Qualche settimana dopo la costituzione del nuovo governo Conte bis, Crozza ha realizzato la cena delle beffe: un Salvini solo e sotto la pioggia guarda dietro a una vetrina i protagonisti della nascita del nuovo esecutivo bere, mangiare, ridere e scherzare. Sono Conte, Grillo, Zingaretti, Berlusconi, Gentiloni, Mattarella e… Landini. Il quale ricorda a tutti di aver fatto la ola con la Camusso, ma anche che tra gli operai la Lega è ancora forte... “sembra me negli anni Novanta”. Come spesso accade, con le sue caricature Crozza riesce a cogliere l’anima di un passaggio politico.
Nella crisi estiva, infatti, la CGIL si è seduta a pieno titolo intorno a quel tavolo. Prima sospingendo la formazione di un nuovo esecutivo (anche con le dichiarazioni pubbliche di Landini, proprio nei momenti cruciali in cui la segreteria PD non era convinta della soluzione e non era convinta di Conte). Poi instradando alcuni suoi cardini programmatici, a partire dalla defiscalizzazione dei salari come strumento per aumentare i redditi.
Una linea pienamente confermata dal Direttivo CGIL, con una nuova dinamica che ha fluidificato gli schieramenti congressuali nella maggioranza. Una scelta confermata anche nei mesi successivi, nell’azione dell’organizzazione. Di fronte al rischio dei "pieni poteri" di Salvini, di fronte alla possibilità di un governo reazionario a guida leghista, la CGIL ha infatti aperto un credito senza fine nei confronti dell’esecutivo. Da una parte, in ogni settore ed a livello generale, ha incontrato maggioranza e ministri sulle più disparate questioni, cercando sia di indirizzarne gli interventi sia di legittimarsi nell’interlocuzione. Dall’altra parte, ha sospeso e bloccato ogni mobilitazione di massa, per evitare che la pressione sociale mettesse in discussione una compagine che si è rivelata molto più fragile del previsto.
In questi mesi, però, la CGIL ed il lavoro hanno raccolto poco o niente. Sul terreno dei diritti sociali e civili, non una sola norma del precedente governo Conte-Salvini è stata toccata (comprese quelle più infami, come i decreti sicurezza o gli accordi libici). Nella scuola, la maggioranza ha sconfessato le intese sul precariato sottoscritte prima dell’estate (già molto contenute, con un concorso straordinario limitato a 24 mila posti ed uno ordinario per altrettanti, oltre a percorsi abilitanti straordinari per tutti), per poi ricostruirle solo parzialmente, rivedendole continuamente con un travagliato percorso parlamentare (non ancora concluso). Nelle politiche economiche, la conferma dell’austerità europea ha tagliato sul nascere ogni logica di ripresa degli investimenti pubblici, a partire da scuola, sanità e servizi sociali (che hanno visto confermati i tagli e gli impianti neoliberisti degli scorsi anni). Nella legge di bilancio, dopo aver garantito aziende e liberi professionisti, lo spazio per l’aumento dei redditi attraverso la riduzione del cuneo fiscale si è molto ridotto, senza poter nemmeno garantire una solida spinta alla stagione di rinnovi contrattuali appena avviata. I contratti pubblici, nonostante le attese, sono stati nuovamente rimandati (ancora una volta alla fine del triennio di competenza) e sono tuttora schiacciati sull’IPCA, senza alcun recupero del lungo blocco salariale e senza nessuna fuoriuscita dalla logica gerarchica della Brunetta e della Madia. I pensionati e la previdenza sono stati semplicemente messi da parte. Sull’autonomia differenziata, dopo un primo inabissamento autunnale, la bozza Boccia sta riportando in auge il processo della differenziazione dei diritti e dei servizi universali, sotto il fragile velo dei LEP (improbabilmente definiti entro un anno e comunque soggetti alla logica neoliberista dei costi minimi) e con l’esclusione di un vero coinvolgimento parlamentare. La tragedia dell’Ilva, l’ennesima crisi di Alitalia, la vicenda Whirlpool e la ripresa di una stagione di ristrutturazioni sospinta dalla congiuntura incerta hanno evidenziato l’assenza di ogni politica industriale, la confusione programmatica e, soprattutto, l’anima padronale di questo governo.
