♠ in Africa,Agenzia italiana per la cooperazione,colonialismo,Conte,Di Battista,Di Maio,Egitto,En Marche,ENI,Francia,imperialismo,Libia,M5S,Macron,made in Italy,migranti,Nigeria,Salini Impregilo,Total at 03:23
“La Francia è colonialista in Africa ed è causa della fuga dei migranti in Italia” esclamano Di Battista e di Maio, per contendere i voti a Salvini. Fratelli d'Italia plaude entusiasta, reclamando un primato nazionalista. Anche Stefano Fassina, di Patria e Costituzione, si allinea al coro contro “le politiche neocoloniali della Francia”.
Quanta sudicia ipocrisia in questa recita elettorale!
Che l'imperialismo francese difenda in Africa la propria area di influenza non c'è alcun dubbio. Che lo faccia con l'arroganza propria della vecchia potenza grandeur è altrettanto vero. Era vero anche quando Di Maio un anno fa scriveva compunto a Macron esaltando il suo successo elettorale e rivendicando una assonanza tra M5S e En Marche. Ma lasciamo perdere. Il punto è un altro: l'imperialismo italiano dove lo mettiamo?
Già, perché nella migliore tradizione nazionalista, il colonialismo è sempre quello degli altri, in particolare quello delle potenze concorrenti. Anzi, nel nome della denuncia dell'imperialismo altrui si nasconde il proprio imperialismo nazionale e le sue ambizioni di potenza. La storia italiana è emblematica. Prima il giolittismo in Libia, poi il fascismo in Etiopia giustificarono le peggiori gesta dell'imperialismo patrio nel nome della contrapposizione ai vecchi imperi coloniali e del diritto dell'Italia a un posto al sole. In forme certo molto diverse oggi si ripropone proprio quel vecchio spartito.
Di Maio e "Dibba" si diffondono nella denuncia delle pratiche di sfruttamento condotte dalla Francia contro la “sovranità” dei paesi del Sahel. Bene. Ma le pratiche di sfruttamento condotte dal capitalismo tricolore di casa nostra non sono meno ciniche e brutali. ENI è la principale azienda operante in Africa, traffica col regime assassino di al-Sisi in Egitto, si accaparra giacimenti in Nigeria a suon di mazzette, contende alla Total (guarda caso francese) il controllo del petrolio libico e dunque il controllo politico della Libia. La Salini Impregilo estende il proprio raggio d'azione in Corno D'Africa, erige dighe che affamano i contadini di Etiopia, espande i propri affari in Eritrea a braccetto col regime reazionario che la domina, sbarca in Kenya a rimorchio di ENI e delle sue tre piattaforme offshore. I grandi marchi italiani dell'industria tessile (Moncler, Tod's, Armani, Prada, Gucci, Dolce & Gabbana) sfruttano migliaia di proletari africani in condizioni di lavoro e di vita invivibili, magari attraverso aziende collegate come il caso della Sonoma in Madagascar, grande fornitrice di capi di lusso per i vari marchi del made in Italy, che paga gli operai 30 dollari al mese per 12 ore di lavoro giornaliere. Per non parlare, in Asia, dello sfruttamento delle operaie del Bangladesh, che oggi si ribellano con scioperi di massa anche a padroni italiani. Potremmo continuare a lungo.
Si dirà che tutto questo riguarda i capitalisti italiani ma non l'Italia come Stato e governo. Sbagliato. È vero l'opposto. Lo Stato e i governi italiani (tutti) si muovono proprio a supporto dei capitalisti tricolore. Se i capitalisti italiani fanno affari, contendendoli ai propri concorrenti (magari francesi) è proprio perché interviene lo Stato italiano. È nata non a caso l'Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo, che interviene con una dotazione finanziaria pubblica (soldi presi dalle tasche dei lavoratori italiani) in ventidue paesi di cui ben nove nel cuore dell'Africa (Burkina Faso, Senegal, Niger, Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Mozambico). Tra questi paesi, guarda caso, figurano le vecchie colonie italiane. In cosa consiste l'intervento italiano? Semplice. È la politica dei prestiti condizionati: si fa prestito ai governi e regimi locali perché predispongano commesse per le aziende italiane, o acquistino prodotti italiani, o concedano terreni semigratuiti a investitori italiani, o privatizzino beni e servizi a vantaggio di acquirenti italiani. Una normale politica di saccheggio. Per ingrassare i capitalisti tricolori il paese in questione si indebita e poi rincorre senza fine il pagamento del debito e i relativi interessi alla madrepatria italiana, in una dinamica di spoliazione progressiva. I flussi migratori, anche verso l'Italia, sono il prodotto, diretto o indiretto, di questa rapina. Non solo italiana, ma anche italiana. In alcuni paesi soprattutto italiana.
“L'Africa avrà il suo futuro quando la Francia se ne andrà a casa sua” esclama il Dibba. Così ci sarà posto per l'Italia: questo è il sottotraccia dello slancio anticoloniale contro la Francia. Quanto a Giuseppe Conte, è appena tornato da un viaggio in Africa presso tutti i paesi contesi alla Francia e ai suoi affari col solito codazzo di amministratori delegati e creditori. Il governo del cambiamento non ha cambiato in nulla neppure in questo.
