♠ in Adel Abdul Mahdi,al-Sistani,imperialismo,Iraq,Isis,Muqtasa al-Sadr,Partito Comunista Iracheno,repressione,rivolta popolare,rivoluzioni arabe,Saddam Hussein,sciiti,stalinismo,sunniti,URSS,Usa at 06:12
Mentre in Egitto un settore della giovane generazione rialza la testa contro il regime di al-Sisi, una rivolta popolare scuote l'Iraq, coinvolgendo Baghdad e tutte le principali città irachene, a partire dalle città operaie del sud. La repressione sanguinosa del governo ha fatto più di 100 morti ma non ha ancora piegato la rivolta. Verificheremo nelle prossime settimane la sua dinamica, se continuerà o ripiegherà, ma sicuramente è la più grande sommossa popolare in Iraq degli ultimi decenni.
LA BRUSCA SVOLTA
La rivolta popolare era stata annunciata dalle proteste sociali di Bassora un anno fa, e più in generale dalle mobilitazioni dell'estate 2018. Ma la dinamica degli ultimi cinque giorni ha avuto i caratteri di una esplosione, di una brusca svolta dello scenario iracheno. L'innesco è la protesta contro il carovita in un paese ricchissimo di petrolio ma segnato dalla miseria sociale. La repressione militare ha fatto il resto. La radicalizzazione politica contro il governo per la sua cacciata è divenuto in pochi giorni il tratto centrale della mobilitazione. «I manifestanti si dicono pronti a proseguire il movimento sino alla caduta del regime» dichiara l'inviato di Le Monde a Baghdad (6 ottobre). Giovani disoccupati e lavoratori sono i protagonisti della scena.
La coscienza politica del movimento è molto confusa, come spesso accade in un'esplosione improvvisa. Vi confluiscono elementi spuri e contraddittori, come un diffuso rifiuto dei partiti. Ma l'aspetto più interessante è il prevalere del fattore sociale sulla dinamica delle contrapposizioni religiose e settarie. E' un aspetto di possibile svolta nella situazione irachena.
La divisione confessionale tra sunniti e sciiti ha dominato per lungo tempo lo scenario del paese. Il regime nazionalista bonapartista di Saddam Hussein si appoggiava sulla minoranza sunnita contro la maggioranza sciita (e la minoranza kurda). Il rovesciamento del regime da parte dell'imperialismo con la guerra scatenata dagli USA nel 2003, e la successiva occupazione militare dell'Iraq, colpirono ed emarginarono la componente sunnita privandola di ogni leva di potere e dissolvendo le stesse strutture statali in cui era principalmente radicata, a partire dall'esercito, senza peraltro disporre di una soluzione efficace di ricambio. Nel vuoto di potere creato emerse progressivamente una leadership politica sciita, appoggiata dalla maggioranza della popolazione e fortemente ostile ai sunniti. Lo sviluppo di Al Qaida e poi dell'ISIS (proprio a partire dalla scissione della sezione irachena di Al Qaida) si inserì in questa divisione religiosa coi metodi del terrorismo stragista, nel nome del riscatto sunnita. Il regime sciita a sua volta fece leva proprio sulla contrapposizione al terrorismo “sunnita” per consolidare il proprio controllo sulle masse povere dell'Iraq, in parte appoggiandosi sull'imperialismo, in parte appoggiandosi sul regime sciita iraniano, in un equilibrio inedito e instabile.
LA FINE DELLA PAURA
C'è un passaggio importante nella recente vicenda irachena. Nel 2015-2016 quando la forza armata dell'ISIS si allargò in Siria e in Iraq sino a minacciare Baghdad, il regime iracheno in pieno disfacimento fu costretto a ricorrere alla mobilitazione straordinaria delle milizie civili sciite nel nome della difesa della “nazione irachena”. L'operazione riuscì, Baghdad fu salva, l'ISIS conobbe una progressiva rovina militare e politica, sotto la pressione congiunta dell'intervento imperialista, della resistenza kurda, della controffensiva sciita. Ma il sacrificio di vite speso nella resistenza all'ISIS fu enorme, e si sovrappose agli stenti patiti nei lunghi anni dell'occupazione militare. Quel sacrificio presentò il conto al governo. La “vittoria” celebrata dal governo contro il nemico si trasformò in un boomerang. Liberi dalla paura e dall'emergenza, milioni di giovani iracheni hanno iniziato dal 2015 a porre sul piatto le proprie rivendicazioni sociali e politiche. E proprio la maggioranza sciita è entrata progressivamente in collisione coi partiti che governavano in suo nome. Questa è stata la dinamica degli ultimi anni. L'esplosione di questi giorni ne è lo sbocco. “Né sciiti né sunniti, ma iracheni” è, non a caso, una delle parole d'ordine delle manifestazioni popolari. La popolazione povera sciita ha rotto il recinto confessionale in cui era stata costretta.