Non solo. In questi mesi il governo Conte bis ha evidenziato tutta la sua inconsistenza. La maggioranza 5 Stelle, PD, Italia Viva (Renzi) e LeU (sinistra) non ha solo incontrato evidenti limiti di consenso nel paese (come hanno mostrato i risultati delle elezioni autunnali, a partire dall’Umbria). Si è anche avvitata nei contrasti dei suoi diversi protagonisti e persino all’interno dei diversi partiti che la compongono. Soprattutto, dalla legge di Bilancio all’Ilva, dalla gestione di scuola e dell’università (l’agenzia della ricerca, i 3 miliardi di fondi aggiuntivi, il decreto precari) al MES (il fondo di salvaguardia europeo), la maggioranza ha mostrato tutte le sue contraddizioni e tutte le sue incapacità. In un tempo sospeso, tra le incertezze di uno scontro interimperialista sempre più acuto e ripetuti segnali di una nuova precipitazione della Grande Crisi, si è rapidamente sfaldata ogni illusione sulla solidità e le prospettive di questo governo. L’argine ai "pieni poteri" di Salvini si sta sempre più rivelando l’incubatore di un’ulteriore svolta a destra a livello di massa, con un consolidamento dell’egemonia reazionaria nelle classi subalterne trascinato non solo da una Lega che rimane ben salda nel consenso popolare ma che si salda con la significativa crescita di Fratelli d’Italia.
Nonostante questo, la CGIL si è ben guardata dall'alzarsi dal tavolo. Nonostante il dibattito di settembre sull’eventuale necessità di riprendere la mobilitazione se dal governo non fosse arrivata una svolta reale (con i relativi apparenti solchi nella maggioranza), la segreteria CGIL ha tenuto il freno a mano tirato. Anzi, nel Direttivo del 19 ottobre e poi nell’Assemblea Generale della settimana scorsa (6 dicembre) ha confermato l’impostazione dei mesi precedenti: ha continuato a sottolineare la priorità della salvaguardia di questo quadro politico, per evitare ogni precipitazione elettorale e ogni rischio che la destra conquisti il governo; ha quindi continuato a dar credito all’esecutivo ed alle sue prospettive; ha evitato in ogni modo di dispiegare mobilitazioni di massa, anche dove la pentola bolliva e l’urgenza delle cose era evidente (dalla scuola all’autonomia differenziata, dai contratti pubblici all’Ilva). Solo i pensionati hanno riempito il Circo Massimo, a segnalare la loro particolare delusione. Nessun corteo nazionale è stato programmato, nessuno sciopero generale è stato indetto. Per evitare di lasciar le piazze completamente vuote, a fronte del pugno di mosche concesso dal governo, la segreteria CGIL ha lanciato tre comizi/presidi in una piccola piazza romana (Santi Apostoli), in giornate lavorative ma senza sciopero. La pantomima di una mobilitazione, senza rivendicazioni concrete, per di più in tono minore perché anche solo l’ombra di una contestazione reale potrebbe metter in discussione tutta la fragile impalcatura che sorregge il governo.
Ci si poteva limitare a questo. La conquista della CGIL da parte di Landini, con le tante aspettative che aveva sollevato in ampi strati di delegati e attivisti di una ripresa di iniziativa e di conflitto (il sindacato di strada), poteva spegnersi così, festosamente e un po’ malinconicamente, nella partecipazione alle tavolate di Conte. Subordinando gli interessi del lavoro alle priorità e gli equilibri del quadro politico, tenendo congelate le energie e le risorse dell’unica struttura di massa rimasta nel campo della sinistra sociale, sperando di guadagnar tempo e così, magari grazie alla provvidenza, evitare un ritorno al potere del fronte reazionario. Lasciando ad altri le piazze, a partire dalle provvidenziali sardine (giovani, perbene e socialmente neutre), per segnare un punto di svolta nel senso comune di massa e quindi nelle speranze elettorali della destra reazionaria. E così senza porsi il problema della composizione sociale di quelle piazze, delle sue rivendicazioni, del solco di classe che le segna, del ripiegamento e dello scompaginamento della moltitudine del lavoro.
