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«Dio arriva gratis» dice Francesco. La chiesa sicuramente no

25 DICEMBRE 2019 - «In un mondo in cui tutto passa per il dare e l'avere, Dio arriva gratis» ha esclamato compunto Papa Francesco nella sua omelia natalizia. La stampa liberale e laica omaggia commossa le parole del Pontefice.

E tuttavia c'è qualcosa che non torna in tanta elegia. Perché nel mondo del “dare e avere”, il Vaticano non è secondo a nessuno. In particolare nell'avere. È la più grande potenza immobiliare del pianeta, controlla i pacchetti azionari di enormi proprietà finanziarie, in fatto di banche e assicurazioni, partecipando alle loro attività di speculazione e di rapina, ed è assistito dalle finanze pubbliche più di ogni altra azienda capitalista. Basti pensare all'Italia, dove sulla scia del Concordato di Mussolini del 1929, difeso da Togliatti nel 1948 (articolo 7 della Costituzione) e rinnovato da Craxi nel 1984, la Chiesa incassa ogni anno complessivamente 6 miliardi di risorse pubbliche, sommando privilegi fiscali (che persino la UE formalmente contesta), elargizioni locali, costi di ristrutturazione dell'edilizia del clero, finanziamento pubblico di scuole e cliniche private, finanziamento pubblico dell'insegnamento confessionale e della presenza dei cappellani militari... Una vera zavorra per l'erario pubblico, pagata prevalentemente da lavoratori, lavoratrici, pensionati, sulle cui spalle poggia come è noto l'80% del carico fiscale. Dov'è in tutto questo la francescana misericordia?

Certo, in cambio dell'avere c'è anche il dare. La Chiesa dà alla conservazione della società borghese ciò che nessun altro può dare: la benedizione dell'altare. È una benedizione che può assumere di volta in volta toni diversi: i toni dell'anticomunismo più reazionario e militante, ma anche i toni del solidarismo caritatevole, della passione per “gli ultimi”, dell'eterno lamento per le ingiustizie del mondo, delle migrazioni, delle guerre. La carità non modifica la gerarchia sociale, la presuppone. Compensa e maschera con la generosità recitata dell'atto la conservazione del mondo qual è. Non cambia di una virgola la sua miseria reale, semplicemente la sublima nel nome di Dio, e la riscatta nella promessa dell'aldilà. Basta che nell'aldiquà non ci si metta in testa che è necessaria una rivoluzione.

Papa Francesco è il manifesto antropologico di questa predicazione. Mentre la gerarchia vaticana si lacera al proprio interno in una feroce guerra per bande, su uno sfondo di corruzione, speculazioni immobiliari, violenze inenarrabili contro minori e non solo (pedofilia), il monarca assoluto dello Stato vaticano si erge a difensore di una Chiesa immaginaria in un rapporto diretto con la massa dei fedeli e al di sopra della gerarchia. Una sorta di peronismo clericale in chiave apparentemente “progressista”, in realtà profondamente conservatrice. Conservatrice della Chiesa e della sua base materiale, inseparabile dai suoi peccati.

Solo la Comune di Parigi e la rivoluzione bolscevica chiamarono in causa la base capitalistica della Chiesa, spogliarono il clero dei suoi privilegi, consegnarono la religione alla libertà della fede, continuando peraltro a contrastare sul piano culturale le sue assurdità metafisiche. Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici può offrire un “Dio gratis” a chi vorrà liberamente crederci. Il resto è truffa, e costa cara.
Partito Comunista dei Lavoratori

Francia: i ferrovieri votano la continuità dello sciopero

Dopo 18 giorni di sciopero a oltranza contro "la legge Fornero di Macron", i ferrovieri francesi non mollano.

Il governo cerca di montare l'opinione pubblica contro lo sciopero usando il ricatto del Natale e combinandola con qualche piccola concessione. La burocrazia del secondo sindacato dei ferrovieri francesi (UNSA Ferroviaire) usa queste concessioni come pretesto per sfilarsi dal fronte dello sciopero e dichiarare la “tregua natalizia”. La moderata CFDT, che solo il 14 dicembre era scesa in sciopero contro l'aumento dell'età pensionabile da 62 a 64 anni, si è affrettata ad “apprezzare il nuovo gesto di dialogo che viene dal governo”, lanciando un messaggio implicito di smobilitazione. Infine, il fronte intersindacale (CGT, FO, Solidaires, FSU, UNEF...) che dirige lo sciopero e rivendica, a differenza della CFDT, il ritiro del progetto di legge governativo, annuncia una giornata di manifestazioni... per il 9 gennaio. Un annuncio che formalmente non smobilita, ma suona ambiguo sulla continuità dello sciopero nel momento più delicato e difficile per la sua tenuta.

Di fronte a questa congiunzione di fattori, il 21 dicembre la stampa borghese di Parigi si è affrettata a dare la buona novella natalizia dello sfarinamento dell'agitazione. “Il governo riesce a rompere il fronte dello sciopero” annunciava il (pur prudente) Le Monde in prima pagina.
Ma i conti non si fanno senza l'oste. Le assemblee dei lavoratori in sciopero hanno respinto le ingiunzioni del governo e i segnali di smobilitazione delle burocrazie. Di primo mattino alla Gare de Lyon, all'assemblea generale della stazione di Saint-Lazare, alla Gare de l'Est e alla Gare d'Austerlitz, il pronunciamento operaio è uno solo: lo sciopero continua sino al ritiro del progetto di legge. La larghissima maggioranza delle assemblee in tutta la Francia segue a ruota. I delegati di base dei CGT e Solidaires sono la punta trainante del pronunciamento. Ma la stessa CFDT-ferrovieri è costretta a dichiarare la continuità del blocco, e persino il 50% delle sezioni dell'UNSA si ribellano ai propri dirigenti nazionali: “Non capisco la strategia del gruppo dirigente del mio sindacato... Non si spezza una lotta nel momento decisivo” dichiara in assemblea un delegato UNSA della Gare Paris Est. Il risultato è che la Francia resta bloccata. Anche a Natale, nonostante il Natale.


Seguiremo come sempre, giorno per giorno, la dinamica dello sciopero francese. Certo, pesa sulla prospettiva l'ipoteca della burocrazia sindacale. Sia di quella che sogna un accordo separato col governo in cambio di una onorevole foglia di fico (CFDT), sia di quella sicuramente più combattiva che vuole sopravvivere al macronismo costringendo il governo a riconoscere la sua forza di burocrazia (CGT). Ma i fatti dimostrano che la burocrazia non ha ad oggi il pieno controllo delle assemblee, dove una nuova generazione di delegati operai si è fatta le ossa nelle lotte di questi anni (come nella lotta contro la legge El Khomri), ha accumulato una esperienza preziosa, non ha alcuna voglia di arrendersi. Anzi, ha voglia di vincere. Gli insegnanti hanno aderito in massa allo sciopero al fianco dei ferrovieri, e nonostante le scuole siano in vacanza natalizia, manifestano la continuità della propria lotta partecipando spesso ai picchetti degli cheminots e alle loro assemblee, mentre continua lo sciopero a oltranza della metropolitana, e la mobilitazione radicale degli infermieri, che in realtà aveva anticipato quella dei ferrovieri. Si estenderà la lotta al settore privato, innanzitutto alle fabbriche? Questo è l'interrogativo sospeso che può decidere della piega degli avvenimenti. È ciò che terrorizza la borghesia francese. Ma anche la burocrazia sindacale.

Ai lavoratori francesi, e ai militanti marxisti rivoluzionari, impegnati in prima fila per la generalizzazione della lotta, va tutto il nostro sostegno internazionalista.
Partito Comunista dei Lavoratori

Colpo gobbo al Senato: inammissibile la vendita della canapa light

Ovvero, quando i neuroni vagano nel nulla

20 Dicembre 2019
Se la situazione non fosse drammatica verrebbe quasi da ridere per la stupidità bipartisan di questa vicenda, anche se del grottesco si può ridere e piangere ugualmente, cioè sghignazzare con le lacrime agli occhi. Lunedì scorso, ricorrendo a un marchingegno tecno-burocratico, la Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati è riuscita a espellere dalla legge finanziaria la controversa norma sulla commercializzazione della cannabis light, con principio attivo THC inferiore allo 0,5%. Il sub-emendamento, contestatissimo dall’opposizione, già approvato in commissione bilancio al Senato, non passa perché inammissibile. Esulta la destra, esultano i bigotti forcaioli e i fascisti; se ne dolgono gli agricoltori, che hanno investito nella coltivazione, e i commercianti della cannabis per scopi terapeutici. I primi gridano felici: “Lo Stato non si è fatto spacciatore”; i secondi dichiarano basiti che questo impedirà lo sviluppo di un mercato in rapida espansione, e quindi la creazione di migliaia di posti di lavoro.

Come al solito, da ormai troppi anni, la questione della “droga” si esprime nell’ambito legislativo e nel dibattito pubblico, piuttosto striminzito, con due concezioni: quella demagogica della destra, che cerca consensi nel nebuloso mondo dell’ignoranza, e quella democratico-liberale, che vorrebbe sviluppare un business tanto promettente. Ma entrambe sostengono il proibizionismo, che è il modo migliore per consentire la crescita dei profitti della malavita organizzata. Infatti in particolare la ‘ndrangheta ha esteso la sua influenza nella politica e nell’economia proprio con il capitale realizzato col mercato clandestino degli stupefacenti. Come documentato da una ricerca recente, pubblicata sul quotidiano La Repubblica, il mercato illegale risulta in forte crescita, specialmente quello delle sostanze sintetiche, le più dannose per la salute. Quindi, anche se la norma sulla canapa light fosse stata approvata, non avrebbe minimamente cambiato la situazione drammatica del mercato clandestino, con relativi episodi di sangue e migliaia di consumatori, magari occasionali, perseguiti penalmente per il possesso di pochi grammi di cannabis.

Il fallimento del proibizionismo è sotto gli occhi di tutti, verità conclamata e ignorata per convenienza politica, ma nelle istituzioni gli eletti si “scannano” – solo a parole, si intende – per una questione che riguarda pochi imprenditori furbetti (che hanno subodorato l’affare, investendo senza nemmeno documentarsi) e non considerano il problema di milioni di persone. Certo è, comunque, che la coltivazione della canapa per l’industria sarebbe un ottimo sostitutivo delle plastiche, con la produzione di numerosissime tipologie di oggetti di uso comune: cordami, tessuti, contenitori, abbigliamento, eccetera, ma fino a che questo magnifico prodotto della natura verrà criminalizzato sarà difficile il decollo di un ramo importante della produzione ecologica.
Insomma, fatte salve poche eccezioni, i bigotti fascistoidi-clericali e i democratici pusillanimi seguaci della green economy si rendono complici, più o meno consapevolmente, non solo delle mafie ma anche delle industrie chimiche – plastificatrici – del pianeta e dei vampiri delle multinazionali dei farmaci.
In quanto alla canapa light, anche lì i neuroni non passano, perché è come vendere acqua colorata al posto del vino, ma al prezzo di un grande vino di annata. Siamo vicini alla truffa commerciale, come in altri ambiti del resto, ma qui la gravità è maggiore per la vastità delle implicazioni sociali ed economiche.