PRECIPITA LA CRISI POLITICA
Il riflesso politico di questo fatto è stato immediato.
Il governo di Adel Abdul Mahdi si è retto sinora sul sostegno parlamentare dei partiti e/o coalizioni sciite. La ribellione popolare contro il governo e la strage compiuta contro i manifestanti ha scosso questo sostegno. Muqtada al-Sadr, leader della maggiore coalizione parlamentare irachena ha sospeso il sostegno al governo chiedendo elezioni immediate. La massima autorità religiosa sciita in Iraq, al-Sistani, ha dovuto prendere formalmente le distanze dall'esecutivo chiedendogli di rispondere alle richieste del popolo. Il premier Mahdi, che inizialmente aveva scagliato la truppa contro le manifestazioni, cerca ora di offrire alle masse qualche misura simbolica di tipo “populista” per disinnescare la mobilitazione e salvarsi (il taglio del 5% degli stipendi degli alti funzionari pubblici per aiutare i disoccupati, l'aumento delle pensioni...). Ma non sarà semplice dopo il bagno di sangue.
Intanto il regime iraniano interviene in soccorso del governo iracheno accusando la rivolta di essere la longa manus degli USA e di Israele, che vorrebbero così boicottare le celebrazioni religiose sciite del martirio dell'Imam Hussein nel 680 a Kerbala, previste per il 19 ottobre. È il tentativo di ricondurre lo scontro sul terreno confessionale disinnescando la sua portata sociale, anche se qualche “comunista” campista di casa nostra asseconderà naturalmente la versione poliziesca del regime di Teheran.
IL PARTITO COMUNISTA IRACHENO, UN GRANDE PARTITO ROVINATO DALLO STALINISMO
Proprio il ruolo dei comunisti è l'elemento più problematico per molti aspetti degli avvenimenti in corso. Il Partito Comunista Iracheno (PCI) è infatti parte organica della principale coalizione parlamentare (Sairoom, “In Marcia”) su cui si è retto il governo di Adel Abdul Mahdi, lo stesso governo che ha fatto 100 morti nelle piazze.
Sairoom si è presentata alle elezioni del 2018 come coalizione tra il movimento islamico populista di Muqtada al-Sadr e il PCI, una coalizione “democratica” per riforme sociali e contro la corruzione pubblica. La coalizione si è affermata elettoralmente come forza di maggioranza relativa, raccogliendo sicuramente una diffusa domanda di svolta. Ma al-Sadr ha negoziato il proprio sostegno al governo di Mahdi, legato contraddittoriamente sia all'imperialismo che all'Iran, e il PCI si è allineato. Ora al-Sadr si smarca dal governo che ha sostenuto, e il PCI seguirà. L'elemento costante della storia irachena è la subalternità del PCI alle forze borghesi o piccolo-borghesi nazionaliste, siano esse laiche o confessionali.
Il PCI fu per lungo tempo il principale partito comunista del mondo arabo. La sua assimilazione allo stalinismo internazionale ne ha segnato la parabola storica. Il PCUS ha utilizzato il PCI come pedina delle proprie combinazioni diplomatiche e interessi di burocrazia, dettandogli le scelte più sciagurate: prima il sostegno suicida al governo repubblicano dei Liberi Ufficiali di Abd al-Karim Qasim del 1958, con la dispersione della rivolta operaia del 1959 e la conseguente repressione anticomunista che smantellò larga parte del partito; poi il nuovo patto suicida col regime baathista nel 1973, e il conseguente annientamento del PCI da parte di Saddam Hussein nel 1978. Ogni volta il PCI si è consegnato nelle mani dei suoi carnefici per compiacere il Cremlino.
Dopo il crollo dell'URSS, il PCI proseguì per forza d'inerzia la stessa politica governista cui era stato educato, al punto da entrare persino nel consiglio governativo iracheno durante l'occupazione militare imperialista. L'accordo di governo con gli islamisti di al-Sadr del 2018 è solo l'ennesimo giro di valzer della sua tradizione, dopotutto il meno impegnativo.
PER LA COSTRUZIONE DI UN PARTITO OPERAIO MARXISTA RIVOLUZIONARIO IN IRAQ
Gli avvenimenti in corso in Iraq ripropongono la lezione di fondo delle rivoluzioni arabe. Il primo ciclo delle rivoluzioni arabe del 2010-2011 in Tunisia, Egitto, Siria, si è risolto in una drammatica sconfitta per responsabilità delle loro direzioni borghesi e filoimperialiste. Tuttavia la sollevazione popolare in Algeria e Sudan, e poi i fatti dell'Iraq ci dicono che la dinamica rivoluzionaria nella regione non ha esaurito il suo corso, e nuove esplosioni possono prodursi con tutta la loro carica dirompente, ma il punto decisivo resta la questione irrisolta della loro direzione politica. In questo quadro, la costruzione di un partito operaio marxista rivoluzionario che tragga le lezioni dal drammatico fallimento del PCI e dello stalinismo e al tempo stesso recuperi il meglio dell'esperienza storica del movimento operaio dell'Iraq ci pare l'unica vera risposta di prospettiva.