Il saldatore della patria però difficilmente si lascia inscrivere in un ruolo a margine. È troppo grande la tentazione, nel vuoto e nella fragilità del governo, di conquistarsi un ruolo al centro della tavola, sotto i riflettori della ribalta. Così sta provando a trasformare in strategia una linea congiunturale dettata dalla rigidità del quadro politico, senza alcuna riflessione d’insieme e senza nessun dibattito nell’organizzazione. Lunedì 9 dicembre, infatti, Landini ha rilasciato una lunga intervista a La Repubblica, per rilanciare un ruolo straordinario al sindacato ed alla sua iniziativa. Molte cose colpiscono di questa intervista. In primo luogo, colpisce l’assenza quasi completa di ogni riferimento al rilancio dell’unità sindacale (solo un breve passaggio sulle piazze di questa settimana): dopo averne fatto la cifra della sua conquista della segreteria ed averla rilanciata in un’intervista di pari segno lo scorso primo maggio, nell’autunno la sua dinamica effettiva è sembrata arenarsi (al di là di quella riconquistata unità di azione che segna gli ultimi anni); oggi sembra quasi evaporare in un'intervista in cui il soggetto centrale e ripetuto è la CGIL. In secondo luogo, colpisce la rivendicazione fatua e leggera di esser oggi nelle piazze insieme a sardine e Fridays For Future: suona francamente un po’ ridicola considerando che le ultime iniziative di massa del sindacato risalgono ad un’altra stagione (il corteo romano di febbraio e lo sciopero metalmeccanico di giugno). In terzo, ma non ultimo luogo, colpisce la dichiarazione che non si vede «un intervento pubblico in sostituzione di quello privato»: compito del pubblico sarebbe solo quello di «orientare lo sviluppo» (sollecitando, indirizzando e accompagnando gli spiriti animali del mercato, mi immagino), evitando quindi ogni richiesta di un «intervento massiccio del pubblico in economia» (come esplicitamente indicava la domanda); scompare qui, mi sembra, ogni minima traccia di quell’aspirazione alla trasformazione sociale della produzione e della società attraverso l’intervento pubblico che segnava e significava l’impianto riformista della CGIL (persino il suo recente Piano del lavoro), superando quindi in una sola battuta un’intera tradizione ed un’intera prospettiva che hanno animato questo sindacato. Quello che però colpisce di più è soprattutto il fulcro della sua intervista, sin dal titolo: «Un’alleanza con governo e imprese per impedire che il paese si sbricioli» (una proposta che, non a caso, ha subito trovato l’adesione entusiasta di Conte e di Zingaretti, che ne stanno quasi facendo la pietra su cui provare a rilanciare il governo a gennaio).
La CGIL, infatti, da qualche anno aveva archiviato le politiche concertative. Certo, negli ultimi decenni questa era effettivamente stata la sua strategia di riferimento per affrontare le crisi più significative. Però con la Grande Crisi apertasi nel 2007/'08, con i due picchi recessivi del 2009 e del 2012 e la lunga stagnazione successiva, si era rivelato impossibile replicarla. I governi della crisi, tecnici e politici (Berlusconi, Monti, Letta e poi con ancora maggior nettezza quelli Renzi e Gentiloni, seguito senza particolari innovazioni su questo fronte da Conte) avevano infatti praticato politiche di disintermediazione più o meno accentuate. La gestione capitalistica della crisi, segnata dalla constatazione di Draghi del superamento del modello sociale europeo, spingeva da una parte allo smantellamento dei diritti e dei servizi universali (anche con le relative modifiche costituzionali), dall’altro ad una politica di diretto sostegno pubblico al sistema produttivo (difesa dei margini di profitto e della competitività internazionale). Si esauriva così ogni ruolo ed ogni spazio di ulteriore mediazione sociale per il governo. Il gruppo dirigente della CGIL si era quindi rassegnato a trattare direttamente e solamente con l’impresa (la continua e vana ricerca di un patto di fabbrica) e parallelamente a intervenire direttamente sulle politiche del governo: da una parte con la presentazione del Piano del lavoro e la richiesta di una politica di massicci investimenti pubblici (con un nuovo protagonismo dello Stato nell’economia e nello sviluppo industriale), dall’altra con specifiche iniziative di proposta e intervento a livello politico-parlamentare (dalla "carta dei diritti" ai referendum).