Il delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), in realtà, è il componente più conosciuto della cannabis: fa parte della più ampia classe dei cannabinoidi ed è causa dell’euforia comunemente associata alla cannabis, ma è anche responsabile di molti degli effetti terapeutici della cannabis stessa. Il THC agisce principalmente sui recettori presenti nel cervello, ed è il motivo per cui ha tali forti proprietà psicoattive. Possiede numerose proprietà medicinali che sono utili in una vasta gamma di disturbi, alcuni dei quali comprendono: il morbo di Alzheimer, l’aterosclerosi, il glaucoma, la sclerosi multipla, il morbo di Parkinson, l’apnea del sonno, la sindrome di Tourette, il cancro (in varie forme) e molti altri. Il THC ha anche proprietà antiemetiche (anti-nausea) che lo rendono utile per il trattamento di AIDS e per pazienti in chemioterapia.
Vari studi su animali hanno dimostrato che è notevolmente atossico. Non un singolo caso di morte umana per overdose THC è mai stato documentato. Il THC ha anche dimostrato di avere una serie di effetti positivi sulle cellule cerebrali: può favorire la crescita di nuove cellule cerebrali attraverso un processo noto come neurogenesi. Se la maggior parte delle droghe ricreative sono neurotossiche, il THC è considerato un neuroprotettore; significa che può proteggere le cellule cerebrali dai danni causati, ad esempio, da infiammazione e stress ossidativo. In quanto all’altra sostanza importante contenuta nella canapa, il CBD (cannabidiolo), che non essendo psicoattivo era consentito nella normativa bocciata in Senato, è un anticonvulsivante, ansiolitico, antiemetico e utile per il trattamento delle psicosi e dell’epilessia; tutte proprietà virtuose, ma che si trovano in altri prodotti erboristici da decenni in commercio. Insomma, senza il THC, le proprietà terapeutiche della cannabis si riducono, in qualità, quantità e concentrazione, tanto da renderla un prodotto simile ad altri. Questo è ciò che sappiamo allo stato attuale della ricerca scientifica.

In conclusione, a prescindere dalle scoperte future sulle proprietà della canapa (in particolare sul CBD), è necessario che la questione della “droga”, come emergenza sociale, torni a far parte del programma e del dibattito delle sinistre di opposizione, senza indulgere a moralismi o affermazioni di principio come è stato in passato, ma ricorrendo all’analisi della realtà. ”Giusto o sbagliato non può essere reato!” si diceva una volta nei movimenti antiproibizionisti, ma ora si può affermare che sia più giusto di allora: la rivendicazione dell’abolizione di queste leggi, nemiche del buon senso e della ragione, non è solo una questione di diritti civili, libertà individuali e giustizia sociale, ma una necessità ecologica e politicamente importante. Che chiarisce, cioè, l’identità pubblica dei comunisti e degli anticapitalisti in generale, distinguendoli dagli stalinisti bigotti e settari e dai movimenti dei falsi progressisti borghesi e piccolo-borghesi. Dunque: legalizzazione della canapa e dei suoi derivati; distribuzione gratuita e regolata degli altri generi di stupefacenti, tramite strutture di proprietà pubblica e sotto il controllo degli utenti e delle loro famiglie. Una prospettiva che deve tornare attuale.
Stefano Falai

Dopo la strage, il golpe

Dicembre 1970, quando i neofascisti sognavano il golpe: il tentativo di Junio Valerio Borghese

18 Dicembre 2019
Approfondiamo la riflessione su Piazza Fontana analizzando le conseguenze della strage e gli sviluppi della strategia della tensione
Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 (la notte dell’Immacolata) il Fronte Nazionale, in stretto collegamento con altre organizzazioni di estrema destra, e con la complicità di un consistente numero di alti ufficiali delle forze armate, tenta di attuare un colpo di Stato militare. A capo dei cospiratori c’è un uomo ormai anziano, grassoccio, con il naso a patata e la postura da gerarca di provincia: il suo nome è Junio Valerio Borghese, il fascistissimo comandante della Decima Mas. Ha già pronto il proclama da declamare alla TV per annunciare l’avvenuto insediamento di una “giunta nazionale”. Il nome in codice è "operazione Tora Tora", lo stesso che i giapponesi usarono per l’attacco a Pearl Harbour, e sta a significare la volontà di procedere ad un’azione di sorpresa, rapida e vincente.
A Roma e in altre città italiane vengono radunati ventimila attivisti di destra, mentre alcuni reparti militari convergono sulla capitale. L’intento è quello di mettere sotto controllo i gangli vitali della nazione. Occupazione della RAI, controllo delle telecomunicazioni, presa di possesso dei ministeri dell’interno e della difesa, defenestrazione del capo della polizia, arresto del presidente della repubblica (1).
I congiurati si prefiggono la messa in mora della democrazia parlamentare e lo scioglimento delle forze politiche di opposizione. Preparano l’arresto e la deportazione degli esponenti dei partiti della sinistra. Del resto, il comandante Borghese non aveva mai dissimulato i suoi propositi. In una celebre intervista rilasciata alla TV svizzera aveva avuto modo di affermare: “Oggi combatto contro degli italiani, oggi parlo contro degli italiani quando le dico che i nostri nemici più pericolosi in Italia sono i comunisti, quindi degli italiani, e non ami disturba affatto dirle che sono nemici e se potessimo sterminarli sarei molto contento.” (2).


IL PERCHÉ DI UN TENTATIVO AUTORITARIO

Il pronunciamento militare punta a risolvere lo stato di grande conflittualità sociale che prima gli studenti, nel ’68, e poi gli operai con l’autunno caldo hanno innescato nel paese.
In quegli anni il radicalismo operaio mette in discussione una condizione di subordinazione che i padroni ritenevano naturale ed immodificabile. Il vento di protesta che attraversa il paese sospinge lo sviluppo di nuovi movimenti antisistemici, favorisce la partecipazione diretta, rinvigorisce le speranze di riscatto delle classi sociali più deboli: un cambiamento radicale sembra a portata di mano. Il miracolo economico del dopoguerra, fondato sui bassi salari e sullo sfruttamento intensivo della forza lavoro, rischia di essere vanificato. La crescita delle lotte, le rivendicazioni operaie, il nuovo protagonismo dei giovani rischiano seriamente di incrinare i vecchi assetti di potere. Sale perciò la preoccupazione: “bisogna fare qualcosa, la pace sociale va ripristinata, l’ordine e la disciplina devono tornare a regnare nelle scuole e nelle officine”, è la parola d’ordine che attraversa lo schieramento conservatore.
Sul finire degli anni Sessanta le classi dominanti temono di vedere messi in discussione i loro privilegi. Una parte di esse guarda con favore ad una soluzione radicale che, spezzando le gambe al movimento operaio, avvii una soluzione autoritaria capace di normalizzare la situazione sociale e politica del paese. L’esempio della Grecia – dove nel 1967 un colpo di Stato favorito dagli Stati Uniti ha portato al potere una giunta militare – suggestiona i circoli più apertamente reazionari della borghesia italiana.
I fascisti si mettono prontamente al servizio di questo disegno. Lavorano per creare un clima di fondo adatto a spingere il paese in mani “forti e sicure”. “Basta coi bordelli, vogliamo i colonnelli”, “Ankara, Atene, adesso Roma viene” scandiscono i manifestanti di destra guidati da Caradonna e De Lorenzo, mentre sfilano sui gradini dell’Altare della patria.
Nel 1969 si era chiuso il contratto dei metalmeccanici. Come sottoprodotto delle lotte radicali dell’autunno caldo, i lavoratori italiani avevano strappato alcune importanti conquiste: abolizione delle gabbie salariali, riduzione dell’orario di lavoro a quaranta ore, affermazione della piena agibilità sindacale, diritto allo studio con la conquista delle 150 ore. Un contratto significativo che, segnando una vittoria, accresce la forza, la fiducia e la consapevolezza della classe operaia. Nella primavera del 1970, nonostante l’ostruzionismo delle destre, la Camera approva lo Statuto dei lavoratori, mentre viene promulgata un’amnistia per i reati contestati durante le agitazioni sindacali dell’autunno caldo. Intanto, la mobilitazione dei lavoratori si riversa fuori dai cancelli delle fabbriche contagia gli altri strati sociali, dà nuova linfa alle lotte popolari, conquista nuova egemonia nella società. Da qui la reazione delle classi dominanti, che con la strategia della tensione tenterà di bloccare l’avanzata delle sinistre e del movimento operaio. Il 12 dicembre del 1969 è il battesimo di fuoco di questa strategia. La strage di Piazza Fontana viene attribuita agli anarchici per sbarrare la strada ai movimenti del biennio '68-'69, e per favorire una svolta autoritaria. In questo quadro si colloca l’attività del Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese.


DALLA DECIMA MAS AL DOPOGUERRA

Junio Valerio Borghese, rampollo di una delle più altolocate famiglie dell’aristocrazia romana, fu ufficiale di Marina all’inizio della seconda guerra mondiale e poi comandante della Decima Mas. Pluridecorato per le azioni svolte contro la flotta inglese, dopo l’armistizio aderì alla Repubblica di Salò, rendendosi protagonista, assieme ai nazisti, delle più cruente azioni repressive: rappresaglie, rastrellamenti di civili, massacri di partigiani. Alla fine della guerra, grazie all’aiuto dei servizi americani, dopo un breve periodo di detenzione, venne scarcerato ed iniziò a cooperare con loro (3). Infatti è oramai risaputo che, dopo la fine del conflitto mondiale, alcuni dei più alti esponenti fascisti e nazisti appena sconfitti e in fuga, responsabili anche di reati gravissimi, furono arruolati dai servizi segreti occidentali in funzione anticomunista (4). Lo stesso Otto Skorzeny, il nazista austriaco che aveva organizzato la fuga di Mussolini da Campo Imperatore, appena crollato il Terzo Reich passa armi e bagagli con la CIA.
Nella seconda metà degli anni Quaranta nasce intanto il Movimento Sociale Italiano (MSI), il partito neofascista che raccoglie gli orfani di Salò e del Ventennio mussoliniano. Gli Stati Uniti seguono con benevola attenzione la crescita di un partito come il MSI, dai connotati decisamente anticomunisti. Il principe Borghese ne diventa il presidente onorario nel luglio 1952, per poi allontanarsi dal partito, sul finire del decennio: il MSI era troppo moderato e accondiscendente, troppo votato ai riti parlamentari per l’ardimentoso comandante della Decima Mas. Uscito dal MSI, Borghese lavora al progetto politico del Fronte Nazionale: instaurazione di uno Stato forte, esclusione dei partiti da ogni partecipazione di governo, recupero della dottrina del corporativismo intesa come utile strumento per recidere ogni forma di conflitto sociale. Tutti chiari elementi che connotano la sua visione politica reazionaria. La weltanschauung di Borghese riflette il carattere, la formazione e gli intenti politici del personaggio. Per il principe nero, la critica è concessa solo se “qualificata ed espressa nel quadro degli interessi nazionali”, mentre la libertà dei cittadini è intesa solo come “osservanza assoluta e immediata delle leggi”. Al di sopra di tutto, Borghese mette la restaurazione dell’ordine messo in discussione dai fermenti che maturano nella società; un ordine gerarchico che va assicurato attraverso l’affermazione di un potere assoluto da assegnare all’esercito e alle forze di polizia. Lavora così a diventare il Papadopoulos italiano. A tal fine, accreditandosi come gollista e presentandosi come possibile uomo della provvidenza, stempera i richiami retorici al fascismo, ma ne conserva l’intima sostanza dei contenuti, nonché le relazioni e le complicità con il suo ambiente di provenienza.