LA BRUSCA SVOLTA
La rivolta popolare era stata annunciata dalle proteste sociali di Bassora un anno fa, e più in generale dalle mobilitazioni dell'estate 2018. Ma la dinamica degli ultimi cinque giorni ha avuto i caratteri di una esplosione, di una brusca svolta dello scenario iracheno. L'innesco è la protesta contro il carovita in un paese ricchissimo di petrolio ma segnato dalla miseria sociale. La repressione militare ha fatto il resto. La radicalizzazione politica contro il governo per la sua cacciata è divenuto in pochi giorni il tratto centrale della mobilitazione. «I manifestanti si dicono pronti a proseguire il movimento sino alla caduta del regime» dichiara l'inviato di Le Monde a Baghdad (6 ottobre). Giovani disoccupati e lavoratori sono i protagonisti della scena.
La coscienza politica del movimento è molto confusa, come spesso accade in un'esplosione improvvisa. Vi confluiscono elementi spuri e contraddittori, come un diffuso rifiuto dei partiti. Ma l'aspetto più interessante è il prevalere del fattore sociale sulla dinamica delle contrapposizioni religiose e settarie. E' un aspetto di possibile svolta nella situazione irachena.
La divisione confessionale tra sunniti e sciiti ha dominato per lungo tempo lo scenario del paese. Il regime nazionalista bonapartista di Saddam Hussein si appoggiava sulla minoranza sunnita contro la maggioranza sciita (e la minoranza kurda). Il rovesciamento del regime da parte dell'imperialismo con la guerra scatenata dagli USA nel 2003, e la successiva occupazione militare dell'Iraq, colpirono ed emarginarono la componente sunnita privandola di ogni leva di potere e dissolvendo le stesse strutture statali in cui era principalmente radicata, a partire dall'esercito, senza peraltro disporre di una soluzione efficace di ricambio. Nel vuoto di potere creato emerse progressivamente una leadership politica sciita, appoggiata dalla maggioranza della popolazione e fortemente ostile ai sunniti. Lo sviluppo di Al Qaida e poi dell'ISIS (proprio a partire dalla scissione della sezione irachena di Al Qaida) si inserì in questa divisione religiosa coi metodi del terrorismo stragista, nel nome del riscatto sunnita. Il regime sciita a sua volta fece leva proprio sulla contrapposizione al terrorismo “sunnita” per consolidare il proprio controllo sulle masse povere dell'Iraq, in parte appoggiandosi sull'imperialismo, in parte appoggiandosi sul regime sciita iraniano, in un equilibrio inedito e instabile.
LA FINE DELLA PAURA
C'è un passaggio importante nella recente vicenda irachena. Nel 2015-2016 quando la forza armata dell'ISIS si allargò in Siria e in Iraq sino a minacciare Baghdad, il regime iracheno in pieno disfacimento fu costretto a ricorrere alla mobilitazione straordinaria delle milizie civili sciite nel nome della difesa della “nazione irachena”. L'operazione riuscì, Baghdad fu salva, l'ISIS conobbe una progressiva rovina militare e politica, sotto la pressione congiunta dell'intervento imperialista, della resistenza kurda, della controffensiva sciita. Ma il sacrificio di vite speso nella resistenza all'ISIS fu enorme, e si sovrappose agli stenti patiti nei lunghi anni dell'occupazione militare. Quel sacrificio presentò il conto al governo. La “vittoria” celebrata dal governo contro il nemico si trasformò in un boomerang. Liberi dalla paura e dall'emergenza, milioni di giovani iracheni hanno iniziato dal 2015 a porre sul piatto le proprie rivendicazioni sociali e politiche. E proprio la maggioranza sciita è entrata progressivamente in collisione coi partiti che governavano in suo nome. Questa è stata la dinamica degli ultimi anni. L'esplosione di questi giorni ne è lo sbocco. “Né sciiti né sunniti, ma iracheni” è, non a caso, una delle parole d'ordine delle manifestazioni popolari. La popolazione povera sciita ha rotto il recinto confessionale in cui era stata costretta.
PRECIPITA LA CRISI POLITICA
Il riflesso politico di questo fatto è stato immediato.