La concertazione, in realtà, non aveva mai funzionato nel nostro paese. Il modello viene dal nord Europa (vedi la seconda delle Sette note sul salario globale: 1992/2017): definiva (nel quadro neocorporativo di trattative trilaterali tra sindacati, governo e padronato) uno scambio per cui l’autolimitazione nelle rivendicazioni stipendiali (allora per contenere l’inflazione) era compensata da welfare e investimenti pubblici. In pratica, i sindacati scambiavano una quota potenziale di salario diretto in cambio di salario sociale (con convenienza, of course, del padronato). Quel modello fu però sviluppato in una fase espansiva: già negli anni '70, con il cambio del ciclo, collassò con lo sviluppo progressivo di politiche neoliberiste anche in quei paesi (Svezia, Danimarca, Norvegia, ecc). La particolarità italiana è che questa strategia di regolazione sociale è stata introdotta non per gestire l’espansione, ma le crisi.
Due sono i punti di riferimento che hanno segnato la storia del sindacato. Il primo è la “svolta dell’Eur” (febbraio 1978), quando CGIL CISL UIL definirono una linea imperniata sui sacrifici (accettazione dei licenziamenti e delle ristrutturazioni) come contropartita di un programma di investimenti per il rilancio dell’industria (una svolta in realtà contrastata dal lungo '69, a partire dai rinnovi contrattuali di quella stagione e dallo sciopero FLM del 1979 che portò alla caduta del governo di unità nazionale, ma che alla fine si impose dopo i 35 giorni della FIAT con il cosiddetto “lodo Scotti” del 1983). Il secondo è “la concertazione” (1992/'93), quando CGIL CISL e UIL accettarono prima lo smantellamento della scala mobile e poi un modello contrattuale a due livelli, imperniato sulla moderazione salariale, in cambio di una promessa di investimenti per la ricerca, la formazione e una nuova politica industriale (un percorso in realtà molto contrastato da lavoratori e lavoratrici, che inaspettatamente ripresero le piazze anche con forme radicali e autorganizzate di lotta, prima nel cosiddetto autunno dei bulloni nel 1992 e poi nell’autunno del 1994 per difendere le pensioni, ma che alla fine si impose nei rinnovi contrattuali successivi e con la riforma Dini, fatta passare con un referendum che sollevò polemiche, in cui nei metalmeccanici prevalse il "no" ed il "sì" si limitò complessivamente al 65%).
Entrambe quelle esperienze segnarono un netto peggioramento dei salari e delle condizioni di lavoro. In una stagione di crisi, infatti, vennero assunti dal sindacato non solo gli obbiettivi di riduzione dell’inflazione, ma anche quelli padronali di riconquista dei margini di profitto (neocorporativismo all’italiana). Così la pratica concertativa non si limitava ad una semplice politica di moderazione degli stipendi (la cosiddetta “politica dei redditi”), ma diventava un vero e proprio contenimento anche del salario sociale (in contraddizione con lo stesso impianto neocorporativo), in cambio della promessa di un “secondo tempo” di investimenti che non si vide mai. Negli anni Ottanta la politica di sacrifici in cambio di investimenti pubblici si trasformò in una di sacrifici e basta, negli anni Novanta la concertazione si trasformò in blocco dei salari, privatizzazioni e precarizzazione diffusa, che permisero il trasferimento al capitale di oltre 10 punti di ricchezza del paese.
Oggi Landini tira fuori dall’armadio questo abito vecchio, lo spazzola un po’ e lo ripresenta come nuovo. Non è però un vestito che si adatta a questa stagione. Il problema infatti non sono solo i limiti ed i risultati storici di questa strategia. Il problema è che l’archiviazione delle politiche concertative da parte della CGIL non è stata determinata solo dall’assenza, o dalla debolezza, degli amici del sindacato nelle compagini governative. È stata soprattutto determinata da una gestione capitalistica della crisi che comprime gli spazi di un ruolo sociale dello Stato e quindi di una politica espansiva di stampo keynesiano. Il governo Conte bis non ha nessuna possibilità di recuperare oggi questi spazi. Perché la dinamica della crisi non è stata superata (anzi, proprio in questa stagione si sta incubando una sua prossima nuova precipitazione) e anzi spinge ancora prepotentemente sulla compressione del salario globale. Perché non ne ha nessuna intenzione: questa compagine di governo è nata proprio sotto l’egida della conferma dei vincoli e delle politiche neoliberiste di gestione della crisi imposte dall’Europa e conseguentemente non ha nessun impulso a superarle.