IL FRONTE NAZIONALE

Il Fronte Nazionale viene fondato nel settembre del 1968. Nasce come strumento politico di raccordo tra le principali organizzazioni della destra estrema (in primis Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo), ma la sua ragione sociale è il compimento di un colpo di Stato. Si muove, dunque, lungo il crinale che porta ad una soluzione di forza che consenta l’instaurazione di un regime autoritario.
La formazione di Borghese fomenta le tensioni, si erge a baluardo anticomunista, invoca la discesa in campo delle forze armate, alle quali affida un ruolo salvifico per la nazione minacciata dal caos e dalla sovversione. Per alcuni anni, in attesa della tanto agognata “ora X”, Borghese lavora alacremente per realizzare il suo disegno politico: coltiva i rapporti con pezzi dei servizi atlantici, stringe le relazioni con gli ambienti massonici (secondo la ricostruzione del giudice Salvini, consegnata alla commissione parlamentare stragi, anche Licio Gelli avrebbe avuto un ruolo di primo piano nel progettato golpe), inquadra un raggruppamento politico-militare che vede raccolti insieme generali felloni ed esponenti dell’estremismo di destra. Soprattutto, ricerca e trova l’appoggio fattivo di un pezzo significativo del mondo industriale italiano. Armatori, finanzieri e capitani d’industria aprono i cordoni della borsa e finanziano il progetto di Borghese, in modo particolare quelli liguri e del nord del paese, come documenta il giornalista Camillo Arcuri (5). Alcuni di loro si uniranno a Borghese e saranno in prima fila nel promuovere il golpe. Braccio destro di Borghese è Remo Orlandini, facoltoso imprenditore edile romano, mentre Attilio Lercari, altro uomo di punta del principe, è amministratore delegato di una società del gruppo Piaggio, all’epoca tra i primissimi gruppi industriali del paese.
La rete dei golpisti si estende su gran parte del territorio nazionale, anche al Sud, dove Borghese si è assicurato il sostegno della mafia siciliana. In più occasioni, le confessioni di alcuni tra i più importanti padrini di Cosa nostra, Buscetta, Liggio e Calderone, ricostruiranno il ruolo della mafia nel progettato golpe Borghese. Un rapporto convergente, quello delle cosche con i congiurati del Fronte Nazionale; i primi puntano ad ottenere la revisione dei processi, mentre Borghese, memore dello sbarco alleato in Sicilia, sa quanto sia importante il sostegno della mafia. Inoltre, il Fronte Nazionale punta ad ottenere il benestare dell’amministrazione Nixon. Remo Orlandini si dice certo che il pronunciamento militare ha il sostegno di Washington e che il presidente americano, tramite l’intermediario Hugh Fenwick ha accolto “quasi tutte” le richieste di Borghese (6).


IL GOLPE DELL’IMMACOLATA

Dopo un lungo lavoro di preparazione, per Borghese e i suoi accoliti arriva finalmente il giorno della verità. Il piano dei congiurati prevede la concentrazione a Roma e in altre città di gruppi armati, pronti a intervenire su diversi obiettivi di alta importanza strategica: occupazione di ministeri, arresto di oppositori, controllo degli impianti telefonici e di radiocomunicazione. Quindi, lo stesso principe Borghese avrebbe letto in televisione un “proclama alla nazione”, cui sarebbe seguito l’intervento delle forze armate a suggello definitivo del colpo di Stato.
Nella notte dell’Immacolata si inizia concretamente a dare attuazione al piano golpista. In tutto il Paese ci sono gruppi pronti ad entrare in azione. Alcuni di essi ci entrano effettivamente, come ricostruirà dettagliatamente il senatore Pellegrino, presidente della commissione parlamentare sulle stragi. Una colonna di militi della guardia forestale, comandata dal Colonnello Luciano Berti, si muove da Cittaducale in provincia di Rieti dove era di stanza, e giunge fino a Roma attestandosi nei dintorni degli studi televisivi di Via Teulada. Attivisti di Avanguardia Nazionale, guidati da Stefano Delle Chiaie e con la complicità di funzionari, entrano nel Ministero degli interni e si impadroniscono di un notevole quantitativo di armi e di munizioni che vengono distribuite ai congiurati. Il Generale dell’aeronautica Casero e il Colonnello Lo Vecchio sono pronti ad occupare il Ministero della difesa. Gruppi numerosi di militanti di estrema destra si ritrovano in diverse parti della capitale ove attendono la distribuzione delle armi. Tra le persone radunate, in parte già in armi, vi sono, con compiti di comando, il Generale Ricci e il Tenente dei paracadutisti Sandro Saccucci (che in seguito sarà prima deputato del MSI e poi latitante dopo la sparatoria di Sezze Romano dove nel 1976 viene ucciso dai fascisti un giovane militante della FGCI). Il Colonnello Amos Spiazzi muove con il suo reparto verso i sobborghi di Milano, con il preciso obiettivo di occupare Sesto San Giovanni, all’epoca dei fatti una delle zone più “rosse” della penisola (7).


ARRIVA IL CONTRORDINE

Poi, nel corso della notte, il golpe già in fase di avanzata esecuzione viene repentinamente bloccato. L’alzamiento tanto agognato fallisce sul filo di lana. Il contrordine viene impartito dallo stesso Borghese ai suoi increduli sodali, e l’operazione Tora Tora viene sospesa.
Il variegato fronte politico-militare anticomunista assemblato dal principe nero è fermato. Tutti a casa, i gruppi armati vengono smobilitati, e ai congiurati viene comandato lo “sciogliete le righe”.
I motivi del dietrofront rimangono tuttora un mistero. Forse qualcosa è andato storto, inceppando la macchina organizzativa dei golpisti; forse una parte dello schieramento reazionario utilizza i golpisti ma non vuole andare fino in fondo, teme le reazioni interne e ha paura di non riuscire a padroneggiare la nuova situazione. Secondo alcuni, molto plausibilmente, una delle ragioni dell’insuccesso dei congiurati dell’Immacolata risiede nell’improvviso ritiro del sostegno americano, che di conseguenza ha determinato il disimpegno dei militari. Secondo un’altra ipotesi che poi sarà a più riprese formulata, il golpe venne incoraggiato e poi fermato proprio per neutralizzare i fautori della “soluzione greca”. In altre parole, “destabilizzare per stabilizzare”, far “tintinnar le sciabole” per meglio normalizzare, lanciare dei chiari messaggi a destra e a manca per rinfocolare la teoria degli opposti estremismi e per rinsaldare un assetto politico imperniato sul sistema di potere democristiano. Comunque sia, il golpe tentato da Borghese fu una cosa estremamente seria e pericolosa. Fu l’unico, tra i progettati piani eversivi atti a rovesciare le istituzioni repubblicane, a superare la fase teorica della semplice ideazione e giungere fin sulla soglia della piena realizzazione esecutiva.


LE REAZIONI A SINISTRA

Per alcuni mesi, l’opinione pubblica rimane all’oscuro del progettato e fallito golpe dicembrino. La notizia si diffonderà solo nel marzo del 1971, quando il giornale Paese Sera uscirà con uno scoop che divulgherà i dettagli del tentativo di Borghese. La rivelazione del quotidiano romano impressiona, suscitando a sinistra paura ed apprensione, ma anche una vigorosa reazione. Scattano le precauzioni e la vigilanza viene rafforzata. I militanti della sinistra percepiscono che le minacce non sono finite, e moltissimi di loro eviteranno per giorni di dormire nelle loro case. Le sedi sindacali vengono presidiate dagli operai, mentre un robusto cordone sanitario viene steso intorno alle sedi del PCI e delle altre forze della sinistra. Le mobilitazioni sono immediate e partecipate: cortei e presidi si tengono in tutte le principali città del Paese. Anche il sindacato – unitariamente – si mobilita e indice uno sciopero generale. E poi, L’ARCI Caccia – associazione di massa legata al PCI – promuove cortei pacifici nelle regioni dell’Italia centrale, che vedono però i suoi partecipanti sfilare con il fucile in spalla (8), come a dire: “non ci provate, questa volta siamo pronti, non ci sarà un’altra marcia su Roma”.


LE INTERPRETAZIONI E I PROCESSI

Non solo per la pubblicistica di destra, ma anche per una parte importante dell’opinione pubblica, il golpe Borghese è sempre stato considerato una farsa, una parodia mal recitata da uno sparuto gruppetto di avventurieri senza alcun spessore. Una burletta salace interpretata da nostalgici vecchietti, ridotti a fantasmi del passato, senza seguito né progettualità e respiro politico. Insomma, una cosa da ridere. Un golpe da operetta, come da più parti si è sostenuto.
Junio Valerio Borghese come Giuseppe Tritoni, il macchiettistico ex ufficiale interpretato da Ugo Tognazzi e portato sugli schermi da Monicelli nel film “Vogliamo i colonnelli”. Una valutazione minimizzante che sarà fatta propria anche dalla sfera giudiziaria: tutti gli imputati verranno assolti. La Corte d’assise d’appello motiverà il proscioglimento affermando: “che i clamorosi eventi della notte in argomento si sono concentrati nel conciliabolo di quattro o cinque sessantenni…”, “e nel dislocamento di uno sparuto gruppo di giovinastri in una zona periferica…”.
Anche in questo caso, così come nelle altre vicende inerenti alle stragi e alla strategia della tensione, avrà una sua importanza decisiva la rete collusiva dei rapporti tra gli eversori e i pubblici funzionari dello Stato.




Note:

(1) Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro - Rizzoli 2008 p. 142

(2) Sergio Zavoli, La notte della repubblica - Mondatori 1995. p. 131

(3) Saverio Ferrari, Da Salò ad Arcore - L’Unità 2006 p. 53

(4) Federico Sinicato, Atti del convegno 1969/2009 - Punto Rosso p. 43

(5) Camillo Arcuri, Colpo di Stato – Rizzoli 2007

(6) Franco Ferraresi, Minacce alla democrazia - Feltrinelli 1995 p. 225

(7) Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi - reperibile in rete

(8) Aldo Giannuli - opera citata p. 143
Piero Nobili

Ascesa e tramonto di Jeremy Corbyn. La storia breve di un'illusione

“Corbyn ha perso per le sue idee veteromarxiste”, “ la sinistra radicale è il miglior alleato della destra”. Il bombardamento propagandistico dei circoli liberali procede a tappeto in tutta Europa, e naturalmente in Italia. Come sempre, a scapito della verità, ma anche della evidenza logica.
Se Corbyn ha perso per il suo presunto veteromarxismo, come mai il partito Liberal Democratici di Jo Swinson, tifoso del “remain”, ha subito una sconfitta non meno pesante di quella del Labour? E poi, il programma di Corbyn non è forse lo stesso programma che nel 2017 accompagnò la clamorosa rimonta elettorale del Labour contro i conservatori di Theresa May?