Il governo di Adel Abdul Mahdi si è retto sinora sul sostegno parlamentare dei partiti e/o coalizioni sciite. La ribellione popolare contro il governo e la strage compiuta contro i manifestanti ha scosso questo sostegno. Muqtada al-Sadr, leader della maggiore coalizione parlamentare irachena ha sospeso il sostegno al governo chiedendo elezioni immediate. La massima autorità religiosa sciita in Iraq, al-Sistani, ha dovuto prendere formalmente le distanze dall'esecutivo chiedendogli di rispondere alle richieste del popolo. Il premier Mahdi, che inizialmente aveva scagliato la truppa contro le manifestazioni, cerca ora di offrire alle masse qualche misura simbolica di tipo “populista” per disinnescare la mobilitazione e salvarsi (il taglio del 5% degli stipendi degli alti funzionari pubblici per aiutare i disoccupati, l'aumento delle pensioni...). Ma non sarà semplice dopo il bagno di sangue.
Intanto il regime iraniano interviene in soccorso del governo iracheno accusando la rivolta di essere la longa manus degli USA e di Israele, che vorrebbero così boicottare le celebrazioni religiose sciite del martirio dell'Imam Hussein nel 680 a Kerbala, previste per il 19 ottobre. È il tentativo di ricondurre lo scontro sul terreno confessionale disinnescando la sua portata sociale, anche se qualche “comunista” campista di casa nostra asseconderà naturalmente la versione poliziesca del regime di Teheran.
IL PARTITO COMUNISTA IRACHENO, UN GRANDE PARTITO ROVINATO DALLO STALINISMO
Proprio il ruolo dei comunisti è l'elemento più problematico per molti aspetti degli avvenimenti in corso. Il Partito Comunista Iracheno (PCI) è infatti parte organica della principale coalizione parlamentare (Sairoom, “In Marcia”) su cui si è retto il governo di Adel Abdul Mahdi, lo stesso governo che ha fatto 100 morti nelle piazze.
Sairoom si è presentata alle elezioni del 2018 come coalizione tra il movimento islamico populista di Muqtada al-Sadr e il PCI, una coalizione “democratica” per riforme sociali e contro la corruzione pubblica. La coalizione si è affermata elettoralmente come forza di maggioranza relativa, raccogliendo sicuramente una diffusa domanda di svolta. Ma al-Sadr ha negoziato il proprio sostegno al governo di Mahdi, legato contraddittoriamente sia all'imperialismo che all'Iran, e il PCI si è allineato. Ora al-Sadr si smarca dal governo che ha sostenuto, e il PCI seguirà. L'elemento costante della storia irachena è la subalternità del PCI alle forze borghesi o piccolo-borghesi nazionaliste, siano esse laiche o confessionali.
Il PCI fu per lungo tempo il principale partito comunista del mondo arabo. La sua assimilazione allo stalinismo internazionale ne ha segnato la parabola storica. Il PCUS ha utilizzato il PCI come pedina delle proprie combinazioni diplomatiche e interessi di burocrazia, dettandogli le scelte più sciagurate: prima il sostegno suicida al governo repubblicano dei Liberi Ufficiali di Abd al-Karim Qasim del 1958, con la dispersione della rivolta operaia del 1959 e la conseguente repressione anticomunista che smantellò larga parte del partito; poi il nuovo patto suicida col regime baathista nel 1973, e il conseguente annientamento del PCI da parte di Saddam Hussein nel 1978. Ogni volta il PCI si è consegnato nelle mani dei suoi carnefici per compiacere il Cremlino.
Dopo il crollo dell'URSS, il PCI proseguì per forza d'inerzia la stessa politica governista cui era stato educato, al punto da entrare persino nel consiglio governativo iracheno durante l'occupazione militare imperialista. L'accordo di governo con gli islamisti di al-Sadr del 2018 è solo l'ennesimo giro di valzer della sua tradizione, dopotutto il meno impegnativo.
PER LA COSTRUZIONE DI UN PARTITO OPERAIO MARXISTA RIVOLUZIONARIO IN IRAQ
Gli avvenimenti in corso in Iraq ripropongono la lezione di fondo delle rivoluzioni arabe. Il primo ciclo delle rivoluzioni arabe del 2010-2011 in Tunisia, Egitto, Siria, si è risolto in una drammatica sconfitta per responsabilità delle loro direzioni borghesi e filoimperialiste. Tuttavia la sollevazione popolare in Algeria e Sudan, e poi i fatti dell'Iraq ci dicono che la dinamica rivoluzionaria nella regione non ha esaurito il suo corso, e nuove esplosioni possono prodursi con tutta la loro carica dirompente, ma il punto decisivo resta la questione irrisolta della loro direzione politica. In questo quadro, la costruzione di un partito operaio marxista rivoluzionario che tragga le lezioni dal drammatico fallimento del PCI e dello stalinismo e al tempo stesso recuperi il meglio dell'esperienza storica del movimento operaio dell'Iraq ci pare l'unica vera risposta di prospettiva.