La nuova concertazione di Landini, allora, tratteggia un pauroso arretramento di classe ed un’ulteriore trasformazione del sindacato confederale. In una stagione in cui lo Stato rinuncia al suo ruolo di mediazione (fine del modello sociale europeo) per svolgere una funzione di supporto diretto al sistema produttivo (piegando tutte le sue infrastrutture al servizio delle imprese e del loro capitale umano), l’assunzione di una strategia concertativa da parte del sindacato lo spinge ad assumere un ruolo di organizzatore della forza lavoro più che di rappresentanza di lavoratori e lavoratrici (cancellando ogni autonomia del lavoro dal capitale). È una spinta in azione da tempo e che si è rafforzata proprio nell’ultimo decennio di crisi, con la moltiplicazione delle funzioni e delle strutture sussidiarie alla produzione (dagli enti bilaterali al welfare aziendale). L’assunzione oggi di una strategia concertativa rischia però di farne la cifra dominante del sindacalismo confederale.
Lo si vede nelle rivendicazioni congiunturali e nelle argomentazioni che oggi sostengono questa proposta di alleanza con governo e imprese. Nella linea di questi mesi, la CGIL si è focalizzata soprattutto su due rivendicazioni: lo sblocco delle grandi opere (come strumento immediato di crescita della domanda aggregata in funzione anticrisi) e la defiscalizzazione dei salari (per aumentare i redditi del lavoro). Sono due proposte congiunturali che si fanno carico della compatibilità e degli interessi delle imprese, subordinando ad essi quelli del lavoro. Le grandi opere (a fronte della crisi radicale delle grandi imprese di costruzione), non la priorità agli investimenti pubblici su scuola, sanità e servizi sociali. La defiscalizzazione per aumentare i redditi (a spese del bilancio dello Stato), non aumenti salariali diretti nei rinnovi contrattuali. Addirittura, pur di non uscire dal solco di questa logica, si sospingono politiche fiscali regressive (che favoriscono i redditi maggiori) come la defiscalizzazione degli aumenti salariali.
Nell’intervista su Repubblica l’alleanza tra governo, imprese e sindacati viene finalizzata ad orientare lo sviluppo industriale. Come? Con un protagonismo statale indiretto (Cassa Depositi e Prestiti), con un ruolo delle fondazioni bancarie e anche … dei fondi integrativi pensionistici (certo, con le opportune garanzie). E si propone anche una diretta compartecipazione del lavoro alla gestione dell’impresa: «cogestione? Non mi interessano formule», serve la «contrattazione preventiva» e la «partecipazione alle scelte» dei lavoratori e delle lavoratrici. Quello che colpisce, in questa intervista, è la leggerezza con cui vengono sdoganati concetti e prospettive sinora estranee alla CGIL, travolgendo ogni confine di classe attraverso il coinvolgimento diretto del salario differito nella gestione del capitale (fondi pensionistici come strumento di intervento nelle grandi crisi aziendali del paese), come del lavoro nella gestione delle imprese (la partecipazione alle scelte aziendali, a partire dall’innovazione tecnologica, non la contrattazione dell’organizzazione del lavoro partendo da interessi contrapposti).
Le interviste di Landini, in questa stagione, spesso alludono a possibili prospettive senza praticarle concretamente. Come sull’unità sindacale. Però, come sull’unità sindacale, queste parole e queste allusioni non sono senza conseguenze. Perché tracciano percorsi ed immaginari che penetrano nell’organizzazione, nella classe e nel senso comune. Tanto più se a tracciarli è una figura iconica come quella di Maurizio Landini, il saldatore della patria, che all’inizio di questa stagione di Grande Crisi ha rappresentato proprio la tenuta del lavoro contro l’assoluta centralità dell’impresa (la resistenza a Marchionne tra il 2010 ed il 2012).
Alzarsi dal tavolo è allora sempre più una necessità. In questa lunga cena delle beffe, infatti, non rischia solo di perdersi questa o quella rivendicazione, questo o quello tra gli interessi del lavoro. La CGIL rischia di smarrire le ragioni di fondo della sua parte sociale, contribuendo in prima persona a quello sfaldamento progressivo che sta attraversando la coscienza di classe e quindi paradossalmente favorendo in questo modo il consolidamento di quell’egemonia reazionaria che sta scavando proprio nelle classi subalterne. Diventa allora prioritario rompere quella cappa che preme sull’iniziativa sindacale, abbandonare quel tavolo ora, subito, prima che sia troppo tardi.
Come una puntina nel posto sbagliato, piccoli ma fastidiosi, il nostro compito è oggi quello di spingere in quella direzione.