La verità è che i soloni che non avevano capito nulla dell'ascesa politica di Corbyn sono gli stessi che non capiscono nulla della sua sconfitta. Chiusi a doppia mandata nella torre d'avorio del pregiudizio ideologico, ripetono come un disco rotto il rosario imparato a memoria. Indifferente semplicemente ai fatti, e soprattutto alla propria disfatta.

Il liberalismo borghese progressista ha governato la Gran Bretagna per due legislature a cavallo degli anni '90 e 2000. Tony Blair ne è stato la bandiera. Era il mito della globalizzazione portatrice di progresso, che una sinistra finalmente liberal, sgravata dalla zavorra delle vecchie idee socialdemocratiche, avrebbe interpretato e diretto. Mai profezia politica ha subito – quella sì – una smentita più impietosa. I governi di Blair hanno solo amministrato l'eredità della Thatcher contro il movimento operaio e sindacale inglese, con tagli sociali, precarizzazione del lavoro, privatizzazioni, compressione dei diritti sociali. La riconoscibilità del Labour presso la sua tradizionale base sociale conobbe un tracollo. Il Partito Conservatore ereditò la sua disfatta, coi governi Cameron, mentre la grande crisi del capitalismo mondiale e le dure politiche d'austerità precipitarono ulteriormente le condizioni di vita e di lavoro di larga parte della Gran Bretagna, dove oggi, per dare la misura, il 31% dei bambini sono sotto la soglia di povertà.

La fascinazione della Brexit nel 2016 presso ampi settori di classe operaia e di masse popolari impoverite, a partire dalle periferie e dalla provincia, fu il prodotto di questo contesto. Una maggioranza declassata della società inglese, ignorata e colpita da tutti i governi, priva da tempo di una rappresentanza riconoscibile, ed anzi tradita dai suoi partiti tradizionali, fu attratta dal richiamo sciovinista e xenofobo della ciurma di Nigel Farage. La promessa del ritorno all'antica potenza imperiale della Gran Bretagna fu percepita come promessa di un riscatto sociale dopo decenni di immiserimento. La rabbia sociale fu dirottata contro gli immigrati, anche europei, e contro la UE. Una ribellione passiva sotto una direzione reazionaria. L'esatto opposto dell'Oxi greco all'UE del 2015, espressione di una radicalizzazione sociale di massa tradita da Tsipras. I tanti sovranisti di sinistra che confusero le due cose esaltando la Brexit come riferimento progressista, semplicemente rimossero il più elementare criterio di classe.

Tuttavia lo sfondamento della Brexit negli strati operai e popolari non era uniforme e lineare. Un anno dopo, il malumore sociale e la domanda di svolta trovarono infatti ben altra espressione nell'ascesa di Corbyn. Un'ascesa che non cancellava la deriva reazionaria ma mostrava l'instabilità dello scenario politico, e un quadro contraddittorio aperto ancora ad esiti opposti.
Il famoso programma di Corbyn, con buona pace dei liberali, non aveva nulla a che vedere con un programma marxista. Era piuttosto il ritorno al vecchio laburismo inglese prima della svolta liberale di Blair: nazionalizzazione con indennizzo dell'elettricità e delle ferrovie, aumento della tassazione (dal 19 al 26%) delle grandi aziende, difesa della sanità pubblica contro la sua privatizzazione. Un programma di economia mista. Tuttavia la rottura col blairismo colorì quel programma di una immagine “radicale” agli occhi di ampi settori della vecchia base laburista, e soprattutto della giovane generazione. Di più, quel programma divenne un fattore di nuova attivazione e politicizzazione a sinistra di un settore della gioventù che si riavvicinò al laburismo e divenne in qualche modo la guardia del corpo di Corbyn contro la componente liberal del Labour (attraverso strumenti come Momentum). A sua volta la campagna isterica della borghesia inglese contro Corbyn favorì questa dinamica di polarizzazione a sinistra attorno alla nuova direzione del Labour.

L'ascesa di Corbyn, a differenza di quella di Tsipras, non era il sottoprodotto di una radicalizzazione di massa del movimento operaio sul terreno della lotta di classe, ma avrebbe potuto essere investita in questa direzione: l'unica capace di scompaginare il mito popolare della Brexit, di aprire le contraddizioni del blocco sociale reazionario, di riaffermare la centralità dello scontro tra capitale e lavoro nell'immaginario di massa al posto della falsa alternativa pro e contro la Brexit.

Il buon vecchio Corbyn fece esattamente l'opposto. Invece di investire il capitale di fiducia accumulato sul terreno della mobilitazione di massa, a partire da una svolta della politica sindacale, si limitò a difendere il proprio fortino dalle minacce di scissione del Labour da parte della sua ala liberale e dei suoi parlamentari. Invece di affermare un punto di vista indipendente del movimento operaio inglese contro la falsa alternativa tra exit e remain in direzione di una rottura anticapitalistica con la UE dal versante della lotta di classe (e di una prospettiva socialista continentale), si attestò a cavallo tra exit e remain, con un colpo al cerchio e uno alla botte, nel segno dell'incertezza e della paralisi, finendo col logorare la propria credibilità e perdere consenso in ogni direzione.
Il campo reazionario populista, sbarazzatosi di Theresa May e sotto la direzione iperpopulista di Boris Johnson, ha avuto buon gioco nel denunciare il fronte ostruzionistico parlamentare contro l'applicazione della Brexit come il blocco del Labour con il vecchio establishment “contro la volontà del popolo e contro la democrazia”. Il profilo alternativo del Labour ne è uscito pesantemente compromesso nelle sue stesse roccaforti sociali. Né una campagna elettorale di 20 giorni poteva recuperare tre lunghi anni di immobilismo politico. Un istrione reazionario e razzista ha finito così per apparire come l'unico vero “garante del popolo” contro i vecchi parrucconi della politica inglese. E la Brexit come l'unica concreta occasione di svolta agli occhi di grandi masse impoverite dalla crisi.

L'immobilismo di Corbyn non è stato peraltro un errore, ma il riflesso della natura politica del Labour Party. Il nuovo corso di Corbyn ha sicuramente riavvicinato il partito ai sindacati, brutalmente trattati da Blair. Ma la burocrazia sindacale delle trade union, la più antica burocrazia sindacale del mondo, non aveva alcuna intenzione di muovere le acque dello scontro sociale. Il suo unico scopo era quello di riattivare il canale di relazione col partito e di pesare nella sua costituzione materiale, in cambio del sostegno a Corbyn. A sua volta il sostegno della burocrazia sindacale è stato ricambiato da Corbyn col sostegno alla politica passiva della burocrazia. Un disastro non solo sindacale ma politico, di cui Boris Johnson è stato il vero beneficiario.

Johnson ha ora in mano la maggioranza del parlamento britannico, non la Gran Bretagna. La sua politica nazionalista non dispone delle basi materiali del trumpismo. Nuove contraddizioni sociali esploderanno, prima o poi, nella società inglese, mentre la questione nazionale, irlandese e scozzese, metterà a dura prova la tenuta stessa della Gran Bretagna. Ma certo chi vedeva in Jeremy Corbyn la stella ritrovata del socialismo, magari da confortare con buoni consigli "trotskisti", ha preso una colossale cantonata, non minore di quella dei tifosi della "Brexit progressista".

L'alternativa alla deriva reazionaria o è anticapitalista o non è. La costruzione di una nuova direzione politica e sindacale del movimento operaio britannico resta il tema centrale della politica rivoluzionaria in Inghilterra.
Partito Comunista dei Lavoratori

Libertà di stampa in Italia: il monopolio del capitale

La notizia è del 30 novembre: John Elkann ha "scalato" il gruppo Gedi. La CIR Group spa (Compagnie Industriali Riunite), holding della famiglia De Benedetti, aveva confermato: «Ci sono in corso discussioni con Exor [la holding lussemburghese degli Agnelli-Elkann] per una possibile operazione di riassetto»; oppure, come ha scritto La Repubblica, quotidiano di punta del gruppo, «la holding CIR è in trattativa con Exor per vendere la quota di controllo di Gedi». Senza contare il fatto che John Elkann è già vicepresidente del gruppo.
Le vicende familiari di due lignaggi del tutto rilevanti del capitalismo italiano si riflettono sulle sorti dell’informazione nazionale.
L'interlocuzione tra le parti è cominciata, a quanto pare, a causa di litigi familiari dei De Benedetti. Secondo la ricostruzione del Messaggero, oltre al tentativo di scalata degli Agnelli-Elkann ci sarebbe anche l’interesse di più parti, come il fondo Peninsula di Luca Cordero di Montezemolo e Flavio Cattaneo, così come del gruppo che fa capo a Vincent Bolloré, a cui si rimanda all’articolo del 2017 di Marta Gatti pubblicato sulla rivista Nigrizia.


GIGANTE GEDI: TRE QUOTIDIANI E UN CROGIOLO DI TESTATE

Numeri e nomi a parte, il Gruppo Gedi ed Exor hanno per diverso tempo rispettivamente confermato il reciproco interesse nella fase di interlocuzione in atto. Già prima della scalata della Giovanni Agnelli BV, questa era azionista per il 6,9% di Gedi. Al momento, come riportato da Repubblica in un articolo del 29 novembre, il capitale ordinario della società era così suddiviso: «Cir 43,78% (pari al 45,753% della quota sul capitale volante), Exor 5,992% (pari al 6,262 della quota volante)».
Il gruppo editoriale in oggetto, tuttavia, non è solo «Repubblica», «La Stampa» e «Il Secolo XIX», che di per sé rappresenterebbe una fetta imponente dell’informazione, o come si è soliti dire in questi decenni disgraziati, del “mercato dell’informazione”. Rappresenta, tuttavia, anche una porzione imponente del flusso di notizie (senza calcolare tutti gli inserti dei quotidiani prima citati) che passano attraverso i giornali e periodici a diffusione nazionale e a pubblicazione settimanale, mensile o bimestrale, quali: «Il Tirreno», «Il messaggero» (Udine), «Il Piccolo» (Trieste) , «La Provincia» (Pavia), «Il Mattino» (Padova), «La Gazzetta di Mantova», «La Nuova Ferrara,», «La Nuova Venezia», «Il Corriere delle Alpi» (Belluno), «La Sentinella» (Ivrea), «La Tribuna» di Treviso, «La gazzetta di Modena», la «Gazzetta di Reggio» (Reggio Emilia)»; «L’Espresso», «National Geographic», «Mind», «Limes» «Le Scienze», «MicroMega», «Travellers» passando per le testate nazionali digitali come «Huffington Post Italia», «Mashable Italia», «Business Insider» e il portale «Kataweb», senza contare le emittenti radiofoniche (Deejay, Capital, m2O). Un impero dell’informazione che può vantare 648,7 milioni di euro di ricavi.


