di là dei confini del Libano. Una prospettiva che cancelli alla radice ogni eredità coloniale, a partire dallo Stato sionista, affermi il pieno diritto di autodeterminazione del popolo palestinese e del popolo curdo, unifichi il Medio Oriente in una grande federazione di popoli liberi. Ciò che può avvenire solo su basi socialiste.
Questo programma ha bisogno di un partito rivoluzionario internazionale capace di conquistare sul campo la propria credibilità di direzione alternativa, in Libano, in Algeria, in Iraq, ovunque la rivoluzione rialzi la testa.


CON LA RIVOLUZIONE, PER UNA SUA DIREZIONE ANTICAPITALISTA

Leggeremo lo sviluppo della crisi libanese col metodo dei marxisti, che vedono i processi rivoluzionari ovunque si manifestino, nella diversità delle loro forme, dinamiche, contraddizioni; e che al tempo stesso non si affidano alla spontaneità dei movimenti, ma pongono la questione decisiva dello sviluppo della loro coscienza e direzione. È il metodo con cui abbiamo riconosciuto e sostenuto le rivoluzioni arabe, contro ogni sostegno ai regimi oppressivi cui si ribellavano (come ha fatto tanta parte del campismo di estrazione stalinista); ma senza mai subordinarci alle loro direzioni liberali, piccolo-borghesi e filoimperialiste, che le hanno portate alla disfatta in Tunisia, in Egitto, in Siria, come hanno fatto i più diversi ambienti movimentisti.

Autonomia dei comunisti in funzione della lotta per l'egemonia anticapitalista nei movimenti di massa: è la politica di Lenin e di Trotsky, dell'Internazionale comunista dei tempi migliori. È la politica che lo scenario mondiale rende ogni giorno più attuale, quale unica possibile alternativa, in Libano e ovunque.

Partito Comunista dei Lavoratori