Quanto a noi, siamo e restiamo contro gli imperialismi di tutti i colori, a partire innanzitutto dal nostro. A fianco degli sfruttati di ogni colore, contro i capitalisti di ogni bandiera.
Quanta sudicia ipocrisia in questa recita elettorale!
Che l'imperialismo francese difenda in Africa la propria area di influenza non c'è alcun dubbio. Che lo faccia con l'arroganza propria della vecchia potenza grandeur è altrettanto vero. Era vero anche quando Di Maio un anno fa scriveva compunto a Macron esaltando il suo successo elettorale e rivendicando una assonanza tra M5S e En Marche. Ma lasciamo perdere. Il punto è un altro: l'imperialismo italiano dove lo mettiamo?
Già, perché nella migliore tradizione nazionalista, il colonialismo è sempre quello degli altri, in particolare quello delle potenze concorrenti. Anzi, nel nome della denuncia dell'imperialismo altrui si nasconde il proprio imperialismo nazionale e le sue ambizioni di potenza. La storia italiana è emblematica. Prima il giolittismo in Libia, poi il fascismo in Etiopia giustificarono le peggiori gesta dell'imperialismo patrio nel nome della contrapposizione ai vecchi imperi coloniali e del diritto dell'Italia a un posto al sole. In forme certo molto diverse oggi si ripropone proprio quel vecchio spartito.
Di Maio e "Dibba" si diffondono nella denuncia delle pratiche di sfruttamento condotte dalla Francia contro la “sovranità” dei paesi del Sahel. Bene. Ma le pratiche di sfruttamento condotte dal capitalismo tricolore di casa nostra non sono meno ciniche e brutali. ENI è la principale azienda operante in Africa, traffica col regime assassino di al-Sisi in Egitto, si accaparra giacimenti in Nigeria a suon di mazzette, contende alla Total (guarda caso francese) il controllo del petrolio libico e dunque il controllo politico della Libia. La Salini Impregilo estende il proprio raggio d'azione in Corno D'Africa, erige dighe che affamano i contadini di Etiopia, espande i propri affari in Eritrea a braccetto col regime reazionario che la domina, sbarca in Kenya a rimorchio di ENI e delle sue tre piattaforme offshore. I grandi marchi italiani dell'industria tessile (Moncler, Tod's, Armani, Prada, Gucci, Dolce & Gabbana) sfruttano migliaia di proletari africani in condizioni di lavoro e di vita invivibili, magari attraverso aziende collegate come il caso della Sonoma in Madagascar, grande fornitrice di capi di lusso per i vari marchi del made in Italy, che paga gli operai 30 dollari al mese per 12 ore di lavoro giornaliere. Per non parlare, in Asia, dello sfruttamento delle operaie del Bangladesh, che oggi si ribellano con scioperi di massa anche a padroni italiani. Potremmo continuare a lungo.
Si dirà che tutto questo riguarda i capitalisti italiani ma non l'Italia come Stato e governo. Sbagliato. È vero l'opposto. Lo Stato e i governi italiani (tutti) si muovono proprio a supporto dei capitalisti tricolore. Se i capitalisti italiani fanno affari, contendendoli ai propri concorrenti (magari francesi) è proprio perché interviene lo Stato italiano. È nata non a caso l'Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo, che interviene con una dotazione finanziaria pubblica (soldi presi dalle tasche dei lavoratori italiani) in ventidue paesi di cui ben nove nel cuore dell'Africa (Burkina Faso, Senegal, Niger, Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Mozambico). Tra questi paesi, guarda caso, figurano le vecchie colonie italiane. In cosa consiste l'intervento italiano? Semplice. È la politica dei prestiti condizionati: si fa prestito ai governi e regimi locali perché predispongano commesse per le aziende italiane, o acquistino prodotti italiani, o concedano terreni semigratuiti a investitori italiani, o privatizzino beni e servizi a vantaggio di acquirenti italiani. Una normale politica di saccheggio. Per ingrassare i capitalisti tricolori il paese in questione si indebita e poi rincorre senza fine il pagamento del debito e i relativi interessi alla madrepatria italiana, in una dinamica di spoliazione progressiva. I flussi migratori, anche verso l'Italia, sono il prodotto, diretto o indiretto, di questa rapina. Non solo italiana, ma anche italiana. In alcuni paesi soprattutto italiana.
“L'Africa avrà il suo futuro quando la Francia se ne andrà a casa sua” esclama il Dibba. Così ci sarà posto per l'Italia: questo è il sottotraccia dello slancio anticoloniale contro la Francia. Quanto a Giuseppe Conte, è appena tornato da un viaggio in Africa presso tutti i paesi contesi alla Francia e ai suoi affari col solito codazzo di amministratori delegati e creditori. Il governo del cambiamento non ha cambiato in nulla neppure in questo.
Quanto a noi, siamo e restiamo contro gli imperialismi di tutti i colori, a partire innanzitutto dal nostro. A fianco degli sfruttati di ogni colore, contro i capitalisti di ogni bandiera.
21/01/2019