RCS: L'OCCHIO DEL CAIRO

Andando ad esaminare gli azionisti di un altro colosso dell’informazione italiana, che da anni si contende il primato con Gedi, notiamo che l’azionista di maggioranza è Urbano Cairo col 59,831%, seguito da Mediobanca e da Diego Della Valle (rispettivamente aventi il 9,930% e il 7,624%), non meno importanti gli ultimi due azionisti: Unipol (4,891%) e la China National Chemical Corporation (4,732%).
Il gruppo Rcs, tuttavia, rappresenta anche un colosso transnazionale, detenendo «El Mundo», «Expansiòn» e «Marca», così come gestendo le seguenti pubblicazioni quotidiane a diffusione nazionale e digitale: «Corriere della Sera» (con relativi inserti «Economia», «La Lettura», «Corriere Salute», «Corriere Innovazione» e la Tv Corriere Tv), «Diritti e risposte», «La Gazzetta dello Sport», «Buone notizie», «Il rumore della memoria» e il portale di Milena Gabanelli «Dataroom».
Le testate locali che fanno capo al gruppo sono: «Corriere di Bergamo», «Corriere di Bologna», «Corriere di Brescia», «Corriere Fiorentino», «Corriere Milano», «Corriere Roma», «Corriere del Mezzogiorno», «Corriere Torino», «Corriere Veneto» senza contare i periodici cartacei e digitali (1).
Ultimo dato importante, l’apertura della casa editrice Solferino, parte del gruppo stesso, ça va sans dire.

Se ci limitassimo a prendere in esame solamente i casi più grandi dei gruppi industriali legati all’informazione, ci si renderebbe presto conto che la libertà d’informazione è del tutto legata al profitto e ad interessi che tutto concernono tranne quello che dovrebbe guidare un quotidiano o un periodico. Fornire, cioè, una lettura di quel che accade, dare una propria interpretazione sui fatti, fornire la base per la formazione di una propria opinione in lettori che non sempre sono “addetti ai lavori” di quel che accade nelle stanze della politica o dei retroscena legati a questo o quel personaggio politico, e avviare un dibattito che sia il più aperto e scevro dalle posizioni da “tifoseria” di questi ultimi venti/trent’anni.

La funzione della carta stampata è, nel corso degli anni, diventata del tutto altra rispetto a come la si intendeva negli anni ’80 o ’90, o come poteva essere quella di partito, quando questi non erano semplicemente dei comitati elettorali permanenti e attenti solo alla mediaticità del piatto di pasta mangiato dal leader su Instagram o della foto con il tenero asinello postata su Facebook.
Di fronte alla volontà di soppressione del finanziamento pubblico all’editoria, che certamente ha generato casi tutt’altro che onorevoli riguardo al suo utilizzo, l’informazione dell’Italia del 2000 rappresenta il prodotto della transnazionalizzazione delle imprese che traggono profitto dall’informazione e che gestiscono quotidiani e periodici in base all’utile che ne ricavano.
I giornali diventano, così, delle veline che molto spesso riempiono le proprie pagine di retroscena e di interviste ben calibrate a personaggi in cerca di ribalta, o che devono porre in essere il proprio pensiero in articoli che spesso non arrivano al concetto e si limitano a rimanere sulla superficie delle cose.
Il pensiero diventa unico, ed è quello del capitalismo e dei suoi alfieri. Con buona pace di Giorgia Meloni, che ritiene come il pensiero unico sia quello LGBT. Il quotidiano resta un vettore di notizie, le quali debbono, necessariamente, possedere "notiziabilità", altrimenti non presentano alcun margine di interesse da parte di chi la pubblica. E se non possiede interesse (leggi: possibile ritorno di profitto) per chi la pubblica, automaticamente non è da proporre al lettore.

L’interesse delle aziende transnazionali ad avere un proprio gruppo editoriale sta nel fatto che, più o meno, i maggiori gruppi industriali di ogni paese hanno un legame con il mondo dell’informazione: la compenetrazione tra aziende, holding, banche, società assicurative e quant’altro, rende estremamente complicato il districarsi del lettore tra le pagine dei giornali e tra le notizie proposte: discernere la veridicità dei fatti con quanto accaduto nella realtà (vedi Arthur Schopenhauer, “Velo di Maya” e affini), formarsi un’opinione che non sia già nell’alveo di quelle già pre-confezionate dai quotidiani nazionali (e anche locali, come abbiamo visto) è molto complicato, per non dire impossibile.

L’interconnessione degli interessi dei gruppi industriali nel creare profitto là dove ci dovrebbe essere un interesse pubblico sovrasta qualsiasi buona intenzione, di cui la strada del capitalismo (non già del proverbiale inferno) è lastricatissima: le grandi acquisizioni da parte di aziende transnazionali o holdings rappresentano il volto più spietato della distorsione delle coscienze nel nostro paese. Non più formazione, bensì aprioristica distorsione.
A questo si affiancherebbe il dibattito relativo al ruolo del giornalista, stante la situazione attuale, ma questa è un’altra storia.



(1) http://www.rcsmediagroup.it/pagine/brands/#i-periodici
Marco Piccinelli

Il posto a tavola. Landini, la CGIL e il governo

Dal sito dell'area Riconquistiamo tutto - il sindacato un’altra cosa

Qualche settimana dopo la costituzione del nuovo governo Conte bis, Crozza ha realizzato la cena delle beffe: un Salvini solo e sotto la pioggia guarda dietro a una vetrina i protagonisti della nascita del nuovo esecutivo bere, mangiare, ridere e scherzare. Sono Conte, Grillo, Zingaretti, Berlusconi, Gentiloni, Mattarella e… Landini. Il quale ricorda a tutti di aver fatto la ola con la Camusso, ma anche che tra gli operai la Lega è ancora forte... “sembra me negli anni Novanta”. Come spesso accade, con le sue caricature Crozza riesce a cogliere l’anima di un passaggio politico.

Nella crisi estiva, infatti, la CGIL si è seduta a pieno titolo intorno a quel tavolo. Prima sospingendo la formazione di un nuovo esecutivo (anche con le dichiarazioni pubbliche di Landini, proprio nei momenti cruciali in cui la segreteria PD non era convinta della soluzione e non era convinta di Conte). Poi instradando alcuni suoi cardini programmatici, a partire dalla defiscalizzazione dei salari come strumento per aumentare i redditi.

Una linea pienamente confermata dal Direttivo CGIL, con una nuova dinamica che ha fluidificato gli schieramenti congressuali nella maggioranza. Una scelta confermata anche nei mesi successivi, nell’azione dell’organizzazione. Di fronte al rischio dei "pieni poteri" di Salvini, di fronte alla possibilità di un governo reazionario a guida leghista, la CGIL ha infatti aperto un credito senza fine nei confronti dell’esecutivo. Da una parte, in ogni settore ed a livello generale, ha incontrato maggioranza e ministri sulle più disparate questioni, cercando sia di indirizzarne gli interventi sia di legittimarsi nell’interlocuzione. Dall’altra parte, ha sospeso e bloccato ogni mobilitazione di massa, per evitare che la pressione sociale mettesse in discussione una compagine che si è rivelata molto più fragile del previsto.

In questi mesi, però, la CGIL ed il lavoro hanno raccolto poco o niente. Sul terreno dei diritti sociali e civili, non una sola norma del precedente governo Conte-Salvini è stata toccata (comprese quelle più infami, come i decreti sicurezza o gli accordi libici). Nella scuola, la maggioranza ha sconfessato le intese sul precariato sottoscritte prima dell’estate (già molto contenute, con un concorso straordinario limitato a 24 mila posti ed uno ordinario per altrettanti, oltre a percorsi abilitanti straordinari per tutti), per poi ricostruirle solo parzialmente, rivedendole continuamente con un travagliato percorso parlamentare (non ancora concluso). Nelle politiche economiche, la conferma dell’austerità europea ha tagliato sul nascere ogni logica di ripresa degli investimenti pubblici, a partire da scuola, sanità e servizi sociali (che hanno visto confermati i tagli e gli impianti neoliberisti degli scorsi anni). Nella legge di bilancio, dopo aver garantito aziende e liberi professionisti, lo spazio per l’aumento dei redditi attraverso la riduzione del cuneo fiscale si è molto ridotto, senza poter nemmeno garantire una solida spinta alla stagione di rinnovi contrattuali appena avviata. I contratti pubblici, nonostante le attese, sono stati nuovamente rimandati (ancora una volta alla fine del triennio di competenza) e sono tuttora schiacciati sull’IPCA, senza alcun recupero del lungo blocco salariale e senza nessuna fuoriuscita dalla logica gerarchica della Brunetta e della Madia. I pensionati e la previdenza sono stati semplicemente messi da parte. Sull’autonomia differenziata, dopo un primo inabissamento autunnale, la bozza Boccia sta riportando in auge il processo della differenziazione dei diritti e dei servizi universali, sotto il fragile velo dei LEP (improbabilmente definiti entro un anno e comunque soggetti alla logica neoliberista dei costi minimi) e con l’esclusione di un vero coinvolgimento parlamentare. La tragedia dell’Ilva, l’ennesima crisi di Alitalia, la vicenda Whirlpool e la ripresa di una stagione di ristrutturazioni sospinta dalla congiuntura incerta hanno evidenziato l’assenza di ogni politica industriale, la confusione programmatica e, soprattutto, l’anima padronale di questo governo.

Non solo. In questi mesi il governo Conte bis ha evidenziato tutta la sua inconsistenza. La maggioranza 5 Stelle, PD, Italia Viva (Renzi) e LeU (sinistra) non ha solo incontrato evidenti limiti di consenso nel paese (come hanno mostrato i risultati delle elezioni autunnali, a partire dall’Umbria). Si è anche avvitata nei contrasti dei suoi diversi protagonisti e persino all’interno dei diversi partiti che la compongono. Soprattutto, dalla legge di Bilancio all’Ilva, dalla gestione di scuola e dell’università (l’agenzia della ricerca, i 3 miliardi di fondi aggiuntivi, il decreto precari) al MES (il fondo di salvaguardia europeo), la maggioranza ha mostrato tutte le sue contraddizioni e tutte le sue incapacità. In un tempo sospeso, tra le incertezze di uno scontro interimperialista sempre più acuto e ripetuti segnali di una nuova precipitazione della Grande Crisi, si è rapidamente sfaldata ogni illusione sulla solidità e le prospettive di questo governo. L’argine ai "pieni poteri" di Salvini si sta sempre più rivelando l’incubatore di un’ulteriore svolta a destra a livello di massa, con un consolidamento dell’egemonia reazionaria nelle classi subalterne trascinato non solo da una Lega che rimane ben salda nel consenso popolare ma che si salda con la significativa crescita di Fratelli d’Italia.

Nonostante questo, la CGIL si è ben guardata dall'alzarsi dal tavolo. Nonostante il dibattito di settembre sull’eventuale necessità di riprendere la mobilitazione se dal governo non fosse arrivata una svolta reale (con i relativi apparenti solchi nella maggioranza), la segreteria CGIL ha tenuto il freno a mano tirato. Anzi, nel Direttivo del 19 ottobre e poi nell’Assemblea Generale della settimana scorsa (6 dicembre) ha confermato l’impostazione dei mesi precedenti: ha continuato a sottolineare la priorità della salvaguardia di questo quadro politico, per evitare ogni precipitazione elettorale e ogni rischio che la destra conquisti il governo; ha quindi continuato a dar credito all’esecutivo ed alle sue prospettive; ha evitato in ogni modo di dispiegare mobilitazioni di massa, anche dove la pentola bolliva e l’urgenza delle cose era evidente (dalla scuola all’autonomia differenziata, dai contratti pubblici all’Ilva). Solo i pensionati hanno riempito il Circo Massimo, a segnalare la loro particolare delusione. Nessun corteo nazionale è stato programmato, nessuno sciopero generale è stato indetto. Per evitare di lasciar le piazze completamente vuote, a fronte del pugno di mosche concesso dal governo, la segreteria CGIL ha lanciato tre comizi/presidi in una piccola piazza romana (Santi Apostoli), in giornate lavorative ma senza sciopero. La pantomima di una mobilitazione, senza rivendicazioni concrete, per di più in tono minore perché anche solo l’ombra di una contestazione reale potrebbe metter in discussione tutta la fragile impalcatura che sorregge il governo.

Ci si poteva limitare a questo. La conquista della CGIL da parte di Landini, con le tante aspettative che aveva sollevato in ampi strati di delegati e attivisti di una ripresa di iniziativa e di conflitto (il sindacato di strada), poteva spegnersi così, festosamente e un po’ malinconicamente, nella partecipazione alle tavolate di Conte. Subordinando gli interessi del lavoro alle priorità e gli equilibri del quadro politico, tenendo congelate le energie e le risorse dell’unica struttura di massa rimasta nel campo della sinistra sociale, sperando di guadagnar tempo e così, magari grazie alla provvidenza, evitare un ritorno al potere del fronte reazionario. Lasciando ad altri le piazze, a partire dalle provvidenziali sardine (giovani, perbene e socialmente neutre), per segnare un punto di svolta nel senso comune di massa e quindi nelle speranze elettorali della destra reazionaria. E così senza porsi il problema della composizione sociale di quelle piazze, delle sue rivendicazioni, del solco di classe che le segna, del ripiegamento e dello scompaginamento della moltitudine del lavoro.

Il saldatore della patria però difficilmente si lascia inscrivere in un ruolo a margine. È troppo grande la tentazione, nel vuoto e nella fragilità del governo, di conquistarsi un ruolo al centro della tavola, sotto i riflettori della ribalta. Così sta provando a trasformare in strategia una linea congiunturale dettata dalla rigidità del quadro politico, senza alcuna riflessione d’insieme e senza nessun dibattito nell’organizzazione. Lunedì 9 dicembre, infatti, Landini ha rilasciato una lunga intervista a La Repubblica, per rilanciare un ruolo straordinario al sindacato ed alla sua iniziativa. Molte cose colpiscono di questa intervista. In primo luogo, colpisce l’assenza quasi completa di ogni riferimento al rilancio dell’unità sindacale (solo un breve passaggio sulle piazze di questa settimana): dopo averne fatto la cifra della sua conquista della segreteria ed averla rilanciata in un’intervista di pari segno lo scorso primo maggio, nell’autunno la sua dinamica effettiva è sembrata arenarsi (al di là di quella riconquistata unità di azione che segna gli ultimi anni); oggi sembra quasi evaporare in un'intervista in cui il soggetto centrale e ripetuto è la CGIL. In secondo luogo, colpisce la rivendicazione fatua e leggera di esser oggi nelle piazze insieme a sardine e Fridays For Future: suona francamente un po’ ridicola considerando che le ultime iniziative di massa del sindacato risalgono ad un’altra stagione (il corteo romano di febbraio e lo sciopero metalmeccanico di giugno). In terzo, ma non ultimo luogo, colpisce la dichiarazione che non si vede «un intervento pubblico in sostituzione di quello privato»: compito del pubblico sarebbe solo quello di «orientare lo sviluppo» (sollecitando, indirizzando e accompagnando gli spiriti animali del mercato, mi immagino), evitando quindi ogni richiesta di un «intervento massiccio del pubblico in economia» (come esplicitamente indicava la domanda); scompare qui, mi sembra, ogni minima traccia di quell’aspirazione alla trasformazione sociale della produzione e della società attraverso l’intervento pubblico che segnava e significava l’impianto riformista della CGIL (persino il suo recente Piano del lavoro), superando quindi in una sola battuta un’intera tradizione ed un’intera prospettiva che hanno animato questo sindacato. Quello che però colpisce di più è soprattutto il fulcro della sua intervista, sin dal titolo: «Un’alleanza con governo e imprese per impedire che il paese si sbricioli» (una proposta che, non a caso, ha subito trovato l’adesione entusiasta di Conte e di Zingaretti, che ne stanno quasi facendo la pietra su cui provare a rilanciare il governo a gennaio).

La CGIL, infatti, da qualche anno aveva archiviato le politiche concertative. Certo, negli ultimi decenni questa era effettivamente stata la sua strategia di riferimento per affrontare le crisi più significative. Però con la Grande Crisi apertasi nel 2007/'08, con i due picchi recessivi del 2009 e del 2012 e la lunga stagnazione successiva, si era rivelato impossibile replicarla. I governi della crisi, tecnici e politici (Berlusconi, Monti, Letta e poi con ancora maggior nettezza quelli Renzi e Gentiloni, seguito senza particolari innovazioni su questo fronte da Conte) avevano infatti praticato politiche di disintermediazione più o meno accentuate. La gestione capitalistica della crisi, segnata dalla constatazione di Draghi del superamento del modello sociale europeo, spingeva da una parte allo smantellamento dei diritti e dei servizi universali (anche con le relative modifiche costituzionali), dall’altro ad una politica di diretto sostegno pubblico al sistema produttivo (difesa dei margini di profitto e della competitività internazionale). Si esauriva così ogni ruolo ed ogni spazio di ulteriore mediazione sociale per il governo. Il gruppo dirigente della CGIL si era quindi rassegnato a trattare direttamente e solamente con l’impresa (la continua e vana ricerca di un patto di fabbrica) e parallelamente a intervenire direttamente sulle politiche del governo: da una parte con la presentazione del Piano del lavoro e la richiesta di una politica di massicci investimenti pubblici (con un nuovo protagonismo dello Stato nell’economia e nello sviluppo industriale), dall’altra con specifiche iniziative di proposta e intervento a livello politico-parlamentare (dalla "carta dei diritti" ai referendum).

La concertazione, in realtà, non aveva mai funzionato nel nostro paese. Il modello viene dal nord Europa (vedi la seconda delle Sette note sul salario globale: 1992/2017): definiva (nel quadro neocorporativo di trattative trilaterali tra sindacati, governo e padronato) uno scambio per cui l’autolimitazione nelle rivendicazioni stipendiali (allora per contenere l’inflazione) era compensata da welfare e investimenti pubblici. In pratica, i sindacati scambiavano una quota potenziale di salario diretto in cambio di salario sociale (con convenienza, of course, del padronato). Quel modello fu però sviluppato in una fase espansiva: già negli anni '70, con il cambio del ciclo, collassò con lo sviluppo progressivo di politiche neoliberiste anche in quei paesi (Svezia, Danimarca, Norvegia, ecc). La particolarità italiana è che questa strategia di regolazione sociale è stata introdotta non per gestire l’espansione, ma le crisi.

Due sono i punti di riferimento che hanno segnato la storia del sindacato. Il primo è la “svolta dell’Eur” (febbraio 1978), quando CGIL CISL UIL definirono una linea imperniata sui sacrifici (accettazione dei licenziamenti e delle ristrutturazioni) come contropartita di un programma di investimenti per il rilancio dell’industria (una svolta in realtà contrastata dal lungo '69, a partire dai rinnovi contrattuali di quella stagione e dallo sciopero FLM del 1979 che portò alla caduta del governo di unità nazionale, ma che alla fine si impose dopo i 35 giorni della FIAT con il cosiddetto “lodo Scotti” del 1983). Il secondo è “la concertazione” (1992/'93), quando CGIL CISL e UIL accettarono prima lo smantellamento della scala mobile e poi un modello contrattuale a due livelli, imperniato sulla moderazione salariale, in cambio di una promessa di investimenti per la ricerca, la formazione e una nuova politica industriale (un percorso in realtà molto contrastato da lavoratori e lavoratrici, che inaspettatamente ripresero le piazze anche con forme radicali e autorganizzate di lotta, prima nel cosiddetto autunno dei bulloni nel 1992 e poi nell’autunno del 1994 per difendere le pensioni, ma che alla fine si impose nei rinnovi contrattuali successivi e con la riforma Dini, fatta passare con un referendum che sollevò polemiche, in cui nei metalmeccanici prevalse il "no" ed il "sì" si limitò complessivamente al 65%).

Entrambe quelle esperienze segnarono un netto peggioramento dei salari e delle condizioni di lavoro. In una stagione di crisi, infatti, vennero assunti dal sindacato non solo gli obbiettivi di riduzione dell’inflazione, ma anche quelli padronali di riconquista dei margini di profitto (neocorporativismo all’italiana). Così la pratica concertativa non si limitava ad una semplice politica di moderazione degli stipendi (la cosiddetta “politica dei redditi”), ma diventava un vero e proprio contenimento anche del salario sociale (in contraddizione con lo stesso impianto neocorporativo), in cambio della promessa di un “secondo tempo” di investimenti che non si vide mai. Negli anni Ottanta la politica di sacrifici in cambio di investimenti pubblici si trasformò in una di sacrifici e basta, negli anni Novanta la concertazione si trasformò in blocco dei salari, privatizzazioni e precarizzazione diffusa, che permisero il trasferimento al capitale di oltre 10 punti di ricchezza del paese.

Oggi Landini tira fuori dall’armadio questo abito vecchio, lo spazzola un po’ e lo ripresenta come nuovo. Non è però un vestito che si adatta a questa stagione. Il problema infatti non sono solo i limiti ed i risultati storici di questa strategia. Il problema è che l’archiviazione delle politiche concertative da parte della CGIL non è stata determinata solo dall’assenza, o dalla debolezza, degli amici del sindacato nelle compagini governative. È stata soprattutto determinata da una gestione capitalistica della crisi che comprime gli spazi di un ruolo sociale dello Stato e quindi di una politica espansiva di stampo keynesiano. Il governo Conte bis non ha nessuna possibilità di recuperare oggi questi spazi. Perché la dinamica della crisi non è stata superata (anzi, proprio in questa stagione si sta incubando una sua prossima nuova precipitazione) e anzi spinge ancora prepotentemente sulla compressione del salario globale. Perché non ne ha nessuna intenzione: questa compagine di governo è nata proprio sotto l’egida della conferma dei vincoli e delle politiche neoliberiste di gestione della crisi imposte dall’Europa e conseguentemente non ha nessun impulso a superarle.

La nuova concertazione di Landini, allora, tratteggia un pauroso arretramento di classe ed un’ulteriore trasformazione del sindacato confederale. In una stagione in cui lo Stato rinuncia al suo ruolo di mediazione (fine del modello sociale europeo) per svolgere una funzione di supporto diretto al sistema produttivo (piegando tutte le sue infrastrutture al servizio delle imprese e del loro capitale umano), l’assunzione di una strategia concertativa da parte del sindacato lo spinge ad assumere un ruolo di organizzatore della forza lavoro più che di rappresentanza di lavoratori e lavoratrici (cancellando ogni autonomia del lavoro dal capitale). È una spinta in azione da tempo e che si è rafforzata proprio nell’ultimo decennio di crisi, con la moltiplicazione delle funzioni e delle strutture sussidiarie alla produzione (dagli enti bilaterali al welfare aziendale). L’assunzione oggi di una strategia concertativa rischia però di farne la cifra dominante del sindacalismo confederale.

Lo si vede nelle rivendicazioni congiunturali e nelle argomentazioni che oggi sostengono questa proposta di alleanza con governo e imprese. Nella linea di questi mesi, la CGIL si è focalizzata soprattutto su due rivendicazioni: lo sblocco delle grandi opere (come strumento immediato di crescita della domanda aggregata in funzione anticrisi) e la defiscalizzazione dei salari (per aumentare i redditi del lavoro). Sono due proposte congiunturali che si fanno carico della compatibilità e degli interessi delle imprese, subordinando ad essi quelli del lavoro. Le grandi opere (a fronte della crisi radicale delle grandi imprese di costruzione), non la priorità agli investimenti pubblici su scuola, sanità e servizi sociali. La defiscalizzazione per aumentare i redditi (a spese del bilancio dello Stato), non aumenti salariali diretti nei rinnovi contrattuali. Addirittura, pur di non uscire dal solco di questa logica, si sospingono politiche fiscali regressive (che favoriscono i redditi maggiori) come la defiscalizzazione degli aumenti salariali.

Nell’intervista su Repubblica l’alleanza tra governo, imprese e sindacati viene finalizzata ad orientare lo sviluppo industriale. Come? Con un protagonismo statale indiretto (Cassa Depositi e Prestiti), con un ruolo delle fondazioni bancarie e anche … dei fondi integrativi pensionistici (certo, con le opportune garanzie). E si propone anche una diretta compartecipazione del lavoro alla gestione dell’impresa: «cogestione? Non mi interessano formule», serve la «contrattazione preventiva» e la «partecipazione alle scelte» dei lavoratori e delle lavoratrici. Quello che colpisce, in questa intervista, è la leggerezza con cui vengono sdoganati concetti e prospettive sinora estranee alla CGIL, travolgendo ogni confine di classe attraverso il coinvolgimento diretto del salario differito nella gestione del capitale (fondi pensionistici come strumento di intervento nelle grandi crisi aziendali del paese), come del lavoro nella gestione delle imprese (la partecipazione alle scelte aziendali, a partire dall’innovazione tecnologica, non la contrattazione dell’organizzazione del lavoro partendo da interessi contrapposti).

Le interviste di Landini, in questa stagione, spesso alludono a possibili prospettive senza praticarle concretamente. Come sull’unità sindacale. Però, come sull’unità sindacale, queste parole e queste allusioni non sono senza conseguenze. Perché tracciano percorsi ed immaginari che penetrano nell’organizzazione, nella classe e nel senso comune. Tanto più se a tracciarli è una figura iconica come quella di Maurizio Landini, il saldatore della patria, che all’inizio di questa stagione di Grande Crisi ha rappresentato proprio la tenuta del lavoro contro l’assoluta centralità dell’impresa (la resistenza a Marchionne tra il 2010 ed il 2012).

Alzarsi dal tavolo è allora sempre più una necessità. In questa lunga cena delle beffe, infatti, non rischia solo di perdersi questa o quella rivendicazione, questo o quello tra gli interessi del lavoro. La CGIL rischia di smarrire le ragioni di fondo della sua parte sociale, contribuendo in prima persona a quello sfaldamento progressivo che sta attraversando la coscienza di classe e quindi paradossalmente favorendo in questo modo il consolidamento di quell’egemonia reazionaria che sta scavando proprio nelle classi subalterne. Diventa allora prioritario rompere quella cappa che preme sull’iniziativa sindacale, abbandonare quel tavolo ora, subito, prima che sia troppo tardi.

Come una puntina nel posto sbagliato, piccoli ma fastidiosi, il nostro compito è oggi quello di spingere in quella direzione.
Luca Scacchi

Il vento di Francia

Un grande sciopero generale scuote la Francia, contro la “legge Fornero di Macron” e del suo Primo ministro. Uno sciopero che ha carattere continuativo, si combina con manifestazioni di massa, chiede il ritiro della riforma. Uno sciopero che coinvolge molte categorie del settore pubblico, a partire dai trasporti, dagli ospedali, dalle scuole, con altissimi livelli di partecipazione (80% di scioperanti tra i ferrovieri, quasi il 60% tra gli insegnanti, una percentuale analoga nella sanità). Uno sciopero indetto dai sindacati CGT, FO, Solidaire, con la eccezione della CFDT (che tuttavia sciopera nelle ferrovie), ma sospinto da centinaia di assemblee di lavoratori e lavoratrici, che giorno dopo giorno provvedono a votare la sua continuità. Uno sciopero che polarizza il sostegno attivo della massa dei giovani studenti e l'aperta simpatia della maggioranza larga della società francese. Questo è lo sciopero che da cinque giorni paralizza la Francia.

I frettolosi teorizzatori del tramonto delle forme di lotta “novecentesche” subiscono ancora una volta la smentita più clamorosa. Ancora una volta in Francia.


LA LEGGE FORNERO DI MACRON

Un grande sciopero generale, come ogni forma di esplosione sociale, ha sempre fattori scatenanti e radici lontane.
Il fattore scatenante, la classica goccia che ha fatto travasare il vaso, è una riforma liberal-liberista del sistema pensionistico francese, la bestia nera del capitalismo d'oltralpe. Il progetto di riforma è annunciato da tempo e al tempo stesso ancora indefinito nei suoi dettagli. Non la soppressione dei privilegi corporativi, come lo presenta il governo, con l'intento di dividere i lavoratori, ma la soppressione di una sudata conquista del movimento operaio francese: il diritto di andare in pensione a 60/62 anni d'età, e non oltre.
Non è la prima volta che la borghesia francese parte all'attacco delle pensioni. Ci ha già provato col governo Juppé nel 1995, quando fu costretta a rinunciare da un imponente sciopero generale di 20 giorni consecutivi. Ci ha riprovato con Sarkozy nel 2010, dove ha eroso il muro dei 60 anni di età pensionabile, ma senza ottenere lo sfondamento voluto. Ora Macron prova a sferrare il colpo decisivo.

Le ipotesi di riforma che aleggiano da tempo, fatte filtrare da dietro le quinte per tastare il polso alle masse, sono tra loro diverse: si parla di pensione “a punti” legata ai contributi versati; di un innalzamento incentivato dell'età pensionabile a 64 anni, attraverso una penalizzazione pensionistica sotto quella soglia; di un ricalcolo dell'importo della pensione sull'intera vita lavorativa (e non più sugli ultimi 25 anni). Vedremo nei prossimi giorni come l'operazione verrà articolata, e quale sarà la combinazione di queste misure. Due sono tuttavia i punti chiari. Il primo è che in ogni caso si va in direzione di una chiara compressione dei diritti della grande massa dei salariati. Il secondo è che Macron non può retrocedere da questa linea d'attacco se non smentendo clamorosamente la sua principale promessa elettorale alla borghesia. Da qui la rotta di collisione e i limitati spazi di manovra.

Non si tratta peraltro del solo onore della Presidenza della Repubblica, ma anche di un problema economico serio per il capitale. Il capitalismo francese conosce da anni un andamento economico debole. Il peso strutturale della spesa pubblica è il nemico numero uno della MEDEF (la Confindustria) e dei partiti borghesi. Le pensioni a loro volta sono il grosso della spesa pubblica. “Non si può recidere la spesa pubblica senza intervenire sulle pensioni” grida in coro la grande stampa borghese. Industriali, banchieri, economisti e mananger usano ogni giorno quintali di inchiostro per affermare che non può decollare l'economia francese se non ci si libera di questa zavorra.

Peraltro, proprio lo scontro col movimento dei gilet gialli lo scorso anno ha ulteriormente complicato le cose. Per cercare di disinnescare il movimento dei gilet – infinitamente più modesto dello sciopero attuale ma fattore di potenziale contagio – Macron aveva fatto un anno fa (esattamente il 10 dicembre del 2018) alcune parziali “concessioni” sociali, in direzione in particolare del reddito familiare, delle pensioni minime, della revoca di maggiorazioni di imposta. Per la borghesia altri 4 miliardi sul groppone dell'odiata spesa pubblica. Ma soprattutto una confessione politica di debolezza. Il Presidente ha cercato di equilibrare le concessioni estorte dalla piazza con la soppressione parziale dell'imposta sul patrimonio (“imposta di solidarietà sulle fortune”) e con una flat tax vantaggiosa sui redditi da capitale. Ma questo l'ha costretto a maggior ragione al finanziamento in deficit delle concessioni ai gilet gialli. Oggi l'attacco al sistema pensionistico è indotto anche dalle necessità del governo nel quadro dei patti di stabilità europei. Per giocare la carta della grandeur francese sui tavoli continentali (e non solo), e reggere il negoziato complesso col capitalismo tedesco, Macron deve esibire un quadro economico in regola sul fronte interno, il fronte delle pensioni innanzitutto.


LA MEMORIA DEL PROLETARIATO FRANCESE. LO SPETTRO DEL '95

Tuttavia nello sciopero generale in atto vivono non solo fattori contingenti, ma anche l'esperienza del proletariato francese. Non solo la sua memoria lontana (lo sciopero generale del 1936 che strappò il sabato festivo e lo sciopero generale del maggio 1968 che conquistò il salario minimo intercategoriale), che pure ha depositato indirettamente un suo lascito. Ma anche la memoria più recente: la grande lotta di massa del 2006 contro il governo Villepin e il suo contratto precarizzante di primo impiego (CPA), che costrinse il governo ad una clamorosa retromarcia; e soprattutto il grande sciopero generale vittorioso del 1995 contro Juppé proprio a difesa delle pensioni.

Oggi la memoria del '95 è non a caso un riferimento dominante del dibattito pubblico in Francia. Sulla stampa borghese sembra la memoria della peste. Sulla stampa della sinistra riformista è la memoria di una lotta importante ma datata. Per un settore della classe lavoratrice è invece la memoria di una vittoria possibile attraverso l'uso della propria forza. Se forme di mobilitazione tradizionali seppur insistite, come contro la legge El Khomri di Hollande, non hanno ottenuto risultati, mentre una lotta di piazza settimanale, spuria, ma continuativa come quella dei gilet gialli ha costretto Macron a fare concessioni, la conclusione è che allora anche i salariati debbono andare a una prova di forza. E la prova di forza dei salariati è lo sciopero. La memoria del '95 riassume questa conclusione.


LE PREOCCUPAZIONI DELLA BORGHESIA. E DELLA BUROCRAZIA SINDACALE

La prova di forza che si è aperta in Francia è al centro delle preoccupazioni della borghesia.
Anch'esso memore del 1995, il governo teme la ricomposizione di massa del fronte sociale. Tutto l'ultimo anno è stato speso nel tentativo di disinnescare i rischi di esplosione. Macron ha fatto di tutto in questa direzione: ha imbandito il cosiddetto “grande dibattito” con la società francese, simulando l'umiltà dell'ascolto in mille incontri coi “cittadini”; ha ricoperto di promesse diverse categorie professionali; ora offre la rivalutazione degli stipendi degli insegnanti per bloccarne la convergenza di lotta coi ferrovieri, salvo confessare che non ha i soldi per l'operazione.

Ma ora i nodi sono giunti al pettine. Macron ha preso un anno di tempo per allontanare da sé lo spettro dello scontro sociale sulle pensioni, ma non è riuscito ad evitarlo. Ora lo sciopero generale apre contraddizioni nella borghesia. Il presidente della MEDEF consiglia a Macron di rinunciare alla riforma a punti delle pensioni e di accontentarsi di un innalzamento del monte di contributi necessario. Il Consiglio di orientamento sulle pensioni, una sorta di consulta governativa di esperti sul tema, pubblica un nuovo rapporto e raccomanda a Macron la virtù della prudenza. Lo stesso primo ministro Édouard Philippe mostra tentennamenti, avendo paura di essere usato da Macron come una sorta di ascaro sul fronte sociale per essere poi scaricato e bruciato. Per questo fa filtrare sulla stampa di essere più disponibile del Presidente al “dialogo sociale”. Nel momento stesso in cui vanno allo scontro i diversi attori borghesi si premurano di predisporre, in ordine sparso, un proprio spazio di ritirata.

Ma la stessa preoccupazione investe le burocrazie sindacali. La CFDT si è tenuta fuori dallo scontro per giocare il ruolo di interlocutore privilegiato e responsabile del governo, ma la polarizzazione in atto restringe gli spazi dell'operazione. La preoccupazione è soprattutto negli ambienti dirigenti di Force Ouvrière (FO) e della CGT. Le burocrazie sono state costrette allo scontro sociale dalla pressione di larghi settori della base militante e dalla sfida aperta di Macron alla loro stessa forza negoziale. Ma hanno il terrore di essere scavalcate dalla dinamica di massa e di non riuscire a controllarla. Il loro obiettivo è di vincere ai punti riconquistando pacificamente un tavolo di concertazione col governo sullo stesso tema delle pensioni per riaffermare il proprio ruolo di regolatori del conflitto, a garanzia delle ordinate relazioni industriali. Ma gli stessi processi di radicalizzazione che i burocrati evocano per chiedere udienza al governo rendono pericoloso il loro gioco. Dominique Maillot, importante dirigente di FO, lo confessa apertamente a Le Monde: “Attenzione, uno sciopero è un giorno dopo l'altro, e io posso dirvi che nessuno può sapere cosa accadrà. Il '95 nessuno l'aveva previsto all'inizio" (1 dicembre).


IL NODO DELLA DIREZIONE DEL MOVIMENTO

Le preoccupazioni hanno un fondamento. Nel 1995 la burocrazia sindacale aveva un peso e una capacità di controllo, nonostante tutto, molto superiore all'attuale. Disponeva di un tasso di sindacalizzazione più esteso e aveva relazioni politiche con partiti riformisti ancora strutturati (Partito Socialista e Partito Comunista Francese). Il decennio della grande crisi e il crollo della vecchia sinistra politica ha trascinato con sé una profonda disaffezione verso i sindacati nelle stesse file dei salariati. Lo stesso fenomeno dei gilet gialli e la sua presa in ambienti operai si è nutrito (anche) di questo sentimento. Questa situazione non priva i sindacati maggiori del potere di promuovere lo sciopero, come dimostrano i fatti, ma può indebolire la loro capacità di controllarlo. “Essi rischiano di perdere il controllo del movimento senza poter impedire un suo debordamento” scrive Le Monde il 4 dicembre.

Nelle stesse pagine Le Monde descrive lo sviluppo di comitati e assemblee di base formatisi in diversi settori per impulso di attivisti sindacali di diversa collocazione e di lavoratori non sindacalizzati, proprio in preparazione dell'inizio della sciopero del 5 dicembre con l'intento di dirigerlo. La parola d'ordine “lo sciopero è degli scioperanti” ha acquistato popolarità in ambienti diversi e misura al tempo stesso volontà di lotta e diffidenza verso le burocrazie: è l'espressione a suo modo di una domanda di democrazia operaia e di autorganizzazione.

Vedremo nei prossimi giorni se queste potenzialità si svilupperanno o regrediranno. Analizzeremo il posizionamento politico di tutti gli attori in scena anche sul versante politico. Documenteremo l'intervento attivo nella lotta dei marxisti rivoluzionari francesi. Verificheremo se entrerà nella lotta il proletariato industriale, che oggi versa in maggiori difficoltà, ma la cui mobilitazione darebbe una piega decisiva alla dinamica degli avvenimenti.

Ma una cosa già la possiamo affermare: le tre ore di sciopero contro la legge Fornero in Italia da parte della burocrazia CGIL sono umiliate dallo sciopero generale continuativo in Francia contro una riforma antioperaia delle pensioni dopo tutto più modesta di quella di Monti.
Sicuramente la lotta in corso in Francia è una ragione non solo di solidarietà internazionalista contro i sovranismi di ogni tipo ma anche un terreno di battaglia politica per un'altra direzione del movimento operaio italiano.
Partito Comunista dei Lavoratori

Risoluzione finale del 7 dicembre

Conclusione condivisa dell'assemblea nazionale unitaria delle sinistre di opposizione del 7 dicembre 2019
La numerosa ed articolata presenza che registriamo, come già sottolineato in apertura, conferma l'importanza della promozione di questa assemblea nazionale unitaria delle sinistre d'opposizione.
Le ragioni poste alla base della stessa, sottolineate dallo specifico appello, rimarcate dalla relazione introduttiva, sono profonde, dettate dal cosa accade, dal perché accade, ed hanno trovato conferma nell'ampio e qualificato dibattito che ne è scaturito.
L'obiettivo condiviso è quello di ricostruire un'opposizione radicale, di massa, al governo Conte, espressione dei poteri forti, nazionali ed europei, alle politiche dettate dall'Unione Europea e dallo stesso ossequiosamente perseguite, in sostanziale continuità con i governi, ascrivibili al centrodestra ed al centrosinistra, che l'hanno preceduto, politiche che trovano nella proposta di revisione del MES (Meccanismo europeo di stabilità) un'ulteriore stretta, contro la quale occorre mobilitarsi, contro la quale ci mobiliteremo.
Politiche all'insegna della cultura liberista imperante, dell'austerità, degli interessi del grande capitale, il cui esito fallimentare per gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori, per i ceti popolari, è sotto gli occhi di tutti: più povertà, più insicurezza, più solitudine.
Lo stesso progetto di autonomia differenziata preserva la logica della secessione dei ricchi, promossa dalla Lega ed amministrata dal PD.
L'obiettivo condiviso è quello di ricostruire un'opposizione capace di rappresentare un'alternativa di società, in grado di sostanziare le speranze di cambiamento, che in tanti, anche nel mondo del lavoro, sbagliando, avevano riposto nei confronti della Lega e del Movimento 5 Stelle, e che avevano portato all'affermazione del primo governo Conte, le cui politiche, reazionarie e liberticide, si sono tradotte in un crescente consenso ad una destra il cui carattere è sempre più evidente ed alla quale è necessario sbarrare la strada.
L'impegno condiviso è quello di ricostruire un'opposizione che sostenendo, valorizzando, unendo le lotte di resistenza delle lavoratrici e dei lavoratori a difesa del lavoro, come testimoniano, tra le tante, le esperienze della Whirlpool, dell'Ilva, di Unicredit, punti a contrastare i nuovi grandi processi di ristrutturazione capitalista.
Puntiamo ad un'opposizione che si proponga come utile riferimento per connettere i diversi movimenti sociali, ambientalisti, femministi in campo, sempre più impegnati ad un cambio radicale delle politiche date, come ben testimonia, ad esempio, lo sciopero promosso dal movimento femminista per il prossimo 8 marzo.
L'obbiettivo condiviso è quello di ricostruire un'opposizione capace di saldare le diverse esperienze di lotta e di resistenza che si palesano nella società, in una vasta opposizione popolare, che si raccolga attorno ad una piattaforma generale indipendente, in una prospettiva di alternativa anticapitalista.
Un'opposizione che in considerazione dello sviluppo della propria iniziativa, dell'evoluzione della fase, delle politiche che il governo si accinge a mettere in campo, a partire dalla legge di bilancio, che ne costituisce il manifesto, assume l'impegno a dare vita ad una giornata di mobilitazione nazionale articolata tra il 24 ed il 25 gennaio prossimo.
Una scelta importante, alla cui definizione, caratterizzazione e gestione è necessario si adoperi l'insieme delle realtà interessate, anche attraverso la promozione di assemblee territoriali aperte a ciò finalizzate.
Ciò che si propone, al fine di sostanziare un'opposizione avente gli obiettivi su richiamati, è lo sviluppo di un'azione comune attorno ad alcune specifiche rivendicazioni:

- per l'uscita dell'Italia dalla NATO, per il ritiro delle truppe italiane dalle missioni estere, per il rifiuto delle politiche militariste e di guerra, per il no all'acquisto degli F35;

- per la nazionalizzazione dei settori strategici della finanza e dell'economia, a partire dalle aziende che licenziano ed inquinano;

- per una generalizzata riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario; per la qualificazione, tutela e valorizzazione dei rapporti di lavoro, anche in risposta, da un versante di classe, alla grave crisi occupazionale data, alle ripercussioni che al riguardo porta con se la cosiddetta quarta rivoluzione industriale;

- per la cancellazione dei cosiddetti decreti sicurezza e degli accordi stipulati con la Libia, contro ogni politica xenofoba e razzista, a favore di un comune fronte di lotta tra lavoratori nativi e migranti,

- per l'abolizione della Legge Fornero, per affermare un nuovo sistema pensionistico pubblico, per tutti i generi e per tutte le generazioni. Una questione, quella della previdenza, attorno alla quale si registra una forte ripresa dell'iniziativa in altri paesi, come evidenzia la lotta che ha investito la Francia, ed alla quale va la nostra solidarietà.


Le su richiamate rivendicazioni rappresentano un terreno comune di iniziativa in direzione della costruzione dell'opposizione alla quale siamo impegnati, ed in funzione di ciò è possibile ed opportuno dare vita ad un coordinamento nazionale dell'unità d'azione.
Un coordinamento aperto, gestito collegialmente, volto al coinvolgimento di tutte le realtà impegnate in tale direzione, e capace, anche in forme flessibili, di un'articolazione territoriale.
Anche a tal fine si rivolge l'invito a promuovere nelle prossime settimane assemblee aperte a chiunque si riconosca nella necessità sottolineata.
Ciò su cui si conviene è la promozione di un'unità d'azione pienamente consapevole e rispettosa delle differenze esistenti, di ciò che connota le diverse componenti chiamate a darvi vita, dell'iniziativa che le stesse, autonomamente, decidono di promuovere, un'unità d'azione funzionale a sostanziare l'obiettivo condiviso.
L'unità nella diversità è la risposta, questa assemblea non è un punto di arrivo, da qui ripartiamo, ed insieme possiamo farcela!
Partito Comunista dei Lavoratori, Partito Comunista Italiano, Sinistra Anticapitalista